Dopo la pandemia da coronavirus, niente sarà più come prima?

(«il comunista»; N° 164 ; Giugno 2020)

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L’epidemia Covid-19 è scoppiata ufficialmente a cavallo tra dicembre 2019 e gennaio 2020 in Cina, ma stava diffondendosi già da più di un mese; si è poi trasformata, tra febbraio e marzo, passando per l’Italia, la Germania, tutta Europa e gli Stati Uniti, in una pandemia.

Le classi dominanti borghesi, soprattutto dei paesi in cui l’epidemia si è maggiormente diffusa, ammettendo di non essere assolutamente preparate ad affrontare un’epidemia del genere e di non conoscere a sufficienza le caratteristiche di questo nuovo coronavirus – e tanto meno di come sia passato da animali selvatici, e da quali, all’uomo – hanno risposto in modi del tutto confusi, scombinati e contraddittori, iniziando però col nascondere la sua iniziale diffusione e col ridicolizzare o calunniare i medici e i virologi che lanciavano l’allarme, a partire dalla Cina, come era già successo nel 2002 di fronte alla prima epidemia da coronavirus (la Sars-CoV). Ma, di fronte al repentino sovraffollamento dei Pronto soccorso ospedalieri con centinaia e migliaia di contagiati, e alle prime decine di decessi, i governanti non potevano che prendere atto di un’epidemia che avrebbe potuto mettere in difficoltà la gestione sociale delle città e delle zone in cui, a causa del Covid-19, si iniziavano a contare migliaia di malati gravi (da terapia intensiva) e di morti e a temere pesanti ricadute economiche sull’economia dei propri paesi. Cosa che è effettivamente avvenuta e che ha spinto i governi innanzitutto a cercare di tamponare una situazione che si stava vieppiù aggravando mettendo in grande difficoltà tutte le strutture sanitarie, il personale medico e ospedaliero e i medici di famiglia. E’ arcinoto, ormai, che, alle drammatiche carenze delle strutture sanitarie, si sono aggiunti i tipici aspetti della sistematica assenza di prevenzione (mancanza di padiglioni ospedalieri preventivamente adibiti a situazioni di grave epidemia e di posti letto nei reparti di terapia intensiva e di pre-terapia intensiva; scarsità endemica di personale infermieristico e ospedaliero, generale mancanza dei dispositivi di protezione individuale, a partire dai più semplici come mascherine, guanti, copriscarpe, tute, per non parlare dei tamponi diagnostici, delle indispensabili analisi di laboratorio con piena disponibilità dei reagenti necessari, dei ventilatori polmonari ecc.), carenze che i sacrifici e gli sforzi sovrumani a cui sono stati costretti medici, infermieri, anestesisti e operatori negli ospedali e nella medicina territoriale, non avrebbero mai potuto compensare per curare e salvare centinaia di migliaia di vite umane.

Le strutture e il personale della sanità pubblica non solo si sono ritrovati in difficoltà eccezionali, ma hanno anche dovuto fare i conti con la cinica gestione politica ed economica delle autorità che hanno costantemente cavalcato la paura, diffusa attraverso la stampa e la televisione, privilegiando, da un lato, l’effetto propagandistico dei loro interventi e, dall’altro, il tornaconto economico delle iniziative messe in campo avendo come obiettivo centrale non tanto la cura degli infettati, quanto il più stretto controllo sociale. Si sa che il panico provocato da un’epidemia di cui non si sa nulla, e riscontrando nei fatti che si susseguono giorno dopo giorno soltanto i suoi effetti patogeni e mortali, contribuisce a piegare la maggioranza della popolazione colpita ai diktat delle autorità dalle quali ci si aspettano spiegazioni, interventi e misure per fronteggiarla, che ne riconoscano la tipologia e la letalità e che passino ad adottare mezzi e misure atti a circoscriverla e debellarla.

Che cosa hanno fatto invece le autorità?

Nella loro sconcertante insipienza, e nella loro gigantesca arroganza, votate come sono a difendere prima di tutto gli interessi economici e politici di cui sono diretta espressione, le autorità hanno colto l’occasione offerta dall’improvvisa epidemia da coronavirus per diffondere la paura verso questo nemico «invisibile», la cui letalità è stata ed è direttamente proporzionale all’assoluta mancanza di prevenzione e alla priorità strettamente economica data ad ogni intervento che di volta in volta veniva e viene deciso. Hanno parlato di «guerra contro il coronavirus», non a caso, perché ogni guerra comporta restrizioni, limitazioni di ogni genere, paura che il nemico possa colpire da un momento all’altro, feriti e morti. E ogni guerra comporta azioni di terrorismo che, in questo caso, non hanno avuto come oggetto il virus, ma la massa di lavoratori poiché da essi era possibile aspettarsi reazioni anche violente contro un potere economico che, infischiandosene dei rischi dell’epidemia, li obbligava a lavorare senza dispositivi di protezione, e contro un potere politico che dimostra una volta di più di essere al servizio del profitto capitalistico e non della salute pubblica.  

Mentre l’epidemia ormai aveva iniziato a correre velocemente, il governo cinese disponeva, con estremo ritardo, la chiusura totale di Wuhan e dell’intera provincia dell’Hubei; il resto del mondo – collegato da stretti rapporti commerciali ed economici con la Cina e in particolare con Wuhan e la sua provincia – rimaneva aperto ad accoglierla. Nel frattempo, questo virus, la cui caratteristica specifica (come hanno poi scoperto i virologi di mezzo mondo) non è tanto la sua letalità, ma la sua contagiosità e la sua capacità di modificarsi rapidamente adeguandosi alle diverse situazioni in cui vivono le popolazioni colpite, ha potuto viaggiare in aereo, in nave, in treno in tutti i paesi con cui Wuhan e la Cina erano e sono in contatto, rimbalzando poi da un paese all’altro. Ma l’allarme che più impressionava i governi dei paesi asiatici e, in particolare, d’Europa, non era dovuto tanto alla diffusione di questa nuova epidemia, quanto al blocco delle forniture di prodotti e componenti fabbricati in Cina e indispensabili per le industrie dell’automotive, dell’informatica e delle più diverse tecnologie. Il fermo produttivo ed economico in Cina determinava immediatamente anche una crisi industriale nei paesi europei; crisi che si sovrapponeva ad una crisi economica già in essere dal 2019.

Nelle settimane a cavallo tra febbraio e marzo è l’Italia a presentare i primi casi gravi da Covid-19, in particolare in Lombardia (la regione italiana più industrializzata in assoluto) e poi, a seguire, è stata la volta di Germania, Francia, Spagna, Gran Bretagna, Stati Uniti, mentre in Asia è la Corea del Sud la più colpita dopo la Cina e, a seguire, l’India, Singapore, l’Indonesia e il Giappone. 

Che la borghesia sia una classe di affaristi, di sfruttatori e di cinici approfittatori di ogni occasione che si presenta per trarne vantaggi e profitti, è cosa che si riconferma ogni volta di fronte ad eventi catastrofici, non importa se determinati da cause «naturali» o direttamente «umane».

La struttura economica capitalistica della società impone, oggettivamente, che i capitalisti privilegino il tornaconto economico, immediato e futuro, perché lo considerano bene supremo in ogni istante di vita, rispetto a qualsiasi altro aspetto della vita sociale e dell’ambiente in cui si vive.

Possono i capitalisti cambiare il processo economico di produzione e di distribuzione, il mercantilismo più sfrenato, in modo da rovesciare le priorità, per cui il «bene supremo» diventi la vita umana, la sua armonia sociale in modo che il suo rapporto con la natura diventi armonico, organico? No, non possono. La società capitalistica è una società disumanizzante come nessun’altra nella storia; per questo il capitalismo va distrutto e sostituito con un modo di produzione che metta al centro le esigenze di vita dell’uomo, trasformando la società di merci in società di specie, la sola che può riconquistare un rapporto equilibrato e organico con la natura.

Più di duecento anni di capitalismo dimostrano che la legge ferrea del valore presiede ogni attività umana, qualunque indirizzo politico, qualunque strategia economica, monetaria e finanziaria vengano inventati per affrontare le contraddizioni e le crisi che accompagnano da sempre il suo sviluppo a livello mondiale. Per quanto riformista, illuminato, moralizzatore possa essere il potere borghese in un dato paese – cosa, d’altra parte, dagli effetti estremamente limitati e sempre più rara e di breve durata –, esso dovrà necessariamente rispondere alle esigenze primarie dell’economia capitalistica, e il suo compito specifico sarà sempre quello di difendere la rete di interessi che, di volta in volta, predomina nella gestione economica e finanziaria della società, piegando la politica, e quindi lo Stato, alle esigenze di quella rete di interessi.

Ogni persona che non sia rincitrullita dal mito del denaro, del carpe diem, del «vivi oggi come se dovessi morire domani», si accorge, ogni volta che succede una sciagura, in incidente, sul posto di lavoro o per strada, che la causa determinante di feriti e morti va cercata, per la stragrande maggioranza dei casi, nella mancanza di prevenzione, nella mancanza di misure di sicurezza preventivamente testate e applicate. Se c’è una cosa che i borghesi sono spinti sistematicamente a mettere da  parte e dimenticare, è l’esperienza fatta su sciagure già avvenute e grazie alla quale esperienza avrebbero potuto e dovuto prepararsi nel modo migliore – senza tener conto se porta guadagno immediato o meno – per affrontare disgrazie simili in futuro, evitando morti, feriti, intossicati, malati ecc. Ma il vero comando sulla società non è del borghese capitalista, è del capitale che spinge il borghese, che ha il privilegio di possederlo e di servirlo, a far profitto in quantità e in velocità in ogni situazione e a qualsiasi costo umano e sociale.

 

ALLA BORGHESIA INTERESSA, FONDAMENTALMENTE, COLTIVARE LE CATASTROFI

 

Qual è la situazione più ghiotta per il capitalista se non quella in cui la gran parte delle limitazioni legislative, burocratiche, amministrative, procedurali devono essere messe da parte perché c’è un’emergenza determinata da una catastrofe?

Cade un viadotto per mancata manutenzione, come nel caso più recente del Ponte Morandi di Genova, coi suoi morti e feriti, mettendo in pericolo gli abitanti di un intero quartiere? Pronti!, si accorciano il più possibile i vari gradi di indagine eliminando passaggi burocratici e costituendo il sempre necessario Commissariato d’emergenza, e si scatenano architetti, progettisti, amministratori cittadini e regionali, politici di ogni risma per accaparrarsi appalti, sovvenzioni, business, privilegi, visibilità. Il Ponte Morandi, in cemento armato, quando fu costruito, era stato garantito per 100 anni, ma è crollato dopo 50; il nuovo Ponte, progettato da un architetto di grido, Renzo Piano, questa volta in acciaio, è stato garantito per 1000 anni... ma chi garantisce la sua manutenzione perché questa dichiarazione non sia la solita spacconata?

Per non parlare dei numerosi disastri ferroviari, dei crolli a causa dei terremoti, delle frane e delle alluvioni, vere e proprie coltivazioni delle catastrofi come abbiamo sempre sostenuto, e dimostrato, fin dal 1951, quando, di fronte all’ennesima sciagura in Calabria dovuta a forti piogge, in un articolo della serie «Sul filo del tempo», Amadeo Bordiga scriveva: «L’episodio ignobile del ripetersi sull’estrema Calabria, a due anni di distanza, di un sinistro che ha lo stesso procedimento, le stesse cause e gli stessi paurosi effetti, con gli stessi atteggiamenti di stupore, di ipocrita condoglianza e di stucchevole carità da parte della stampa e di tutta l’”opinione” per poi passare, a cose raffreddate, alla stessa strafottente impotenza non ha affatto cause fisiche, ma soltanto cause sociali» (1).

Ma i borghesi sostengono tesi ben diverse: una cosa sono i crolli causati dai terremoti, i disastri provocati da alluvioni o tsunami, altra cosa se si tratta di epidemie virali. Certo, un terremoto, per quanto disastroso, è in genere circoscritto in una determinata area, e così le alluvioni o le frane; ed anche per gli tsunami, per quanto possano estendersi su aree vaste, non colpiscono mai tutto il mondo. Per questo motivo, essendo fenomeni circoscritti, possono essere teoricamente più controllabili; perlomeno le persone non immediatamente coinvolte possono essere messe in salvo portandole lontane dall’epicentro. Un’epidemia virale, che può trasformarsi in pandemia, e perciò colpire facilmente, rapidamente e improvvisamente gli abitanti dei paesi di tutto il mondo, viene scoperta solo quando si è già diffusa (ma non si sa mai quante persone è riuscita ad infettare e dove si è diffusa, se non dopo parecchio tempo). Essa richiede molto tempo perché la ricerca riesca a individuare esattamente di che virus si tratta, quanto sia contagioso e letale. A parte le misure grossolane di confinamento, distanziamento sociale, igiene personale ecc., non si riesce a trovare rapidamente le terapie e le cure adatte per arginarla e combatterla e, alla fine, per vincerla. Ma, quasi sempre, l’epidemia virale si esaurisce per conto proprio, nel giro di pochi anni, salvo ripresentarsi anni dopo con caratteristiche diverse visto che spesso alcuni virus – che non volano, ma, per vivere hanno bisogno di infettare, in determinate condizioni, diversi vettori animali, dai selvatici all’uomo – hanno una grande capacità di modificarsi via via. Più sono presenti le condizioni ambientali favorevoli alla loro riproduzione e alla loro diffusione, e più hanno la possibilità di infettare milioni di esseri viventi, animali e umani. Più l’uomo distrugge e modifica l’ambiente selvatico in cui i virus animali si producono e riproducono, più si allarga la possibilità di contagio.

Il capitalismo, nella sua spasmodica ricerca di profitto, non solo costringe la stragrande maggioranza dell’umanità a vivere in miseria, in ambienti malsani, in povertà assoluta abbandonandone una parte considerevole a morte sicura, ma distrugge l’equilibrio ambientale – e quindi un rapporto organico tra uomo e natura, e tra animali e natura – cementificando, deforestando, obbligando una parte considerevole dell’umanità ad ammassarsi in metropoli tossiche. L’attività di distruzione dell’ambiente naturale dal quale dipende la vita di tutti gli esseri viventi non può che avere conseguenze disastrose non solo per l’umanità, ma anche per gli animali e per le piante, conseguenze che, prima o poi, si ripercuotono sulla vita umana stessa. E’ ormai assodato che i virus si producono e riproducono più facilmente in seno a comunità ammassate di animali – basta prendere ad esempio i pipistrelli, che sono mammiferi come noi, ma questo vale anche per i topi, i polli, i maiali, le mucche, i dromedari ecc., da cui sono originate le epidemie più pericolose.        

Andando indietro nel tempo, nell’ultimo secolo ci sono state 11 epidemie virali (per metà pandemie), dalla famosa «Spagnola» del 1918-19, coi suoi 50 milioni di morti (ma altre fonti parlano di 100 milioni), all’«Asiatica» del 1957, con oltre 1 milione di morti; dall’«Influenza di Hong Kong» del 1968-69, con 1 milione di morti (ma altre fonti parlano addirittura di 4 milioni), apparsa nella Cina centrale e poi a Hong Kong, sbarcata poi negli Stati Uniti (con 100.000 morti), e in Europa (in Francia i morti stimati furono 30-40.000, in Italia 20.000), all’«Aviaria» del 1997, epidemia diffusa soprattutto nel sud-est asiatico, dall’incidenza molto bassa ma con mortalità molto elevata (60% dei contagiati)  e alla «Sars-CoV» del 2002-03, stesso ceppo del coronavirus attuale, circoscritta quasi del tutto alla Cina continentale e ad Hong Kong, che su più di 8.000 contagiati fece circa 800 morti (tasso di letalità comunque elevato: 9,6%); dall’«Influenza suina» del 2009-10 che fece quasi 400.000 morti in tutto il mondo dopo aver contagiato quasi 7 milioni di persone (Il Tempo, suppl. “salute”, 11.4.2020, e www.epicentro.iss.it/passi/storiePandemia), all’attuale «Covid-19» che finora ha contagiato, secondo i dati ufficiali (ma sappiamo che sono sicuramente in difetto), più di 4,8 milioni di persone nel mondo con oltre 320.000 morti (dati OMS, Health Emergency Dashboard, 21 maggio 2020), di cui più di 169.000 in Europa, e circa 120.000 tra Stati Uniti, Brasile, Canada e Messico, mentre in Cina i morti sarebbero «solo» 4.645...

Quindi, delle 11 epidemie virali degli ultimi cent’anni, ben cinque si sono verificate negli ultimi 20 anni, ossia una ogni 4 anni. Come si può parlare di epidemia inaspettata? E’ venuto di moda, soprattutto in economia, parlare di cigno nero quando un evento critico grave si presenta improvvisamente, cosa che giustificherebbe tutte le autorità preposte al controllo delle situazioni specifiche per il fatto di non averlo previsto e di non avere potuto, perciò, predisporre per tempo misure adeguate per fronteggiarlo. Così, anche per il Covid-19, le autorità sanitarie e politiche si sono giustificate con l’ormai solito fatalismo da «cigno nero»: cosa c’è di meglio di un nemico letale, ma invisibile, apparso «improvvisamente», per ordinare misure drastiche di contenimento e per avere mano libera nel gestire la tanto attesa emergenza? Nell’emergenza si emanano ordinanze esecutive la cui applicazione è controllata dalle forze dell’ordine, saltano fuori improvvisamente risorse finanziarie che prima non erano disponibili giustificando automaticamente ogni operazione ritenuta «indispensabile», ma, guarda caso, favorendo gli interessi economici e politici che coinvolgono imprenditori, politici e consulenti amici e, come spesso succede – i casi di ospedali costruiti, ma mai finiti, non sono rari nella storia italiana – sprecando risorse col solo obiettivo di far vedere che si fa qualcosa di importante per il «bene comune» ma poi, passata l’emergenza, si abbandona quel che si è cominciato e si passa ad altri affari.

Il caso del Covid-Hospital della Fiera di Milano è emblematico. Andato a vuoto il tentativo da parte del presidente della regione Lombardia, Attilio Fontana, di coinvolgere la Protezione civile per impiantare un ospedale da campo in un padiglione della Fiera di Milano, è stata lanciata una veloce campagna di raccolta fondi d’accordo con Berlusconi e altri imprenditori amici per allestire l’ospedale di terapia intensiva esclusivamente dedicato ai malati di Covid-19 con le donazioni private, dimostrando così che la Lombardia poteva «pensarci da sola» senza bisogno del governo, è stata lanciata una veloce campagna di raccolta fondi. In neanche un mese sono state raccolte donazioni private per circa 50 milioni di euro (Berlusconi 10, Caprotti dell’Esselunga 10, Del Vecchio della Luxottica 10, Moncler 10, «Giornale» e «Libero» 2,5, Enel 1,5 e molti altri come McDonald, Fondo Nexi ecc. con cifre inferiori) e l’ospedale, in dieci giorni, meraviglia delle meraviglie, era pronto! Pare che il suo costo sia stato di oltre 21 milioni, ma dei restanti soldi raccolti non si sa nulla... Il 31 marzo veniva inaugurato ufficialmente, benedetto dall’arcivescovo di Milano e propagandato come «un’astronave hi-tech», un ospedale che sarebbe servito non solo per la Lombardia, ma per l’intero paese. Progettato come l’ospedale da campo di Wuhan, avrebbe dovuto avere 600 posti letto, subito dopo ne sono annunciati 500, scendendo qualche giorno dopo a 400 e, alla fine, è stato inaugurato dichiarando una disponibilità teorica di 200 posti. Ridimensionata la spacconata iniziale, era previsto il coinvolgimento potenziale di più di 200 medici e di oltre 500 infermieri la cui gestione veniva assegnata al Policlinico di Milano; ma i medici e gli infermieri mancano negli ospedali già attivi, come potevano garantirli per il nuovo Covid-Hospital? Quanti sono stati in definitiva i ricoverati? Il numero più alto è stato 25, il più basso 2! (2). Naturalmente non sono stati tenuti in conto gli ammonimenti di alcuni virologi e direttori sanitari degli ospedali già impegnati pesantemente sul fronte della lotta al coronavirus, come ad esempio il dirigente medico di primo livello nel reparto di Cardiochiururgia del Niguarda, di Milano, che aveva scritto: «Una terapia intensiva non può vivere separata da tutto il resto dell’ospedale. Una terapia intensiva funziona solo se integrata con tutte le altre strutture complesse che costituiscono la fitta ragnatela di un Ospedale perché i pazienti ricoverati in terapia intensiva necessitano della continua valutazione integrata di diverse figure professionali, non solo degli infermieri e dei rianimatori, ma degli infettivologi, dei neurologi, dei cardiologi, dei nefrologi e perfino dei chirurghi. (...) Sarebbe stato più logico spendere le energie e le donazioni raccolte per ristrutturare o riportare in vita alcuni dei tanti padiglioni abbandonati degli ospedali lombardi. Si sarebbe investito nel sistema in essere e quanto creato sarebbe rimasto in dotazione alla Sanità lombarda, potendo poi essere utilizzato ancora come terapia intensiva oppure riutilizzabile con altre finalità ma sempre all’interno di un ospedale funzionante» (3). Appunto, sarebbe stato più logico, dal punto di vista della cura dei pazienti, ma non dal punto di vista degli interessi particolari economico-politico-finanziari dei gruppi capitalisti che, in concorrenza con i gruppi che sostengono il governo, intendevano agire per conto proprio contro ogni logica sensata, approfittando della situazione di emergenza sanitaria. Un ospedale costato molto ma che praticamente non è servito, se non a dimostrare per l’ennesima volta che in questa società, in cima alle preoccupazioni dei capitalisti e dei loro rappresentanti politici, non sono né il «bene comune» né la salute pubblica, ma il loro tornaconto personale. Cosa che non impedisce di sprecare energie e capitali, ma il sistema della proprietà privata prevede che i capitalisti, dei propri capitali personali, facciano quel che credono...

 

LOCKDOWN PER TUTTI... MENTRE SI CERCA IL VACCINO, POSTI DI LAVORO E SALARI SPARISCONO E IL RICATTO LAVORATIVO SI FA PIÙ PESANTE

 

Assunti i caratteri di una vera pandemia, il Covid-19 è diventato oggetto di frenetiche ricerche in cui le grandi multinazionali chimico-farmaceutiche si sono gettate per trovare la magica soluzione: il vaccino! Più aumentavano i paesi colpiti da questa epidemia, più aumentavano i morti, più si diffondeva la paura e più le case chimico-farmaceutiche si fregavano le mani insistendo sui governi perché appoggiassero le più diverse sperimentazioni, contando, oltretutto, sul fatto che le autorità politiche e scientifiche continuassero a diffondere la paura del «nemico invisibile» e perché il numero dei contagiati e dei morti, che di giorno in giorno venivano registrati, dimostrasse che il pericolo doveva essere affrontato con misure eccezionali e che l’unica «soluzione» era il vaccino.

Nel frattempo, un termine inglese, sconosciuto ai più, come lockdown – il confinamento in casa e la chiusura della maggior parte delle attività –, in territori sempre più vasti e ben oltre le «zone rosse» individuate come focolai della malattia, è diventato nel giro di pochi giorni un termine usatissimo, certo molto meno impressionante di «arresti domiciliari» a cui le autorità, in realtà, hanno costretto milioni di persone, sottoposte nello stesso tempo a pesanti sanzioni e perfino all’arresto per «epidemia colposa» se beccati a infrangere le disposizioni emanate.

Naturalmente il lockdown non poteva riguardare gli ospedali, l’intero personale medico e ospedaliero, la produzione e la commercializzazione di farmaci e di attrezzature medicali, di dispositivi di protezione individuale e di tutto ciò che necessita per sopravvivere quotidianamente, come i prodotti alimentari, oltre al trasporto pubblico, alla raccolta rifiuti ecc. Salvo il fatto, come riportato nelle nostre prese di posizione precedenti e come documentato da tutti i media, che tutti coloro che erano più esposti al contagio, e per un periodo di tempo indefinito, sono stati sacrificati sull’altare della prevenzione inesistente e della salute del profitto, come gran parte del personale medico e ospedaliero che è rimasto sprovvisto dei dispositivi di protezione individuale per molte settimane, o i medici di famiglia, sistematicamente a contatto con i malati in casa, che sono stati abbandonati alla loro sorte dovendo contare solo sulla propria buona volontà e sul personale spirito di sacrificio.

Ma il lockdown non ha impedito ai padroni delle aziende che sono riuscite a far riconoscere la propria attività come essenziale, di far andare al lavoro i propri operai senza dotarli delle adeguate protezioni individuali e senza sanificare gli ambienti lavorativi, cosa che ha provocato una serie di proteste e di scioperi nonostante il timore di perdere salario: non siamo carne da macello, è stato il grido di molti operai; un grido che solo in parte è stato ascoltato perché tutta una serie di misure che il governo aveva emanato (come il distanziamento tra un operaio e l’altro, sul posto di lavoro o in mensa, negli spogliatoi o nei bagni, o il lavaggio e la disinfezione frequenti delle mani ecc.) non potevano essere pienamente adottate nelle aziende che non sono state costruite secondo i criteri di prioritaria salvaguardia dei lavoratori rispetto ai macchinari, alle catene di montaggio, ai depositi delle materie prime ecc. Per il capitalista non è la macchina che serve all’uomo, è l’uomo che serve alla macchina!

Dato l’aggravamento repentino degli effetti epidemici da Covid-19, soprattutto da marzo in poi, e l’impossibilità di sapere quanto sarebbe durata la situazione, era inevitabile che moltissime aziende e moltissimi esercizi commerciali chiudessero per un tempo indeterminato. Per le aziende strutturate e di certe dimensioni, ciò ha significato mettere in cassa integrazione una parte notevole dei propri lavoratori – con l’inevitabile decurtazione di un salario già basso rispetto al costo della vita –, mentre per le aziende medie, piccole e artigianali significava il licenziamento del proprio personale. In agricoltura, dove si concentra una parte considerevole di lavoratori immigrati e di lavoro nero, il lockdown ha significato, nello stesso tempo, uno sfruttamento intensivo dei braccianti che accettavano di lavorare senza protezione alcuna e una strage di salari per tutti coloro che non intendevano mettere a rischio la propria vita per 3 euro all’ora. Il grido d’allarme che le associazioni degli agrari hanno lanciato in vista della primavera per la mancanza di braccia per la raccolta della frutta e degli ortaggi nelle serre e nei campi, è andato così ad aggiungersi ai lamenti delle associazioni industriali che stavano perdendo miliardi perché non potevano più vendere quel che era stato già prodotto né nel mercato interno né nel mercato dell’esportazione e perché non potevano dar corso agli ordinativi che avevano già contrattualizzato. Poveri capitalisti, non potevano assicurarsi i profitti come in precedenza...

 

LA SALUTE DELL’ECONOMIA E DEGLI AFFARI NON DEVE RISCHIARE, LA SALUTE UMANA SÌ

 

La voce forte dei capitalisti condiziona da sempre, inevitabilmente, le decisioni governative, in ogni paese. Ed è proprio l’interesse economico e finanziario rappresentato dai capitalisti più forti che ha orientato, all’inizio e durante il corso dell’epidemia, e continuerà ad orientarle, le decisioni e le indecisioni dei relativi governanti, in buona compagnia, d’altra parte, con le istituzioni sanitarie nazionali e internazionali.

A poco più di due mesi di distanza dalla comparsa ufficiale del coronavirus in Europa, il quotidiano spagnolo El Pais, visionato il verbale di una riunione del Centro europeo per il controllo e la prevenzione delle malattie (Ecdc) tenutasi in Svezia il 18 febbraio, per discutere anche dell’epidemia da coronavirus che aveva già provocato più di 2000 morti su più di 17.000 persone contagiate, per lo più in Cina (4), mentre i contagiati da coronavirus in Europa erano, al momento, «solo» 45, tutti riguardanti viaggiatori che tornavano dalla Cina, rivela la conclusione di questa riunione: «in Europa il rischio di propagazione del virus è basso». Dopo qualche giorno l’Italia chiudeva undici comuni in «zona rossa», mentre, visto che i virus non rispettano mai i confini, l’epidemia si diffondeva in poche settimane in Lombardia, Veneto, Emilia Romagna; ed anche in Germania dove, in verità, erano già stati attivati i protocolli di protezione in 20 ospedali, mentre sul mercato internazionale si era già riscontrata la grande difficoltà di trovare i dispositivi di protezione individuale e le diverse attrezzature indispensabili per la terapia intensiva.

In poche settimane, gli ospedali non riuscivano più a ricoverare tutti gli ammalati sintomatici, i posti in terapia intensiva si esaurivano velocemente, i Pronto soccorso non riuscivano a smaltire il grande afflusso di malati, le sale chirurgiche e di terapia intensiva veniva occupate dai malati di Covid-19, mentre per tutti gli altri malati già ospedalizzati venivano in parte sospese le cure già avviate e rimandati gli interventi. La tanto decantata efficienza sanitaria della Lombardia veniva così smontata nel giro di poche settimane.

In poco tempo emergeva la drammatica serie di inefficienze e di dichiarazioni inattendibili, mescolate con una sistematica attività propagandistica da parte di virologi in cerca di notorietà e di prebende, mentre venivano messi a tacere, se non ridicolizzati, quei ricercatori e medici che, al contrario, hanno tentato di avvertire che la pericolosità di questo nuovo coronavirus poteva effettivamente aumentare, trasformando l’epidemia in pandemia, non solo perché non lo si conosceva ancora e perciò non si sapeva come controllarlo e debellarlo, ma anche perché le strutture sanitarie – la cui efficienza era già ridotta a causa della scarsità delle risorse disponibili, dei tagli lineari sugli investimenti e sul personale della sanità pubblica, avvenuti nel corso di decenni – sarebbero facilmente collassate. Ed è esattamente quel che è successo, tanto che moltissimi malati, non potendo essere ricoverati negli ospedali sono morti in casa, mentre molti medici e infermieri, contagiati, sono finiti in quarantena e molti di loro sono poi morti; per non parlare dei malati di Covid-19 che, per mancanza di posti negli ospedali, sono stati spediti nelle Residenze sanitarie per anziani, contagiando una popolazione anziana già debilitata a causa di altre patologie e divenendo inconsapevoli vettori di una vera e propria strage. Non è un caso, infatti, che la metà dei morti da Covid-19 sia costituita da anziani! Era evidente che le carenze del sistema sanitario pubblico avrebbero portato inevitabilmente a utilizzare le scarse risorse disponibili e gli interventi selezionando i pazienti e privilegiando coloro che avevano qualche possibilità in più di farcela; così gli anziani, soprattutto se già debilitati da altre patologie, venivano sistematicamente sacrificati. Quel che succede normalmente sui posti di lavoro si ribalta pari pari sugli ospedali: l’anziano ha meno energie, perciò è meno sfruttabile e quindi diventa più facilmente un esubero; lo stesso accade al paziente anziano in ospedale, soprattutto se già colpito da altre patologie. L’anziano, se non è ricco, e quindi non può permettersi il ricovero in cliniche private, è destinato a subire la sua incertezza di vita anche quando si ammala; non essendo un buon pagatore, diventa superfluo, un ostacolo, un puro costo senza contropartite. E come l’anziano, così i disabili: sono tutti considerati costi, e il capitalismo i costi li abbatte sistematicamente.

 

INAFFIDABILITÀ E MANIPOLAZIONE DEI DATI E DELLE STATISTICHE UFFICIALI

 

Un altro aspetto, che col tempo è diventato evidente, riguarda la fabbricazione dei dati che in tutti questi mesi hanno continuato a riempire le notizie e i reportage nei media. Quanti contagiati, quanti morti, quanti guariti nelle ultime 24 ore, in quale regione, in quale paese ecc. Quanti tamponi, quante analisi, quanti asintomatici... E’ stata diffusa quotidianamente una tale quantità di dati e di statistiche, peraltro per nulla rispondenti alla realtà, solo per giustificare tutte le misure di confinamento prese dai governi, ma il vero scopo era di fare terrorismo mediatico, spaventare la gran parte della popolazione in modo che accettasse docilmente le limitazioni imposte e si rassegnasse alla malattia e alle morti senza incolpare un potere politico che, al contrario, si dimostrava del tutto inefficace, incompetente e cinicamente sottomesso alle ragioni del profitto capitalistico. In un «filo del tempo» del 1951, a proposito dell’alluvione del Po, si metteva già in evidenza quanto segue: «Uffici e scienziati che si rispettano danno oggi responsi secondo le esigenze politiche e la ragione di Stato, ossia secondo l’effetto che faranno, e le cifre subiscono ammaestramenti di ogni genere» (5). Da allora non sono diventati più seri, hanno continuato ad ammaestrare le cifre a seconda della convenienza politica.

Più volte, qualche illustre epidemiologo ha dichiarato che le statistiche su cui si basavano i dati forniti quotidianamente dalla Protezione civile – come in una specie di Bollettino di guerra – erano statistiche da prendere con le molle. Primo, perché i rilevamenti fatti non potevano dare risultati statistici in tempo reale, ma solo dopo alcuni giorni, poi perché la quantità di tamponi effettuati ed altre analisi era talmente infima da non poter dare un quadro d’insieme più chiaro e, soprattutto, perché questi venivano fatti soprattutto su persone già ospedalizzate, mentre la grande quantità di contagi riguarda le persone asintomatiche. Inoltre, i decessi avvenuti, e che avvengono, nel periodo dell’epidemia da coronavirus sono stati attribuiti tutti al Covid-19, mentre una parte di questi decessi era in realtà dovuta a patologie gravi preesistenti in cui l’infezione da Covid-19 non ha fatto altro che accelerare il processo di morte. Insomma, fornire quotidianamente i dati da «bollettino di guerra», come divulgare soppesate dichiarazioni di illustri virologi, aveva evidentemente anche lo scopo di far recuperare presso una popolazione impaurita un’affidabilità nelle attuali autorità politiche e sanitarie che i fatti reali avevano minato seriamente.

Per dare un’idea dell’inaffidabilità dei dati sciorinati dalle istituzioni sanitarie e dalla Protezione civile, ci riferiamo al parametro del cosiddetto indice R0, che poi è stato sostituito dall’indice Rt (6), in sintesi l’indicatore dei contagi che, in media, una persona infetta può provocare; un indicatore che può valere come utile parametro se si conosce la data a partire dalla quale il paziente ha sviluppato i primi sintomi; se manca il giorno di inizio dei sintomi, i dati sono falsati, quindi inutilizzabili. Questa indagine – evidentemente limitata ai pazienti sintomatici – per essere base valida per valutare le misure adeguate e gli interventi da fare, deve essere fatta con la stessa metodologia, perlomeno in tutta la nazione, ma, data la pandemia, dovrebbe riguardare tutti i paesi, e fatta quotidianamente, trasferendo i dati raccolti dagli infettati, uno per uno, sugli stessi moduli digitalizzati usati da tutti i paesi in modo da poterli lavorare in tempo reale. Sono parole del fisico Ricci-Tersenghi, docente di fisica computazionale all’Università La Sapienza di Roma, a proposito del «Sistema di monitoraggio» varato dal decreto del ministero della salute il 30 aprile scorso, il quale ha rilevato la totale inaffidabilità di questo sistema, tanto più che «il parametro Rt pubblicato il 15 maggio, quello che ci deve dire se le cose si mettono male o meno, è stato calcolato con i dati disponibili fino al 26 aprile, tre settimane fa, con il lockdown ancora in pieno regime» (7). Se poi si aggiunge che la metà delle Regioni hanno fornito dati incompleti per il 50%, su che cosa si basa il nuovo e pomposo «Sistema di monitoraggio» che ci dovrebbe dire se l’epidemia è sotto controllo e se le misure adottate sono state effettivamente utili, o no, a contenerla per poi debellarla?

Un altro dato importante da conoscere, sostiene il Ricci-Tersenghi, sarebbe quello relativo alle «catene di contagio». Ma è lo stesso Istituto Superiore di Sanità a dichiarare che «il luogo di presunta esposizione al virus è noto solo per il 12,7% dei casi segnalati nel periodo di riferimento», la cui maggior parte è stata, d’altra parte, identificata nelle Rsa o nei contesti familiari. Ma del restante 87,3% non si sa nulla... (8).

 

ANDRÀ TUTTO BENE?

 

Di fronte a questa tragica situazione, la risposta della borghesia non può sorprendere. La scienza ufficiale non risponde a criteri di reale prevenzione, ma a criteri di cura – tra l’altro, criteri che inevitabilmente selezionano tra chi può pagarla e chi no. I profitti capitalistici, in questo ambito, si accumulano sulle grandi quantità e varietà di prodotti farmaceutici da vendere su un mercato costituito da grandi quantità di malati. Se i malati fossero una minima percentuale della popolazione, se non l’eccezione, che fine farebbero i profitti delle grandi multinazionali chimico-farmaceutiche, e i vantaggi personali in termini di denaro e di comando di tutta la schera di politici, amministratori, scienziati, primari, virologi, chirurghi, epidemiologi e chi più ne ha più ne metta, che vivono sulle malattie che sono sempre più tipiche della putrefatta società borghese?

La classe borghese non teme l’epidemia da coronavirus, da HIV, da ebola, da morbillo, da colera o da qualsiasi altro virus o batterio; il singolo borghese certamente si spaventa e teme per la propria vita e per il fatto di non poter godere del proprio patrimonio, ma la classe sociale a cui appartiene è congenitamente pronta ad approfittare di ogni calamità, di ogni catastrofe perché da esse sa che può trarre vantaggi immensi e rapidi, come ogni situazione di emergenza dimostra. Certo, gli scienziati si devono dar da fare per scoprire la tipologia del virus, la sua provenienza, il suo modificarsi, la sua contagiosità e letalità e quali possono essere i medicinali adatti a fermare il processo di aggravamento che può portare alla morte, e quale terapia e quali misure debbono essere attuate per un risultato positivo della cura. Ma la loro attività di scienziati dipende, come qualsiasi attività umana nella società borghese, dalla possibilità di essere un elemento costitutivo del processo di valorizzazione del capitale investito. O la loro opera, la loro ricerca, portano un profitto, in denaro, in influenza ideologica e politica, o in servizio sociale necessario perché i lavoratori ammalati o incidentati tornino al più presto a farsi sfruttare nei posti di lavoro, oppure la loro opera, anche se encomiabile dal punto di vista umano e della ricerca  pura, non serve e, quindi, viene accantonata e abbandonata nel dimenticatoio.

Ogni ricerca, in qualsiasi campo si faccia, ha bisogno di investimenti e, spesso, di grandi investimenti che possono essere forniti soltanto dagli Stati e dalle grandi multinazionali. E le ricerche in campo medico e farmacologico non hanno solo bisogno di laboratori, ma di sperimentazioni su animali e sull’uomo, soprattutto di fronte a situazioni di epidemia o di pandemia. Perciò, oltre ai capitali per far fronte a tutte queste esigenze, ci vuole anche l’intervento dell’autorità statale, l’unica che, in situazioni di emergenza, ha il potere di prendere misure che obbligano gran parte della popolazione a sottomettersi a comportamenti contrari a quella che è considerata la normale conduzione della vita quotidiana. Tanto più in uno Stato democratico, in cui la libertà di circolazione, di riunione, di manifestazione, oltre che di espressione e di stampa, fanno parte dell’ideologia dominante con cui la popolazione viene abituata ad illudersi di poter «scegliere» cosa fare nel proprio futuro avendo a disposizione, in teoria, una gamma illimitata di «scelte». La stessa «libertà per tutti», che è il vanto della società borghese, e in particolare della democrazia, per la classe borghese diventa un ostacolo, in determinate situazioni di crisi economica e sociale, perché le impedisce di agire velocemente e senza intralci alla difesa dei suoi interessi economici e politici messi in pericolo appunto dalla situazione di crisi. Bastano alcune ordinanze o alcuni decreti legge, col prestesto oggi dell’epidemia, ieri del “terrorismo”, domani della crisi economica o sociale, per fare della «libertà» borghese carta straccia.

Di fronte alla situazione critica determinata dagli effetti della pandemia da coronavirus che hanno provocato un notevole abbattimento del prodotto interno lordo in tutti i paesi, e non solo in quelli colpiti in modo consistente dal Covid-19, la classe borghese dominante, pur essendo una concausa non secondaria della diffusione dell’epidemia e certamente causa principale della sua letalità, ha colto questa occasione per assestare ulteriori e potenti colpi alla tanto idealizzata «libertà». Con l’epidemia si è diffusa la paura di venire contagiati, di morire, di non poter contare sull’assistenza ospedaliera, di essere abbandonati, di incorrere in pesanti sanzioni – come di fatto è successo a molti – e questa paura ha piegato una popolazione del tutto impreparata a situazioni d’emergenza simili, a tal punto da non avere la forza per reagire ad una catastrofe, peraltro annunciata viste le epidemie precedenti, e da sottomettersi alle direttive governative che di volta in volta venivano emanate.

L’unica classe in grado di tener testa alla borghesia e di cui la borghesia, in effetti, teme la riorganizzazione e la lotta come classe antagonista, è il proletariato. La storia delle lotte di classe lo dimostra ampiamente. Ma, intossicato da decenni dalle forze opportuniste e abituato alla collaborazione interclassista e a contare sullo Stato come fosse un ente al di sopra delle classi e dei loro contrapposti interessi, e a parte le proteste e alcuni scioperi all’inizio del periodo in cui l’epidemia cominciava a fare le sue vittime, anche il proletariato si è piegato alle misure di controllo sociale applicate dai vari governi. La disoccupazione già esistente, il pericolo di perdere il lavoro anche se precario, i salari del tutto insufficienti per mangiare per un mese intero, la necessità di badare ai figli piccoli e adolescenti che non posono andare all’asilo e a scuola, la cura dei malati in casa interamente a carico dei componenti della famiglia: insomma, una situazione di estrema insicurezza e di estremo isolamento ha giocato a favore della cinica e assassina classe borghese e delle sue manovre tutte indirizzate a difendere innanzitutto il sistema capitalistico di produzione e di distribuzione in vista di poter riprendere al più presto, a pieno ritmo, lo sfruttamento del lavoro salariato, ma con una classe salariata ancor più piegata alle esigenze del capitale.

«Andrà tutto bene» è stato una specie di grido di speranza e di conforto per non lasciarsi andare alla disperazione, che, soprattutto da parte del personale ospedaliero, voleva incoraggiare i malati da coronavirus, e i loro familiari, dichiarando che sarebbero stati trattati con tutta la dedizione possibile nonostante le grandi difficoltà oggettive. Ed è certamente merito del personale infermieristico e degli operatori sanitari se molti malati ce l’hanno fatta; i media e i politici più furbi li hanno chiamati «eroi», ma loro stessi, che eroi non si sentivano, sapevano che sarebbero stati dimenticati presto soprattutto dalle autorità ospedaliere, amministrative e politiche. I turni massacranti, la mancanza di dispositivi di protezione individuale, l’esposizione costante al contagio e alla morte, la paura di portare il contagio in casa propria a fine turno, le quarantene obbligate per tutti coloro che risultavano contagiati, tutto ciò era certamente motivo per ribellarsi, per scioperare, per lottare contro un sistema che non solo sfrutta sistematicamente la forza lavoro, ma la sacrifica coscientemente sull’altare del profitto. Nessuno di loro se l’è sentita di scioperare in una situazione così drammatica in cui solo il loro lavoro, la loro dedizione, la loro umanità permettevano la necessaria assistenza e la cura dei malati e dei loro familiari. Sono stati sostenuti certamente dalla riconoscenza da parte dei malati e dei loro familiari, ma non da parte delle direzioni sanitarie e dalle autorità politiche di governo che, invece, si sono impossessate del loro sacrificio, hanno pianto lacrime di coccodrillo sui medici e sugli infermieri morti, ma hanno continuato a privilegiare gli interessi di un sistema disumanizzante che tritura sistematicamente vite ed affetti. Da «eroi» sono rapidamente passati ad essere dei semplici lavoratori che per contratto sono tenuti a fare il loro «dovere» in cambio di un salario sempre insufficiente e in strutture spesso inadeguate, se non fatiscenti. Di fatto, infermieri e tutto il personale ospedaliero sono rimasti soli, indifesi, esposti al sacrificio anche della propria vita.

La vera solidarietà al loro sacrificio da chi poteva, e avrebbe dovuto, venire? Dalla lotta dei proletari degli altri settori economici e dei servizi che, con la loro pressione sul padronato e sui poteri politici, avrebbe dovuto iniziare a pretendere almeno la fornitura immediata dei dispositivi di protezione individuale e di tutte le attrezzature indispensabili per la protezione e la sanificazione degli ambienti ospedalieri, anche se questo avesse significato costringere le aziende più adatte a convertire da subito la loro abituale produzione in produzione di mascherine, guanti, copriscarpe, tute, disinfettanti ecc., e non solo per gli ospedali ma anche per tutta la popolazione che, nel fattempo veniva obbligata a dotarsi a proprie spese di mascherine, guanti, disinfettanti ecc. Gli scioperi che ci sono stati, in realtà, sono stati certamente una reazione degli operai che si sono visti obbligati ad andare al lavoro sprovvisti delle protezioni necessarie e in ambienti non sanificati, ma sono state agitazioni del tutto isolate e nessuno sciopero è stato fatto in solidarietà al personale ospedaliero. L’opera pluridecennale dei sindacati tricolori di isolamento delle lotte, di svuotamento delle rivendicazioni di classe e di collaborazionismo sempre più stretto con i vertici delle aziende e con lo Stato, ha avuto anche in questo periodo le sue conseguenze antiproletarie. Mentre l’epidemia «unisce» in un certo senso nella stessa sorte tutti quanti, e le lotte avrebbero dovuto avere la stessa risposta unitaria, i sindacati tricolore hanno fatto di tutto per contenere e isolare le agitazioni spontanee, di fatto disorganizzandole e depotenziando la loro iniziale forza. Se di fronte alle iniziative e alle misure padronali che attaccano gli interessi immediati dei proletari non si risponde con una lotta che incida direttamente sugli interessi dei padroni, allargando la lotta a più settori, i proletari non saranno mai in grado di difendersi né nelle situazioni di crisi aziendale, né, tantomeno, nelle situazioni di crisi economica e sociale generalizzata.

E’ per questo motivo che i proletari devono iniziare a rimettere al centro della propria lotta la difesa esclusiva dei propri interessi immediati, andando necessariamente contro ogni obiettivo, ogni mezzo e metodo di lotta orientato a difendere gli interessi aziendali conciliando tali interessi con quelli operai. Una lotta che non può durare e tenere nel tempo, né rafforzarsi, se non contando sulla solidarietà di classe.

La solidarietà di classe può nascere soltanto sul terreno della lotta classista, e può diventare un’arma di pressione notevole tutte le volte che un settore operaio si trova in particolare difficoltà – come nel caso attuale del personale ospedaliero – e che può contare sulla forza e sull’appoggio degli altri settori operai che scendono in lotta con esso o per esso. La conciliazione sul piano economico tra operai e padroni apre la porta alla più generale conciliazione sociale, sottomettendo, di fatto, gli interessi operai alle esigenze dei capitalisti, in ogni campo, nell’azienda che fabbrica armi come in quella che fabbrica scatolette di carne, vestiti o medicinali, e in ogni settore della vita sociale, che si tratti di trasporto, di ospedali, di mezzi di comunicazione o altro.

Si dirà: ma in periodo di pandemia, con l’obbligo di rimanere chiusi in casa sotto il rischio di venire pesantemente sanzionati se si infrangono le rigide regole emanate appositamente dalle autorità politiche, e col pericolo di venire contagiati e di finire all’ospedale e magari di morire, è logico che non si abbia voglia di esporsi a questi pericoli come è logico che ogni individuo segua le disposizioni date considerandole come protezioni individuali essenziali. Ma questa «logica» si scontra con la logica capitalistica che impone, al contrario, che una parte considerevole di proletari continui ad andare a lavorare anche se non protetti, esponendoli di fatto al contagio e trasformandoli in ulteriori vettori di contagio, e che obbliga il personale ospedaliero a sacrificarsi direttamente per assistere e curare decine di migliaia di persone che si sono ammalate e che sono morte a causa proprio della logica del profitto capitalistico.

Nella prima guerra imperialistica mondiale, i soldati al fronte rischiavano non solo di essere ammazzati dai soldati nemici, ma anche di essere fucilati dai carabinieri se disobbedivano agli ordini che gli ufficiali impartivano. Ciò non ha impedito ai soldati italiani e austriaci in dati momenti di fraternizzare, e non ha impedito di disertare dal fronte di guerra in cui la classe dominante borghese li aveva costretti ad andare e a farsi ammazzare solo ed esclusivamente per difendere la sua rete di interessi economici, politici e militari. E non ha impedito al proletariato tedesco, in piena guerra, già dal 1915, di scioperare e manifestare, scontrandosi con la polizia, per il pane e contro la guerra borghese; come non ha impedito ai proletari di Torino, nell’agosto 1917, di scendere in un gigantesco sciopero per il pane e contro la guerra. A quell’epoca si rischiava la vita molto di più di quanto la si rischi nell’attuale epidemia da coronavirus.

La cosiddetta guerra contro il Covid-19 che ogni megafono della propaganda borghese richiama continuamente, si è dimostrata, in realtà, un ulteriore attacco alle condizioni di vita e di lavoro proletarie. E sbandierare il solito ritornello di «tutti insieme ce la faremo» se «ognuno farà la sua parte», è il solito modo ipocrita e, allo stesso tempo, cinico, che la borghesia usa per influenzare i proletari affinché, nel caso fossero spinti a lottare in difesa dei propri interessi immediati e della propria vita, desistano dalla loro lotta classista, o non ci pensino proprio perché soltanto... «unendo le forze» sarà possibile uscire dal tunnel in cui ci ha spinti il Covid-19...

Ma in questo tunnel ci ha spinti la borghesia, non il virus. Quell’unione di forze, per la borghesia, ha un solo significato e cioè che la forza del proletariato si sottometta al suo comando, riconoscendole la sola autorità per affrontare oggi l’epidemia e, come ieri e domani, la crisi economica, i licenziamenti, l’abbattimento dei salari e delle pensioni, l’aumento della militarizzazione della società, la guerra guerreggiata. L’unione nazionale a cui la classe dominante borghese si appella ogni volta che entra in crisi, e che il collaborazionismo sindacale e politico sostiene a spada tratta, serve soltanto per distrarre i proletari dai loro interessi di classe, per spingerli a disarmarsi sindacalmente e politicamente trasformandosi in questo modo in uno strumento del proprio asservimento, autoschiavizzandosi volontariamente, in uno strumento del proprio sfruttamento. Che poi ci metta la sua parola Papa Francesco, che invita a pregare per i nostri governanti così impegnati a prendere decisioni «difficili», è anch’esso logico, visto che la Chiesa – in questo caso cattolica, ma lo stesso vale per qualsiasi altra fede religiosa – è parte integrante della conciliazione sociale e della collaborazione di classe, dunque nemica degli interessi di classe proletari.

 

NON SARÀ PIÙ COME PRIMA?

 

Un altro motto si è aggiunto, quando la curva dei contagi e dei morti ha iniziato a calare, almeno ufficialmente: Non sarà più come prima.

Il «Non sarà più come prima» è in realtà un ammonimento che i borghesi lanciano soprattutto ai proletari: attenzione, la crisi epidemica ha scassato talmente l’economia dei paesi più importanti del mondo, che dovrete adeguarvi a sacrifici importanti anche nel periodo che seguirà alla fine della pandemia. Oggi i borghesi litigano sui prestiti di centinaia di miliardi da ottenere dalle casseforti internazionali per tamponare in qualche modo le mille falle aperte nelle attività imprenditoriali e per distribuire un po’ di euro alle famiglie bisognose... Ma il futuro non si presenta roseo, perciò, ai proletari dicono: ringraziateci per le briciole che vi stiamo dando ora, ma preparatevi a ulteriori sacrifici e, soprattutto, non ribellatevi perché rischiate la repressione. Ordine pubblico, innanzitutto!!

Ma perché il «non sarà più come prima», da borghese diventi un motto proletario, il rapporto di forze tra proletariato e borghesia dovrà cambiare a favore del proletariato. La borghesia non dovrà più avere la massima libertà di sfruttamento del lavoro salariato e di repressione di ogni tentativo di opporsi con la forza al peggioramento delle condizioni di esistenza proletarie. Soltanto la riorganizzazione classista delle lotte proletarie, e l’uso di mezzi e metodi classisti di lotta possono far intravvedere ai proletari la possibilità di arginare realmente il peggioramento delle proprie condizioni di vita e di lavoro; soltanto su queste basi sarà possibile ai proletari riconquistare fiducia nelle proprie forze e fare in modo che i capitalisti e i loro esponenti politici e amministrativi temano davvero il movimento di classe proletario non solo ipoteticamente futuro – come già avviene – ma nella realtà presente.

Ad oggi il proletariato è, purtroppo, talmente ripiegato su se stesso che non ha la forza di reagire con vigore classista. I colpi che sta subendo non sono ancora quelli che fanno scattare la rivolta contro tutto il sistema di potere borghese. Quanti colpi dovrà ancora subire per ritrovare in se stesso la forza di risollevare la testa e riconoscersi una reale forza sociale in grado di difendere i propri interessi usando tutta la forza che tiene nelle proprie mani, nessuno lo può dire. Ma è certo, perché nella storia passata è già avvenuto più volte, e perché la dinamica sociale del capitalismo contiene un antagonismo di classe tra capitalisti e proletari che non può essere neutralizzato per sempre, che le prossime inevitabili crisi economiche e sociali non faranno che aumentare la pressione sociale a tal punto che l’involucro sovrastrutturale della società borghese non sarà più in grado di contenerla, facendolo scoppiare come una caldaia che non riesce più a contenere al suo interno il vapore prodotto.

Allora i proletari capiranno quanto è importante riorganizzarsi sul terreno classista, e quanto è vitale lottare contro i capitalisti e le forze di conservazione che li sostengono non solo per rivendicazioni economiche e immediate, ma per rovesciare completamente l’intero sistema sociale capitalistico e borghese e conquistare finalmente, sotto la guida del suo partito di classe, il potere politico perché è l’unica strada che può avviare l’emancipazione del proletariato dalla schiavitù salariale e, con essa, l’emancipazione di tutta l’umanità dal mercantilismo, dalle leggi del capitale, dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, superando così la preistoria umana per entrare nella storia della specie.

 

22 maggio 2020

 


 

(1) Cfr. La coltivazione delle catastrofi, in “il programma comunista” n. 20 del 1953.

(2) Cfr. www.adkronos.com/ fatti/ cronaca/2020/ 03/ 31/ coronavirus- inaugurato- nuovo- ospedale-fiera-milano_J xZEm KXJul PAkbE5ej7 BVN.html  e www.nexquotidiano.it/travaglio-miracolo-a-milano-ospedale-lonbardia-fiera-da 12-24 posti/

(3) Cfr. www. adkronos. com/ fatti/ cronaca/ 2020/03/31/ coronavirus-inaugurato-nuovo-ospedale-fiera-milano_ JxZEm KXJul PAkbE5ej7 BVN. html

(4) Cfr. https:// elpais. com/sociedad/ 2020-05-18 /los-guardianes- de-la-salud- europea-subestimaron-el-peligro-del-virus.html, e la Repubblica, 20.5.2020.

(5) Cfr: Piena e rotta della civiltà borghese, della serie “Sul filo del tempo”, in “battaglia comunista” n. 23 del 5-19 dicembre 1951. Anche in A. Bordiga, Drammi gialli e sinistri della moderna decadenza sociale, Iskra edizioni, Milano 1978.   

(6) R0 (erre con zero) rappresenta il numero, in media, di casi secondari di un caso indice rispetto ad una popolazione interamente suscettibile di contagio; Rt (erre con t) è invece la misura della potenziale trasmissibilità della malattia legata ad una situazione contingente (ad esempio, nella situazione di lockdown).

(7) www. openline/ 2020/05/20/ dati-fermi- 26-aprile- tamponi-ritardo-tracciakento-contagi-falle-sistema-pandemia/

(8) Ibidem.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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