Non siamo carne da macello!

(Supplemento a «il comunista»; N° 163; April 2020)

 Ritorne indice

 

 

L’esplosione dell’epidemia Covid-19 ha evidenziato la generale impossibilità della società capitalistica di contare su un sistema razionale e scientificamente provato di prevenzione contro le conseguenze di eventi naturali catastrofici (terremoti, frane, alluvioni, siccità, desertificazione, tsunami, epidemie ecc.), portando in superficie, e a conoscenza di tutti, la disastrosa situazione in cui sono precipitate le strutture sanitarie nazionali in ogni paese. Ma l’epidemia Covid-19 ha messo in evidenza anche una pratica usuale di tutte le aziende, quella della mancanza di adeguate “misure di sicurezza sui posti di lavoro” o della loro riduzione al minimo, in nome dell’abbattimento dei “costi di produzione” nei quali il “costo della forza lavoro” è, per antonomasia, il costo più variabile su cui il capitale agisce sistematicamente. Il capitalismo vive sullo sfruttamento sempre più intenso della forza lavoro operaia – che è il motore dell’economia reale – e sulla concorrenza, a sua volta sempre più spietata, a livello nazionale e, ancor di più, a livello internazionale.

Da un lato, i governi di ogni paese hanno il compito di sostenere e stimolare la crescita economica nazionale – perché ogni azienda, e soprattutto i grossi gruppi, producano profitto (raggiungendo una produttività sempre più alta per battere la concorrenza) – e, dall’altro, hanno il compito di gestire i bilanci dei rispettivi Stati affinché non vengano a mancare le risorse finanziarie per sostenere la competitività dell’economia nazionale sul mercato mondiale, e vi siano le risorse per tacitare almeno i bisogni elementari di vita delle masse lavoratrici secondo la politica degli ammortizzatori sociali che tutti gli Stati industrializzati hanno adottato dopo che le lotte di classe e le rivoluzioni operaie del secolo scorso hanno messo in pericolo la tenuta internazionale del capitalismo imperialistico.

Ma la concorrenza internazionale e la sequenza ciclica di crisi economiche e finanziarie che lo sviluppo capitalistico non riesce, e non riuscirà mai, ad evitare, mettono periodicamente gli Stati borghesi nelle condizioni di doversi confrontare, e scontrare, sulla base di rapporti di forza che si modificano, richiedendo, da parte del potere politico, un sempre più stretto controllo sociale e un convogliamento delle risorse nazionali, finanziarie, economiche e sociali, a sostegno soprattutto dell’economia nazionale e della sua redditività capitalistica. E’ risaputo che una delle voci di spesa statale più consistenti riguarda il servizio sanitario pubblico, almeno per i paesi europei. E quando lo Stato deve risparmiare da qualche parte per poter spostare le risorse finanziarie su campi più remunerativi per il capitale, procede ai tagli sui costi sociali, cioè sugli ammortizzatori sociali, quindi sulle pensioni, sui servizi sanitari, e su tutta quella serie di costi che in tempi di espansione economica sono serviti come collante in grado di rafforzare la collaborazione tra le classi portando il proletariato a sottostare alle esigenze capitalistiche senza ribellarsi troppo.

Se consideriamo soltanto gli ultimi dieci anni, dalla crisi finanziaria ed economica del 2008-2009 in poi, «la sanità è stata il bersaglio privilegiato dei programmi europei di austerità. I budget per la ricerca sono stati decimati. Vale per l’Italia, la Spagna, la Francia, la Grecia, l’Irlanda». Lo scrive una giornalista francese d’inchiesta, a proposito dell’epidemia Covid-19, che continua: «A ogni semestre europeo, i tecnocrati incaricati di rivedere i budget dei paesi membri hanno preteso nuovi tagli sul personale sanitario, sugli ospedali, spese ritenute superflue, persino un lusso, rispetto al sacrosanto 3% del deficit. In nome della “razionalità” economica, avere dei posti letto supplementari era considerato uno spreco. (...) I paesi europei non sono sufficientemente attrezzati per far pronte a questa crisi sanitaria. L’epidemia non ha neanche raggiunto il suo picco e già tutti i sistemi sanitari mostrano segni di cedimento. Da undici mesi il personale ospedaliero è in sciopero in Francia per denunciare la mancanza di mezzi, umani, materiali e finanziari» (1). La situazione in Italia o in Spagna è ancor più critica, come denunciato continuamente dalle federazioni professionali. Non solo mancano personale ospedaliero e posti letto, sia in terapia intensiva che in reparto, ma mancano ventilatori polmonari e le diverse attrezzature necessarie in questi casi, fino ai dispositivi più semplici e individuali, dalle mascherine ai guanti, dagli occhiali agli schermi protettivi, dalle tute agli indumenti protettivi ecc. I paesi più industrializzati, più avanzati, che pretendono di insegnare a tutti gli altri come organizzare una società moderna, si fanno trovare del tutto impreparati ad affrontare un’epidemia che non ha nulla di simile a quelle della peste dei secoli scorsi. Sono gli stessi borghesi che ammettono che sono gli interessi economico-finanziari e di concorrenza che impediscono alla società attuale (e ad ogni paese capitalistico sviluppato) di essere organizzata con modelli di prevenzione che la conoscenza e la tecnica moderne in teoria potrebbero fornire in modo più efficace di quanto non risulti evidente in ogni occasione di evento catastrofico. Ma il profitto capitalistico non ama la prevenzione perché si moltiplica, invece, ad ogni sciagura.

Di fronte all’inevitale, e rinnovata emergenza da coronavirus, i paesi europei non hanno sospeso per niente la concorrenza tra di loro; ad esempio, ci sono stati molti casi in cui forniture di protezione individuale e attrezzature ospedaliere ordinate ad altri paesi dall’Italia, che è stato il primo paese europeo a piombare nella più grave epidemia, sono state bloccate e trattenute nei paesi di transito in vista di una possibile prossima necessità in casa propria; si tratta di milioni di mescherine chirurgiche e di molte attrezzature per la terapia intensiva, provenienti soprattutto dalla Cina. E continuano a parlare di “unione europea”, e di “comunità europea”... I paesi coinvolti sono stati Germania, Francia, Polonia, Repubblica Ceca, oltre che Turchia e Russia. E ci sono volute molte serrate trattative sia con questi paesi che con la Commissione Europea perché, dopo una decina di giorni, si sbloccasse formalmente il problema, anche se, al momento in cui scriviamo, il grosso di quelle forniture non e ancora arrivato a destinazione.

Alla situazione drammatica delle strutture sanitarie pubbliche si aggiunge la pratica sistematica di tutti i capitalisti di risparmiare il più possibile sulle misure di sicurezza sui posti di lavoro. Questo risparmio è attuato normalmente, e infatti la stragrande maggioranza degli infortuni e delle morti sul lavoro, ogni anno, dipende proprio da misure di sicurezza inesistenti o inefficaci.

Ma di fronte alla pandemia da Covid-19 il problema si è reso ancora più acuto perché, da un lato, le successive restrizioni alla mobilità personale e alle attività lavorative che ogni governo ha adottato per fermare il contagio hanno inevitabilmente colpito la produzione di profitto capitalistico nella gran parte delle aziende, grandi o piccole che fossero e, dall’altro, tutti i proletari – obbligati a lavorare durante la diffusione dell’epidemia negli ospedali e in tutte le aziende la cui attività è stata dichiarata essenziale sia per l’economia del paese, sia per la vita quotidiana delle persone – hanno dovuto e devono lavorare in assenza di sanificazione degli ambienti di lavoro, delle necessarie protezioni individuali, e di una diversa organizzazione del lavoro per non rimanere a contatto stretto gli uni con gli altri. La loro esposizione al contagio, e alla morte, raggiunge in questo modo livelli eccezionali, diventando essi stessi vettori dell’epidemia nei posti di lavoro, in casa, nei mezzi di trasporto. E’ di fronte a questa situazione che i proletari si sono ribellati. Negli ospedali – data la gravità della situazione e la mancanza di adeguati mezzi di soccorso, di intervento, di terapia e di protezioni individuali, oltre che di posti letto – gli infermieri, il personale ospedaliero più vario e i dipendenti delle imprese di pulizia, si trovano costretti a turni di lavoro massacranti, sottoposti ad un’estrema fatica nello svolgere il loro lavoro, e rischiando ogni giorno di ammalarsi; non solo, ma subiscono una fortissima pressione psicologica perché il loro lavoro consiste nell’assistere i malati 24 ore su 24, e se dovessero scendere in sciopero contro un sistema che li getta nudi, senza protezioni e senza ricambi, in pasto alle malattie, si sentirebbero responsabili dell’aggravamento delle condizioni dei malati e delle loro morti. E’ così che i gazzettieri, che la borghesia assume perché contribuiscano a propagandare la necessità di “unirsi” tutti nella “guerra contro il coronavirus”, accettando i più grandi sacrifici, li hanno trasformati in “eroi” che, a sprezzo della loro stessa vita, si danno da fare senza tregua per la cura dei malati. Ma la Federazione nazionale delle professioni infermieristiche dichiara: «Siamo trattati come “eroi” la mattina e trattati come merce di scarso valore la sera». Ma come merce di scarso valore sono trattati tutti i proletari, non solo gli infermieri.

Ed è contro questa loro condizione che gli operai di molte fabbriche si sono ribellati. Al grido di NON SIAMO CARNE DA MACELLO, fin dal 12 marzo, il giorno dopo l’emanazione del primo decreto da parte del governo Conte che decideva una serrata per tutta Italia, lasciando fuori le fabbriche, in molte realtà gli operai sono scesi spontanenamente in sciopero. La Confindustria  ha fatto pressioni verso il governo perché le attività produttive non fossero chiuse, ottenendo soddisfazione, ma senza prima aver provveduto a che in ogni fabbrica si fossero attuate tutte le misure di sicurezza anti-contagio “raccomandate” dal governo. E’ così che, forzando la mano alle rappresentanze sindacali territoriali, in molte fabbriche, come alla Acciai Speciali di Terni, sono scesi in sciopero per 8 ore, e poi alla Fincanteri di Marghera e di Ancona, nelle fabbriche del bresciano, alla Corneliani di Mantova; e ancora, proteste, minacce e scioperi spontanei si sono rincorsi dal Piemonte all’Emilia Romagna: alla Valeo di Mondovì, alla Dierre di Villanova d’Asti, alla Cnh Industrial di San Mauro Torinese, al magazzino di Amazon di Torrazza Piemonte (repubblica.it, 12/3/2020),  e poi  alle Mtm, Ikk, Dierre, Trivium tra Vercelli e Cuneo con adesioni molto alte; alla Toyota e alla Bonfiglio Riduttori nell’area bolognese per allargarsi anche a Genova, alle Riparazioni navali, e alla Whirlpool, oltre a molti magazzini della logistica da SDA a Gls, da Fedex-TNT a BRT (lavocedellelotte.it, 13/3/2020) dove, in particolare agiscono i sindacati di base SiCobas, USB e AdlCobas. Questa immediata risposta spontanea degli operai, soprattutto del settore metalmeccanico, ha indotto diverse industrie a chiudere per qualche giorno per sanificare i propri ambienti e per dotare gli operai delle protezioni individuali; è stato il caso di tutte le fabbriche d’armi del bresciano, della Avio di Pomigliano d’Arco, della Alstom (quella dei treni ad alta velocità) e Leonardo (ex Finmeccanica), della GKN di Firenze, l’Electrolux di Forlì, mentre la Fiat-FCA ha deciso di chiudere tutti i suoi stabilimenti fino al 22 marzo (ilfattoquotidiano.it, 12/3/2020).

Quel che si è evidenziato chiaramente è, da un lato, la spinta spontanea degli operai a lottare per difendere la propria salute e, dall’altro, la mancanza di iniziativa da parte dei sindacati confederali a livello nazionale i quali, come al solito, premono per incontrare Confindustria e governo per “concordare le misure da prendere”, naturalmente per salvaguardare l’economia nazionale e dei suoi settori strategici e, a parole, per salvaguardare la salute dei lavoratori. Pur avendo minacciato uno sciopero generale se il governo non avesse decretato la chiusura delle fabbriche non essenziali alla sussistenza e all’operatività degli ospedali, obbligandole alla sanificazione, finora non sono mai passati all’azione. Lo hanno fatto i sindacati di base, come USB e SiCobas, forti soprattutto nel settore della logistica e presenti nel settore metalmeccanico, che, oltre alle agitazioni locali, hanno chiamato allo sciopero generale i propri iscritti per il 25 marzo, rivendicando non solo la reale salvaguardia della salute dei lavoratori e la chiusura di tutte le aziende non essenziali in questo periodo, ma per tutti, compresi i lavoratori che stanno a casa, il salario pieno (lavocedellelotte.it, 17/3/2020).

La visione classista della lotta operaia vorrebbe che i proletari delle aziende non essenziali alla sussitenza e all’operatività degli ospedali lottassero, manifestando, per i loro fratelli di classe che invece sono obbligati a lavorare. Solo esercitando una tale pressione contemporaneamente sul padronato e sul governo centrale i lavoratori riuscirebbero ad ottenere dei risultati concreti sia in termini di salvaguardia della loro salute e di condizioni di lavoro più sostenibili, sia in termini di salario.

Nella situazione determinata dallo scoppio di questa pandemia, con la chiusura di una parte considerevole delle aziende, e quindi con un’economia che precipita in crisi, è logico che i capitalisti e i loro rappresentanti al governo chiamino a raccolta tutti i cittadini, si appellino all’unione sacra e patriottica per salvaguardare l’economia nazionale e l’economia delle aziende; come è naturale, per loro, approfittare della situazione per schiacciare il proletariato in condizioni di isolamento e di debolezza ancor più pesanti, aumentando il controllo sociale con misure simili ai tempi di guerra, sguinzagliando polizia e militari in tutto il territorio per mantenere l’ordine. Ma questo ordine è solo ed esclusivamente l’ordine borghese, l’ordine capitalistico, per il quale la mattina suonano la musica per i proletari “eroi” inneggiando ai loro sacrifici per il “bene comune”, e la sera li trattano come merce senza valore!

Da nessuna autorità, da nessun padrone, da nessuna istituzione borghese potrà mai venire una solidarietà reale, soprattutto in tempo di crisi, verso la classe dei proletari. Ai lavoratori il governo Conte ha dichiarato che “nessuno perderà il lavoro per colpa del coronavirus”; ma si dimentica di dire che il posto di lavoro non lo garantisce nessuno, né il capitalista singolo, né l’associazione dei capitalisti, né il governo. Non è avvenuto ieri, in tempi di espansione economica, non avviene oggi e non avverrà mai in tempi di recessione. La borghesia ha dimostrato, nei decenni dalla crisi mondiale del 1975, di gettare sul lastrico centinaia di migliaia di lavoratori per le ristrutturazioni delle aziende e di ridurre sistematicamente gli ammortizzatori sociali, dovuti certamente alla pressione delle lotte operaie degli anni Cinquanta e Sessanta, ma che la classe dominante aveva già sperimentato nel ventennio fascista e che dal fascismo aveva ereditato per rafforzare la collaborazione di classe; ammortizzatori sociali che servirono per tamponare di volta in volta situazioni sociali critiche e che, in parte, sono mantenuti soltanto grazie alla forza economica e finanziaria del capitalismo nazionale, come dimostrato dalle ultime vicende legate alle misure finanziarie messe in campo per affrontare la crisi economica da coronavirus.

I proletari, intontiti per troppi decenni dai miti della democrazia, del benessere raggiungibile grazie ai sacrifici di volta in volta richiesti, dallo Stato super partes, e abituati a considerare la collaborazione di classe come un metodo indispensabile per difendere posto di lavoro, salario e pensione, si ritrovano oggi più scoperti che mai. Decenni di opportunismo politico e sindacale, decenni di collaborazionismo, hanno cancellato dalla loro memoria e dalle loro abitudini le tradizioni di lotta e di solidarietà operaia che negli anni Venti del secolo scorso avevano fatto tremare i poteri di tutta Europa e del mondo intero.

 

Sarà lunga e irta di difficoltà la strada che i proletari dovranno ripercorrere per tornare ad essere la classe positiva e rivoluzionaria che è stata in passato. Ma sarà la stessa società borghese con le sue contraddizioni e le sue crisi irrimediabili che spingerà i proletari sul terreno della rottura della pace sociale e della collaborazione interclassista, facendo esplodere quelle contraddizioni e spingendoli sul terreno della vera lotta di classe: il tempo di guerra della borghesia dovrà diventare il tempo della guerra di classe del proletariato!

Non siamo carne da macello!, per i proletari vale nei tempi di guerra come nei tempi di pace. Per far sì che ciò non avvenga più è necessario che il proletariato si organizzi indipendentemente dalle esigenze del capitale e dagli apparati della conservazione sociale, politici e sindacali, in opposizione frontale ad essi.

La lotta di classe proletaria ha scopi contrari e ben più alti delle esigenze del mercato e del capitale: l’obiettivo storico della classe proletaria è l’abolizione del sistema salariale, quindi del capitalismo. Un obiettivo che si può porre soltanto la lotta rivoluzionaria condotta dal proletariato di ogni paese e diretta dal partito di classe rivoluzionario. Ma la lotta dei proletari parte dai bisogni materiali immediati ed è lo sviluppo di questa lotta, nello scontro inesorabile con la borghesia e con tutte le forze di conservazione sociale, che eleva questa lotta economica e immediata a livello della lotta politica generale, e alla comprensione non solo dell’inevitabile antagonismo di classe tra proletariato e borghesia, ma anche alla coscienza di possedere la forza sociale necessaria per questa rivoluzione.

 

26 marzo 2020 (aggiornamento del 20 maggio 2020)

 


 

(1) Cfr. Rigore e tagli alla Sanità: Errori di Bce e Bruxelles, di Martine Orange, in “il fatto quotidiano”, 16/3/2020.  

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

Top

Ritorne indice