Democrazia americana

(«il comunista»; N° 166 ; Dicembre 2020)

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Non è la prima volta che nelle elezioni americane per nominare il presidente e il vicepresidente emergono contestazioni sul numero delle schede aggiudicate all’uno o all’altro dei due contendenti, con l’inevitabile codazzo di accuse di brogli. Nel 2016 sono stati i Democratici ad accusare i Repubblicani, e quindi Trump, di essere stati favoriti dall’intervento degli hacker russi per ribaltare i risultati che avrebbero dato la vittoria a Hillary Clinton, la quale aveva ottenuto ben 3 milioni di voti in più di Trump ma che, nel conteggio dei voti nei cosiddetti Stati “altalena” per assegnare il numero dei “Grandi elettori” all’uno o all’altro dei candidati, non risultarono sufficienti per assicurarsi la vittoria. Nel 2020 sono invece i Repubblicani ad accusare i Democratici di aver imbrogliato, con l’aiuto degli hacker cinesi e approfittando della massa enorme dei voti per posta, per dare la vittoria a Biden strappandola a Trump. I brogli elettorali non sono solo una specialità americana; basta pensare al voto di scambio in uso in Italia.

D’altra parte, in questa società in cui è il mercato a condizionare qualsiasi attività umana, e dove la “filosofia di vita” è espressa nella lotta sempre più spietata tra concorrenti, tra affaristi, tra sfruttatori in un mondo in cui la sopraffazione è la regola, i brogli elettorali non sono che uno dei tanti atti concreti del sistema democratico che la borghesia ha fatto propri al fine di imbrogliare le masse e, in particolare, i proletari, illudendoli che con il loro voto individuale essi possano “scegliere” da chi essere governati. L’imbroglio della democrazia elettorale non sempre ha bisogno di esprimersi attraverso i brogli; questi entrano in campo quando la lotta tra frazioni borghesi si fa particolarmente acuta ma rimane ancora sul terreno dello scontro “pacifico”.

Gli Stati Uniti ci hanno dimostrato che questa lotta non disdegna di passare alle vie di fatto giungendo ad assassinare presidenti ritenuti nemici di determinati gruppi di interessi, in quanto ostacoli da eliminare. I casi più eclatanti furono l’assassinio di Abraham Lincoln (1865) e di John F. Kennedy (1963). Una strana coincidenza lega questi due assassinii: sia Lincoln che Kennedy osarono mettersi contro la potente associazione dei banchieri che ha nella Federal Reserve la sua massima espressione. Negli Stati Uniti è la Federal Reserve che stampa carta moneta e presta allo Stato federale i dollari necessari per il suo budget. Lo Stato, perciò, dipende finanziariamente dalla Federal Reserve che guadagna alte percentuali di interessi sui prestiti che gli concede. Sia Lincoln che John Kennedy (l’uno per sovvenzionare l’Unione nella guerra civile americana, l’altro per sovvenzionare la guerra in Viet Nam e per non avere debiti nella gestione del denaro pubblico) decisero di passare a stampare dollari direttamente da una zecca dello Stato togliendosi dalle forche caudine della Federal Reserve. Entrambi furono uccisi e, immediatamente dopo, il Congresso eliminò le leggi, nel 1865 e nel 1963, che istituivano la moneta nazionale. Ma la lista dei presidenti americani diventati bersagli di attentati è lunga; prima di Lincoln, nel 1835, fu assassinato Andrew Jackson, rappresentante dei piccoli proprietari terrieri della frontiera occidentale e inviso all’oligarchia finanziaria dell’Est e, dopo, fu la volta di James A. Garfield (1881), ucciso anche lui dopo pochi mesi dal suo insediamento alla presidenza dell’Unione. Un altro presidente assassinato fu William Mc Kinley (1901), questa volta per mano di un anarchico. Seguono poi una serie di attentati: nel 1912 contro Theodore Roosevelt, seguito da quello contro il cugino Franklin Delano Roosevelt (1933) e contro Harry Truman (1950). Nel 1963 fu la volta di J.F. Kennedy, assassinato a Dallas, e nel 1968 fu ucciso il fratello Robert Kennedy, candidatosi alla presidenza. La serie di attentati continua, sia con armi da fuoco, sia con lettere contenenti veleni mortali, contro Richard Nixon (nel 1972 e nel 1974), Gerald Ford (nel 1975), Jimmy Carter (1979), Ronald Regan (1981), George H.W. Bush (1993), Bill Clinton (1994 e 1996), George W. Bush (2005), Barak Obama (2009, 2011, 2013, 2018) e contro lo stesso Donald Trump (2018, 2020). Insomma, democratici o repubblicani, i presidenti americani sono un evidente bersaglio nella lotta tra frazioni borghesi, svelando in questo modo che il sistema democratico parlamentare con il quale la classe dominante borghese esercita il suo potere politico in gran parte dei paesi del mondo, come non elimina la violenza nella repressione delle manifestazioni proletarie o popolari di protesta che danno fastidio ai poteri locali o al potere nazionale, non elimina nemmeno l’uso della violenza, fino all’assassinio, nella lotta tra le diverse e contrastanti reti di interessi economico-politico-finanziari che si scontrano fin dal sorgere del potere borghese. La democrazia americana lo dimostra meglio di qualsiasi altra.

E’ la stessa storia della democrazia borghese, d’altra parte, che dimostra alla classe del proletariato di ogni paese di non essere la forma di governo attraverso la quale attuare la sua emancipazione dallo sfruttamento del lavoro salariato e, quindi, dal capitalismo. A sua volta, lo Stato borghese, massima espressione del potere politico borghese – non importa se federale o unitario –, ha dimostrato di non essere un apparato neutro, utilizzabile indifferentemente dal potere politico borghese e dal potere politico proletario. E tale dimostrazione, per i marxisti, data dal 1871, cioè dalla Comune di Parigi con la quale il proletariato parigino ha insegnato al proletariato di tutto il mondo che la via dell’emancipazione di classe passa attraverso la distruzione dell’apparato statale borghese – espressione della reale dittatura di classe borghese, nonostante la sua veste democratica – e l’instaurazione della propria dittatura di classe. La Comune di Parigi si è formata con l’insurrezione del proletariato parigino durante la guerra franco-prussiana, a difesa non solo della città che stava per essere invasa e occupata dall’esercito prussiano mentre l’esercito francese aveva abbandonato Parigi al suo destino per ritirarsi a Versailles, ma anche per farla finita con la borghesia dominante. Il proletariato insorto, preso il potere, si diede, quindi, un suo governo adottando immediatamente una serie di misure che caratterizzeranno da quel momento in poi, anche aldilà della successiva sconfitta dei comunardi, quel che il marxismo aveva previsto: la dittatura di classe del proletariato, ossia quel che lo stesso Manifesto del partito comunista, di Marx-Engels, nel 1848 aveva indicato così: «il primo passo sulla strada della rivoluzione operaia consiste nel fatto che il proletariato s’eleva a classe dominante». Alla Comune di Parigi Marx dedicherà, dopo aver scritto per conto della Prima Internazionale i famosi Indirizzi di luglio e di settembre 1870, una delle sue opere più incisive, La guerra civile in Francia, e Federico Engels ci spiega in modo indiscutibile, nella sua Introduzione del 1891 in occasione della ripubblicazione di questo scritto vent’anni dopo, in che cosa consistono le misure fondamentali del potere politico proletario, raffrontate, guarda un po’, con la democraticissima America:

«La Comune dovette riconoscere fin dall’inizio che la classe operaia, una volta al potere, non può continuare ad amministrare servendosi del vecchio apparato statale; che la classe operaia, per non perdere di nuovo il proprio potere appena conquistato deve, da una parte, eliminare tutto il vecchio apparato repressivo fino allora impiegato contro di essa, ma, d’altra parte, deve assicurarsi contro i propri rappresentanti e funzionari, dichiarandoli revocabili senza alcuna eccezione e in ogni momento. In cosa era consistita, fino ad allora, la proprietà caratteristica dello Stato? La società aveva creato propri organi per la difesa degli interessi comuni, all’origine mediante una semplice divisione del lavoro. Ma, col tempo, questi organismi, con al vertice il potere dello Stato, si sono trasformati, al servizio dei propri interessi particolari, da servitori della società, in padroni della medesima. Si può constatarlo, per esempio, non soltanto nella monarchia ereditaria, ma parimenti nella repubblica democratica.

In nessun paese i “politici” formano nella nazione un clan così isolato e potente come nell’America del Nord. Quivi, ciascuno dei due grandi partiti (1) che si scambiano a vicenda il potere, viene esso stesso regolato da gente che fa della politica un affare, che specula sui seggi tanto alle assemblee legislative dell’Unione quanto dei singoli Stati; ossia si nutre dell’agitazione per il proprio partito che, dopo la vittoria di questo, viene ricompensata con dei posti.

E’ abbastanza noto che da trent’anni gli Americani cerchino di scuotere questo giogo divenuto insopportabile e come, a dispetto di ciò, essi spofondino sempre di più nella palude della corruzione. E’ proprio in America che possiamo meglio vedere come la potenza dello Stato arriva ad essere indipendente nei confronti della società, della quale, all’origine, non doveva essere che il semplice strumento.

Quivi non esiste né dinastia, né nobiltà, né esercito permanente (a parte un piccolo nucleo di soldati addetti alla vigilanza dei pellirosse), né burocrazia con impieghi stabili e diritto alla pensione. E nonostante questo, abbiamo due grandi rackets di speculatori politici, che si alleano per impadronirsi ed avvicendarsi al potere dello Stato, e lo sfruttano con i mezzi più corrotti e per i fini più rivoltanti. E la nazione è impotente contro questi due grandi cartelli di politicanti che pretendono di essere al suo servizio ma, in realtà, la soggiogano e la saccheggiano.

Per evitare questa trasformazione, inevitabile in tutti i regimi che si sono succeduti finora, dello Stato e degli organi dello Stato, all’origine servitori della società e poi padroni di questa, la Comune applicò due mezzi infallibili. In primo luogo, assegnò tutti gli impieghi dell’amministrazione, della giustizia e dell’insegnamento mediante elezione per suffragio universale da parte degli stessi interessati e, beninteso, con la possibilità di revoca immediata in qualsiasi momento da parte degli stessi. In secondo luogo, retribuì tutti i servizi, da quelli inferiori ai più elevati, con il solo salario che ricevevano gli altri operai. Il più alto stipendio che pagò la Comune ammontava complessivamente a 6.000 franchi. I  questo modo si era posto un valido freno alla caccia ai posti e all’arrivismo, senza richiamarsi ai mandati imperativi per i delegati ai corpi rappresentativi. Che furono aggiunti in sovrappiù» (2).

I racket di speculatori politici che, oltre alla lotta fra di loro per accaparrarsi quote di potere maggiori, formano quel clan di cui parlava Engels centotrent’anni fa, sono tutt’ora ben presenti, e non solo in America del Nord; anzi, sono diventati ancora più potenti aumentando, nello stesso tempo, le proprie ramificazioni in ogni settore economico e finanziario, alimentando in questo modo sia il giro degli affari legali sia quello degli affari illegali e criminali. Potrà mai la democrazia borghese sovvertire ciò che lei stessa produce e nutre? Potranno mai lo Stato borghese e i suoi organi di amministrazione e di controllo sociale, divenuti in più di centocinquant’anni padroni della società, tornare ad essere organismi “al servizio della società”? Questo capovolgimento non poteva avvenire nel 1871, tanto meno può avvenire nel 2021 o nei decenni successivi. Le guerre imperialiste mondiali del 1914-18 e del 1939-45 avrebbero potuto essere quelle occasioni storiche – come fu la guerra franco prussiana del 1870-1871 – nelle quali il proletariato, non solo di una grande metropoli, come allora Parigi (ma isolato dal proletariato delle altre metropoli come Londra, Berlino, New York), ma di paesi interi, avrebbe potuto approfittare per scatenare la propria rivoluzione di classe?

La prima guerra del 1914-18, nonostante il fallimento della Seconda Internazionale e il tradimento della grandissima parte dei partiti socialisti suoi membri, e in forza dell’esistenza di alcune correnti rivoluzionarie che poggiavano su proletariati avanzati e molto combattivi (in Germania, in Russia, in Italia, in Ungheria) e nelle quali il proletariato poteva riconoscere una guida sicura (il bolscevismo di Lenin, innanzitutto), fu effettivamente un’occasione storica eccezionale nella quale non solo si attuarono in Russia in soli 8 mesi, e durante la guerra, due rivoluzioni – la borghese nel febbraio 1917 e la proletaria e comunista nell’ottobre 1917 – ma in Germania e in Ungheria si sviluppò un movimento rivoluzionario dalle grandissime potenzialità tanto da scuotere il mondo borghese fin dalle fondamenta. La Comune di Parigi ebbe vita breve (circa tre mesi, da marzo a maggio 1871), ma lasciò insegnamenti fondamentali per le rivoluzioni proletarie successive La dittatura proletaria russa, che durò più di 8 anni, non fece che ribadire la stessa impostazione, seguendo gli insegnamenti che Marx ed Engels trassero dalla Comune parigina e sviluppandone le indicazioni con maggior chiarezza e fermezza, tanto da poter affrontare e vincere la guerra civile scatenata dal 1918 al 1921 dagli eserciti zaristi appoggiati dalle spedizioni militari delle potenze imperialiste nel tentativo di restaurare il potere zarista che le democrazie occidentali avrebbero comunque sostenuto pur di abbattere il potere proletario e comunista. Inoltre, in piena guerra civile, nel 1919, fondava la Terza Internazionale che ambiva a diventare il Partito comunista internazionale, guida del proletariato mondiale nella rivoluzione internazionale per l’abbattimento del capitalismo in tutti i paesi e l’avviamento della società alla sua trasformazione socialista e, infine, alla società senza classi, alla società di specie, in una parola al comunismo.

Ci volle la forza economica, politica e militare di tutte le potenze imperialiste occidentali per riuscire ad interrompere lo sviluppo rivoluzionario in Europa, e l’abbinata opera traditrice delle forze socialdemocratiche e opportuniste volta a deviare il movimento proletario sul terreno sommamente ingannevole della democrazia, per infettare, oltre il partito bolscevico, anche i giovani partiti comunisti costituitisi dal 1918 in poi in Francia, in Germania, in Italia, nonostante la formazione e l’attività di correnti rivoluzionarie di sinistra, come la Sinistra comunista d’Italia. Anche nel caso della rivoluzione comunista nell’arretrata Russia, che dovette affrontare contemporaneamente i compiti economico-sociali della rivoluzione borghese e politico-sociali della rivoluzione proletaria, uno dei fattori negativi rispetto all’espansione del moto rivoluzionario in Europa, e quindi nel mondo, fu quello dell’isolamento del proletariato rivoluzionario russo rispetto ai proletariati dei paesi capitalisti europei, in particolare del proletariato tedesco.

Questo isolamento fu opera dell’opportunismo controrivoluzionario delle forze socialdemocratiche e socialriformiste che ingabbiarono i proletariati, paese per paese, nelle illusioni e nelle pratiche democratiche, e ciò spinse i dirigenti sovietici, soprattutto dopo la morte di Lenin, a scivolare sempre più nel terreno del socialnazionalismo, facendo primeggiare i compiti storici di progresso economico borghese e capitalistico sui compiti storici della rivoluzione socialista a livello internazionale, e corrompendo e stravolgendo innanzitutto i partiti comunisti, strangolando, in questo modo, la rivoluzione sia in Russia che nel resto del mondo. Purtroppo fu solo la corrente della Sinistra comunista d’Italia ad aver previsto che tutta una serie di cedimenti alle illusorie tattiche democratiche e frontiste avrebbe portato fuori rotta il partito bolscevico e, con lui, tutti i partiti dell’Internazionale Comunista, consegnando alle potenze imperialiste non solo la testa del glorioso proletariato russo, ma la testa del proletariato mondiale.

La seconda guerra imperialista mondiale giunse a vent’anni dalla prima, ma in quei vent’anni la controrivoluzione borghese, che per il proletariato prese il nome di staliniana, riuscì non solo a schiacciare il proletariato di tutti i paesi nell’asservimento più bestiale ai poteri borghesi nazionali, a cominciare dal proletariato russo, ma ad irretirlo a tal punto da fargli dimenticare la grande tradizione di classe e rivoluzionaria della generazione precedente, rendendolo schiavo e, nello stesso tempo, complice, dell’immensa carneficina mondiale avvenuta nella guerra dal 1939 al 1945. Precipitato in quell’abisso, il proletariato di tutti i paesi, invece di unirsi – come tentò di fare l’Internazionale Comunista nei primissimi anni della sua vita –, si divise ulteriormente, retrocedendo a pratiche nazionaliste e aziendiste ancora oggi molto presenti.

Indiscutibilmente, uno dei virus più letali per il proletariato è stato, è e sarà ancora quello della democrazia e del parlamentarismo contro il quale non esistono vaccini fabbricati in laboratorio. Torniamo ancora un momento alla Comune di Parigi. La grande differenza tra il parlamentarismo borghese e la Comune fu che la Comune era un organismo non parlamentare ma di lavoro, cioè era esecutivo e legislativo allo stesso tempo. «Decidere una volta ogni qualche anno qual membro della classe dominante debba opprimere, schiacciare il popolo nel Parlamento: ecco la vera essenza del parlamentarismo borghese, non solo nelle monarchie parlamentari costituzionali, ma anche nelle repubbliche le più democratiche» (3), queste le parole di Lenin (Stato e rivoluzione) riprese direttamente da Marx e dal suo scritto La guerra civile in Francia. E come Lenin stesso ribadirà nella Lettera agli operai d’Europa e d’America, del gennaio del 1919, «Il parlamento borghese, sia pure il più democratico nella repubblica più democratica, nella quale permanga la proprietà dei capitalisti e il loro potere, è la macchina di cui un pugno di sfruttatori si serve per schiacciare milioni di lavoratori (...), oggi, limitarsi al parlamentarismo borghese, alla democrazia borghese, abbellire questa democrazia come “democrazia” in generale, celarne il carattere borghese, dimenticare che il suffragio universale, fino a che perdura la proprietà dei capitalisti, è solo una delle armi dello Stato borghese, significa tradire vergognosamente il proletariato, passare dalla parte del nemico di classe, dalla parte della borghesia, significa essere un traditore e un rinnegato» (4). 

Il parlamentarismo borghese, da allora, è forse cambiato?, il parlamento è diventato la sede in cui le rivendicazioni proletarie possono essere affrontate e soddisfatte? Niente affatto! In realtà, oltre ad essere il classico mulino di parole, come lo etichettava Trotsky, è la copertura sistematica degli affari più loschi e dei trusci politici più osceni con la quale il potere borghese tenta di darsi un aspetto nobile. La classe dominante borghese, essendo espressione del mercantilismo più sfrenato, sente però il bisogno di avere un’immagine pura, ideale, e di diventare “credibile”, affinché la massa, il “popolo”, e in particolare il proletariato, si convincano che la merce che sta proponendo ha un valore insostituibile che merita la loro fiducia. Ma il parlamento, in realtà, è un mercato dove i vari partiti tentano di acquisire quote di “potere”, un mercato nel quale ciò che conta è la spartizione di quelle quote, a livello governativo centrale e locale. Le esigenze del capitalismo vengono soddisfatte per la maggior parte con leggi ad hoc, che però vengono sistematicamente concepite, discusse, elaborate al di fuori del parlamento, nelle segrete stanze, anche se poi – per mantenere credibile l’inganno democratico – vengono messe ai voti nel circo parlamentare. Il parlamento ha, sostanzialmente, la funzione del teatrino per i gonzi, dove, di volta in volta, vanno in scena i vari pupazzi che, per le loro esibizioni, godono però di molti privilegi e sono superpagati.

Al proletariato, alle sue rivendicazioni e alle sue esigenze di vita, il parlamento in quanto tale non serve, anzi è un intralcio; quando anche passa qualche legge o qualche misura favorevole alle condizioni di esistenza del proletariato, si tratta di leggi del tutto provvisorie perché, se vengono approvate, lo si deve soltanto alla pressione esercitata dalla decisa e dura lotta proletaria che però non può durare all’infinito. Ciò, in realtà, porta a perdere nel tempo quel che si è ottenuto con quella lotta. I borghesi non danno niente per niente: o li si forza, e allora si trovano costretti a cedere qualche cosa, ma sempre pronti a riprendersela; oppure pretendono dai proletari sempre di più, semplicemente perché hanno il potere in mano, non solo economico, ma anche politico e militare. Riporre tutte le proprie speranze e le proprie energie nel parlamento, nella democrazia, nella lotta per la democrazia, è stato ed è un enorme spreco di energie e di tempo, oltre che un’illusione suicida. E la dimostrazione è chiara anche agli occhi di un ragazzo: la situazione generale delle grandi masse proletarie nei paesi democratici sostanzialmente non è migliorata se non per quella ristretta parte che costituisce l’aristocrazia operaia che fa da base alle forze opportuniste della conservazione sociale.

La classe borghese non per caso utilizza una parte delle sue risorse per mantenere in piedi tutto il circo democratico e parlamentare: è dimostrato storicamente che col metodo democratico, quindi col falso egualitarismo politico, la borghesia influenza molto più in profondità la massa proletaria che non col metodo dell’aperta dittatura. Più il proletariato è convinto che, prima o poi, otterrà qualcosa per sé dalla democrazia, più si sottomette al dominio e al comando borghesi e più le frazioni borghesi si possono dedicare a lottare fra di loro per strapparsi l’una con l’altra quote di potere e per farsi le guerre in cui sono soprattutto i proletari ad essere ammazzati. E’ solo quando il proletariato si presenta come una classe unita, e in lotta contro i borghesi come classe dominante, che le frazioni borghesi tendono a sospendere la guerra tra di loro e si uniscono per affrontare il proletariato. La medesima cosa succede quando gli Stati si fanno la guerra per spartirsi le zone di influenza e i mercati nel mondo. Di fronte alla rivoluzione proletaria, di fronte quindi al pericolo che il proletariato rivoluzionario vinca e conquisti il potere in uno o più paesi, è certo che le borghesie impegnate nello scontro bellico uniscano le loro forze per combattere il proletariato rivoluzionario e, tanto più, il potere proletario se effettivamente conquistato. E’ successo con la Comune di Parigi, è successo con la Russia rivoluzionaria dall’Ottobre 1917 in poi, e succederà anche domani se a Berlino, a Roma, a Londra o a Parigi, se non a New York, a Pechino o a Mosca, la rivoluzione proletaria vincesse e conquistasse il potere. Il partito comunista rivoluzionario sa già che le borghesie uniranno le loro forze per combattere contro il proletariato rivoluzionario; è previsto, e le lezioni tratte da Lenin dalla Comune di Parigi e, sulle indicazioni di Marx, applicate nella Russia dall’Ottobre 1917 in poi hanno dimostrato che la forza del proletariato non sta soltanto nella sua combattività rivoluzionaria e nel potere conquistato in un paese, ma diventa vera forza mondiale nella misura in cui l’internazionalismo che lega i proletari di tutto il mondo si concretizza nella loro lotta rivoluzionaria negli altri paesi e, soprattutto, nei paesi capitalisti più importanti. L’Internazionale Comunista fu costituita non soltanto per rafforzare il potere proletario vittorioso in Russia, ma soprattutto per collegare le lotte del proletariato di tutti i paesi convogliandole in un’unica lotta rivoluzionaria contro l’imperialismo, ossia contro la politica imperialista di tutti i paesi capitalisti avanzati. Non per nulla la parola d’ordine fu: o dittatura dell’imperialismo o dittatura del proletariato, intesi entrambi come forze mondiali. E così dovrà essere anche un domani.

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SUSSULTI DI UNA CLASSE OPERAIA CHE NON TROVA ANCORA LA VIA DELLA LOTTA DI CLASSE

 

Se fermiamo lo sguardo all’oggi, e guardiamo indietro i decenni passati, vediamo il proletariato dei paesi capitalistici avanzati ancora succube delle logiche sociali e politiche dei partiti borghesi o, al loro posto, dei partiti cosiddetti “operai” o “socialisti” ma, in realtà, borghesi quanto quelli apertamente padronali; vediamo i proletari massacrati di fatica nel lavoro quotidiano, gettati nella disoccupazione e nella disperazione della miseria e della fame, ma ancora abbacinati dal mito di una democrazia che ha perso anche quello straccio di liberalità che aveva prima della seconda guerra mondiale. E la democrazia americana dimostra ampiamente l’evoluzione storica inesorabile del sistema democratico: la democrazia liberale ancora in auge nei primi del Novecento è stata superata, e distrutta, da quello che in Europa abbiamo conosciuto come fascismo, ossia dalla massima concentrazione economica e politica del regime capitalistico. Il fascismo, infatti, non è stato un “passo indietro” della storia, come sostenuto da tutti gli opportunisti “di sinistra”, ma l’evoluzione necessaria del regime politico borghese nella fase imperialista dello sviluppo capitalistico. Al monopolio, ai trust, alle grandi concentrazioni del potere economico e finanziario corrisponde una centralizzazione politica che il fascismo, e tanto più il nazismo, hanno evidenziato apertamente, ma che i regimi cosiddetti democratici mascherano tuttora con una democrazia che, nei fatti, si è ridotta esclusivamente alla sceneggiata elettorale, utile solo, e fino a quando, questa sceneggiata riesce a rincoglionire le grandi masse, sia coinvolgendole nell’uso della scheda elettorale, sia allontanandole dal partecipare fisicamente alla lotta politica, ambito in cui spadroneggiano soltanto i diversi clan dei politicanti di mestiere.

Potrà mai il proletariato americano uscire dallo stato di inerzia in cui è precipitato da decenni, da quel pesante asservimento in cui è stato ridotto dall’illusione di essere membro partecipe di una potente nazione che ancor oggi è in grado di incidere sulle sorti del mondo, in pace e in guerra, e che ancor oggi può godere di una condizione privilegiata rispetto ai proletari non solo dei paesi capitalisti arretrati ma anche rispetto ai proletari europei, giapponesi, russi o cinesi? Indiscutibilmente, come il proletariato inglese ha goduto, per almeno due secoli, dello sfruttamento delle colonie da parte del capitalismo imperialista britannico che, in patria, su quello sfruttamento, formava una consistente aristocrazia operaia, anche il proletariato americano ha goduto e gode della potenza economica degli Stati Uniti, soprattutto dalla fine della seconda guerra mondiale in poi.

Ciò non toglie che anche alla gran parte del proletariato britanniaco, come del proletariato americano – costituito da tempo anche da proletari provenienti da paesi stranieri –, e del proletariato di tutte le potenze imperialiste, nei periodi di crisi economica e finanziaria che hanno colpito e colpiscono il capitalismo a livello nazionale e a livello mondiale, è toccato e tocca la sorte di precipitare nella disoccupazione, nell’incertezza della vita, nella fame. Ma il sistema di “protezione” costituito dagli ammortizzatori sociali che i capitalismi avanzati hanno creato per continuare a coinvolgere i propri proletariati nazionali nella difesa delle loro esigenze e dei loro interessi particolari, ha avuto ed ha ancora – sebbene sia uno strumento che divide i proletari per categorie di lavoro, età, genere, nazionalità – una funzione controrivoluzionaria preventiva. E non è un caso che gli ammortizzatori sociali siano stati programmati e attuati prima di tutto dai regimi fascisti, in Italia e in Germania, proprio in funzione espressamente controrivoluzionaria e come base materiale della collaborazione fra le classi. Ciò non toglie che, di tanto in tanto, nei settori economici in cui le condizioni di lavoro e di vita si sono rese più intollerabili, i proletari reagiscano con forza. Anche l’America di Trump, nonostante l’epidemia da Covid-19, ha avuto qualche assaggio di quel che può rappresentare la forza proletaria quando si muove in difesa dei suoi specifici interessi di classe. Come nel caso dei 60.000 portuali della West Coast che, nel giugno di quest’anno, sono scesi in sciopero per il rinnovo del contratto bloccando ben 29 porti di tutta la costa occidentale degli Stati Uniti, da San Diego a Seattle. Lo sciopero era coinciso anche con la giornata di solidarietà contro la brutalità poliziesca contro i neri indetta dal movimento Black Lives Matter dopo l’assassinio di George Floyd a Minneapolis (5). E nel caso dei magazzinieri di Amazon, a New York, che lo scorso 30 marzo sono scesi in sciopero contro la mancanza dei dispositivi di protezione contro il Covid-19, rivendicando un aumento dell’indennità di rischio nel proprio salario e una sanificazione completa di tutti gli ambienti di lavoro. Amazon, come prima cosa, aveva risposto licenziando Chris Smalls, uno degli organizzatori dello sciopero; ma l’agitazione dei lavoratori si era allargata anche ad altre aziende della logistica, come Whole Foods e Instacart, in Florida e al magazzino di Kent (nello Stato di Washington). Amazon, in particolare, è nota per aver sempre contrastato, da anni, con pressioni e mezzi anche brutali, l’organizzazione sindacale dei suoi operai, arrivando perfino ad abbandonare in un magazzino un operaio morto sul lavoro incitando gli altri lavoratori a proseguire il loro lavoro (6).

Con la pandemia da Covid-19 ( vedi  l’articolo sulle disuguaglianze in questo stesso numero del giornale), la pressione dei borghesi sulla classe salariata è aumentata soprattutto nei settori dei trasporti, della logistica, dell’informatica, dell’agricoltura e della chimica-farmaceutica, e la ragione non va cercata nella preoccupazione di dare un servizio migliore ai cittadini sottoposti alle misure di restrizione che ogni paese del mondo ha conosciuto, ma nell’approfittare della situazione per fare affari in tempi molto più rapidi, nel liberare il più possibile i prezzi al pubblico e nello svincolarsi dall’applicazione delle misure di sicurezza nei posti di lavoro. I proletari hanno perciò subito, in generale, insieme ai ricatti sul posto di lavoro, all’aumento delle ore giornaliere di lavoro e dell’intensità di lavoro, anche i licenziamenti per la chiusura di tutte quelle attività legate allo sport, al tempo libero, al turismo, alla ristorazione. La vita, per la gran parte dei proletari è diventata ancora più incerta sul piano del lavoro, e quindi del salario, come su quello della salute.

Potrà mai il proletariato dei paesi avanzati riconquistare il proprio terreno classista nella lotta per la sopravvivenza e per la difesa degli interessi non solo elementari di vita e di lavoro, ma più generali e storici? Sarà durissima, ma la riconquista del terreno della lotta di classe, anticapitalistica e antiborghese, è l’unica via che ha il proletariato, in qualunque paese del mondo, per difendersi dagli attacci sistematici da parte delle classi borghesi organizzati dallo Stato e da tutte le sue diramazioni periferiche, in quanto forza repressiva per eccellenza, con il contributo di tutti gli organismi economici, politici, sociali, religiosi, culturali e militari che le classi borghesi costituiscono e foraggiano per un controllo sociale sempre più stretto e soffocante.

La lotta proletaria di classe non è il risultato naturale e automatico del movimento rivendicativo operaio, né il risultato dell’iniziativa di gruppi politici eversivi e cospiratori; nasce dalla combinazione di molti fattori materiali e sociali determinati dalle sempre più acute contraddizioni del sistema capitalistico di produzione e dallo scontro inevitabile degli interessi che le due grandi classi sociali, borghesia e proletariato, esprimono su tutti i piani, e che il partito politico di classe, il partito comunista rivoluzionario, assume e rappresenta come lotta storica per la rivoluzione anticapitalistica, lotta da guidare secondo un programma politico del tutto incompatibile con gli interessi delle classi borghesi e piccoloborghesi.

Perché la classe proletaria possa effettivamente approfittare delle contraddizioni della società borghese, spinta oggettivamente a reagire alla pressione sociale sempre più insopportabile, deve non solo organizzare le proprie forze in modo del tutto indipendente da ogni apparato borghese, adottando metodi e mezzi di lotta incompatibili con la collaborazione tra le classi, ma deve anche incontrare sulla sua strada una guida politica che abbia chiarissimo il fine storico della lotta di classe proletaria, con un programma politico inequivocabile negli obiettivi parziali e finali della lotta emancipatrice che non può essere che rivoluzionaria, con un’organizzazione politicamente disciplinata e capace di valutare le situazioni che nello sviluppo della lotta rivoluzionaria si presentano e si modificano a seconda dei rapporti di forza tra la rivoluzione e la controrivoluzione. Questa guida politica è il partito di classe, organo indispensabile non solo per la rivoluzione e la conquista del potere politico, ma anche per il suo esercizio nell’unica forma di potere utile al rivoluzionamento completo della società, la dittatura del proletariato, e per la trasformazione economica e sociale dell’intera società.

Questi concetti, che al tempo della Comune di Parigi e della Rivoluzione d’Ottobre del 1917 erano compresi perfettamente dalle masse proletarie, ignoranti fin che si vuole ma capaci di metterli in pratica materialmente come solo l’intelligenza collettiva di classe può fare, oggi sono lontani mille miglia dalla loro comprensione, anche solo rudimentale, da parte di una classe operaia che, a differenza delle generazioni del 1871 e del 1917, è molto più istruita e tecnicamente più preparata.

Ma l’istruzione e la formazione culturale delle generazioni proletarie che hanno vissuto i decenni della controrivoluzione borghese, sono esse stesse armi formidabili in mano alle classi borghesi dominanti con cui le masse proletarie vengono inquadrate in forme e in abitudini di vita congeniali esclusivamente al dominio borghese. I proletari di oggi, veri schiavi moderni, potranno sfondare la bolla mefitica in cui sono costretti a lavorare e a sopravvivere, spezzando le catene che li tengono avvinti ad una società in cui i rapporti di produzione e di proprietà, dunque i rapporti sociali in generale, costringono l’enorme massa di forza lavoro salariata a faticare e a morire per il solo benessere del capitale. Si lavora, si fatica e si muore non per lo sviluppo umano, ma per il benessere del mercato, cioè di un’entità – alla pari di qualsiasi entità divina – che sovrasta  e schiavizza l’intera umanità e dalla cui oppressione solo la classe capitalistica, la classe borghese dominante ricava il maggior beneficio. E non importa se le forme di governo che le classi dominanti borghesi si sono date e si danno sono repubblicane, monarchico-costituzionali, democratico-parlamentari o apertamente dittatoriali: esse sono al servizio del capitale e della sua valorizzazione, dipendono anch’esse da Sua Maestà il Capitale, dalla Divinità rappresentata dal Mercato, solo che questo “servizio”se lo fanno ripagare dallo sfruttamento, dal sudore e dal sangue delle masse proletarie di tutto il mondo.

 

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Che cosa hanno fatto le democrazie occidentali dopo la fine della seconda guerra mondiale, se non adottare la politica della collaborazione di classe e, quindi, degli ammortizzatori sociali, attuati dai regimi fascisti? E a che scopo? Appunto, allo scopo di coinvolgere i proletariati nazionali nella difesa dell’economia nazionale, nella difesa degli interessi del capitalismo nazionale, tanto nella ricostruzione postbellica quanto nei periodi di espansione economica e nei tempi di crisi economica.

Non è perciò strano che la borghesia americana, aldilà del presidente che di volta in volta entra nella Casa Bianca, alzi il grido: America first!, o che la borghesia italiana si riconosca nel motto: Prima gli italiani! E niente di diverso fanno le borghesie di tutti gli altri paesi a cominciare dalla Germania con il suo Deutschland über alles (Germania aldisopra di tutto); per non parlare del Kimi ga yo (Il regno dell’imperatore), dell’inno giapponese, che richiama la potenza imperiale giapponese di mille anni fa, o dell’inno inglese God Save the Queen (Dio salvi la Regina), o God Save the King (se il sovrano è maschio) che dal 1745 esalta la corona inglese e l’oppressione coloniale sul mondo durata più di 200 anni. Idem per la Francia, dove si è sviluppato il mito della Grandeur dai tempi delle conquiste coloniali, seppellendo il ricordo dei sanculotti parigini che, durante la rivoluzione, cantavano Ah! Ça iraAh! Si farà, si farà, si farà! -Gli aristocratici al lampione -Ah! Si farà, si farà, si farà! -Gli aristocratici li s’impiccherà!»), e dove qualche anno dopo sarà una più mitigata Marsigliese ad esaltare una libertà del popolo dalla tirannia monarchica e clericale che la borghesia trasformerà ben presto nella libertà di sfruttare senza freni il lavoro salariato, in patria come in tutti i paesi colonizzati, assegnando alle grandi parole di libertà, uguaglianza e fraternità la funzione dello specchietto per le allodole.

Nonostante la spinta inarrestabile del capitalismo a svilupparsi internazionalmente, a superare i confini nazionali e ad invadere qualsiasi territorio e paese, la borghesia non perde la sua caratteristica nazionale e difenderà sempre, innanzitutto, le radici capitalistiche nazionali perché è su queste che poggia la sua forza dominante, permettendole di contrastare la concorrenza degli altri capitalismi nazionali in un mercato che da decenni è un’entità mondiale e nel quale si svolge la lotta di sopraffazione di ogni borghesia sulle altre. Perciò, quando una borghesia potente come quella americana lancia il grido America first!, non è perché vuole rinchiudersi nei confini patrii, ma per ammonire tutto il mondo: non mettetevi contro di noi, perché ne pagherete le conseguenze! Che l’abbia detto Donald Trump o Joe Biden, non cambia; in modi diversi essi servono gli interessi del capitalismo imperialista americano. 

Lo sviluppo del capitalismo non si abbina soltanto con l’aumento inarrestabile delle masse proletarie in ogni paese, ma anche con il loro sistematico impoverimento, sempre più schiacciate dalle crisi economiche e sociali provocate sia dallo sviluppo economico capitalistico – che sbocca periodicamente in crisi sempre più devastanti – sia dagli scontri a livello commerciale e a livello militare che vedono protagoniste le borghesie di ogni paese, scontri che si fanno sempre più frequenti quanto più aumenta la concorrenza tra le potenze imperialiste. E’ così che le grandi metropoli, e i grandi paesi capitalisti, inevitabilmente esercitano una forte attrazione per le masse diseredate e disperate dei paesi che sono stati sfruttati e dissanguati per secoli dai paesi capitalisti più industrializzati; masse spinte perciò a migrare alla ricerca di una sopravvivenza meno disastrosa di quella offerta dal loro paese d’origine.

Il fenomeno delle grandi migrazioni non è nuovo. La stessa America del Nord è stata terra di migrazione e di conquista da parte di masse europee non solo alla ricerca di ricchezza e libertà, ma impoverite e in fuga dalle guerre che imperversavano nel vecchio continente; masse che si portavano appresso non solo esperienze e conoscenze sviluppatesi in Europa nel lavoro artigianale e industriale, ma anche abitudini e mentalità borghesi moderne in ogni campo di attività, economica, politica, sociale e militare. L’impianto dell’economia capitalistica nelle terre vergini americane non ebbe bisogno di scontrarsi con una società feudale strutturata e con radici millenarie perché questa non esisteva proprio; dovette far la guerra contro le popolazioni native, per lo più nomadi e organizzate in tribù e con un’economia del tutto primitiva, destinate perciò a soccombere irrimediabilmente di fronte all’invasione di masse che formavano veri e propri eserciti organizzati industrialmente e militarmente. Gli europei che migrarono in America e che progressivamente costruirono città, ferrovie, porti, magazzini, industrie e chiese, si accorsero ben presto che i pellirosse non si piegavano facilmente alle esigenze capitalistiche, non erano contadini che potevano essere trasformati in lavoratori salariati, erano popoli troppo orgogliosi e guerrieri che non potevano essere sottomessi se non con la guerra. Il loro destino era segnato, coloro che non si sottomettevano venivano sterminati. E così fu. Ma lo sviluppo del capitalismo, in un paese pieno di risorse, di vaste praterie, foreste e terre coltivabili, richiedeva una numerosa manodopera da sfruttare; grande il paese, grandi masse di lavoratori salariati erano necessarie. Perciò le migrazioni, non solo dall’Europa, ma anche dall’Asia furono necessarie e organizzate appositamente. Ma gli europei, inglesi, francesi, tedeschi, olandesi, spagnoli, portoghesi, russi venivano da paesi che avevano colonizzato mezzo mondo e che avevano schiavizzato popoli interi, in Asia e in Africa soprattutto. Fu perciò normale per i nuovi mercanti e capitalisti organizzare la deportazione di masse di schiavi da questi continenti, soprattutto dall’Africa, riempiendo migliaia di bastimenti con schiavi negri da sfruttare nelle vaste piantagioni di cotone, di tabacco, di canna da zucchero dell’America del Nord fino ai confini del Messico.

La borghesia americana, campione della lotta anticoloniale contro l’Inghilterra, e che da Unionista ha combattuto contro la borghesia confederata del Sud per formare un grande Stato nazionale ed eliminare la schiavitù in cui era istituzionalmente tenuta la popolazione nera, è stata quella che nella sua democrazia, nei suoi principi di libertà, di uguaglianza e di fraternità, ha incluso, nelle forme più ipocrite, la segregazione razziale nei confronti della popolazione nera che dura tutt’oggi nelle forme di un razzismo che accompagna da sempre la società borghese, e che, a seconda dei periodi storici e delle convenienze materiali e ideologiche, erige a bersaglio ora l’ebreo, ora l’arabo, il nero, l’ispanico, il migrante, l’emarginato e sempre lo straniero.

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LA BORGHESIA È SEMPRE IN LOTTA, TRA LE SUE DIVERSE FRAZIONI, CONTRO LE BORGHESIE STRANIERE E CONTRO IL PROLETARIATO

 

E’ un errore, in effetti, considerare la classe borghese dominante come un tutt’uno compatto in cui non esistano contrasti di alcun genere, come d’altra parte è un errore considerare la classe proletaria come una classe livellata e unita in forza della sua sola posizione sociale. Il concetto di classe, per il marxismo, deriva dal movimento storico delle forze produttive che si scontrano con le forme di produzione che, a loro volta, nel corso di sviluppo dell’economia, incitano e, nello stesso tempo, frenano lo sviluppo delle forze produttive. Per il marxismo la classe sociale non è la somma degli uomini che in un determinato periodo storico occupano una determinata posizione sociale – chi al vertice e chi nelle posizioni sottostanti – ma è data dalla posizione che determinati gruppi umani occupano grazie a ben precisi rapporti di produzione, quindi a ben precisi rapporti sociali, nei quali sono determinanti la proprietà e la disponibilità dei mezzi di produzione e della produzione stessa, o la mancanza di quella proprietà e di quella disponibilità. Le classi sociali non sono state sempre le stesse nelle diverse società che si sono susseguite nella storia umana, sebbene, superata la prima lunga fase storica del comunismo primitivo, vi siano stati sempre dei gruppi umani ben distinti che, attraverso la proprietà dei mezzi di produzione e la disponibilità della produzione, accentravano il potere economico, e quindi il potere politico, rispetto a tutti gli altri gruppi umani; potere politico mai disgiunto dall’uso della forza e della violenza per difendere quella proprietà e quella disponibilità e per obbligare gli altri gruppi umani, dunque le classi sfruttate, a sottostare alle leggi economiche e politiche dettate dalle classi al potere. E’ lo sviluppo delle forze produttive che provoca, nella storia delle società, il salto da una società all’altra. Le vecchie forme di produzione, nel loro sviluppo, mostrano tutti i loro limiti, destinati però a esplodere, dando vita a una nuova forma sociale più adatta alla spinta delle forze produttive. E’ così che dalla società schiavista si è passati alla società feudale, in occidente, e alla società asiatica, in oriente, e infine alla società borghese capitalistica e da quest’ultima si passerà, appunto con un salto rivoluzionario, al socialismo e al comunismo. Dalla divisione della società in molteplici classi si è così giunti ad una semplificazione: la società borghese, a grandi linee, in forza dello sviluppo mondiale del capitalismo, è divisa sostanzialmente in due grandi classi sociali, la borghesia e il proletariato, che sono identificabili sempre col criterio della proprietà dei mezzi di produzione e della produzione stessa: dal lato borghese, tutti coloro che sono proprietari dei mezzi di produzione e della produzione stessa, dal lato proletario tutti coloro che non hanno alcuna proprietà o, per meglio dire, tutti coloro che sono senza riserve. Un tratto distintivo dell’appartenenza ad una classe o all’altra è sempre dato dal possedere un capitale (denaro, terra, immobili, attrezzature, ma soprattutto prodotti) o dal possedere esclusivamente la forza lavoro umana e, poiché nella società capitalistica è il capitale che sfrutta la forza lavoro salariata – dunque il capitalista sfrutta il proletario –, tutti coloro che sfruttano la forza lavoro salariato appartengono alla classe borghese e tutti coloro che vengono sfruttati in quanto non hanno altre risorse che la propria individuale forza lavoro appartengono alla classe proletaria. La classe proletaria storicamente è rappresentata dalla classe operaia per il fatto che nell’industria la forza lavoro operaia è organizzata nel lavoro associato, ma secondo una divisione del lavoro per cui ogni operaio è impiegato per svolgere una piccola parte dell’intero processo produttivo. All’interno di ogni classe sociale, nel tempo, si sono formate delle stratificazioni (grandi borghesi, medi e piccoli borghesi,  burocrazia, aristocrazia operaia, operai occupati, disoccupati, sottoproletari ecc.) e più è sviluppata la società capitalistica, più stratificazioni si sono via via generate. Lo sviluppo delle società non ha mai avuto un andamento progressivo, graduale, sinusoidale, bensì un andamento a strappi e, in particolare in epoca capitalistica, con potenti crescite economiche ed altrettante potenti crisi che sono state, nelle diverse situazioni storiche, causa di guerre ed effetto delle guerre attraverso le quali andavano modificandosi i rapporti di forza tra le diverse potenze.

Da decenni, soprattutto dalla fine della seconda guerra imperialistica, stiamo attraversando un periodo storico caratterizzato da un ulteriore sviluppo capitalistico in continenti del mondo, come l’Asia e l’Africa, un tempo arretratissimi e sottoposti alla più brutale oppressione coloniale da parte delle potenze capitalistiche europee. Ma questo sviluppo, segnato dall’inserimento nel gruppo delle vecchie potenze mondiali di nuovi concorrenti mondiali, ma anche regionali (in particolare Cina e India, e poi Brasile, Corea del Sud, Messico, Indonesia, Arabia Saudita, Turchia ecc.), sebbene abbia tolto alle poche grandi potenze di un tempo (Regno Unito, Francia, Russia, Germania, Giappone) l’esclusiva nella supremazia mondiale, ed abbia favorito in molti paesi le rivoluzioni anticoloniali, non ha per nulla diminuito l’oppressione dei popoli da parte delle vecchie e delle nuove potenze, alle quali, soprattutto dopo la prima guerra imperialistica, si sono aggiunti prepotentemente gli Stati Uniti d’America. Lo sviluppo capitalistico, soprattutto nella fase imperialistica – che, come sostenuto da Lenin, è l’ultimo stadio del capitalismo –, ha in realtà aumentato in progressione geometrica l’oppressione da parte dei paesi capitalisti avanzati su tutti gli altri paesi del mondo.

Proletarizzando sempre più le grandi masse contadine dei paesi che un tempo venivano definiti come appartenenti al “Sud del mondo”, il capitalismo ha formato inevitabilmente grandi e nuove masse proletarie che vanno ad aggiungersi ai proletariati europei e americani. La corsa del capitale, sebbene interrotta dalle sue crisi cicliche – d’altra parte, sempre più devastanti – nello stesso tempo, va incontro sempre più ad una lotta tra le classi che tende  a superare oggettivamente i confini nazionali.

Se i cedimenti della Borsa di Wall Street, di Londra o di Shanghai si ripercuotono rapidamente sulle Borse di tutti gli altri paesi, mettendo in crisi il capitale finanziario di ogni paese, e perciò, a ricaduta, l’economia reale di ogni paese, sollecitando automaticamente misure anti-crisi da parte dei loro governi, non succede la stessa cosa sul piano sociale.

La crisi in cui precipitano i proletariati più deboli non sollecita automaticamente la loro lotta classista, anzi, quasi sempre, nonostante la reazione attraverso scioperi e manifestazioni anche violente, la loro lotta viene ingabbiata, da parte delle forze della collaborazione di classe, nella difesa del sistema capitalistico e delle forme borghesi che ne esprimono gli interessi (democratiche o meno che siano) e viene indirizzata verso rivendicazioni economiche e, soprattutto, politiche, che non intaccano minimamente il potere borghese, bensì lo rafforzano.

Ed è così che i poteri borghesi, non avendo un controllo reale della propria economia, dedicano le loro forze ad un controllo sociale sempre più stretto, da un lato, per poter approfittare di ogni minimo spiraglio di “ripresa economica” e, dall’altro, per evitare che il peggioramento delle condizioni di esistenza delle masse proletarie le spinga ben oltre i metodi e i mezzi di lotta controllabili dalle forze opportuniste e della collaborazione interclassista, riconquistando finalmente il terreno della lotta di classe. 

E’ normale che in regime capitalistico la borghesia tradizionalmente industriale si scontri con la borghesia proprietaria terriera, ed è normale che entrambe si scontrino con la borghesia finanziaria, per non parlare della borghesia commerciale il cui compito è di intermediare nella compravendita di qualsiasi merce, materiale o immateriale che sia, ma che, proprio perché insiste su tutti i campi di attività economica, è immediatamente più sensibile alle variazioni di mercato, alla concorrenza e alla crisi di sovrapproduzione. Perciò, a seconda della situazione attraversata dall'una o dall’altra frazione della borghesia, questa o quella frazione è indotta a ostacolare o a spingere forsennatamente alcune produzioni rispetto ad altre, alcune iniziative o azioni, anche poliziesche o militari, attraverso le quali facilitare il raggiungimento dei loro scopi. E, a fianco di tutte, come vampiri impazziti, agisce quella particolare frazione della borghesia che si dedica alla speculazione i cui massimi rappresentanti sono coloro che giocano in Borsa, che comprano e vendono azioni, aziende, fabbricati, concessioni o che mediano su qualsiasi “affare”. In America sono uso e costume non solo l’organizzazione di lobby in difesa di trust e di settori economici e finanziari ben precisi (dal petrolio alle armi, dall’informatica alle costruzioni, dai media ai mutui ecc.), ma anche la loro libera attività di influenzare, alla luce del sole, le parti politiche che hanno il potere di far passare o meno determinate leggi.

Perciò, ogni presa di posizione politica dell’Amministrazione centrale e del Presidente (che non è mai la posizione di un sol uomo al comando) è funzionale alla difesa di determinati interessi che vanno inevitabilmente a scontrarsi con gli interessi delle frazioni borghesi concorrenti che, a seconda dell’andamento economico dei loro specifici settori merceologici e dell’economia nazionale, e dell’andamento dei mercati (che è sempre condizionato dai contrasti delle reti di interesse imperialistico a livello mondiale), danno più o meno battaglia per accaparrarsi privilegi e quote di mercato a detrimento delle frazioni concorrenti.

Come scritto chiaramente nel Manifesto di Marx-Engels, la borghesia è sempre in lotta, all’interno fra le diverse frazioni in cui è divisa e, all’esterno, contro le borghesie straniere. Ciò non toglie che, sempre per ragioni materiali e di classe, la borghesia sia in lotta, nello stesso tempo e costantemente, contro il proprio proletariato perché è interessata a sfruttarlo al massimo e il più a lungo possibile, e poi contro il proletariato di tutti gli altri paesi, soprattutto se i propri grandi gruppi e le proprie multinazionali sono presenti nei diversi paesi del mondo.

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QUALCHE CENNO STORICO

 

La democrazia americana è sempre stata fatta passare per quella più moderna, più rispondente alla “società evoluta”. In effetti è stata una democrazia impiantata ex novo nella ex colonia inglese con la guerra d’indipendenza contro la “madre-patria” Inghilterra, varando la prima Costituzione repubblicana nel marzo del 1789. Negli Stati Uniti d’America non c’è stata un’evoluzione delle società come in Europa; c’era una borghesia che proveniva direttamente dal vecchio Continente e che si è fatta spazio combattendo e massacrando i nativi americani. Da allora in poi, nel Nord America decollò il capitalismo più aggressivo che si potesse immaginare e che aveva, come primo obiettivo, la conquista di tutto il territorio che dall’Atlantico andava al Pacifico combattendo contro le potenze coloniali europee che ancora erano presenti (Inghilterra, Francia, Spagna) e annettendosi man mano i diversi territori, strappandoli anche ai nativi americani (i pellirosse) attraverso guerre sterminatrici: dalla guerra contro il Messico per conquistare la Califormia, il Nuovo Messico e il Texas, alla guerra civile (detta “di secessione”) in cui gli Stati del Nord (gli unionisti), nei quali si era attuato uno straordinario sviluppo industriale, sconfissero gli Stati del Sud (i confederati) e non tanto sotto la bandiera della lotta contro la schiavitù della popolazione nera, quanto sotto la bandiera degli interessi economici e politici ben radicati. Come secondo obiettivo, l’espansione della sua influenza e delle sue conquiste in quanto potenza imperialista, dalla guerra contro la Spagna (1898) per impossessarsi di Cuba, di Porto Rico, delle Filippine, alle successive “guerre delle banane” (1898-1934) – chiamate così per la difesa degli interessi economici e commerciali (banane, tabacco, zucchero di canna ecc.) soprattutto della United Fruit Company – per controllare direttamente Panama (il cui canale permetteva il passaggio dall’Atlantico al Pacifico e viceversa, evitando il periplo di Capo Horn) e Honduras, Nicaragua, Haiti, Repubblica Dominicana, quindi il Centroamerica e i Caraibi, fino a partecipare alla prima guerra mondiale nella quale gli Stati Uniti d’America dimostrarono di poter competere da una posizione di forza con qualsiasi altra potenza imperialista europea. Dalla prima alla seconda guerra imperialista mondiale, gli USA non potevano che raggiungere in massimo grado la loro grande capacità di intervenire su tutti i teatri di guerra contemporaneamente, aspetto che rafforzarono ulteriormente nel secondo dopoguerra per almeno altri quarant’anni, condividendo il controllo imperialistico sul mondo con una potenza militare simile, come la Russia, la quale, dal punto di vista economico, alla lunga, non poteva certo competere. E infatti, le crisi economiche e finanziarie che hanno scosso i paesi capitalisti più avanzati nei decenni che arrivano fino al 1990, hanno eroso anche la struttura economica russa – ritenuta in parte protetta per la sua “chiusura” nel cosiddetto “campo socialista” – fino a mettere in difficoltà la sua tenuta imperialistica su tutti i paesi che facevano parte del suo campo di influenza, nell’Est europeo come in Asia.  

Gli Stati Uniti non hanno avuto bisogno, perlomeno finora, di passare attraverso forme di governo dichiaratamente dittatoriali, come l’Italia e la Germania, per impedire al proletariato di percorrere fino in fondo il cammino verso la rivoluzione comunista e per imporre, come anche il Giappone, alle altre potenze le proprie rivendicazioni imperialiste: la democrazia americana, basata su una potenza industriale straordinaria, è stata più che sufficiente, e ciò dimostra ancor di più che la forma democratica del potere borghese, quanto a difesa degli interessi economici, politici e sociali della classe borghese, è più che funzionale a quella difesa; anzi, come da marxisti abbiamo sempre sostenuto, è in generale la forma di governo borghese più utile alla difesa degli interessi borghesi perché riesce a coinvolgere il proletariato, asservendolo più a lungo nel tempo.

D’altra parte, si tratta di una democrazia che non ha mai impedito la diffusione e il radicamento del razzismo nei confronti degli afroamericani, come in precedenza verso i pellirosse, o gli asiatici o gli ispanici; come non ha mai eliminato la violenza e l’assassinio nelle contese non solo economiche ma anche politiche. Imbevuta di un’autoproclamata “missione di civiltà” che aveva come teatro il mondo, prima contro gli oppressivi imperi centrali, poi contro il nazifascismo, poi contro il “comunismo” russo, poi contro il “terrorismo islamico” e ora contro il drago cinese, la democrazia americana è da sempre ben cosciente di svolgere un ruolo imperialistico di importanza mondiale. A differenza degli imperialismi europei o asiatici – che affondano le proprie radici in una lunga storia di evoluzione sociale, di guerre e di violentissimi e tragici passaggi da società precapitalistiche alla società capitalistica – la società americana, una volta distrutta completamente la società dei nativi pellirosse, ha fondato il suo straordinario sviluppo su radici esclusivamente capitalistiche, moderne, ed ha potuto contare su un territorio non solo vasto, ma costituito da molte foreste e da ampie praterie utili all’allevamento e da vasti terreni arativi, territorio anche ricco di materie prime di ogni genere. Queste caratteristiche per più di un secolo sono state alla base di una sorta di isolazionismo conquistato e difeso attraverso le guerre contro la potenza coloniale per eccellenza, l’Inghilterra, per non essere più colonia e per rendersi indipendente, ma anche per conquistare territori a oriente e a occidente negli scontri con la Spagna per la Florida e nella guerra contro il Messico per il Texas, la California e il Nuovo Messico, allargando le sue conquiste anche nei Caraibi come ricordato sopra. Ma questo isolazionismo durò più o meno fino allo scoppio della prima guerra mondiale, quando gli Stati Uniti decisero, alleandosi con l’Impero britannico, la Russia zarista, la Francia, l’Italia, il Giappone e le altre nazioni aderenti all’Intesa, di dichiarare guerra alla Germania nell’aprile 1917. Da quel momento in poi, gli Stati Uniti entrarono pesantemente nel novero delle potenze imperialiste che intendevano spartirsi il mercato mondiale e, quindi, le zone di influenza nei vari continenti.

Con la vittoria nella seconda guerra imperialistica, gli Stati Uniti sostituirono definitivamente il Regno Unito come paese più potente al mondo, in grado di intervenire grazie alla sua potenza marinara e aerea in qualsiasi angolo della terra, sia per difendere gli interessi del proprio capitalismo nazionale, sia per mantenere il continente americano, da Nord a Sud, come propria riserva, sia per espandere la propria influenza su paesi capitalisticamente e strategicamente importanti (in Europa, Medio ed Estremo Oriente) sia per contenere e contrastare economicamente, politicamente e militarmente l’altro polo imperialistico avversario, con sede a Mosca, con cui, d’altra parte, fu conveniente concordare di fatto un condominio imperialistico sul mondo intero. Che la fine della seconda guerra mondiale, con tutti i suoi orrori, non aprisse l’era della pace duratura era scritto nelle stesse ragioni che portarono alla guerra mondiale: la spartizione del mondo seguita immediatamente alla fine della guerra non soddisfaceva nessuna delle potenze imperialiste. Germania e Giappone, vinte e umiliate, occupate militarmente, erano comunque paesi a capitalismo avanzato e dalle ceneri della guerra potevano rinascere su basi economiche che facevano parte della loro storia, del loro potenziale e con proletariati d’industria già formati e perciò “capitale umano” prezioso nella ricostruzione postbellica. La loro “rinascita” economica era un fatto inevitabile dato che il capitalismo, nell’epoca della sovraproduzione, ha bisogno sì di distruggere per riprendere ex novo i cicli produttivi, ma ha bisogno anche di ricostruire e sviluppare mercati per piazzare le merci prodotte e per investire capitali in eccesso. E’ quel che è successo con gli Stati Uniti, finita la seconda guerra mondiale. Di fronte ad un’Europa semidistrutta (nei paesi di entrambi gli schieramenti bellici) e ridotta alla fame, gli Usa – che non avevano subito alcuna invasione e alcuna distruzione, ma che con la guerra avevano incrementato la propria potenza economica e militare – erano l’unico paese in grado di prestare denaro per ricostruire le attrezzature industriali e di inviare derrate alimentari per sfamare le popolazioni; i vecchi paesi colonizzatori venivano, così, a loro volta colonizzati, questa volta dal dollaro. Avvenne la stessa cosa col Giappone e con molti altri paesi, a partire dalla Corea del Sud...

Ma, soprattutto dalla prima grande crisi capitalistica mondiale del secondo dopoguerra (1973-1975), la superpotenza statunitense ha dovuto constatare che altre potenze imperialiste, oltre alla Russia, stavano erodendo il suo predominio mondiale fino ad allora incontrastato. La grande espansione capitalistica mondiale del secondo dopoguerra, che vide nella potenza economica e finanziaria degli Stati Uniti il suo vero motore, nella crisi di sovraproduzione del 1975 ha subito un grave colpo tanto da non poter più far conto, per riprendersi, sugli Stati Uniti come deus ex machina mondiale del capitalismo internazionale. Altre potenze, nel frattempo, si erano sviluppate: Germania e Giappone, soprattutto, che strappavano agli Stati Uniti diverse posizioni nel commercio internazionale. La famosa “locomotiva” che trascinava lo sviluppo economico e finanziario dei paesi avanzati non era più rappresentata dai soli Stati Uniti; la Germania lo era diventata per l’Europa occidentale e lo divenne, successivamente al crollo dell’Urss del 1989-91, anche per l’Europa orientale; il Giappone lo divenne soprattutto per le economie dei paesi del Pacifico. Nel frattempo, l’Urss diventava semplicemente Russia, riducendo la sua influenza imperialista all’area dei paesi caucasici, dell’Asia centrale e della penisola indocinese, non rinunciando alle incursioni nel Medio Oriente, in Siria in particolare, mentre via via perdeva la sua presa sulla Cina dove si stava sviluppando un capitalismo molto più aggressivo di quanto non fosse stato quello americano, tanto che nel giro degli ultimi trent’anni è diventata la potenza imperialista che non ha alcun timore nel contrastare sul mercato mondiale qualsiasi altra potenza, Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia, Regno Unito o Russia che sia, e che sta sviluppando una propria marina da guerra non solo per presidiare le proprie coste e il Mar Cinese, ma per allargare la sua azione a tutto l’Oceano Indiano fino alle coste orientali dell’Africa e, in prospettiva, all’Oceano Pacifico. Tale sviluppo non è certo una notizia rassicurante per l’imperialismo americano e nemmeno per l’imperialismo giapponese, e lo scontro, in futuro anche militare, con le ambizioni dell’imperialismo cinese da parte di uno e dell’altro imperialsimo avversario, se non di tutti e due alleatisi appositamente, non è affatto improbabile, costituendo in questo modo uno dei fattori potenzialmente scatenanti un terzo conflitto mondiale.

Sì, perché, nonostante le difficoltà in cui la crisi economica, e il suo aggravamento provocato dalla crisi sanitaria da Covid-19, hanno condotto gli Stati Uniti, le ragioni politiche, economiche e finanziarie imperialistiche americane non sono destinate ad attenuarsi, ma ad acuirsi. Ciò significa che, di fronte ad una concorrenza interimperialista sempre più spietata, le forze di ciascun paese imperialista, tanto più se tra i più potenti, per non soccombere – come sottolineava Trotsky –, sono destinate a decuplicarsi su tutti i piani, anche su quello militare. Questo è un fatto che anche il partito di classe proletario non dovrà sottovalutare, soprattutto quando – e i comunisti rivoluzionari lavorano per questo – i proletari dei paesi capitalisti avanzati muoveranno le loro forze sul terreno della lotta di classe e rivoluzionaria. 

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MALA TEMPORA PER GLI STATI UNITI D’AMERICA?

 

Le elezioni presidenziali americane sono cadute in un periodo in cui si intrecciano vari fattori di crisi. La pandemia da Covid-19 ha provocato, dal 29 febbraio 2020 (quando i contagiati registrati era 70 e i morti 1 solo) al 29 novembre 2020, nove mesi dopo, con ben 266.873 morti su 13.383.320 di contagiati. Il numero di disoccupati, per l’arresto delle attività economiche o la loro chiusura, che, a seconda dei dati ufficiali e ufficiosi (che tenevano conto anche della grande massa di lavoratori irregolari e clandestini, occupati soprattutto nella ristorazione, nel turismo e nei trasporti), variava nei diversi mesi tra i 22 e i 14 milioni; senza contare gli oltre 8 milioni di poveri, soprattutto afroamericani e latinos. Per avere un’idea degli sbalzi notevoli del tasso di disoccupazione in America nel 2020, bastano questi numeri (sempre ufficiali): gennaio 3,6%, aprile 14,7%, luglio 11,1%, novembre 6,7% (7). Ovvio che il governo di Washington si sia precipitato a tamponare la falla, stanziando ben 2.200 miliardi di dollari per sostenere le imprese “e le famiglie” – ma il 30% delle famiglie non ha mai ricevuto l’assegno. L'incertezza di vita per una parte non marginale del proletariato americano è certamente aumentata, e questa tendenza generale non si fermerà perché il capitalismo americano avrà bisogno di estorcere sempre più  pluslavoro - e quindi plusvalore - dal lavoro salariato, piegando il proletariato alle esigenze imperialiste attraverso la sempre più accentuata concorrenza tra proletari e la sempre più accentuata flessibilità del lavoro. Per il proletariato, le ragioni di lottare in difesa dei propri interessi elementari di esistenza aumentano sempre più e, nello stesso tempo, aumenta sempre più la necessità di rompere con la pace sociale e con la collaborazione fra le classi.

Nell’anno fiscale terminato a settembre 2020, il deficit del bilancio federale degli USA è stato del 16% rispetto al Pil, il più elevato dal 1946 (8); alla fine del 2009, anno della crisi finanziaria provocata dai subprime, il deficit del bilancio federale non aveva superato il 10%, per poi diminuire in modo sensibile negli anni seguenti. Naturalmente l’economia statunitense può permettersi un deficit di quelle proporzioni e anche più elevato; molti analisti nell’aprile scorso, quando i disoccupati ufficiali superavano i 22 milioni, avevano ipotizzato che la crisi poteva portare il tasso ufficiale di disoccupazione al 20%, ossia a circa 35 milioni di disoccupati. Gli Stati Uniti rappresentano il mercato più importante per gli scambi commerciali dei maggiori paesi del mondo, per i grandi gruppi finanziari internazionali e per gli altri Stati imperialisti; inoltre, cosa da non dimenticare mai, il dollaro USA funziona come moneta internazionale, per gli scambi commerciali, per gli investimenti finanziari e come “valuta-rifugio” che, in parte, ha un ruolo simile all’oro. L’economia americana è, in ogni caso, sufficientemente forte da attrarre irresistibilmente masse enormi di capitali e di risparmi privati di moltissimi paesi, tanto da proteggere il debito pubblico americano. I paesi che più di altri detengono il debito pubblico americano sono: Cina (1.180 mld), Giappone (1.030 mld), Brasile e Irlanda (300 mld ciascuno), Regno Unito (274 mld), Svizzera, Lussemburgo, Isole Cayman e Hong Kong (200 mld ciascuno). Può sorprendere che proprio con la Cina, che investe più di tutti sul debito americano, gli Stati Uniti abbiano iniziato un’importante guerra commerciale e che, quindi, potrebbero perdere, se non del tutto, in buona misura, il più importante sostegno al proprio debito pubblico. Ma la Cina investe sul debito pubblico americano solo i proventi che guadagna nelle esportazioni commerciali con gli Stati Uniti, perciò, se gli Stati Uniti tagliano in modo consistente, attraverso varie misure protezioniste, le importazioni commerciali dalla Cina rischiano di darsi la zappa sui piedi. La Cina, da parte sua, ha tutto sommato interesse a non seguire la Russia nel diminuire drasticamente l’acquisto dei titoli di stato americani (dai 153 mld che Mosca possedeva nel 2013 è passata  a soli 15 miliardi) (9), perché è comunque interessata a mantenere rapporti stretti col mercato statunitense che è uno dei più importanti al mondo, e con molti paesi (soprattutto per le materie prime) che usano il dollaro Usa come moneta internazionale di scambio; rimane comunque creditrice nei confronti degli Stati Uniti, cosa che le permetterebbe di utilizzare questa posizione come potenziale ricatto verso Washington se i rapporti sino-americani dovessero peggiorare in modo irreversibile.

Tutto questo i presidenti americani lo sanno da tempo, e lo sa perfettamente anche Biden che sta per sostituire Trump alla Casa Bianca. Ed è ben consapevole che negli ultimi vent’anni sia l’euro che lo yuan renminbi sono diventati anch’essi monete “internazionali”, in mercati più ristretti, certo, ma in ogni caso hanno tolto al dollaro la totale supremazia mondiale detenuta per molti decenni dalla fine della seconda guerra imperialista. Ciò non vuol dire che il dollaro statunitense sia destinato a declinare progressivamente come moneta internazionale; non è successo per la sterlina, quando il Regno Unito ha dovuto cedere il proprio dominio nel mondo sotto la pressione della concorrenza di altri centri imperialistici, non succederà nemmeno per il dollaro. Ma la guerra tra le monete non è che l’espressione monetaria della guerra economica e commerciale tra le potenze imperialiste, e questa guerra è destinata a modificare i rapporti di forza tra le potenze imperialiste che, oggi, non fanno più capo a due soli poli – come gli Stati Uniti e l’Urss dopo la fine della seconda guerra mondiale – che attraevano nel proprio campo il resto dei paesi del mondo, sottomettendoli ai propri interessi di dominio, ma a poli diversificati che, nei reciproci rapporti, sono in grado di contrastare seriamente la desiderata supremazia delle superpotenze attuali, gli Stati Uniti d’America e la Cina.

Oltre alla disastrosa gestione della crisi sanitaria da Covid-19, alla guerra “fredda” iniziata contro la Cina, alle sanzioni contro la Russia, all’irrigidimento delle trattative con l’Iran sul nucleare avviate da Barak Obama, alla ruggine non episodica con l’Unione Europea e con la Germania in particolare, all’uscita dall’Accordo di Parigi sul riscaldamento climatico e sulla riduzione delle emissioni di CO2,, alle tensioni nel “giardino di casa” con il Venezuela e con Cuba, al sempre terremotato Medio Oriente, ai difficili rapporti con la Turchia, per non parlare della questione “razziale” e degli “immigrati” che restano costantemente questioni politiche irrisolte, che cosa lascia Trump a Biden?

Secondo molti commentatori della politica americana, la gestione trumpiana del potere in America ha colpito in modo serio la democrazia, intesa non solo come il metodo più alto della collaborazione ragionata e pacifica di tutte le componenti della nazione per il benessere sociale generale, ma anche come sistema autoregolatore dei contrasti sociali generati dai molteplici interessi presenti nella società. Ma la realtà della società capitalistica americana dimostra nei fatti che la lotta tra le frazioni borghesi, nello scontro di interessi economico-finanziari e politici che non si accomunano per il solo fatto di essere tutti capitalistici, è una lotta permanente e che la suddivisione tra repubblicani e democratici (tra i quali spiccano di tanto in tanto i cosiddetti “socialisti”) risponde soltanto alla spartizione del potere politico, dei privilegi di casta e dei centri di potere economico-finanziario che sono, in definitiva, il vero motore della politica borghese, non solo in America, ma nel mondo.

L’andamento di queste ultime elezioni presidenziali ha mostrato che questa lotta si è acutizzata tanto da stracciare i molti veli che costituiscono la copertura democratica del potere borghese. La democrazia borghese è un’illusione per le classi lavoratrici che, di volta in volta, vengono tirate in ballo per rafforzare l’uno o l’altro dei partiti contendenti, ma per la classe borghese dominante, pur divisa in frazioni contrastanti, è un meccanismo utile quando gli interessi economico-finanziari delle frazioni borghesi vincenti vengono favoriti e rafforzati, ma fastidioso quando quegli interessi vengono attaccati dalle frazioni borghesi avversarie. E allora scatta la polemica tra coloro che vogliono salvare l’aspetto idealistico della democrazia – che, in ultima analisi, consisterebbe nel fatto che ognuno abbia la possibilità di emergere rispetto a tutti gli altri, di salire nella scala sociale e di arricchirsi – e coloro che vogliono che la democrazia serva per il benessere prima di tutto dell’economia imprenditoriale e finanziaria, intesa come unico e vero motore del benessere sociale. In una società complessa come quella di un paese capitalisticamente molto avanzato – come gli Stati Uniti d’America – si intrecciano spinte di ogni genere da parte di forze interessate a mettere le mani su una parte almeno della ricchezza prodotta: più si produce ricchezza, più si generano gruppi d’interesse in difesa della loro parziale fetta di potere, più si acuisce la concorrenza tra di loro, ed è su questa base che si scatena la lotta tra le diverse frazioni borghesi. Non è solo il pesce grosso che mangia il pesce piccolo, sono tanti pesci grossi che si contendono il banchetto dei pesci piccoli, fino a trasformare il banchetto in una guerra tra pesci grossi e nella quale i pesci piccoli cercano di accaparrarsi le bricciole che cadono da quel grande banchetto. L’immagine che la borghesia ha della società è proprio questa: un banchetto sempre più grande, sempre più ricco nel quale affondare i propri artigli e i propri denti. La lotta politica che Trump e Biden si stanno facendo da mesi non è che la lotta dei gruppi economico-finanziari che li sostengono per assicurarsi la parte più consistente di quel banchetto; e non è sostanzialmente nulla di diverso da quanto è già avvenuto in tutte le elezioni presidenziali precedenti.

Lo scorso 4 novembre doveva essere il giorno in cui negli Stati Uniti, e nel mondo, si sarebbe dovuto sapere, tra i due candidati per la presidenza Trump o Biden, qual era il vincitore. Non è stato così. Per settimane i dati ufficiali e definitivi non sono stati certi.

Per la prima volta in America i votanti sono stati più di 150 milioni, e per la prima volta il voto per posta ha raggiunto numeri mai visti, ben 91 milioni. E’ sui voti per posta che Trump ha concentrato le sue accuse di brogli che avrebbero favorito l’avversario. La regola delle elezioni americane prevede che vengano conteggiati prima i voti  degli elettori fisicamente presenti ai seggi e, poi, i voti giunti per posta. I tempi dello scrutinio variano da Stato a Stato, ma il risultato finale non dovrebbe superare le due-tre settimane dalla data del voto. Con i ricorsi fatti da Trump nei vari Stati decisivi per accaparrarsi i “grandi elettori”, e quindi coi riconteggi, i tempi si sono allungati. Ed è così che, se il ricorso finale sarà alla Corte Suprema, si giungerebbe anche a fine anno senza una certificazione definitiva. Va detto che Trump, fin dall’inizio della sua campagna elettorale, aveva dichiarato che la vittoria elettorale del suo avversario sarebbe stata raggiunta solo attraverso i brogli; da affarista qual è, allenato ad usare qualsiasi colpo basso, dichiarava, prima ancora del voto, che la sua vittoria sarebbe stata limpida, mentre quella dell’avversario sarebbe stata torbida.

Mentre scriviamo la vittoria di Biden appare inoppugnabile, visto che, nonostante le azioni legali per il riconteggio dei voti lanciate da Trump e dal suo clan, perfino i governatori degli Stati “decisivi” per quanto riguarda il numero di grandi elettori  (Michigan, Pennsylvania, Arizona, Georgia, Nevada e Wisconsin), stanno confermando la vittoria di Biden con un vantaggio di 72 grandi elettori. La lotta ingaggiata dal tracotante Trump contro il falso mite Biden è una dimostrazione ulteriore che, soprattutto in tempi di acuta crisi, si accentuano le frizioni e i contrasti anche molto violenti, tra le diverse frazioni borghesi. Resta il fatto che questo scontro di interessi ha raggiunto elevati punti di tensione, per cui la gestione del potere da parte della nuova “squadra” presidenziale capitanata da Biden sarà molto più faticosa di quanto lo sia stata al tempo della vittoria di Barak Obama, primo presidente nero in un’America che non aveva mai osato scalfire la tradizione presidenziale bianca...

Biden, dopo che Arizona, Ohio e Georgia avevano terminato la certificazione, dando a lui la vittoria e ancor prima del responso per la Pennsylvania ed altri Stati minori, avendo comunque superato i 270 grandi elettori necessari per decretare la sua vittoria elettorale, iniziava a costruire la sua squadra di governo. Ma non bisogna farsi confondere dalle sue mosse, che potrebbero apparire come un andare incontro a rivendicazioni di carattere “etnico”: un presidente bianco che si attornia di figure di spicco di origini asiatiche, ispaniche o nere. La prima è stata quella di designare alla vicepresidenza Kamala Harris (madre indoamericana e padre giamaicano), poi ha designato il generale Lloyd J. Austin, afroamericano, a capo del Pentagono, un ispanico, Alejandro Mayorkas, al comando della polizia di frontiera e, scelta ancor più importante, la taiwanese-americana Katherine Tai quale responsabile della Trade Representative per i negoziati sul commercio estero. Ciò, in tempi di scontro commerciale con la Cina, lascia intendere che la linea che seguirà Biden – visto che la Tai, dal 2007 al 2014, è stata la legale degli USA nelle cause contro la Cina davanti al tribunale del commercio internazionale della World Trade Organization – non si discosterà molto da quella fin qui seguita da Trump.

In pratica, salvo qualche modifica più di facciata che di sostanza, l’atteggiamento della presidenza Biden in politica  estera sarà una continuazione di quanto era già avvenuto sotto Trump; cambieranno i modi, che da aggressivi e improvvisati, caratteristici del trumpismo, diventeranno più moderati e di “larghe intese”, come direbbero i politicanti italiani, ma l’America First! di Trump rimarrà il vessillo anche di Biden, perché è il vessillo dei grandi gruppi economico-finanziari della borghesia americana. Presentando ai media le prime nomine alla sicurezza del paese e della diplomazia, Biden infatti aveva detto: «Questa squadra alle mie spalle garantirà la sicurezza del nostro Paese e del nostro popolo, è una squadra che rispecchia il fatto che l’America è tornata. Pronta a guidare il mondo, non a ritirarsi» (10).

Da tempo Washington ha dovuto registrare un cambiamento importante nei rapporti tra le potenze imperialiste che, per come si sono modificati i rapporti di forza interimperialistici, inevitabilmente tendono ad un nuovo ordine mondiale che potrà vedere la luce solo attraverso una terza guerra mondiale, se la rivoluzione proletaria non riuscirà a fermarla prima.

Il baricentro dei rapporti di forza si sta spostando sempre più dall'Atlantico al Pacifico, non per "scelta" di qualcuno, ma a causa della crescente forza di ulteriori centri imperialistici, Cina e India, che si aggiungono al già radicato imperialismo giapponese. Ciò non significa che le potenze europee, che sono state l'altro polo del baricentro imperialistico atlantico, si siano ridotte a semplici comprimari di Washington. I rapporti commerciali con la Cina e con l'India, già in essere da tempo per la Germania e il Regno Unito, si stanno via via allargando anche ad altri paesi, ma più per l'iniziativa di Pechino e delle sue nuove "vie della seta" che non dei paesi europei, più indirizzati a commerciare tra di loro e con gli Stati Uniti.

La Cina, pur avendo un mercato interno molto meno sviluppato del Giappone o degli Stati Uniti, è diventata uno dei paesi più importanti dal punto di vista economico, classificandosi formalmente, a livello di Pil, al secondo posto (con 13.092.705 mln $ US, dati del 2019) dopo gli Stati Uniti (20.510.604 mln $ US), scavalcando il Giappone (5.070.269 mln $ US) che risulta terzo. Ma fa parte di un'area, chiamata Indo-Pacifico, nella quale agiscono altri paesi, come l'India, la Corea del Sud, l'Indonesia che negli ultimi vent'anni hanno fatto passi da gigante nello sviluppo industriale. Se sommiamo i Pil di due soli paesi, Cina e Giappone, la cifra che risulta è vicina a quella dell'Unione Europea, cioè di 27 Stati (18.162.974 contro 18.495.349, in mln $ US); se alla Cina e al Giappone si aggiunge l'India, questo trio supera il Pil degli USA (20.852.966 contro 20.510.604, in mln $ US). Ma nella stessa area sono presenti altri paesi capitalisti industrializzati, come la Corea del Sud, l'Indonesia, Taiwan, Singapore, e paesi che si stanno industrializzamdo rapidamente, come la Thailandia, la Malaysia, le Filippine, il Pakistan, il Viet Nam, che a loro volta rappresentano un potenziale mercato in crescita, bisognosi come sono di tecnologie avanzate, di infrastrutture, di potenziare settori economici arretrati come quello dei trasporti, e perciò un'area capitalisticamente determinante, aldilà dello schieramento politico di oggi o di domani dei singoli Stati. Si sa che il Pil non è in sé l'unico metro che misura la reale forza economica di un paese, ma dà un'idea sufficiente della potenza e, soprattutto, della potenzialità economica e militare di ciascun paese. A questo dato, per avere un quadro del peso di ciascuno Stato nei rapporti economici, finanziari e politici con gli altri Stati, è ovviamente necessario aggiungere la storia reale di ogni capitalismo nazionale, la sua aggressività sul mercato internazionale, le sue ambizioni imperialistiche e le effettive o potenziali alleanze a difesa dei rispettivi interessi nazionali e imperialistici. L'evoluzione della nuova "guerra fredda" tra Stati Uniti e Cina, come l'evoluzione dei rapporti tra Cina, Giappone, India e gli altri paesi dell'area Indo-Pacifico è stata caratterizzata a novembre di quest'anno dalla nuova iniziativa fortemente voluta dalla Cina - il Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP) -  nei confronti dei 10 paesi dell'Asean (11), coi quali si è stabilito un accordo commerciale di cosiddetto "libero scambio" (con l'abolizione dei dazi per il 90%, investimenti, commercio elettronico, appalti pubblici), e ai quali, oltre la Cina, si sono aggiunti Giappone, Corea del Sud, Nuova Zelanda e Australia. L'India, coinvolta nelle trattative da 4 anni, al momento non ha aderito, per timore soprattutto della concorrenza cinese che potrebbe rovinare molte medie e piccole aziende indiane.

Pechino ha, dunque, approfittato della politica fortemente protezionista di Trump che, dopo il ritiro degli USA dal trattato di libero scambio con i paesi dell'area (il TPP), ha voluto differenziarsi dalla politica di Obama con una politica estera in funzione soprattutto anticinese. Questo non vuol certo dire che Giappone e Corea del Sud, grandi alleati degli USA, stiano cambiando alleanza; ma la grande area Indo-Pacifico sta diventando troppo importante per le loro economie perché si pieghino senza lottare agli interessi imperialistici americani. Perciò l'Amministrazione Biden dovrà pagare un prezzo più alto con loro, come con l'India e l'Australia, per non ridurre troppo l'egemonia americana nell'area, ed è in vista di questo obiettivo che ha annunciato di voler organizzare entro 100 giorni dal suo insediamento ufficiale un Globa Summit for Democracy (una specie di Lega internazionale delle democrazie) con i paesi del G-7, l'India, la Corea del Sud e l'Australia (12).

Molte altre sono le spine nel fianco degli Stati Uniti. Solo per citarne alcune: nell'America Latina, Venezuela e Cuba; in Medio Oriente, Iran, Iraq, Siria, e l'imprevedibile Turchia; in Europa, il problema legato al finanziamento della Nato e una Germania che mal sopporta gli attacchi alle sue esportazioni negli USA e le sanzioni alla Russia che non le lasciano le mani libere nei rapporti commerciali con Mosca.

Ma questi sono tipici problemi di un grande paese imperialista come gli Stati Uniti, e se li seguiamo è per riconoscere nelle loro difficoltà e nel loro sviluppo quelle crepe che possono annunciare future crisi economiche, politiche, sociali, e che potrebbero indurre alla lotta i proletari americani, e i proletari degli altri paesi, sul terreno finalmente di classe.

E' in vista di questo preciso sviluppo della lotta di classe che i comunisti rivoluzionari sono chiamati a lavorare, in qualsiasi paese del mondo siano presenti. Data la lunga opera controrivoluzionaria delle forze opportuniste e traditrici della causa proletaria e comunista, è importante che il programma comunista viva, senza essere stato corrotto e stravolto, anche se in un piccolo gruppo o addirittura in uno scritto dimenticato –  come ebbe a dire Amadeo Bordiga in un "filo del tempo" del 1953 (13) – perché i fattori che generano la lotta di classe del proletariato sono innanzitutto materiali e storici e determinano quella straordinaria combinazione positiva, che si chiama rivoluzione proletaria, quando la spinta sociale del proletariato a lottare contro tutto ciò che rappresenta l'ordine costituito incontra il partito di classe, la sua guida politica per eccellenza perché, in possesso della teoria rivoluzionaria – cioè del marxismo – è  in grado di condurre la lotta del proletariato a livello internazionale con criteri organizzativi e tattici coerenti con le finalità storiche della lotta rivoluzionaria. E queste finalità sono sintetizzate in un percorso storico che va dall'abbattimento dello Stato borghese all'instaurazione della dittatura del proletariato il cui esercizio sarà necessariamente in mano al partito di classe perché solo esso, se non devia dalla rotta rivoluzionaria, assicura l'unità del movimento a livello internazionale in qualsiasi situazione la classe proletaria si trovi nello scontro con la classe borghese in ogni paese. Solo su questa rotta la lotta del proletariato potrà essere definita lotta per l'emancipazione proletaria, l'unica che può condurre alla società senza classi.

 


 

(1) I due grandi partiti del Nord America erano (e sono) il partito democratico e quello repubblicano.                     

(2) F. Engels, Introduzione a “La guerra civile in Francia” di Marx – 18 marzo 1891 (Edizioni International, Savona –La Vecchia Talpa, Napoli, 1971, pp. 91-92).

(3) Lenin, Stato e rivoluzione, Editori Riuniti, Roma 1981, p. 109.

(4) Lenin, Lettera agli operai d’Europa e d’America, 21 gennaio 1919, Opere, vol. 28, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 437.

(5) Cfr. https://www. lavocedellelotte.it/ 2020/04/01 /amazon-licenziato- uno-degli- organizzatori-dello-  scioper-a-new-york/

(6) Cfr https://www.theguardian.com/technology/2019/oct/17/amazon-warehouse-worker-deaths

(7) Cfr. https://www.soldionline.it/notizie/macroeconomia/occupazione-usa-2020?cp=1

(8) Cfr. https://www.truenumbers.it/debito-usa/

(9) Cfr. 5 settembre 2020, https : //  it.sputniknews.com/opinioni/ 202009059499956 - due - cose - sono - infinite-luniverso-ed-il-debito-pubblico-americano/

(10) Cfr. 25 novembre 2020 - https://stream24.ilsole24ore.com/video/mondo/usa-biden-non-sara-terzo-mandato-obama-e-apre-repubblicani/ADTEAU4

(11) I dieci paesi membri dell'Asean sono Indonesia, Thailandia, Malaysia, Singapore, Filippine, Viet Nam, Myanmar, Cambogia, Laos, Brunei.

(12) Cfr. startmag.it/mondo/ecco-come-la-cina-tiene-a-bada-gli-usa-sul-commercio. 30 novembre 2020.

(13) Cfr. il Filo del Tempo: Danza di fantocci, dalla coscienza alla cultura, "il programma comunista" n. 12 del 1953.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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