Russia-Ucraina: crisi di guerra, carneficina senza fine

(«il comunista»; N° 178 ; Giugno-Agosto 2023)

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A marzo del 2022, qualche settimana dopo l’invasione russa e lo scoppio della guerra in Ucraina, scrivevamo che né Washington, né Londra, né Parigi, Berlino, né Roma né alcun altro paese dell’Unione Europea intendevano «morire per l’Ucraina», mentre la Cina stava a guardare (1). Che la guerra fra Russia e Ucraina fosse un’ipotesi tutt’altro che lontana lo diceva già l’annessione della Crimea da parte della Russia nel 2014; e certamente le cancellerie di Washington e di Londra, i maggiori sostenitori dell’adesione dell’Ucraina alla Nato, avevano già da tempo preparato le mosse, che in seguito hanno messo in atto, per affrontare una situazione del genere e per trasformare l’Ucraina in un avamposto strategico della Nato, utile per sbarrare il passo a Mosca verso il Mediterraneo. La tendenza di Kiev a correre in braccio alla Nato e all’Unione Europea, nel tentativo di svincolarsi dalla dipendenza storica dalla Russia, poteva servire per agganciare Kiev in modo stabile agli interessi imperialistici occidentali. Ma, da sola, l’Ucraina non sarebbe mai stata in grado di sganciarsi dalla Russia; una parte della sua popolazione e del territorio «nazionale» erano ancora troppo russi – lingua, cultura, tradizioni – perché l’Ucraina potesse dimostrare a se stessa e al mondo di essere una nazione compatta, unita, in grado di sollevarsi come «un sol uomo contro l’invasore».

 

UNO SGUARDO AL PASSATO

 

In campo non c’era soltanto la presenza ingombrante e oppressiva del bestione imperialistico russo; c’era la storia di uno sviluppo storico plurisecolare di una popolazione che dette i natali alla stessa Russia, pur differenziandosi, ma con intrecci fittissimi di carattere etnico, religioso, linguistico, culturale, politico, sociale. Intrecci che, a loro volta, si mescolarono nel corso dei secoli attraverso guerre, invasioni, divisioni e annessioni, con svedesi, polacchi, ugro-finnici, turchi, cosacchi, mongoli, slavi.

In queste vaste aree in cui lo sviluppo umano si è servito delle guerre e delle relative conquiste da parte dei vincitori temporanei, trovare il ceppo originale da cui si è poi sviluppato il popolo «ucraino» è un rebus inestricabile, come, d’altra parte, in molte aree del mondo. Bisogna arrivare all’impero russo, verso la fine del Settecento, per identificare un territorio chiamato Ucraina, diviso tra Polonia, Russia e Austria, e poi alla prima guerra mondiale e alla rivoluzione bolscevica quando quel territorio si divise in tre repubbliche (la parte ‘occidentale (Leopoli) ex impero asburgico, come Repubblica Nazionale ucraina occidentale; la parte centrale (Kiev) sotto influenza diretta dell’impero germanico e poi centro dell’Armata Bianca, come Repubblica Popolare ucraina; e la parte orientale e meridionale (Charkov) diventata Repubblica Socialista Sovietica ucraina. Finita la guerra, la Galizia e la Volinia andarono alla Polonia, il resto all’URSS e le aree che erano state sotto l’impero asburgico furono divise tra Polonia, Cecoslovacchia e Romania, aree che dopo la seconda guerra imperialistica mondiale finirono sotto le grinfie dell’URSS di Stalin. Va detto che solo la dittatura proletaria guidata da Lenin, alla popolazione ucraina, vessata e oppressa dallo zarismo, come dai polacchi, dagli austroungarici e dai tedeschi, garantì e attuò l’autodeterminazione, ma nel quadro della lotta senza tregua all’oppressione nazionale e, contemporaneamente, ai poteri autocratici e borghesi sulla linea della lotta rivoluzionaria comunista internazionale. Autodeterminazione dei popoli e lotta rivoluzionaria comunista internazionale che con Stalin vennero del tutto seppellite.

Già sotto l’impero zarista l’Ucraina divenne il granaio d’Europa e Odessa il porto d’imbarco del grano e la città ucraina più importante. Sotto Stalin, la spinta a fare dell’URSS una potenza industriale – che coincideva con la collettivizzazione forzata della terra che in Ucraina fece milioni di morti per fame – trasformò l’Ucraina, grazie alle riserve minerarie del Donbass, in un paese capitalistico moderno. Ma lo sviluppo capitalistico, in Russia come in Ucraina, richiedeva non solo un proletariato sottomesso alla durissima legge del lavoro salariato e ad uno sfruttamento tanto più feroce quanto più erano arretrate economicamente le basi di partenza, ma anche un potere all’altezza a quel compito storico.

Ne mise le basi la dittatura proletaria guidata da Lenin, anche attraverso la Nep, in attesa di una rivoluzione proletaria e comunista in Europa che, purtroppo, non venne, ma che avrebbe supportato, grazie alle economie avanzate europee, lo sviluppo economico in Russia sotto il segno dell’unica lotta che può chiamarsi lotta per il socialismo, cioè quella anticapitalistica. Stalin, e il potere che rappresentò, fu controrivoluzionario non nel senso antiborghese come lo erano gli imperi europei di Germania, Austria-Ungheria e Russia, ma nel senso proletario e comunista. Fu perciò un grande rappresentante della rivoluzione borghese – storicamente necessaria e all’ordine del giorno in Russia come in molte altre parti del mondo – e, quindi, di un potere borghese che aveva davanti a sé, visto che lo zarismo l’aveva già abbattuto la rivoluzione proletaria del 1917, il compito di piegare proletari e contadini alle esigenze del capitalismo nazionale e della sua corsa ad accorciare il ritardo, anche in termini di potenza imperialistica, nei confronti delle altre grandi potenze mondiali, in Europa, nelle Americhe, in Asia.

La borghesia russa era stata vinta e sottomessa al potere dittatoriale del proletariato spogliata di ogni potere sia politico che economico; ma i borghesi, terrorizzati dalla rivoluzione fuggirono in gran parte nei paesi dell’Europa occidentale, in Francia soprattutto. Ma non è l’individuo borghese che si inventa il modo di produzione capitalistico; è il modo di produzione capitalistico nel suo svilupparsi che produce merci e capitali e che genera coloro che si appropriano privatamente le merci e i capitali, appunto i capitalisti. E così, anche in Russia, all’epoca di Stalin, sebbene non si potessero identificare i grandi capitalisti come in America, in Inghilterra, in Francia, in Germania perché le grandi industrie erano statalizzate, è stato lo stesso modo di produzione capitalistico, necessario allo sviluppo economico dell’arretrata Russia, ma non più controllato rigidamente dal potere dittatoriale proletario e comunista, a rigenerare la borghesia come classe sociale. Classe sociale composta: 1) dai rappresentanti del potere politico ormai votati allo sviluppo del capitalismo sotto le false spoglie dello sviluppo del «socialismo» e alla lotta contro il proletariato rivoluzionario e contro tutti gli ostacoli che impedivano l’industrializzazione del paese e il suo decorso violento; 2) dai piccoli proprietari e produttori agrari e urbani, dai commercianti e dagli usurai. Una classe che torna in auge negli anni Trenta e si presenta, sia nella Federazione russa che in tutte le Repubbliche federate, quindi anche in Ucraina, con tutta la sua aggressività e spietatezza avendo come obiettivo quello di piegare le masse proletarie e il vasto contadiname alle urgenti esigenze dello sviluppo accelerato del capitalismo nell’URSS. Ma, alla pari di qualsiasi classe borghese dell’Europa e del mondo, la borghesia russa non smentisce l’affermazione contenuta nel Manifesto di Marx-Engels: è sempre in lotta, da principio contro l’aristocrazia, più tardi contro le parti della stessa borghesia i cui interessi vengono a contrasto col progresso dell’industria, e sempre contro la borghesia di tutti i paesi stranieri. Più si sviluppa l’industria, più si sviluppano il commercio e la borghesia di un paese, e più tale borghesia si va a scontrare con le borghesie degli altri paesi in una lotta di concorrenza che, con l’andare del tempo, diventa via via più spietata, più internazionale, più imperialista.

Con la seconda guerra imperialista mondiale la Russia – che si presenta al mondo ancora come URSS, ma con la caratteristica, cara allo zarismo, dell’oppressione dei popoli che le vicende storiche le hanno permesso di sottomettere, e con un potere apertamente dittatoriale come lo è stato il fascismo e, ancor più, il nazismo – torna sulla scena internazionale come un imperialismo protagonista della stessa guerra mondiale, pronto a spartirsi il mondo con gli altri «vincitori». Un imperialismo che per cinquant’anni, dall’inizio della guerra nel 1939, ha condiviso con il più potente imperialismo d’America le sorti sia dell’Europa che del mondo. In Europa, una volta battuti gli imperialismi concorrenti tedesco e giapponese, e concordata con Washington, Londra e Parigi, la divisione delle zone d’influenza e di dominio militare, la lotta tra le borghesie imperialiste è continuata in tutti gli altri continenti.

Fino a quando? Fino a quando le dinamiche economiche del capitalismo e della concorrenza mondiale non hanno fatto saltare gli equilibri in Europa andando a colpire innanzitutto il capitalismo che si è dimostrato «più debole», già scosso pesantemente dalla crisi del 1975 e dalla successiva del 1987, e cioè quello russo che, nonostante il suo accelerato sviluppo – in sessant’anni ha raggiunto un impensabile livello industriale e imperialistico – ha dovuto cedere la grandissima parte delle sue aree di influenza in Europa ai concorrenti europei e americano (2) e, nel continente asiatico, ha dovuto accettare il passaggio all’indipendenza da parte delle ex Repubbliche sovietiche che facevano parte della vecchia URSS. Tutto ciò si stava svolgendo in una fase storica in cui ad Oriente stava crescendo, imponendosi nel mercato mondiale con sempre maggior forza, un’altra «superpotenza», la Cina (3), mentre all’orizzonte avanzava, seppur con maggior lentezza della Cina, un altro grande paese, l’India.

 

LA RUSSIA ASSEDIATA DAGLI IMPERIALISMI CONCORRENTI

    

Ma è la Russia europea la parte dominante, da sempre, su tutto il suo vasto territorio euroasiatico. Ed è in Europa, storicamente, che si decidono i destini della Russia. Dopo lo sfascio dell’URSS, e la perdita dei paesi satelliti dell’Europa dell’Est, a Mosca non poteva bastare avere dei buoni rapporti con le ex Repubbliche sovietiche asiatiche. Le sorti del mercato mondiale, e quindi di ciascun paese imperialista, certamente non dipendono più soltanto dai paesi capitalisti d’Europa come nell’Ottocento e nella prima metà del Novecento. Stati Uniti e Giappone, prima, e Cina, poi, si sono aggiunti come protagonisti sia della potente espansione capitalistica, sia delle crisi a cui il capitalismo mondiale va inevitabilmente incontro a cicli sempre più ravvicinati; crisi commerciali e industriali alle quali si sono aggiunte, nella fase imperialista dello sviluppo del capitalismo, le crisi finanziarie. Crisi alle quali ormai non poteva sfuggire più nessuno, nemmeno la Russia che, nei primi decenni seguiti alla seconda guerra mondiale riusciva a proteggersi dagli scossoni più violenti delle crisi grazie alla cosiddetta «cortina di ferro» all’interno della quale poteva succhiare sangue proletario e plusvalore, oltre che dal proprio proletariato nazionale, anche da quello del paesi satelliti sui quali, oltretutto, scaricava gli effetti delle crisi internazionali che andavano comunque a toccare anche l’economia russa, soprattutto nelle esportazioni delle materie prime (come il petrolio).

Nella fase imperialista del capitalismo, il capitalismo russo deve seguire la regola seguita da tutte le altre potenze imperialistiche, quella della sopraffazione e del dominio sui paesi più deboli, nonostante la notevole riduzione dell’area della sua influenza dopo il crollo dell’URSS. Rimane sempre una forte produttrice di petrolio, di gas naturale, di grano e di armi, ed è sempre la potenza nucleare e militare che compete, su questo piano, con gli Stati Uniti d’America. Un imperialismo che non può permettere ai concorrenti – in questo caso soprattutto agli USA e ai paesi della Nato – di imprigionarlo all’interno dei confini statali ridisegnati nel 1992. Se, in un certo senso, può ancora contare su un interesse antiamericano condiviso con la Cina – la cui preoccupazione più urgente si è concentrata sul Pacifico – non è però disposto a vedersi minacciato alle porte di casa. Soltanto una forza militare molto più potente, e molto più aggressiva della sua, combinando l’attacco da Ovest e da Est, potrebbe piegare la Russia agli interessi di Washington e occidentali. E’ già successo in passato, alla Germania, potenza imperialista di primissimo livello in grado, in pochi anni di guerra, di sottomettere l’Europa continentale, ma che ha dovuto cedere agli imperialisti concorrenti perché attaccata militarmente da Ovest e da Est, e infine vinta.

 

UCRAINA CONTESA TRA NATO E RUSSIA

 

L’operazione militare speciale, come Putin ha definito l’invasione dell’Ucraina, non è stata soltanto una risposta diretta al tentativo degli USA e della Nato di aggregare nelle proprie file anche l’Ucraina, dopo aver fatto man bassa dei paesi dell’Europa dell’Est, un tempo satelliti di Mosca e da anni satelliti di Washington. E’ stata anche una mossa per fermare, almeno temporaneamente, il disegno anglo-americano di togliere alla Russia, in modo consistente, le sue propaggini politiche e i suoi sbocchi economici e finanziari in Europa, con il contemporaneo obiettivo di piegare ancor più l’Europa (leggi Germania, soprattutto, ma anche Francia) agli interessi atlantici americani (per i quali Londra svolge il ruolo del facilitatore strategico). L’Ucraina, negli ultimi trent’anni sta diventando, in un certo senso, la Polonia del XXI secolo, il paese nel quale si vanno concentrando i più gravi contrasti emersi dalla lotta interimperialistica in Europa.

Come per la Polonia del Novecento, il destino che i più forti imperialismi hanno riservato all’Ucraina è quello di un vaso di coccio tra vasi di ferro; un paese che la storia ha piazzato in una posizione tale per cui ogni suo concorrente-avversario, soprattutto se confinante, se non può averlo tutto per sé, ne vuole almeno un pezzo. Già nel 1922, con la «pace di Riga», la Polonia si impossessò della Galizia e della Volinia ucraine, mentre il resto rimase «Ucraina» ed entrò a far parte dell’URSS. Ma la popolazione ucraina abitava anche i territori dominati dall’Impero asburgico che, persa la guerra, vide quei territori suddivisi tra Polonia (Leopoli e altre province vicine), Cecoslovacchia (la Transcarpazia) e Romania (provincia di Èernivci), tutti territori che, alla fine della seconda guerra mondiale, tornarono all’Ucraina e quindi all’URSS.

Nel 1954, nell’anniversario del «Trattato di Perejaslav» (fra i cosacchi e lo zar Alessio I alla fine della guerra russo-polacca, 1664-1667), Kruscev fece un gesto pacificatore trasferendo la Crimea (prevalentemente abitata da cosacchi) all’Ucraina che comunque faceva parte dell’URSS. Quel trattato, per gli ucraini filorussi ha significato l’unione dei popoli slavi, russi, ucraini e bielorussi, ma per i nazionalisti ha significato l’inizio del dominio russo sull’Ucraina di cui sbarazzarsi.

La propaganda di Putin e quella di Zelensky si basano su questi due corni del problema: da un lato, un’unione di popoli che sotto il capitalismo significa semplicemente sottometterli alle leggi del profitto capitalistico sotto la sferza di Mosca; dall’altro, un’indipendenza dal dominio di Mosca per unificare la popolazione nei confini un tempo concordati tra le due borghesie, e rivendicati oggi come intoccabili e a disposizione soltanto della borghesia nazionale che fa capo a Kiev. Come sempre, la questione della «sovranità nazionale» non è che il risultato di un rapporto di forze.

La borghesia ucraina che fa capo a Kiev, e oggi a Zelensky, ha tentato, finché ha potuto, di controllare con ogni mezzo, compresa la repressione più violenta, le aree russofone – Crimea e province di Lugans’k e di Donetsk –, ma di fronte all’invasione delle truppe di Mosca – peraltro minacciata da tempo e prevista dagli stessi anglo-americani – il nazionalismo ucraino non poteva che chiedere aiuto agli imperialisti concorrenti di Mosca, agli USA e all’Unione Europea alla quale tentava da tempo di affiliarsi. Washington, Londra, Bruxelles non aspettavano altro: la guerra russa in territorio ucraino!, occasione costruita nel tempo per dare un duro colpo alla Russia. E così, l’esercito ucraino è diventato l’unica prima linea a difendere gli interessi Nato, quindi soprattutto americani, contro gli interessi russi. Già nel primo mese di guerra, a fronte dei massicci bombardamenti russi su Kiev, Sumi, Kharkiv, Kharcov, Kherson ecc., l’Ucraina mostrava una notevole debolezza militare tanto da spingere il governo Zelensky a prendere in considerazione la possibilità di una trattativa con Mosca che evitasse una lunga guerra con il suo portato di migliaia di morti e di immani distruzioni. Ma sono stati gli anglo-americani a fermare Zelensky promettendogli un enorme appoggio sia militare che economico e finanziario, oltre l’adesione alla Nato e, attraverso gli europei, all’Unione Europea; hanno spinto, quindi, il governo ucraino a mettere a disposizione dell’imperialismo euroamericano la propria popolazione e il proprio esercito. Gli stessi media occidentali hanno cominciato, a un certo punto, a parlare di «guerra per procura» che l’Ucraina stava portando avanti contro la Russia per conto degli Stati Uniti e dell’Unione Europea. In questa guerra, in cui il nazionalismo grande russo è andato a scontrarsi col nazionalismo ucraino, in più di 500 giorni i morti e i feriti ammontano a più di 500 mila. A che pro?

La storiella euroamericana secondo cui la Russia voleva inglobare l’Ucraina per poter poi prendersi pezzi d’Europa, non stava in piedi allora e sta i piedi ancor meno oggi. In ballo, per la Russia c’era, e c’è, sicuramente l’annessione della Crimea e delle province di Lugans’k e Donetsk nel Donbass, in modo da assicurarsi un controllo più ampio del Mar Nero; territori certamente di grande valore economico che l’Ucraina non vuole perdere, illusa dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea di poterla riconquistare grazie ad una grande e rapida controffensiva supportata dagli armamenti Nato. Ma come tutti i nazionalismi, soprattutto quando sul piatto della bilancia vi sono centinaia di migliaia di morti e feriti, anche il nazionalismo ucraino alla Zelensky pretende che le promesse dei suoi finanziatori vengano mantenute. Le vicende dei Leopard tedeschi (di cui sono state fornite poche decine e in grave ritardo), dei missili a lunga gittata per poter colpire obiettivi nel territorio russo (mai concessi) e degli F-16, che possono portare armi nucleari (promessi non dagli americani, ma da olandesi e danesi, e comunque non prima di un anno da ora), mostrano come, in questa guerra, gli interessi di tutti i paesi del fronte euroamericano giocano in realtà contro gli interessi della borghesissima Ucraina. Pur dipendendo dalle decisioni Nato, e quindi americane, gli stessi paesi europei si mobilitano, sia per saggiare la propria preparazione e la preparazione del potenziale nemico (in questo caso la Russia) ad un guerra mondiale, sia per predisporsi agli affari (si parla di una «torta» di 400 miliardi di dollari) in vista della ricostruzione di un paese semidistrutto.

Le cancellerie di Washington, di Londra, di Parigi, di Berlino, di Varsavia, di Roma hanno parlato di una guerra lunga, determinata sia dalla volontà di Mosca di ottenere dal suo intervento militare un risultato «positivo», sia dall’ostinata resistenza ucraina a non darsi per vinta (non senza aver militarizzato l’intero paese sottoposto alle più dure leggi di guerra), sia dalla pressione degli imperialisti euroamericani sull’economia russa attraverso continue bordate di sanzioni e di attività diplomatiche atte ad isolare Mosca dal resto del mondo.

Come gli stessi media occidentali hanno rilevato, le sanzioni contro Mosca, alla fine, hanno danneggiato più le economie europee che non quella russa (secondo il Financial Times del 6 agosto, ai paesi europei sono costate più di 100 miliardi di euro). L’economia russa, che avrebbe dovuto crollare in pochi mesi, quest’anno crescerà invece  dell’1,5% (dati FMI), più della Germania e naturalmente dell’Italia, mentre gli USA stanno registrando un enorme debito pubblico che fa prospettare alle agenzie di rating la recessione per il prossimo anno (4).

Sul piano militare gli arsenali dei paesi della UE si sono praticamente svuotati, viste le continue forniture, in poco più di un anno, di armi all’Ucraina, tanto da dover stanziare nei propri budget nazionali fior di miliardi per ricostituire le proprie dotazioni militari.

La guerra in Ucraina, in un primo tempo considerata dalle cancellerie euroamericane un’occasione per colpire seriamente la Russia, depotenziandone le mire imperialiste sull’Europa, si sta svelando un cul-de-sac per il quale la soluzione più ovvia, anche se non a portata di mano, sarebbe una divisione del territorio ucraino – alla «coreana» (5) – alla quale non solo l’amministrazione Biden, ma anche il direttorio Xi Jinping sembrano favorevoli, pur di chiudere una guerra che si sta dimostrando generatrice di un’ulteriore crisi economica non prevista.

E’ ormai assodato che la controffensiva ucraina, che avrebbe dovuto riconquistare la Crimea e il Donbass, è fallita miseramente. Oggi, lo stesso Zelensky, preoccupato di finire la sua carriera passando da «eroe» elogiato da tutte le cancellerie come «stratega della sconfitta», accusato dagli americani di non aver mandato nei campi minati dai russi i propri soldati a farsi massacrare per la gloria della «sovranità nazionale» e della «democrazia» (americane, naturalmente!), non ha più il fegato di mandare al macello, senza pensarci due volte, come ha fatto finora, soldati che ormai non credono più alle illusorie riconquiste... La scoperta di migliaia di coscritti che pagavano i reclutatori per non essere mandati al fronte, è stato un segnale che non poteva essere nascosto.

D’altra parte, questo era già successo anche nei mesi precedenti, e anche dalla parte dei russi, a dimostrazione che nessuno va volentieri alla guerra se non coloro che sono imbevuti di nazionalismo fino al midollo o che lo fanno per mestiere, e quindi per denaro, come i mercenari.

I mercenari, d’altra parte, organizzati in gruppi ben addestrati a eliminare il «nemico» con qualsiasi mezzo, costituiscono da anni quelle forze speciali che tutti gli eserciti del mondo utilizzano nelle situazioni in cui si rendono necessarie azioni ad alto rischio.

I russi hanno usato il gruppo Wagner organizzato da Prigozhin in molte situazioni prima ancora che in Ucraina: in Mali, in Burkina Faso, nella Repubblica Centrafricana, in Ciad. E hanno usato i gruppi ceceni di Kadyrov non solo in Cecenia, ma anche in Ucraina. Gli ucraini, da parte loro, hanno usato il battaglione Azov, resosi famoso sia per la sua caratterizzazione nazista sia per aver resistito mesi alle Acciaierie Azovstal di Mariupol, prima di arrendersi ai russi, e recentemente incorporato nell’esercito ucraino alla stregua di forze speciali come sono i Navy seal americani utilizzati nelle guerre cosiddette «non convenzionali». Ma erano famosi da anni i cosiddetti contractors, utilizzati dagli americani in particolare in Iraq, in Afghanistan, in Siria.

E se i russi usano il gruppo Wagner e i ceceni di Kadyrov, e gli ucraini il battaglione Azov, gli angloamericani e i paesi Nato, pur non essendo presenti in Ucraina con propri mercenari e proprie truppe, sono presenti con un altro tipo di mercenari: l’intero esercito ucraino con Zelensky al suo comando. E, come sempre succede, quando funzionano secondo i desiderata di chi li paga, i mercenari vengono portati in palmo di mano, ma quando le loro operazioni non rispondono ai tempi e agli obiettivi dettati da chi li paga, allora il loro destino è di essere scaricati, pagando anche con la vita i loro «errori» (come sembra sia successo ultimamente a Prigozhin sui cieli tra Mosca e San Pietroburgo).

Comunque la guerra in Ucraina non terminerà in tempi brevi,  anche se – da quel che rivelano i media internazionali – pare che Stati Uniti e Cina siano concordi nel fare pressione, ognuno sul belligerante da loro appoggiato, affinché le operazioni militari tendano ad attenuarsi, lasciando il posto a trattative di «cessate il fuoco» se non di «pace».

Ma ci sarà mai pace in Ucraina dopo questa guerra?

I contrasti tra i due blocchi imperialisti che sono stati all’origine della guerra non scompariranno; continueranno a covare sotto la cenere per riesplodere in occasioni successive, continuando a generare scontri politici, economici e militari che porteranno prima o poi, insieme ad altre zone di crisi nel mondo, alla terza guerra imperialista mondiale.

Questa guerra mondiale può essere evitata attraverso le diplomazie dei grandi poli imperialisti del mondo? Non è stata evitata la prima, non è stata evitata la seconda, non sarà evitata nemmeno la terza guerra mondiale, perché il loro deflagrare non è mai dipeso e non dipende dalla buona o dalla cattiva volontà dei governanti, ma dalle sempre più forti contraddizioni che il modo di produzione capitalistico genera in quantità sempre crescente. I fattori materiali, uniti ai fattori politici e alla politica imperialistica, sono i generatori dei contrasti e degli antagonismi sociali sul piano economico, politico e militare, e fanno da base agli scontri tra fazioni borghesi, tra Stati e tra le classi. La classe dominante borghese, in ogni paese, ha più che dimostrato nella sua mefitica storia, di essere ormai soltanto una classe sociale vampiresca: si nutre di tutte le energie sociali, produttive e intellettuali, per sopravvivere a se stessa, per continuare a nutrirsi di sangue e sudore dei proletariati di tutto il mondo e delle popolazioni più deboli che hanno avuto la sfortuna di insediarsi in aree in cui l’arrivo della civiltà capitalistica è stato distruttivo e disastroso.

Ma il capitalismo non ha diffuso soltanto oppressione, distruzioni, pandemie, guerre; ha generato contemporaneamente la classe dei lavoratori salariati, dei proletari, dei moderni schiavi salariati, la classe che oggettivamente e storicamente ha in mano il futuro dell’umanità. Ma alla condizione di riconoscersi come classe rivoluzionaria, anticapitalistica e antiborghese, in grado di utilizzare i metodi produttivi più moderni e meno nocivi per l’umanità e l’ambiente naturale per soddisfare le esigenze di vita e di sviluppo del genere umano e non del mercato, del capitale e, quindi, della classe oggi ancora dominante.

Il futuro rivoluzionario del proletariato non è un dono che cade dal cielo, non si forma alla nascita di ogni individuo che le condizioni sociali gettano nella classe degli sfruttati e degli oppressi e non si distribuisce attraverso la propaganda di visionari o di utopisti. Il futuro rivoluzionario del proletariato – quindi dell’intero genere umano – dipende dalla lotta di classe, dalla lotta che porta e porterà nuovamente il proletariato internazionale a ricalcare le orme della rivoluzione d’Ottobre 1917, unificando i proletari più coscienti di tutto il mondo sotto la direzione del partito di classe, comunista e rivoluzionario.

La guerra russo-ucraina, come tutte le guerre borghesi precedenti, mostra, per l’ennesima volta, che le borghesie, più o meno forti che siano, hanno un solo grande scopo: difendere il proprio dominio sociale perché questa è la sola condizione in cui esse possono continuare a sfruttare la stragrande maggioranza della popolazione mondiale.

La rivoluzione proletaria non si limita a togliere il potere politico alla borghesia, non si limita a trasformare l’economia capitalistica in economia comunista – trasformando l’economia di mercato in economia umana –, ma va oltre, perché il suo vero fine storico è l’eliminazione della società divisa in classi. Solo eliminando le classi dalla società si giungerà finalmente ad una società in cui saranno scomparsi gli antagonismi sociali, ogni genere di oppressione, ogni genere di sfruttamento dell’uomo sull’uomo; si giungerà alla società comunista, alla società di specie.

 

Noi, come i comunisti rivoluzionari di tutti i tempi, lavoriamo per quel fine, non importa se oggi siamo soltanto un pugno di militanti.

 

 


 

(1) Vedi «il comunista» n. 172, marzo 2022, Alcuni punti sulla situazione storica che ha prodotto anche la guerra russo-ucraina.

(2) A questo proposito vedi in particolare «il comunista» n. 30-31, dic. 1991/marzo 1992, Con lo sfascio dell'URSS è incominciata una nuova spartizione del mercato mondiale.

(3) Vedi in particolare «il programma comunista» n. 14, luglio 1979, il resoconto della RG di partito del giugno 1979: La Cina sulla strada di superpotenza capitalista.

(4) Cfr. «il fatto quotidiano», 23 e 24 agosto 2023,

(5) A questo proposito vedi «il comunista» n. 176, genn.-febb. 2023, Ucraina, Corea del XXI secolo?

 

 

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