Il movimento delle “sardine” riempie le piazze italiane: contro la Lega, contro il “populismo”, contro il decreto sicurezza, contro la violenza sia verbale che fisica, contro le diseguaglianze. Ma qual è la prospettiva?

(«il comunista»; N° 163 ; Marzo 2020)

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Il movimento di piazza delle sardine è nato per iniziativa di quattro amici trentenni che hanno lanciato via facebook un flash mob in polemica diretta con il capo della Lega, Matteo Salvini, che, dopo il successo elettorale alle regionali in Umbria era tornato a Bologna per conquistare anche l’Emilia Romagna. L’iniziativa, che i quattro organizzatori creativi denominarono «6000 sardine contro Salvini» prevedeva di riempire la bolognese Piazza Maggiore con almeno 6000 persone, strette una all’altra come sardine in scatola. L’iniziativa, per la quale era stato chiesto ai partecipanti di non portare nessuna bandiera di partito e di evitare ogni violenza verbale, ogni insulto, ogni violenza fisica, ebbe un successo imprevisto: la piazza fu riempita da 15mila persone, mentre Salvini radunava i suoi sostenitori al Paladozza che contiene poco più di 5.500 persone.

Nel giro di un mese, dal 14 novembre al 14 dicembre, il movimento delle sardine ha riempito 113 piazze italiane, ogni volta in contrapposizione pacifica, colorata e senza bandiere di partito, alle iniziative della Lega.

Il movimento delle sardine, attraverso gli originali organizzatori, i suoi naturali portavoce, proclama di essere contro il populismo, non contro la politica ma contro l’antipolitica, e vuole che i politici eletti facciano politica nelle istituzioni, una politica trasparente rendendo sempre conto del loro lavoro e delle posizioni che prendono; vuole che le persone, la “cittadinanza che ragiona”, siano ascoltate nella loro richiesta che i diritti previsti dalla carta costituzionale siano applicati e perciò il movimento delle sardine chiede che il decreto sicurezza venga “riscritto”, anche se dal palco di Piazza San Giovanni a Roma ci sono stati i migranti organizzati – le “sardine nere” – che chiedono che quel decreto sia abrogato, che venga loro riconosciuta la cittadinanza, gli stessi diritti degli italiani e la fine dello sfruttamento bestiale a cui sono sottoposti.

Sabato 14 dicembre, Piazza San Giovanni a Roma era strapiena; gli organizzatori parlano di 100.000 partecipanti (che era l’obiettivo che sognavano), mentre la questura dichiara la cifra di 35.000 persone... Dunque, un ulteriore successo di una mobilitazione che ha visto giungere gente da tutte le parti d’Italia. E a Roma il più conosciuto portavoce delle sardine, Mattia Santori, ha svelato un segreto: le sardine non esistono!, esistono invece «persone che resistono e cervelli che valgono più di un milione di like» (1). In effetti, una partecipazione così ampia, continua e diretta giustifica la dichiarazione di Santori, quando dice che «la politica è partecipazione. Noi qui oggi stiamo facendo politica. Siamo a 113 piazze. Piazze che hanno preso la forma della politica» (2).

E’ naturale che ci si chieda se questo movimento si trasformerà in un vero e proprio movimento politico, se darà i natali ad un partito; data la sua collocazione anti-Lega, se nascerà non potrà che essere “di sinistra”, ma una sinistra democratica, moderata, e che si assumerà il compito di difendere, nelle istituzioni come nelle piazze, i sacrosanti diritti previsti dalla Costituzione. Non per nulla nella piazza sono stati intonati sia Bella ciao che l’Inno di Mameli!

 

Ebbene, un movimento del genere non nasce dal nulla.

Negli ultimi vent’anni le condizioni economiche e sociali di una massa sempre più ampia di persone, di proletari ma anche di piccoloborghesi, sono sistematicamente peggiorate. Per i giovani, soprattutto, il famoso “mondo del lavoro” si è presentato come un mondo pieno di incertezze e di precarietà, caratterizzato da uno sfruttamento che non ha limiti (non solo nei confronti dei migranti, ma anche degli autoctoni) e che i vari governi non hanno mai seriamente contrastato; un mondo sempre più intriso di malaffare e di corruzione economica e politica, un mondo in cui “la politica” non è al servizio della comunità, dei “cittadini”, ma è al servizio dei diversi gruppi di interesse.

Contro questo declino della vita politica ed economica del paese, si sono mobilitati perlopiù gli strati sociali della piccola e media borghesia, colpiti anch’essi dagli effetti delle crisi economiche che si sono succedute nel tempo e che non sopportano di essere respinti in una proletarizzazione diffusa. La reazione di questi strati sociali al loro declino è normalmente di carattere reazionario e, per usare una terminologia comune, “di destra”; sono attirati dalle organizzazioni e dai partiti che invocano leggi più dure nella difesa dell’italianità, dei valori di civiltà e di storia di un popolo che nei secoli passati ha “civilizzato” l’Europa e non solo; sono attirati dalle misure che privilegiano prima e soprattutto “gli italiani” e che impediscano il cosiddetto multiculturalismo e la mescolanza etnica; sono attirati dall’uomo forte, che prenda in mano la situazione e, al di sopra di tutti, detti le misure che difendono gli interessi non solo dei grandi capitalisti ma anche della vasta massa delle classi medie. Sebbene non vi sia una discendenza diretta tra il vecchio Fronte dell’Uomo Qualunque e il recente Movimento 5 Stelle, li unisce un certo tipo di antipolitica che se la prende con tutto ciò che si presenta come istituzione, salvo poi infilarvisi e farsi parte integrante del tanto vituperato, a parole, Stato, per ritagliarsi un ruolo da protagonisti nel cosiddetto “cambiamento”.

Ma esiste anche una reazione “di sinistra” che prende sul serio la democrazia, che crede ancora nel sistema politico democratico tanto da proporsi come forza di pressione dal basso per rimediare ai danni e alle storture provocate dall’alto delle istituzioni. Anche questa reazione “di sinistra” fa una questione di uomini, e non di sistema politico; solo che crede nella rigenerazione delle istituzioni democratiche mettendo al posto dei disonesti, dei malandrini, dei malfattori, degli approfittatori e dei faccendieri, persone oneste, che si danno da fare non per interesse personale ma per interesse comunitario, che credono fermamente nei diritti sanciti dalla Costituzione e nel sistema repubblicano, che mettono le proprie conoscenze, le proprie capacità, la propria “professionalità” al servizio dei cittadini e del paese, e che credono nella non violenza, nel dialogo e in un equilibrio politico e sociale come risultato di necessari compromessi tra idee e interessi contrastanti.

Il movimento delle sardine (almeno, fino ad oggi si chiama ancora così) si forma su questi presupposti “di sinistra”, che in realtà sono perfettamente borghesi e rispondono all’ideale della democrazia. Non è un caso che i loro portavoce definiscono queste “sardine” come “anticorpi della democrazia”. Non è certo un movimento organizzato e diretto da militanti politici, tantomeno da professionisti della politica. La sua spontaneità è certa. Ma la spontaneità può avere caratteristiche sovversive o caratteristiche conservatrici, e questo movimento è certamente conservatore.

Che cosa può insegnare questo movimento al proletariato, alla sua lotta di difesa immediata, alle sue prospettive di lotta? Nulla di utile per la sua lotta classista.

Nei fatti, questo movimento rinnova, sotto altre spoglie, l’illusione che attraverso la democrazia borghese sia possibile sanare tutto quel che non funziona in termini di diritti, di buon governo, di politica attenta all’ambiente e alla condizione umana; l’illusione che nella società moderna, dell’alta tecnologia, dei social network, le persone se non sono contente della loro situazione, della loro vita per come la vivono, connesse tra di loro per via telematica, possono scendere in piazza per dire che non sono contente di come vanno le cose e per chiedere che i governanti e i politici di professione si assumano la responsabilità di dare risposte “più convincenti”, di agire finalmente per il “bene comune”. E, visto che dall’alto non si sono mossi per dare risposte concrete al “bisogno di democrazia”, le persone, senza distinzione di classe, e senza essere inquadrate da organizzazioni politiche o sindacali, sono uscite dalle proprie case e si sono ritrovate nelle piazze constatando di essere una massa scontenta alla ricerca di una qualche soluzione che rimedi a questa constatazione.

Questo movimento, nonostante i successi nel riempire le piazze dove gli organizzatori hanno chiamato le sardine a scendere, è certamente ancora molto acerbo, ma ha già caratterizzato la sua fisionomia: cervello contro pancia, ragione contro istinto, conoscenza contro pregiudizio, dove pancia, istinto e pregiudizio sarebbero gli elementi che muovono le masse dei sostenitori di Salvini. Ma, al di là del cervello, della ragione e della conoscenza, quel che muove effettivamente questi strati sociali è il disagio economico e sociale in cui sono precipitati e dal quale sperano di uscire grazie ad una pressione esercitata sugli uomini delle istituzioni esistenti, per convincerli a cambiare idea o per mettere al loro posto qualcun altro. L’illusione è che le cose cambiano se gli individui cambiano, se le persone che ragionano col cervello convincono le persone che ragionano con la pancia a fidarsi delle prime.

Ma la storia ha dimostrato che la società basa la sua esistenza e il suo sviluppo sulla sua struttura economica e che è il modo di produzione che determina la sovrastruttura politica e culturale. La cultura, la ragione, l’idea non sono che il riflesso dello sviluppo economico e sociale. E finché la struttura economica e sociale della società è capitalistica, la società è inesorabilmente divisa in classi antagoniste, che tale antagonismo sia evidente o meno. Sono gli interessi di base, gli interessi immediati che “muovono” le “persone”, ma le persone sono – che lo vogliano o no – incasellate in una rete di interessi che non dominano ma da cui sono dominate.

I borghesi, i capitalisti, gli imprenditori, aldilà di quello che pensano, seguono gli interessi del capitalismo perché da questi dipende la loro vita, il loro privilegio sociale, il loro potere economico e politico. I piccoloborghesi (le mezze classi, come le ha chiamate Marx), aldilà di quello che pensano, seguono anch’essi gli interessi del capitalismo perché è da questo modo di produzione che ricavano la loro posizione sociale, una posizione che, in genere, li rende permeabili ad ogni spinta reazionaria perché la loro origine storica, che li vedeva al centro dello sviluppo della nuova società borghese, è stata ed è costantemente schiacciata nell’emarginazione dallo sviluppo della grande industria e del grande capitale. I proletari, cioè la massa dei lavoratori la cui vita dipende esclusivamente dal salario, quindi dalla vendita o meno dell’unica cosa che possiedono, la loro forza lavoro, aldilà di quello che pensano, hanno interessi opposti a quelli borghesi e capitalistici. Non lotterebbero per gli aumenti salariali o per la diminuzione della giornata lavorativa, quindi contro lo sfruttamento capitalistico, se non fosse così. Gli interessi della classe proletaria e gli interessi della classe borghese sono contrapposti; tutti i borghesi, grandi, medi e piccoli, vivono dello sfruttamento della classe lavoratrice salariata. Ed è a favore soltanto della conservazione sociale nascondere e negare la contrapposizione di classe che sta alla base della società capitalistica. Tutti i discorsi sul “popolo sovrano”, sulla “comunità nazionale”, sul “bene comune”, sui diritti “di tutti”, portano acqua soltanto al mulino borghese e, aldilà di ogni buona intenzione o buon sentimento, rafforzano il dominio della classe borghese che si esprime nello schiacciare innanzitutto il proletariato, ma, soprattuto in tempi di crisi economica, anche gli strati inferiori della media e piccola borghesia, in condizioni di disagio generalizzato.

E’ dimostrato, storicamente, che in tempi di crisi, soprattutto se prolungata, la piccola borghesia si agita per prima, e manifesta rumorosamente nelle strade e nelle piazze il proprio disagio, cercando di coinvolgere le masse proletarie per rafforzare le proprie richieste. E’ quello che succedeva nel Sessantotto, o col movimento dei “forconi”, o quel che succede con il movimento dei gilet gialli, o degli ambientalisti alla Greta Thunberg. La mobilitazione di queste masse può essere scatenata da questioni specifiche, come l’aumento dei prezzi del carburante, o l’imposizione di ulteriori tasse, o la lotta contro l’inquinamento e lo smog delle città, oppure da motivi del tutto generici rapportabili alle “diseguaglianze” o ai “diritti” non rispettati: resta sicuramente una mobilitazione sull’onda di una rabbia diffusa, ma rimane prigioniera di una visione completamente distorta della realtà. Una visione che pretende di poter rimediare ai danni provocati dal capitalismo e dal suo sciagurato sviluppo utilizzando gli stessi mezzi e metodi che le sue sovrastrutture politiche, culturali, religiose usano per conservare la struttura economica di base che è il capitalismo. La borghesia non è soltanto la minoranza di ricchissimi capitalisti che dominano i mercati del mondo e che piegano gli Stati ai propri interessi; la borghesia è tutta la classe sociale che vive dello sfruttamento del lavoro salariato, quindi tutti gli strati sociali che lottano per conservare e difendere un’organizzazione sociale che perpetui questo sfruttamento.

E, dato che è solo dal lavoro salariato che il capitale riesce a valorizzarsi, ad accrescere il proprio valore attraverso l’estorsione del plusvalore dallo sfruttamento giornaliero della forza lavoro proletaria, l’unica classe che può opporre una eguale e maggiore forza alla classe sfruttatrice è la classe del proletariato.

Negli ultimi decenni il proletariato sembra scomparso dalla scena politica e sociale. Episodicamente si verificano dei veri e propri sussulti, come i 40 giorni di sciopero degli operai della General Motors a Detroit o lo sciopero ad oltranza dei ferrovieri francesi di Châtillon. Ma questi scioperi, e i molteplici episodi di lotte locali e isolate di cui i media danno raramente notizia, non trovano mai la piena solidarietà e il sostegno del “popolo”, degli ambientalisti, di coloro che si appellano ai diritti ma che pretendono che siano i governanti, il ceto politico eletto a doverci pensare. La piccola borghesia, disagiata e frustrata, ha preso la scena e alza al cielo il suo grido di dolore; ci sono coloro che pregano dio perché i potenti della terra si mettano una mano sulla coscienza e abbiano pietà delle masse povere e diseredate, altri che pregano i governanti e i politici che pensino finalmente al bene comune e non soltanto ai propri interessi. La grande borghesia sta a guardare, e continua a fare i suoi affari nelle borse e nelle segrete stanze di tutte le capitali del mondo, sapendo bene che le piazze piene di manifestanti di questo genere non costituiscono nessun pericolo per i loro affari; e se le manifestazioni da pacifiche si trasformano in manifestazioni violente – come spesso succede soprattutto se il disagio sociale è particolarmente forte – ci pensino le forze di polizia, se non addirittura l’esercito: protestare sì, ma l’ordine pubblico, innanzitutto!

Ci vorrà ancora del tempo prima che dal corpo sociale del proletariato riemerga la spinta classista a lottare esclusivamente per i propri interessi di classe; troppi decenni di opportunismo e collaborazionismo pesano sulle generazioni proletarie che hanno attraversato la drammatica sconfitta della rivoluzione negli anni Venti del secolo scorso, che hanno subito il tallone di ferro del fascismo e dello stalinismo, che hanno assistito all’ecatombe della seconda guerra imperialistica mondiale, che hanno attraversato le delizie del colonialismo europeo, dell’imperialismo postguerra mondiale con tutte le sue infinite guerre locali e che subiscono ancor oggi le conseguenze di crisi economiche e sociali che si ripresentano ciclicamente, inesorabili, abbattendo con sempre maggiore veemenza tutti gli argini che i governanti, gli economisti, gli “esperti” si inventano per allontanarle dall’orizzonte visibile.

Ma è solo dal proletariato, dalla sua rinascita come classe che lotta per sé, esclusivamente in difesa dei suoi interessi di classe, con mezzi e metodi classisti – perciò non condivisibili dalle altre classi sociali – che può venire una prospettiva certa, per il presente come per il futuro. E’ solo dalla lotta di classe del proletariato che anche gli altri strati sociali, rovinati e schiacciati dal furore affaristico del grande capitale, possono sperare di allentare lo stritolamento capitalistico. Allora, come già nella storia moderna, nell’Ottocento e nel Novecento, la classe proletaria ingaggerà con la classe borghese dominante la lotta decisiva, la lotta che non si fermerà alle condizioni immediate di vita ma che si porrà l’obiettivo della conquista del potere politico perché soltanto con tale conquista sarà possibile fermare la cieca corsa del capitalismo alla distruzione delle forze produttive e dell’ambiente. Credere, poi, che sia invece possibile ottenere dei risultati positivi per la società intera già oggi, in assenza della lotta di classe proletaria e della sua rivoluzione, rimettendo le decisioni allo stesso ceto politico che risponde solo alle esigenze di Sua Maestà il Capitale, e mantenendo intatto il modo di produzione capitalistico e lo Stato per come sono, limitandosi ad appellarsi alle stesse istituzioni che sono al servizio del capitale, significa aver gettanto la spugna prima ancora di lottare. E di questa reale impotenza dei movimenti di questo tipo, la classe dominante borghese gode; tanto, non ha nulla di che preoccuparsi. Anzi, gode doppiamente, perché questi movimenti non fanno altro che confondere ancor più i proletari, imprigionandoli nelle maglie di un reticolato dal quale è sempre più difficile liberarsi.

Le sardine, secondo i loro portavoce, non abboccano agli ami lanciati dai partiti che le corteggiano. In realtà hanno già abboccato all’ideologia borghese che alza la ragione e la coscienza individuale al di sopra di ogni cosa, mentre il capitalismo stritola miliardi di individui nelle condizioni di pura sopravvivenza.

Nel frattempo che cosa si può fare?

Sono due i piani di lavoro su cui profondere le proprie energie: uno è quello della lotta di difesa immediata dei proletari, soprattutto contro la concorrenza fra proletari e contro la collaborazione di classe, e quindi il piano della riorganizzazione di classe di tipo sindacale; l’altro è quello della lotta politica di classe, che consiste nella ricostituzione del partito di classe, del partito comunista rivoluzionario, sulla base del marxismo rivoluzionario e delle lezioni tratte dalla storia delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni. Due piani egualmente difficili, ma indispensabili perché la lotta per cambiare il mondo sia una lotta reale, concreta, e con una prospettiva storica definita.

 


 

(1)   Cfr. https://ilmanifesto.it/113-piazze-e-un-segreto-le-sardine-non-esistono/

(2)   Ibidem

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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