Un breve quadro della situazione imperialistica mondiale

(dal Rapporto tenuto alla Riunione Generale dell'11-12 gennaio 2020)

(«il comunista»; N° 163 ; Marzo 2020)

 Ritorne indice

 

 

Una delle contraddizioni emerse chiaramente negli ultimi tempi riguarda l’andamento delle borse e l’andamento dell’economia reale. L’economia reale nei paesi imperialisti zoppica parecchio, mentre l’andamento delle borse (dunque i movimenti speculativi del capitale finanziario) va a gonfie vele, contraddizione che si ripresenta spesso nel corso di sviluppo imperialistico. Ma è l’economia reale, ossia la produzione e il commercio, che determina, in ultima analisi, i fattori di crescita e di crisi dell’economia capitalistica. Questo è stato argomento di un breve rapporto tenuto all'ultima riunione generale di partito dello scorso gennaio (in altre pagine di questo numero iniziamo a pubblicare gli altri rapporti estesi).  

Secondo i recenti dati dell’OCSE, il commercio mondiale, per la prima volta dalla crisi mondiale del 2008-2009 va in negativo, e lo stesso succede per gli acquisti di prodotti industriali.  Alcuni grafici presentati alla scorsa riunione generale di partito, evidenziavano che nei paesi dell’Eurozona la produzione industriale è in decrescita. In particolare la Germania – che è stata la “locomotiva” dell’economia europea – accusa un decremento sensibile nel 2019 (un +0,5% sul 2018, invece del previsto 0,7%), cosa che si ripete anche nelle previsioni per il 2020, con un +1,2% a fronte di una precedente stima del +1,7%. Anche per la Francia, cresciuta nel 2019 del +1,2% invece del previsto +1,3%, si prevede un 2020 con un leggerissimo incremento: +1,3% invece di +1,4%. Ma è l’Italia il vero fanalino di coda: nel 2019 l’economia è a 0,0 di incremento e per il 2020 si prevede un Pil a +0,5%, invece di +0,8%.

Il Pil mondiale, nel 2019, secondo le stime del FMI, crescerà del 3% (grazie soprattutto a Cina, India e Stati Uniti), in ogni caso si tratta di un dato inferiore rispetto alle stime effettuate in aprile 2019. In generale, secondo wallstreetitalia.com, “la decrescita è significativa se si pensa che nel 2017 il Pil era al 3,8%”.

Il rallentamento dell’economia dei grandi paesi imperialisti, da un lato, segnala una restrizione nelle loro esportazioni, dall’altro lato mette ancor più in risalto la dipendenza di ciascun paese dalla forza del proprio mercato interno. Da questo punto di vista vi è una notevole differenza, ad esempio, tra Stati Uniti e Cina, o Giappone o anche i paesi europei sviluppati: il mercato interno per gli USA vale i 2/3 delle vendite, mentre per la Cina è il contrario, sono le esportazioni a costituire i 2/3 delle sue vendite (ma, con la vicenda dell'epidemia del coronavirus cinese che da gennaio 2020 blocca una parte importante della produzione e insiste negativamente anche sulle esportazioni, può darsi che le percentuali cambino). Ciò significa, in ogni caso, che la Cina dipende molto di più dalla situazione del mercato internazionale che non gli USA (o il Giappone); mentre i grandi paesi europei, come la Germania, pur avendo un mercato interno in grado di assorbire una buona percentuale del proprio prodotto, sono molto più esposti a livello di esportazioni che non gli USA, anche se meno della Cina.

La guerra dei dazi che l’America di Trump ha innescato con “il mondo”, in particolare con la Cina, la Germania e gli altri paesi europei, ha, tra i suoi scopi principali – data la forza del suo mercato interno e approfittando del rallentamento del commercio mondiale –, la ridefinizione dei rapporti degli Stati Uniti coi maggiori paesi concorrenti, contrastando la loro corsa ad accaparrarsi fette di mercato ulteriori (tra le quali è inserito anche il mercato americano; vedi la guerra contro l’invasione di auto tedesche e contro l’invasione di prodotti cinesi).

I dati economici attuali mettono in evidenza anche il fatto che i paesi della periferia dell’imperialismo sono in netta recessione – le cui conseguenze si riversano sulle loro masse proletarie e contadine, e le rivolte e le manifestazioni violente di cui abbiamo trattato ne evidenziano la crudezza –, mentre i paesi centrali dell’imperialismo mondiale (USA, Giappone, Germania ecc.) resistono molto meglio, anche se non mancano gli attacchi alle condizioni di vita e di lavoro dei propri proletariati.

A parte il disastrato Venezuela, tra i paesi dell’America Latina, l’Argentina è in piena recessione, e così il Messico, il Brasile, e gli altri sono in procinto di entrare in crisi; ma di questa parte del mondo ne parleremo nella seconda puntata. In Asia, Cina, India, Corea del Sud, Indonesia (di seguito: Cincoind), che hanno scalato la classifica dei paesi più importanti quanto al proprio PIL nazionale, mostrano segni positivi nella crescita, anche se più bassi degli anni scorsi, ma – dato che dipendono molto dalle relative esportazioni, riducendosi i mercati di riferimento (USA, Germania, Regno Unito, Giappone ecc.) e dato che cospicue esportazioni avvengono proprio tra di loro –, vengono colpiti più direttamente poiché non sono in grado di smerciare i loro prodotti nei propri mercati interni. La loro formidabile capacità produttiva, con la restrizione dei mercati esteri, si inceppa e va in crisi.

 

UN RAFFRONTO TRA AREE E PAESI CON IL PRODOTTO INTERNO LORDO PIÙ CONSISTENTE

 

Nella definizione e nella comparazione dei dati economici tra i paesi del mondo, i borghesi usano abitualmente il PIL nominale (Prodotto Interno Lordo, detto anche Prodotto Nazionale Lordo) perché misura il valore aggregato, a prezzi di mercato, di tutti i beni e i servizi destinati al consumo, prodotti nel territorio di ogni paese e, normalmente, nell'arco di un anno solare; ma non tiene conto della differenza del costo della vita nei vari paesi. Il Pil pro capite, non è che il Pil nominale totale diviso per l'intera popolazione di ogni paese. I borghesi usano anche un'altra scala di riferimento, detta PPA (o PPP, in inglese), sempre riferita al Pil, ossia la parità del potere d'acquisto paese per paese; ovviamente questo dato è molto più oscillante del Pil nominale, perché compara i prezzi delle merci che, a seconda delle variazioni di mercato possono alzarsi o abbassarsi in modo importante. Perciò useremo i dati del Pil nominale, perché danno comunque un'idea della potenza economica di ciascun paese.

Azzardiamo un'ipotesi che nella realtà non esiste, ma che può dare un'idea della potenzialità di due mercati che a livello mondiale hanno un peso significativo. Dal punto di vista del Pil, sommando i rispettivi Pil dei quattro paesi asiatici, sopra citati, si arriva a 18.453.573 mln $US (ossia 18,45 trilioni di $US), praticamente equivalenti al Pil dell’Unione Europea che quota 18.495.349 mln $US (ossia 18,49 trilioni di $US): ma, dal punto di vista della capacità di assorbimento dei propri mercati non c’è paragone tra le due entità; anche in questo si nota la differenza tra la potenza imperialistica concentrata in Europa e quella concentrata nei quattro paesi asiatici citati. Se considerassimo questi 4 paesi (Cina, India, Corea del Sud e Indonesia) come fossero un unico Stato, e facessimo la stessa cosa per i paesi dell’Unione Europea, e mettessimo a confronto il Pil/abitante delle due rispettive “aree”, avremmo queste cifre: 38.000 $US circa per l’Unione Europea, e 6.105 $US per Cincoind. Ciò vuol dire che, dal punto di vista del consumo delle merci, la popolazione dell'UE ha una capacità di consumo  6,5 volte maggiore di quella dei 4 paesi asiatici. E’ chiaro che, come non esiste un unico Stato europeo (formato dai 28 paesi dell’UE) così non esiste un unico Stato asiatico (formato da Cina, India, Corea del Sud e Indonesia), ma sommando il loro sviluppo industriale e capitalistico, e confrontandolo con lo sviluppo industriale e capitalistico dei paesi europei dell’UE, è indubbio che la differenza è enorme e in un rapporto di forza economica tra due aree di questa portata è indubbia la supremazia europea, cosa che consentirebbe all’Unione Europea (proseguiamo l’esempio come fosse un unico Stato) di rinascere capitalisticamente – se dovesse perdere nello scontro di guerra militare – in modo molto più veloce e strutturato di quanto non rinascerebbero capitalisticamente i quattro paesi asiatici. L’esempio storico ce lo forniscono la Germania e con il Giappone: battuti e semidistrutti nella seconda guerra mondiale sono rinati capitalisticamente, dopo 10/15 anni, così forti da poter competere sul mercato mondiale con i vincitori della guerra mondiale 1939-1945. Naturalmente, l’esempio fatto non è reale, anche perché una cosa è l’unità statale effettiva e altra cosa è l’alleanza o la collaborazione, per quanto stretta, tra Stati indipendenti e concorrenti. Ma, dal punto di vista della formazione delle aree di mercato, costituite da paesi confinanti, può avere un senso; solo che, essendo sempre nel capitalismo, in ogni area/mercato c'è uno Stato con potenza economica, politica e militare dominante sulle altre. E' il caso del Nord America, con gli Stati Uniti dominanti sul Canada e sul Messico – ma sappiamo che la loro forza si stende in tutti i continenti, a cominciare dall'America Latina –, il caso dell'Europa, con la Germania la cui forza ha dettato le regole dell'Unione Europea e dell'Eurozona in particolare; ed era il caso del Comecon, con la vecchia Urss dominante su tutta l'area est-europea. Per quanto concerne l'Asia, prima della seconda guerra imperialistica era il Giappone la potenza dominante, caduta verticalmente dopo la sconfitta nel 1945, poi sovrastata dagli USA che l'occuparono militarmente mentre l'Urss allargava la propria influenza politica in particolare sulla Cina, sulla Corea del Nord e sull'Indocina; ma la Cina, oggi, si erge non solo come potenza continentale, ma mondiale.

Consideriam ora i primi 20 paesi al mondo nella classifica del Pil nominale; secondo la lista FMI abbiamo questo quadro (in mln di $US):

 

USA:                                  20.510.604

Cina:                                   13.092.705

Giappone:                             5.070.269

Germania:                            4.029.140

Regno Unito:                        2.810.000

Francia:                                2.794.696

India:                                    2.689.992

Italia:                                    2.086.911

Brasile:                                 1.909.386

Canada:                                1.733.706

Corea del Sud:                      1.665.608

Russia:                                 1.576.488

Spagna:                                1.446.911

Australia:                              1.427.767

Messico:                               1.199.264

Indonesia:                             1.005.268

Paesi Bassi:                             909.887

Arabia Saudita:                        769.878

Turchia:                                  713.513

Svizzera:                                 709.118

 

Di questi 20 paesi, sette fanno parte dell'Asia,  altri otto fanno parte dell'Europa (la Russia la consideriamo parte dell'Europa), tre dell'America del Nord, uno dell'America del Sud, uno dell'Oceania. Nessun paese dell'Africa. Indiscutibilmente il più forte sviluppo capitalistico, iniziato in Europa con l'Inghilterra e la Francia, si è diffuso, tra il Settecento e l'Ottocento soprattutto in Europa e nell'America del Nord e, successivamente, in modo sempre più accelerato, in Asia. In particolare Cina, India, Corea del Sud e Indonesia che, oltretutto, rappresentano insieme 3 miliardi circa di abitanti (quindi, per il capitale, di potenziali consumatori), negli ultimi 40 anni si sono sviluppati economicamente con percentuali di crescita che l'Europa ha conosciuto solo nei primi decenni dopo la fine della seconda guerra imperialista. E così, a fronte di un'Europa che, dopo la crisi mondiale del 1975, ha iniziato il suo declino quanto ad espansione, emergevano dall'Asia nuovi mercati che, seppur lentamente, andavano a costituire in parte mercati di smercio delle  enormi quantità di merci prodotte nei paesi capitalisti più industrializzati, in particolare europei e nordamericani. Ma, come è naturale in regime capitalistico, andavano a costituire anche dei formidabili concorrenti sia sui mercati "interni" delle stesse potenze imperialistiche, sia sui mercati delle materie prime (Medio Oriente e Africa in particolare), tendendo ad acutizzare i contrasti tra le varie potenze e facendo di ogni zona del mondo una "zona delle tempeste", una zona in cui parlano le armi e non le diplomazie.

Prendiamo ora in considerazione una serie di realtà statali esistenti, rispetto al Pil/abitante (dati del 2017); prendiamo il dato del Pil/abitante perché dà, in una certa misura, l'idea dello sviluppo capitalistico nei suoi diversi comparti a livello nazionale, sapendo che è comunque un dato medio che non tiene conto delle differenze di sviluppo che ogni paese capitalistico ha al suo interno tra le regioni più industrializzate e quelle più arretrate. Ecco la situazione:

 

USA     (326 mln di abitanti) Pil/ab. di     59.501 $US;

Canada     (36,9 mln di abitanti), Pil/ab. di     45.077 $US;

Germania     (82,5 mln di abitanti) con il Pil/ab. di     44.550 $US;

Francia     (65 mln di abitanti), Pil/ab. di     39.869 $US;

Regno Unito     (66 mln di abitanti), Pil/ab. di     39.735 $US;

Giappone     (127 mln di abitanti), Pil/ab. di     38.440 $US (molto simile a quello dell’UE).

Gli altri paesi dell'Europa occidentale più popolati, come l'Italia e la Spagna, registrano un Pil/abitante inferiore: la prima (poco più di 60 mln di abitanti) è a quota 31.934 $US, mentre la seconda (46,5 mln di abitanti) è a quota 28.359 $US.

Un altro dato significativo, e che spiega la forza del mercato superindustrializzato europeo occidentale, è relativo ad altri paesi con un numero di abitanti dai 5 ai 20 mln, ma con Pil/abitante notevoli:

Svizzera     (8,5 mln di abitanti)  Pil/ab. di     80.591 $US;

Norvegia     (5,3 mln abitanti)  Pil/ab. di     74.941 $US;

Svezia     (10,1 mln abitanti)  Pil/ab.     53.218 $US;

Paesi Bassi     (17 mln abitanti)  Pil/ab. di     48.346 $US;

Austria     (8,8 mln di abitanti)  Pil/ab. di     47.290 $US;

Finlandia     (5,5 mln di abitanti)  Pil/ab. di     46.017 $US;

Belgio     (11,3 mln di abitanti)  Pil/ab. di     43.582 $US.

A distanza si trovano Portogallo e Grecia: il primo (10,3 mln di abitanti) Pil/ab. di 21.161 $US, e il secondo (10,8 mln di abitanti) Pil/ab. di 18.637 $US.

Casi del tutto particolari sono quelli del Lussemburgo e del Liechtenstein, vere e proprie fortezze finanziarie: il primo, con soli 600mila abitanti ha un Pil/ab. di 105.803 $US, il secondo, con 37.810 abitanti, ha un Pil/ab. di 164.437 $US. Le loro legislazioni bancarie e fiscali sono talmente favorevoli per i capitalisti da attrarre nei loro territori quantità enormi di capitali da tutto il mondo, inducendo molte società straniere a stabilirvi le loro sedi. Come dicevamo prima, il Pil nominale, e quindi anche il Pil/ab. da cui deriva, è dato dalle attività di produzione e di servizi svolte dalle società che hanno sede all'interno di ogni paese.

Altro discorso per i paesi dell'Europa dell'Est (Russia a parte) che, a 30 anni di distanza dal crollo dell'Urss e dal disfacimento della Jugoslavia, presentano una situazione non così dissimile da quella precedente: Slovenia (un tempo federata nella Jugoslavia), Cechia e Slovacchia (un tempo unite nella Cecoslovacchia, dal 1999 entrate entrambe nell'UE e, successivamente, nella NATO), i paesi baltici Estonia, Lituania e Lettonia, quindi Polonia e Ungheria, capitalisticamente più avanzati degli altri paesi est-europei, ripropongono, rispetto agli altri paesi, una situazione di potenziale economico che ricorda quella di quando, dopo la fine della seconda guerra imperialistica mondiale, finirono nella zona d'influenza diretta dell'Urss, diventandone satelliti. Innanzitutto i paesi baltici che, dopo l'indipendenza dall'Urss nel 1991, sono entrati a far parte dell'UE nel 2004: l'Estonia (1,3 mln di abitanti) ha un Pil/ab. di 19.840 $US, la Lituania (2,8 mln di abitanti) ha un Pil/ab. di 16.730 $US e la Lettonia (1,9 mln di abitanti) ha un Pil/ab. di 15.547 $US.

L'attuale Cechia (10,6 mln di abitanti) ha un Pil/ab. di 20.152 $US, e l'attuale Slovacchia (5,5 mln di abitanti) e un Pil/ab. di 17.664.

Seguono Ungheria (9,8 mln di abitanti) con Pil/ab. di 15.531 $US, Polonia (38,5 mln di abitanti) con Pil/ab. di 13.823 $US, Romania (19,6 mln di abitanti) con Pil/ab. di 10.757 $US, Bulgaria (7 mln di abitanti) con Pil/ab. di 8.064 $US.

Per gli altri paesi la situazione si presenta così: Bielorussia (9,5 mln di abitanti e un Pil/ab. di 5.760 $US), che dipende ancor oggi molto dai rapporti con Mosca, e la Moldova (3 mln di abitanti e un Pil/ab. di 2.280 $US) che se la deve vedere con forti tensioni provocate da un importante movimento che rivendica la riunificazione con la Romania. Economicamente, entrambe hanno un peso modesto.

Altro peso, invece, ha l'Ucraina (42,3 mln di abitanti e Pil/ab. di 2.583 $US), non solo per le sue risorse agricole e minerarie, ma soprattutto politico data la sua posizione geografica di cerniera (insieme alla Bielorussia e ai paesi baltici) tra l'Europa occidentale e la Russia. E' nota l'annessione della Crimea da parte di Mosca, che ha coronato un conflitto militare iniziato nel 2014 nelle regioni russofone orientali, conflitto tra i filorussi e gli indipendentisti/europeisti, in verità, mai finito, sebbene l'accordo di associazione dell'Ucraina alla UE sia stato ratificato nel 2017. Il conflitto con la Russia e le conseguenze della crisi internazionale del 2008-2009 hanno ridotto pesantemente la produzione industriale ucraina, paese popoloso e ricco di risorse minerarie.

Infine la Russia, di cui è noto che la parte europea – ad ovest quindi degli Urali – è la parte più sviluppata capitalisticamente, dopo lo sconquasso che fece crollare il paese euroasiatico, ha ridotto notevolmente la sua superficie e, ovviamente, anche la popolazione totale. Fino al 1991, ancora Urss, il paese comprendeva Russia, Bielorussia, Ucraina, Moldova, Estonia, Lituania, Lettonia, Kazakistan, Tagikistan, Kirghizistan, Turkmenistan, Azerbaigian, Georgia, Armenia, Uzbekistan; la superficie totale era di 22.274.900 kmq, e la popolazione totale raggiungeva i 290 milioni circa: il Pil/ab era di 4.550 $US. La Russia di oggi ha una superficie totale di 17.125.300 kmq, con una popolazione complessiva (comprese Crimea e Sebastopoli) di 147 mln di abitanti e un Pil/ab di 10.608 $US. Come ieri, così oggi, la Russia esporta sopratutto carburanti (petrolio greggio e derivati, gas naturale, carbone e derivati) per il 47,2% del totale export, manufatti ad alta tecnologia per il 10,7% del totale export, e poi minerali e metalli, prodotti chimici, acciaio, diamanti, armi ecc. La Russia è, come sempre, esposta territorialmente su tre versanti: verso Occidente se la deve vedere con i paesi europei e con la Nato; in Oriente se le deve vedere soprattutto con il Giappone e la Cina, e, nel Pacifico, anche con gli Usa; a Sud non ha che la scelta tra i paesi dell'Asia centrale inglobati nell'ex Urss, i paesi caucasici, l'Iran e la Turchia.

Per quanto riguarda l'Europa balcanica e la frammentazione della Jugoslavia con la formazione di nuovi Stati indipendenti, anche qui abbiamo una situazione, caratteristica dello sviluppo ineguale del capitalismo, in cui alcuni paesi sono più sviluppati di altri:  Slovenia (2 mln di abitanti) Pil/ab. di 23.654; Croazia (4,2 mln di abitanti) Pil/ab. di 13.138 $US; Montenegro (0,6 mln di abitanti) Pil/ab. 7.647 $US; Serbia (7 mln di abitanti) Pil/ab. di 5.899 $US; Macedonia del Nord (2 mln di abitanti) Pil/ab. 5.474 $US; Bosnia ed Erzegovina (3,5 mln di abitanti) Pil/ab. di  5.149 $US. L'Albania, dal 2009 è entrata a far parte della Nato ed è candidata ad entrare nella UE; dal 2018 è in crescita economica, modesta dal punto di vista della percentuale (il 3,5%) ma importante per un paese di 3 milioni di abitanti con un Pil/ab. di 4.583 $US.

La popolazione complessiva della Jugoslavia, secondo i dati del 1981, era di 23,3 mln di abitanti; il Pil/ab. era di 2.070 $US, secondo l'ultimo dato, a nostra disposizione, del 1985; nonostante la diminuzione della popolazione complessiva, il Pil/ab. medio è aumentato, ma con  notevoli differenze tra un paese e l'altro. Resta il fatto che, a fronte della tendenza del capitalismo a "unificare" i mercati tra paesi che fanno parte dello stesso continente, sub-continente o area geografica, in modo che i paesi che ne fanno parte possano godere di accordi e privilegi economico-politici dai quali gli altri paesi del mondo sono esclusi, si contrappone l'altra tendenza del capitalismo, uguale e contraria, a superare quel tipo di unificazione di mercato, soprattutto da parte delle economie nazionali più forti e intraprendenti, immettendo una più forte concorrenza tra Stati che agisce sia all'interno del mercato "unificato", sia al suo esterno, sul mercato mondiale. L'esempio dell'Unione Europea è emblematico, tanto che gli analisti economici continuano a parlare di Europa "a due velocità", se non addirittura a tre velocità. Si conferma, quindi l'affermazione marxista secondo la quale non solo lo sviluppo del capitalismo è costantemente ineguale, ma questo stesso sviluppo – seppur consenta a determinati Stati di crescere economicamente superando le proprie arretratezze economiche e sociali – non fa che allargare la forbice tra paesi supersviluppati e resto del mondo. La miseria crescente che caratterizza il corso di sviluppo del proletariato in ogni Stato rispetto alla propria borghesia dominante, si trasferisce in un certo senso nei rapporti tra Stati, tra Stati che dominano e condizionano il mercato mondiale e i rapporti tra tutti i paesi del mondo e Stati che sono dominati e che sono costretti a dipendere, in modo più o meno stretto, dall'andamento economico, politico e militare dei paesi imperialisti dominanti e dai rapporti fra di essi.

 

IL CAPITALE, SVILUPPANDOSI, NON FA CHE SVILUPPARE LE SUE CRISI IN OGNI PAESE

 

Dicevamo che il Pil mondiale, nel 2019, secondo le stime del FMI, crescerà del 3%, ma, rispetto al 3,8% del 2017, le stesse previsioni borghesi danno una decrescita significativa.

Ma, si sa, le previsioni borghesi, soprattutto sull'anno successivo a quello che si chiude, non sono mai veritiere, anche perché le crisi finanziarie e le crisi di mercato provocate dallo scoppio di conflitti, sorprendono costantemente i governi. L'anarchia del mercato capitalistico, già nei soli confini nazionali, tanto più nei confini continentali o mondiali, non è governabile da parte di nessuna borghesia al potere: sono il modo di produzione capitalistico e le sue contraddizioni sempre più acute e profonde che  "governano" l'economia, non la classe dominante borghese che, invece, è costretta a rincorrere costantemente ogni intoppo, ogni cedimento di un'economia certamente potente e socialmente invasiva, ma nello stesso tempo schizofrenica.  

Tornando all’Europa, in particolare all’Eurozona, va notato che la produzione industriale è in calo da due anni. E’ assodato che la Germania è il motore industriale ed economico dell’Europa e, per quanto riguarda l’industria manifatturiera dopo la Germania viene l’Italia – ma con l’handicap di essere un importante fornitore dell’industria tedesca, e non solo dell’industria automobilistica, il che significa che al decremento della produzione industriale tedesca corrisponde una crisi dell’industria italiana, cosa che si sta verificando da due anni –. La Banca Centrale Europea, per stimolare l’economia sia sul piano della produzione che sul piano dei consumi, aveva lanciato l’iniziativa del quantitative easing (massa di denaro a costo zero, o quasi zero, distribuita ad ogni paese) aumentando così la liquidità in tutti i paesi dell’Unione Europea; in realtà questa liquidità è stata utilizzata molto spesso più per speculare in Borsa che per innovare e investire sulla produzione... Sta di fatto, che questa enorme massa di denaro ha in pratica drogato l’economia dei paesi europei, provocando un effetto potenzialmente negativo perché, di fronte ad una crisi come quella del 2008-2009 (diversi esperti borghesi prevedono che si ripresenterà nel prossimo futuro; c’è persino chi parla di una crisi mondiale simile, se non peggiore, a quella del 2008, che scoppierà nel 2027...), gli Stati non avranno più la liquidità necessaria per soccorrere le banche in fallimento. Si dimostra, quindi, per l’ennesima volta, che i mezzi che la borghesia adotta per superare la crisi della propria economia non fanno che preparare crisi ancor più acute delle precedenti. Ulteriore conferma del marxismo!

Di fronte alle proprie crisi, il capitalismo si comporta in modo prevedibilissimo: nei rapporti tra Stati, le classi dominanti più potenti scaricano le conseguenze più brutali sugli Stati più deboli; nei rapporti tra le classi, la borghesia di ogni paese le scarica sul proletariato e sugli strati più deboli della società. Nello stesso tempo, ogni borghesia approfitta delle difficoltà e della debolezza degli altri Stati per estendere la propria influenza e i propri affari, fregandosene degli accordi internazionali tutte le volte che ha l’occasione di mettere le mani su un ulteriore territorio economico da sfruttare o un ulteriore mercato; l'esempio più recente lo dà la Turchia con le sue operazioni militari che puntano sulla Libia di al-Sarraj, scaricando a Tripoli quantità notevoli di armamenti alla faccia dell'embargo sulle armi sottoscritto solennemente alla conferenza di Berlino soltanto qualche giorno prima! Ed è evidente il suo interesse economico costituito dalle concessioni di perforazione nella zona economica esclusiva del mare di competenza libica, alla ricerca di gas naturale e petrolio, come d'altra parte sta facendo nel mare di Cipro andando contro le concessioni già sottoscritte dalla Total, dall'Eni e da altre compagnie petrolifere. 

Ogni borghesia, come ormai dimostrato dai tanti decenni dalla fine della seconda guerra imperialista mondiale, è sempre pronta a difendere i propri interessi con ogni mezzo, anche con la guerra guerreggiata, da scatenare direttamente o per interposto governo più o meno fantoccio.

Oggi, i contrasti interborghesi e interimperialistici si sono complicati molto rispetto agli anni dell’espansione capitalistica post guerra; dopo la crisi mondiale del 1975, in una alternanza più o meno ravvicinata di crisi e di riprese economiche, e in presenza comunque di uno sviluppo reale del capitalismo nel mondo, negli anni si sono sviluppati industrialmente altri paesi che nel giro di altri vent’anni si sono presentati sul mercato come concorrenti agguerriti mettendo in difficoltà il dominio incontrastato delle vecchie potenze coloniali e imperialiste (in particolare Gran Bretagna, Francia, ma anche la stessa Russia): parliamo della Cina, dell’India, del Brasile e, in parte, del Sudafrica. Lo scacchiere internazionale era destinato a cambiare completamente volto, soprattutto in Africa e in Asia, dove avevano iniziato ad agire poteri locali che basavano la loro forza su due elementi fondamentali: il possesso di materie prime essenziali per la produzione capitalistica (il petrolio innanzitutto, ma non solo) e il supporto finanziario e militare di potenze imperialistiche interessate a contrastare le potenze concorrenti attraverso quei poteri locali. Naturalmente tutto ciò non avveniva senza che le masse proletarie e diseredate venissero coinvolte, vuoi sul piano della propaganda nazionalista, etnica, particolaristica, vuoi sul piano di generica carne da cannone. Da questo punto vista il Medio Oriente ha fornito, e fornisce tuttoggi, l’esempio più chiaro e tragico di come i contrasti interborghesi e interimperialistici agiscono a difesa di interessi che non sempre sono “coerenti” con la storia dei diversi paesi, e quasi sempre sono alla mercé di un’oscillazione continua tra alleanze di ieri e disalleanze di oggi, tra vantaggi provenienti da una vittoria momentanea o svantaggi provenienti da una sconfitta. E come il Medio Oriente, così l’Africa, e così l’Asia centrale.

Il disordine mondiale seguito al periodo in cui il condominio russo-americano si era diviso il mondo in zone di influenza diretta che cercava di controllare al meglio (salvo dover tamponare continuamente situazioni che nessuno dei due era ed è in grado di risolvere, come nel caso del Vietnam, del Caucaso, della Palestina, del Kurdistan ecc.), ha inevitabilmente aperto lo spazio ad alcune potenze regionali, come ad esempio Israele, la Turchia, l’Iran, il Pakistan, l’Egitto, l’Arabia Saudita ecc., e, in tempi limitati, l’Iraq, la Siria, la Libia ecc., le quali, appoggiandosi ora ad una, ora all’altra potenza imperialista, o mettendosi al servizio dell’una o dell’altra potenza imperialistica, hanno contribuito, e contribuiscono, a fare del disordine mondiale la situazione “normale” in cui il più furbo, veloce e forte si avvantaggia, anche solo temporaneamente, rispetto agli altri nel teatro di guerra e di interessi in cui ha effettivamente la possibilità di agire politicamente e militarmente.

Se per i proletari dei vecchi paesi capitalisti è difficile liberarsi dei pregiudizi derivanti dal coinvolgimento democratico pluridecennale, per i proletari dei paesi della periferia dell’imperialismo è altrettanto dura potersi liberare dei pregiudizi derivanti da abitudini e costumi precapitalistici, laici o religiosi che siano, mescolati con le degenerata e putrescente democrazia importata dalle borghesie imperialiste. Un tempo le borghesie colonialiste portavano missionari, merci e militari (le tre M, come ricordava un nostro vecchio compagno del Gabon); da tempo e ancor oggi, hanno aggiunto le D, di denaro e democrazia...

 

 (1 - Continua) 

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

Top

Ritorne indice