Quando la mosca cocchiera sale in cattedra...

(«il comunista»; N° 181 ; Marzo-Aprile 2024)

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Il gruppo spagnolo che pubblica « El comunista nueva edición » ha scritto recentemente un testo (« Le prolétaire-il comunista » : punta de lanza de la degeneración del nuevo curso) con cui ci accusa di essere i continuatori di quello che, prima di questo gruppo, le ex sezioni di Torino, Ivrea, Schio ecc., tra il 1980 e il 1981, chiamavano il « nuovo corso », ossia un indirizzo tattico che il centro dirigente avrebbe imposto al partito deviando dalla sua linea tattica di base. Questo indirizzo tattico stimolava il partito a promuovere e a praticare un’attività di intervento non solo nell’ambito strettamente sindacale (come di fatto cercava di fare in tutti gli anni precedenti all’interno dei sindacati tricolore, in particolare nella CGIL italiana e nella CGT francese), ma anche nei confronti sia dei nuovi organismi spontanei costituiti da gruppi di proletari più combattivi nelle varie città e nei vari settori tradizionalmente più reattivi (i metalmeccanici, gli ospedalieri, i lavoratori delle poste, dei trasporti locali e nazionali ecc.) in opposizione alle restrizioni burocratiche dei vertici locali e nazionali dei sindacati tricolore, e nei confronti di movimenti sociali che coinvolgevano i proletari su temi della loro vita quotidiana, come la questione della casa, della disoccupazione, degli immigrati, dei soldati, della repressione delle lotte ecc. Un’attività di intervento dalla quale, sempre secondo quei compagni di allora, il partito avrebbe dovuto tenersi lontano nonostante esso non avesse smesso la sua attività di critica e di opposizione al collaborazionismo sindacale all’interno dei sindacati e avesse, nello stesso tempo, cercato di stabilire un contatto, laddove si apriva la possibilità pratica anche di contribuire all’organizzazione delle loro azioni di lotta, con i nuovi organismi di base che intendevano lottare al di fuori del controllo dei sindacati tricolore, ma senza costruire associazioni economiche operaie « di partito » – come molti altri gruppi dell’estrema sinistra facevano – e senza cedere ad accordi politici tra i vari gruppi politici che agivano su questo terreno. Il gruppo attuale El comunista nueva edición non dice, tra l’altro, di aver rivendicato nel 1981 una piena autonomia dal resto del partito, che giustificava, alla maniera di tutti gli opportunisti democratici, con una situazione del tutto « particolare » della Spagna, e di aver incentrato la propria attività « politica » su basi sindacaliste partecipando o costituendo organismi immediati attraverso i quali attirare i proletari nella sua cerchia di influenza sostituendo l’attività teorica e politica del partito con un’attività pratica sul terreno essenzialmente immediato.

Teniamo a ribadire, non tanto ai redattori di El comunista nueva edición, che riteniamo persi per sempre per la causa rivoluzionaria, quanto ai suoi lettori, del tutto ignari della storia del nostro partito, ciò che abbiamo già illustrato e spiegato in tutto il lavoro di bilancio delle crisi del partito che abbiamo fatto in reale continuità con la lotta politica svolta dal partito, nel partito e per il partito in tutti gli anni precedenti e successivi alla crisi del 1982-84. D’altra parte, ci sono le testate di partito (messe solo da noi nel sito a disposizione di tutti gli interessati, comprese tutte le vecchie testate del partito comunista internazionale esistenti fino alla crisi esplosiva del 1982-84), che possono essere liberamente lette e consultate. Non risulta che i novelli avvocati di El comunista nueva edición, che dicono di battersi contro la degenerazione del partito, abbiano mai fatto un serio bilancio delle crisi di partito ; d’altra parte non ne avevano né l’interesse, né la forza. Il metodo usato da questo gruppo non è quello di dimostrare la loro dichiarata coerenza con le posizioni classiche del partito e la corretta tattica che da quelle posizioni deve derivare e che, a suo dire, sarebbe la sua tattica, ma è quello di scimmiottare l’epiteto di « nuovo corso », naturalmente « degenerativo », all’indirizzo che il partito prese dal 1974 in poi – cioè dopo aver superato la crisi attivistico/volontarista rappresentata in particolare da gran parte della sezione di Firenze, che si staccò dal partito nel 1973 – e che, secondo El comunista nueva edición, il centro avrebbe imposto all’insieme del partito pretendendo da esso una disciplina formale... agli ordini ricevuti dall’alto. El comunista nueva edición non si accorge che, sostenendo una tesi di questo genere, sta dando un’immagine davvero meschina di se stesso e del partito, al quale d’altra parte i loro compagni di allora avevano aderito senza che nessuno li forzasse.

Una domanda però i lettori di quel periodico dovrebbero porsela : su quali basi i componenti di questo gruppo, che hanno militato per alcuni anni nel partito, nel 1981 si sono staccati ? Questo non lo dicono proprio. Lo diciamo noi : il gruppo di Madrid, che verso la fine degli anni Settanta costituiva la sezione locale del partito, nel 1981 teorizzò che l’abisso esistente tra i bisogni oggettivi della classe e l’assenza di organizzazioni intermedie classiste dovesse essere riempito dall’organizzazione di partito ; ciò portava quei militanti ad un attivismo frenetico di carattere sindacale che, nello stesso tempo, ricacciava in secondo e terzo piano i compiti generali di carattere teorico, politico e organizzativo del partito stesso. I vari tentativi di chiarimento teorico e politico fatti nei loro confronti non ebbero successo : quel gruppo di militanti radicalizzò ancor più le proprie posizioni di tipo sindacalista aumentando la volontà di rendersi autonomi dall’organizzazione centralistica del partito, tanto da mettersi fuori da ogni forma di disciplina organica, dunque politica e organizzativa, del partito stesso. Dunque, sindacalismo e anticentralismo non sono forse attitudini lontane mille miglia dal partito di classe per come lo intende da sempre la Sinistra comunista d’Italia e il nostro partito ?

Con che faccia, oggi, si ergono a « difensori » della continuità teorica, programmatica e organizzativa del partito che loro stessi hanno combattuto mentre distruggevano lo sforzo che il partito stava facendo per radicarsi in Spagna ?

La sezione spagnola del partito iniziò la sua effettiva attività nel 1974 con la pubblicazione del periodico el comunista, attività preparata dal 1972 con la pubblicazione della rivista el programa comunista e le cui redazioni erano centralizzate, in un primo tempo, da « il programma comunista » (di cui le due pubblicazioni in spagnolo era supplementi), per poi essere supplementi della rivista teorica di partito « programme communiste ». L’area iberica, e tanto più quella latinoamericana, come più volte dimostrato storicamente, erano particolarmente ostiche al marxismo ortodosso e alla politica comunista rivoluzionaria, data la forte presenza di tradizioni autonomiste e anarchiche ; il partito era consapevole che avrebbe dovuto fare sforzi notevoli per poter impiantare in quelle aree un lavoro politico comunista rivoluzionario all’insegna del marxismo. Non per nulla gli elementi di lingua spagnola (sia di Spagna che dell’America latina) che si avvicinarono al partito e, col tempo, divennero militanti del partito, erano tutti elementi emigrati in particolare in Francia e in Svizzera, dove incontrarono un’attività di partito presente da anni : in Francia dagli anni Venti del secolo scorso, grazie all’emigrazione dei compagni della Sinistra comunista d’Italia sottrattisi alla repressione del fascismo e, nello stesso tempo, lottatori contro lo stalinismo imperante, e in Svizzera, soprattutto dagli anni Cinquanta, sempre grazie, anche lì, all’emigrazione di compagni italiani provenienti dall’esperienza della Sinistra comunista d’Italia. Solo dopo la fine del regime franchista, a metà degli anni Settanta, fu possibile prevedere una reale attività pubblica di partito, sia col mezzo stampa che con l’attività concreta nel sociale, grazie al rientro in Spagna di compagni spagnoli che erano emigrati.

Ricordiamo questo quadro non certo per esaltare la « nazionalità italiana » dei compagni di allora, ma per sottolineare che la tradizione comunista e internazionalista del comunismo si impiantò grazie ad un lavoro sistematico di carattere teorico e politico strettamente legato alla difesa del marxismo ortodosso, che fu soprattutto di Lenin e dei bolscevichi nel primo ventennio del Novecento e, poi, della Sinistra comunista d’Italia, che seppe dimostrare concretamente la sua coerenza marxista rivoluzionaria in tutto il suo percorso storico di lotta sia contro il riformismo socialista, democratico e parlamentare, sia contro il massimalismo, sempre pronto a sostenere a parole i grandi obiettivi della rivoluzione proletaria mentre nei fatti si comprometteva sistematicamente col riformismo, sia poi contro lo stalinismo che decretò la vera e definitiva degenerazione dell’Internazionale Comunista. Un percorso storico che fu caratterizzato, finita la seconda guerra imperialista mondiale, da un gigantesco lavoro di restaurazione teorica e politica del marxismo, falsificato e distrutto dallo stalinismo e da tutte le sue varianti, e su cui soltanto i militanti della Sinistra comunista d’Italia riuscirono a metter mano grazie, appunto, alla loro profonda tradizione marxista di lotta contro ogni deviazione dal marxismo classico e, soprattutto, contro le diverse forme di opportunismo, figlie della democrazia borghese e imperialista. Una tradizione di questo genere, di questa forza, non si forma se non sul terreno della lotta teorica e politica caratteristica del marxismo fin dalla sua nascita e sul terreno della partecipazione politica e organizzativa alle lotte del proletariato sul terreno della difesa dei loro interessi immediati tenendo sempre ben presente che il socialismo scientifico, cioè il marxismo, non nasce dalla lotta immediata del proletariato, ma al suo esterno e in parallelo ad essa e su un piano che il proletariato, finché sarà classe per il capitale – cioè classe salariata a disposizione del capitalismo –, non riuscirà a raggiungere se non abbraccerà la prospettiva storica della sua emancipazione portata nelle sue file dall’intervento del partito di classe e grazie all’influenza del partito ottenuta nella parte più avanzata del proletariato stesso.

Nel partito, come ricordato nel nostro bilancio delle crisi interne, tra il 1979 e il 1982 riemersero, all’inizio in modo tenue, poi in modo sempre più deciso, tendenze anche tra di loro contrastanti e che già in precedenza definimmo di carattere attivista-movimentista e di carattere attendista. Il gruppo di militanti di Madrid svelarono, ad un certo punto, la loro tendenza attivista (che ben ci concilia con l’autonomismo e l’anarchismo), assumendo posizioni di tipo sindacalista e anticentraliste ; di fatto, fecero parte delle tendenze politiche che portarono – ne fossero individualmente coscienti o meno – alla degenerazione il partito. Resta il fatto che questo gruppo, dopo il suo distacco dal partito, si è travestito da « partito comunista internazionale » sotto le mentite spoglie della vecchia testata del partito el comunista (la cui pubblicazione, a causa della crisi in cui si consumò il distacco della sezione madrilena e la frammentazione del partito dopo lo scoppio della crisi dell’ottobre 1982, fu forzatamente sospesa), sbandierando formalmente una « continuità » col partito contro la quale aveva combattuto.  

L’attività in campo sindacale che il partito svolse dalla fine della seconda guerra mondiale in poi nella CGIL (considerata fin da subito sindacato tricolore) rispondeva ai criteri classici che avevano caratterizzato l’attività della Sinistra comunista e che erano coerenti con l’impostazione che lo stesso Lenin aveva dato rispetto al dovere dei comunisti rivoluzionari di lavorare all’interno delle associazioni economiche operaie – sebbene dirette da riformisti, e perfino se reazionarie – allo scopo di contrastare l’influenza dell’opportunismo e del collaborazionismo e di influenzare gli operai più avanzati e combattivi con l’obiettivo di conquistarne la direzione sull’onda della futura ripresa della lotta classista del proletariato, ma senza nascondersi che questa lotta contro le politiche e le pratiche opportuniste delle direzioni sindacali poteva essere anche soffocata dagli stessi vertici collaborazionisti attraverso atti di forza e sbarramenti statutari e burocratici, impedendo quindi ogni possibile intervento non solo a noi, dichiarati comunisti rivoluzionari regolarmente iscritti, ma anche a tutti quegli operai che si ribellavano sia verbalmente, sia con posizioni e forme di lotta anticollaborazioniste nelle assemblee sindacali. Per le conseguenze determinate dalle crisi capitalistiche sulle loro condizioni di lavoro e di esistenza, i proletari più avanzati iniziarono a contrapporsi alle direzioni sindacali non solo verbalmente, ma anche organizzandosi in modo separato per condurre le proprie lotte immediate con più decisione e forza, utilizzando metodi e mezzi di lotta non più dipendenti dalle « compatibilità » e dalle « esigenze » aziendali, come invece era normale per i bonzi sindacali collaborazionisti. E’ così che nacquero i comitati di sciopero nelle aziende al di fuori delle strutture sindacali ufficiali, i comitati di lotta e di coordinamento sia territoriali che di settore, ed era ovvio che i promotori di questi organismi non potevano che essere proletari politicizzati appartenenti alle varie organizzazioni e ai vari gruppi di estrema sinistra nati a cavallo degli anni Sessanta-Settanta (come Lotta continua, Avanguardia Operaia, Lotta comunista, Autonomia operaia, Operai contro ecc., per parlare solo dell’Italia), che spaziavano dai filocinesi ai trotskisti, dagli anarco-comunisti ai movimentisti, dagli spontaneisti ai resistenziali nazionalcomunisti.

Il problema che si poneva, e doveva porsi, il partito era di stabilire in che rapporto entrare con le lotte operaie sia attraverso l’attività nei sindacati ufficiali – soprattutto la Cgil in Italia e la Cgt in Francia – finché gli statuti e la burocrazia sindacale permettevano la nostra attività di iscritti, sia attraverso l’intervento, dove erano presenti i nostri militanti, nei nuovi organismi di lotta che si formavano all’esterno dei sindacati ufficiali, ma nei quali confluivano, in genere, i proletari più combattivi.

C’era il pericolo che questi organismi di lotta fossero costituiti e influenzati direttamente dai gruppi dell’estrema sinistra extraparlamentare di allora ? Sì, c’era, perché questi gruppi erano presenti molto più di noi nelle fabbriche, come d’altra parte c’era il pericolo di essere catturati dall’opportunismo staliniano e post-staliniano, soprattutto se eletti come delegati nei consigli di fabbrica, che i sindacati tricolore – dopo averli contrastati alla loro nascita perché non emanati direttamente da loro – avevano trasformato in propri organismi sindacali interni alle fabbriche e, quindi, rivestiti di una formale rappresentanza operaia nei confronti delle direzioni aziendali.

C’era il pericolo che questi organismi di lotta fossero dei gusci vuoti formati appositamente da gruppi di estrema sinistra con il solo scopo di accaparrare adepti per se stessi ? Sì, questo rischio c’era, come c’è sempre quando dei proletari tentano di svincolarsi dalla burocrazia sindacale e/o partitica per dare sfogo all’esigenza di lottare con più efficacia in difesa dei propri interessi immediati. Il partito sa preventivamente che i proletari andranno sempre incontro al pericolo di finire nelle braccia di altre forze falsamente classiste, ma in realtà egualmente opportuniste, dopo essersi staccati da quelle ufficialmente collaborazioniste, e questo pericolo lo corrono gli stessi militanti di partito che partecipano a quegli organismi, tanto più se il partito non predispone indirizzi d’azione e tattici ben collegati al suo programma e alla sua linea politica generale e se i militanti di partito, organizzati in gruppi comunisti di intervento sindacale, non agiscono con disciplina centralistica secondo gli indirizzi di partito. Sono questi indirizzi che il partito intese definire, soprattutto dopo aver superato la crisi cosiddetta « fiorentina », attraverso le tesi sindacali del 1972 e le circolari del 1974 e del 1976 che abbiamo riprodotto nei materiali utilizzati per tirare il bilancio delle crisi del partito (1). La ricettina di un partito che non correrà mai alcun pericolo di essere infettato da tendenze devianti e opportuniste non l’ha mai inventata nessuno, semplicemente perché non esiste, a meno che non si voglia che il partito, per non correre il pericolo di sbagliare, non faccia alcuna azione, alcun intervento, e si limiti a predicare la bontà dei principi del comunismo in attesa che il proletariato se la sbrighi da solo...

E’ il partito stesso, in forza delle sue basi teorico-politiche fissate nel corpo di tesi che lo distingue da qualsiasi altro partito e in forza del suo metodo di lavoro e di analisi delle situazioni, che deve risolvere i problemi tattici che le condizioni materiali della classe proletaria e delle situazioni sociali più generali pongono oggettivamente ; non può sfuggire ai rischi, e non sarà mai al riparo dagli errori né tuffandosi nel movimento sociale per come contingentemente si presenta, credendo di poter rafforzare se stesso respirando lo spontaneismo operaio, né tenendosi lontano dalla vita quotidiana del proletariato, dalle sue difficoltà nella lotta di difesa e nella sua organizzazione, attendendo che le masse proletarie, in virtù di una germinazione spontanea della coscienza di classe, si presentino sulla scena storica già bell’e pronte per la rivoluzione. Volontarismo e velleitarismo, in questo modo, si danno la mano e insieme tendono, da un lato, a distruggere il partito formale, la compagine fisica dei comunisti che agiscono nella situazione reale, e, dall’altro, a stravolgere e falsificare il partito storico, ossia la teoria con i suoi principi e i suoi dettami invarianti. 

 

I compagni di Torino e Ivrea di allora, per la loro pratica pluriennale di lotta all’interno della CGIL (Fiat, Olivetti ecc.) rappresentavano nel partito l’esperienza operaia più corposa a cui tutto il partito guardava, e perciò le loro prese di posizione avevano una reale influenza sull’intera rete di partito ; ma questa esperienza pratica collegata ad una preparazione teorico-politica non furono, però, sufficienti ad impedire loro di accogliere le direttive sbagliate sulla questione sindacale che il partito prese negli anni tra il 1969 e il 1971 (fino a considerare la Cgil non come un sindacato tricolore, ma come un sindacato di classe, e cercare di « difenderla » dall’unificazione con Cisl e Uil, considerando questa unificazione come la ricostituzione del sindacato fascista...). Infatti, il raddrizzamento vigoroso delle posizioni del partito su questa questione (vedi le tesi sulla questione sindacale del 1972) e su altre ad essa collegate come, ad esempio, la concezione del partito, non venne da quei compagni, ma da compagni di altre sezioni e di altra estrazione sociale (a dimostrazione che non basta essere operai comunisti per essere campioni di coerenza con le posizioni fondamentali del partito). Ebbene, sono stati questi ex compagni, seguiti da altri delle diverse località, ad opporsi alle indicazioni emanate dal centro del partito riguardo alla sua attività « a contatto con la classe operaia », ossia coi problemi della vita quotidiana del proletariato sui diversi piani che non erano esclusivamente economici di fabbrica, ma, appunto, sia di lotta economica sul terreno immediato sia di lotta politica sullo stesso terreno immediato. In sostanza, sostenevano che l’attività di carattere sindacale del partito doveva essere fatta soltanto nei sindacati ufficiali, per quanto fosse limitata da un sempre più invasivo burocratismo ; e sostenevano, di fatto, che dai tentativi fatti dai proletari di organizzarsi al di fuori dei sindacati ufficiali e quasi sempre promossi da operai politicizzati dai vari gruppi di estrema sinistra, il partito doveva tenersi ben lontano perché il rischio era di cadere in una specie di « frontismo politico » con quei gruppi. Questo timore, oltretutto, mostrava ben poca fiducia nella saldezza teorica e politica del partito a cui loro stessi si richiamavano, saldezza teorica e politica che andava semmai rafforzata partecipando ai tentativi della classe operaia di riorganizzarsi sul terreno classista e non separandosi da essa.

Si trattava, per loro, di attendere che il proletariato si riorganizzasse un bel giorno per conto proprio nel « sindacato di classe », svuotando magari i sindacati tricolore, cosa che avrebbe facilitato l’intervento del partito senza che il partito facesse nulla per essere riconosciuto come elemento decisivo per la ricostituzione del sindacato di classe da parte operaia ; si credeva, così, di avere, un domani, più probabilità di successo tra le masse operaie in forza della sua sola impostazione politica classista e rivoluzionaria. Come il partito avrebbe potuto conquistare la fiducia da parte del proletariato, e come avrebbe potuto ottenere un’influenza determinante sugli strati più avanzati del proletariato, senza partecipare a tutto il percorso accidentato della riorganizzazione classista delle sue lotte, senza essersi fatto conoscere sul terreno della lotta di difesa immediata e in tutte le difficoltà che questa lotta comporta, questo non era dato sapere... ; la « ricetta » non l’avevano loro come non l’aveva nessuno ; si sarebbe dovuta attendere una combinazione astrale fortunata in cui partito e classe si sarebbero magicamente incontrati e sperare che da questo incontro sarebbe scattato l’inizio della fase positiva della rivoluzione... Perciò lo abbiamo chiamato attendismo.

La necessità da parte del partito, dato anche il suo sviluppo negli anni precedenti il fatidico anno della prevista crisi capitalistica mondiale del 1975 (previsione azzeccata) e della contemporanea crisi rivoluzionaria (prevista vent’anni prima, ma non avvenuta), era di affrontare con decisione una fase in cui la sua stessa esistenza chiedeva oggettivamente di intervenire nella classe non soltanto come un organismo di propaganda del comunismo rivoluzionario, ma anche come un organismo in grado di dare sì indicazioni classiste di lotta e di organizzazione operaia indipendente dal collaborazionismo sindacale e politico, ma che, attraverso i suoi militanti, fosse anche in grado di partecipare all’organizzazione, e alla difesa, non solo delle lotte classiste parziali, ma anche degli organismi immediati che si ponevano alla testa di quelle lotte.   

Era evidente per noi e, in generale, per il partito di allora, dopo la rottura con la maggior parte dei compagni toscani nel 1973, uscendo da quella strana forma ultimativa di attivismo sindacalista che lo aveva permeato per qualche anno, che anche i problemi di ordine politico-immediato dovevano trovare una risposta da parte nostra, come, ad esempio, far riconoscere valide, alle direzioni aziendali, le rivendicazioni proletarie anche se sostenute solo dagli organismi di lotta immediata costituitisi all’esterno dei sindacati tradizionali – come è stato nel 1978 il caso degli ospedalieri a Milano e a Firenze. Che questa attività del partito – come qualsiasi azione pratica – presentasse il pericolo di scivolare nell’immediatismo, come detto e dimostrato, era un problema ben presente al partito. Il centro, infatti, non smetteva di mettere in guardia i compagni dal non cadere in quella trappola, ma sosteneva nello stesso tempo che sbagliavano quei compagni che, per non cadere nell’immediatismo o nel frontismo « politico », si astenevano da qualsiasi attività che non fosse puramente sindacale di fabbrica e solo all’interno dei sindacati tradizionali – anche quando questa attività era praticamente resa impossibile per l’azione delle burocrazie sindacali, squalificando in questo modo tutti i tentativi che i proletari più combattivi, anche se militanti o simpatizzanti di altri gruppi politici, mettevano in opera per dare alla propria lotta un carattere anticollaborazionista. Emergeva, così, una visione completamente sbagliata della reale e contraddittoria formazione dei nuovi organismi di lotta immediata indipendenti dal collaborazionismo interclassista attraverso la quale inevitabilmente doveva maturare la formazione delle future associazioni di lotta operaia classiste, i futuri « sindacati di classe ».

Stringere rapporti meno labili, locali e contingenti con la classe – come scritto nella circolare centrale del 26.3 1976 (2) – era il compito che il partito si assumeva non col senso « di colpa » per un cosiddetto « ritardo » con cui si impegnava su questo terreno, ma nella consapevolezza che, oggettivamente, di fronte alle reazioni della classe operaia agli effetti della crisi e alle controreazioni della classe dominante, doveva assumersi se voleva tener fede alla prospettiva per la quale si era costituito trent’anni prima svolgendo l’immenso lavoro di restaurazione teorico-politica, base indispensabile perché avesse un senso parlare di partito comunista internazionale e della sua azione verso e nella classe proletaria.

Questa attività richiamava – certo, in una situazione storica completamente diversa da quella del 1921 – la prospettiva sottolineata da Amadeo Bordiga al Congresso di Marsiglia del Partito Comunista Francese (un partito tanto « aperto » all’azione elettorale e parlamentare, quanto « chiuso » e « sordo » all’azione rivendicativa), e ricordata nella circolare del 1976 citata : «noi dobbiamo in tutto il nostro lavoro riunire questi tre fattori dell’azione comunista : la propaganda, l’azione, l’organizzazione. Essi sono inseparabili. In ogni episodio della lotta sociale in cui un piccolo gruppo di lavoratori sfruttati si erge per porre la questione delle sue condizioni di esistenza, la nostra propaganda deve intervenire e dire qualcosa. Essa deve spiegare come il comunismo sia lo sviluppo della lotta naturale di classe... ma non deve fare semplicemente ciò. Non basta ai comunisti di illuminare i cervelli ; essi debbono anche organizzare sistematicamente questi gruppi... di operai che non sono nelle condizioni di diventare militanti del partito, ma possono tuttavia ingrossare le truppe rivoluzionarie nei momenti decisivi» (sottolineature nostre). Dall’esempio minimo dei comitati di sciopero, in difesa dei disoccupati, degli immigrati, del lavoro femminile e minorile ecc., fino all’inquadramento degli «elementi guadagnati dall’attitudine reale del Partito», «nelle varie reti organizzative di cui il Partito dispone, delle quali tende ad ottenere la incessante espansione, e delle quali deve in ogni circostanza essere assicurata la indipendente esistenza e continuità» (« Programma di azione del PCd’I », 1922, presentato al IV congresso dell’I.C.), un campo immenso si apre al Partito – non certo nell’immediato quanto alla sua reale ampiezza, ma nella tendenza storica e nell’impegno politico-organizzativo.

In realtà, se di « nuovo corso » di volesse parlare, questo riguarderebbe proprio l’astenersi da quel compito che il partito si assumeva, consapevole dei problemi e dei pericoli che poteva correre : cioè, una posizione che limitava l’attività di partito alla pura propaganda dei principi, dei grandi obiettivi rivoluzionari e della critica delle posizioni riformiste e controrivoluzionarie, illuminando i pochi « cervelli » disposti ad ascoltare le parole del partito, senza dare seguito ad una delle indicazioni fondamentali che distingue il nostro partito, e cioè cercare il contatto con la classe operaia e con la sua lotta di resistenza alla pressione e all’oppressione del capitalismo e della borghesia. Il contatto con la classe operaia e la sua lotta di difesa sul terreno immediato economico e politico, non significava immergersi nel movimentismo, non significava trasformare l’intervento del partito in una delle tante forme di immediatismo (spontaneismo, contingentismo, avventurismo, sindacalismo, attivismo), ma stabilire un rapporto di fiducia classista tra l’organo-partito e la classe proletaria, sapendo che la fiducia dei proletari la si guadagna solo partecipando alla loro lotta di resistenza quotidiana al capitale e alla sua organizzazione, condividendo fisicamente le stesse difficoltà nel combattere non solo l’oppressione salariale e sociale del capitalismo, ma anche l’opportunismo collaborazionista che di quell’oppressione è un punto di forza.

Esiste forse un sicuro vademecum per l’attività pratica del partito nelle sue diverse fasi di sviluppo e nelle diverse situazioni in cui le masse proletarie si vengono a trovare ? No, non esistono ricette bell’e pronte per ogni specifica situazione che si presenti nel tempo e nello spazio.

Il partito, però, nel suo trentennale lavoro di restaurazione teorica e politica del marxismo dalla fine della seconda guerra mondiale in poi, ha tracciato linee e norme tattiche ben precise e richiamate in diversi scritti, a partire, ad esempio, dalle Tesi caratteristiche del 1951, dove, dopo aver precisato, al punto 8, che «Il partito, malgrado il ristretto numero dei suoi aderenti, determinato dalle condizioni nettamente controrivoluzionarie, non cessa il proselitismo e la propaganda dei suoi principi in tutte le forme orali e scritte, anche se le sue riunioni sono di pochi partecipanti e la stampa di limitata diffusione», e che «Il partito considera la stampa nella fase odierna [una fase rivelatasi purtroppo molto più lunga di quanto si potesse immaginare all’epoca, NdR] la principale attività, essendo uno dei mezzi più efficaci che la situazione reale consenta, per indicare alle masse la linea politica da seguire, per una diffusione organica e più estesa dei principi del movimento rivoluzionario»,

al punto 9, precisa : «Gli eventi, non la volontà o la decisione degli uomini, determinano così anche il settore di penetrazione delle grandi masse, limitandolo ad un piccolo angolo dell’attività complessiva. Tuttavia il partito non perde occasione per entrare in ogni frattura, in ogni spiraglio, sapendo bene che non si avrà la ripresa se non dopo che questo settore si sarà grandemente ampliato e divenuto dominante».

 

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Nessuna attività politica e pratica del partito è immune a priori dalla possibile influenza di visioni e orientamenti contrari a quelli del comunismo rivoluzionario ; il partito agisce nella realtà di una società zeppa di contraddizioni e intossicata dall’azione delle più diverse forze opportuniste e controrivoluzionarie contro cui, ovviamente, è necessaria una produzione incessante di anticorpi che può avvenire soltanto con un lavoro sistematico di stretto collegamento con la restaurata teoria marxista e col bilancio dinamico della controrivoluzione che, per sintesi, chiamiamo staliniana, applicando il metodo di lavoro e di assimilazione teorica e politica che solo il lavoro comune e fondamentalmente antidemocratico e antilocalistico può svolgere con successo. E’ il corretto maneggio della teoria marxista e il saldo indirizzo centralistico che risponde al programma del partito e alle linee politiche non discutibili né da parte del centro dirigente né delle sezioni o dei compagni della periferia, che mette il partito nelle condizioni di applicare la tattica corretta e, nel caso una determinata tattica si rivelasse errata – come è successo –, di correggerla col minor danno possibile alla compattezza organica del partito.

Esattamente il contrario è stato fatto dal gruppo madrileno che nel 1981 ha rotto col partito su posizioni attiviste e sindacaliste e che, dal maggio 1983, si presenta con la testata El comunista (che fino al gennaio-febbraio 1983 è stato il giornale del partito per la Spagna), aggiungendo al titolo nueva edición, ma sostenendo posizioni attiviste e sindacaliste che sono sempre state antitetiche a quelle del partito. Con questa « furbata » del tutto formale e ingannevole, questo gruppo voleva godere di un passato riconoscimento politico che non gli apparteneva, facendosi passare per comunista ortodosso, rivendicando un legame con la corrente della Sinistra comunista d’Italia con cui aveva in realtà rotto ogni continuità politica e organizzativa. Nel presentare nel nostro sito la vecchia testata di partito El comunista, pubblicata dal maggio 1974 fino al gennaio-febbraio 1983, abbiamo scritto quanto segue :

«La crisi politica e organizzativa che colpì il partito a partire dal 1979, lo debilitò fino al punto in cui i contrasti interni, dovuti essenzialmente allo scontro tra le tendenze di tipo attivistico-movimentista, di tipo attendista e indifferentista e di tipo liquidazionista, portarono l’organizzazione alla crisi esplosiva del 1982-84. La pubblicazione di « el comunista » continuò fino al gennaio-febbraio 1983, ma qualche mese dopo le sezioni spagnole scomparvero. Ma già sul finire del 1980, il gruppo di militanti di partito spagnoli che facevano capo alla sezione di Madrid si arroccarono su posizioni attivistiche e sindacaliste e, soprattutto, rivendicarono una loro autonomia dal centro del partito giustificandola con la trita e ritrita idea che le particolarità storiche della Spagna richiedevano una gestione « locale ». La fase dei contrasti interni e della deviazione sindacalista della sezione spagnola terminò con l’uscita dal partito di tutti i compagni presenti all’epoca  nella penisola iberica ; alcuni, completamente disgustati dall’andazzo confuso e dalla demagogia legata al leaderismo personale, si ritirarono a vita privata ; altri si riorganizzarono, sulle basi di una mescola putrescente di sindacalismo e di anti-partitismo, pubblicando un periodico dallo stesso titolo del vecchio organo di partito prendendosi il vezzo di dichiararlo « órgano del partido comunista internacional », ma aggiungendo sistematicamente la dicitura « nueva edición » e inserendo la vecchia manchette « lo que distingue a nuestro partido » che, date le posizioni del tutto antipartito che questo gruppo sostiene, non è che una ridicolizzazione del partito e della Sinistra comunista, agitata come una bandiera sbiadita col solo scopo di confondere ulteriormente coloro che potrebbero essere spinti a conoscere più a fondo le vere e originali posizioni della Sinistra comunista e del partito comunista internazionale».

Quest’opera di confusione e di stravolgimento delle posizioni della Sinistra comunista d’Italia e del partito è ancora viva e operante anche grazie al gruppo madrileno di cui stiamo parlando e, come si vede, non è finita.

Il grande problema tattico, che il partito doveva (e deve sempre) affrontare, era di dare indicazioni corrette per non perdere le occasioni prodotte dalla stessa realtà delle contraddizioni sociali per entrare in quelle fratture, in quegli spiragli (previsti dalle nostre tesi) che si aprivano nelle realtà sociali e davano oggettivamente una possibilità concreta all’attività pratica del partito per entrare in contatto con quei gruppi di operai che cercavano di scrollarsi di dosso il peso dell’opportunismo collaborazionista aprendosi a loro modo, anche confuso, ai mezzi e ai metodi della lotta classista propagandati da sempre dal partito. Come abbiamo ripetuto più e più volte, non esiste un breviario nel quale pescare di volta in volta la soluzione contingente più giusta, e non era certo una soluzione corretta quella proposta dai « fiorentini » che credevano di poter applicare pari pari la tattica sindacale del Partito comunista d’Italia del 1921 valutando la situazione sociale del 1969 simile a quella del 1921, considerando il sindacato CGIL come fosse la CGL del 1921, cioè un sindacato « di classe » e non un sindacato tricolore, e come se il proletariato fosse pronto a riprendere la lotta di classe su grande scala per lo scatenamento della quale bastava far fuori le direzioni opportuniste... 

Il partito sapeva e sa bene che l’indirizzo tattico della sua azione discende strettamente dai principi e dal programma che lo identificano, e quindi dalla linea politica generale della sua attività, ma sa anche che è la buona tattica a fare un buon partito, e che la buona tattica è figlia della corretta valutazione delle situazioni, cosa che è in realtà una questione teorica. Se la valutazione della situazione non è marxisticamente corretta, anche la tattica che ne discende non è quella giusta ; l’errore di valutazione – e quindi della tattica adottata – può essere corretto, e il partito deve fare ogni sforzo per correggerlo, alla condizione di ricollegarsi al metodo di analisi delle situazioni già rimesso in piedi nella restaurazione teorica ; il partito, quindi, nega validità al metodo per cui il cambio di tattica avviene nascondendo, dimenticando, ritenendo ormai superato il risultato di tutto il lavoro di restaurazione teorica e di bilancio della controrivoluzione svolto dal partito nei decenni precedenti, affidandosi invece alla scoperta di « nuove situazioni impreviste dal partito » e che richiedono, perciò, la sconfessione degli indirizzi tattici e politici già definiti dal partito. La previsione delle situazioni sociali che riguardano l’andamento ciclico delle crisi capitalistiche e le modificazioni dei rapporti di forza tra Stati e imperialismi, e tra borghesia e proletariato, fa parte della teoria marxista e non cambia ad ogni stormir di fronda. Altra cosa è prevedere il momento esatto in cui la crisi sociale e rivoluzionaria si combini con la crisi capitalistica mondiale ; qui i comunisti rivoluzionari, a partire da Marx ed Engels, hanno sempre sperato che il movimento proletario maturasse dal punto di vista classista in modo tale da approfittare delle grandi crisi capitalistiche, e attesero la rivoluzione proletaria e comunista nel 1848, nel 1864, nel 1871, e Lenin, con tutti gli artefici della Rivoluzione d’Ottobre e dell’Internazionale Comunista, attese la rivoluzione in Europa, e quindi nel mondo, negli anni immediatamente successivi alla fine della prima guerra mondiale a partire dalla Germania, attendendola poi anche per vent’anni (di buoni rapporti con i contadini da parte della dittatura proletaria in Russia fermamente guidata dal bolscevismo leninista, ricordate ?), o addirittura per cinquant’anni come Trotsky gettò in faccia a Stalin rispondendo che il potere proletario e comunista non sarebbe mai stato abbandonato a causa del ritardo con cui la rivoluzione in Europa si sarebbe attuata. L’appuntamento storico con la rivoluzione venne rimandato per decenni, e non per l’errore di un Lenin o di un Bordiga ; i fattori sfavorevoli alla maturazione rivoluzionaria del proletariato europeo e dei partiti comunisti europei furono più forti dei fattori favorevoli alla rivoluzione. Dalle sconfitte bisognava e bisogna trarre le giuste lezioni non tanto per non fare più errori – cosa oggettivamente impossibile – ma per preparare il partito organicamente, unitariamente e costantemente ad affrontarli e a superarli. Far finta che non vi siano stati, come fece il gruppo del nuovo « programma comunista », è deleterio. Lenin scriverà nell’Estremismo : «L’atteggiamento di un partito politico verso i suoi errori è uno dei criteri più importanti e sicuri per giudicare se esso è un partito serio, se adempie di fatto ai suoi doveri verso la propria classe e verso le masse lavoratrici. Riconoscere apertamente un errore, scoprire le cause, analizzare la situazione che lo ha generato, studiare attentamente i mezzi per correggerlo : questo è indizio della serietà di un partito, questo si chiama fare il proprio dovere, educare e istruire la classe e quindi le masse» (3). E Amadeo Bordiga lo ribadirà con forza nel 1925, nell’articolo « Il pericolo opportunista e l’Internazionale », sottolineando che «La critica senza l’errore non nuoce nemmeno la millesima parte di quanto nuoce l’errore senza la critica».

Se andiamo indietro nel tempo, di certo non possiamo dire che il partito bolscevico, pur avendo tra i suoi membri un Lenin, non abbia fatto errori o che compagni di levatura impareggiabile come Zinoviev o Bucharin o Trotsky non abbiano preso posizioni sbagliate e particolarmente dannose per il partito, e non solo all’epoca della decisione di scatenare l’insurrezione rivoluzionaria o all’epoca della pace di Brest-Litovsk, ma, ad esempio, sulla questione del fronte unico politico, sulla militarizzazione dei sindacati, sui partiti « simpatizzanti » nell’I.C. ecc. La Sinistra comunista d’Italia, e Amadeo Bordiga in specie, non ha mai accusato personalmente quei compagni, come d’altra parte nemmeno l’individuo Stalin, dei cedimenti del partito bolscevico o della sua degenerazione e della degenerazione dell’I.C., ma ne ha fatto sempre un problema di condizioni oggettive e di maturazione collettiva dell’organo-partito.

D’altra parte, anche all’interno del partito comunista internazionalista-battaglia comunista al quale Amadeo e molti altri compagni della sinistra comunista diedero il loro contributo di militanti comunisti, al di là della formalità del tesseramento, convivevano posizioni contrastanti che andavano individuate, criticate e corrette con un lavoro politico strettamente legato alla restaurazione teorica e programmatica del marxismo e al bilancio della controrivoluzione staliniana ; posizioni che andavano corrette nella consapevolezza che il disastro compiuto dalla controrivoluzione staliniana aveva prodotto confusione, tentennamenti, illusioni e delusioni anche in compagni saldamente ancorati all’esperienza della sinistra comunista, e che non andavano « condannati » perché la riacquisizione delle giuste posizioni e tesi marxiste durava molto più tempo di quello desiderato. E anche quando la compagine di partito si mostra omogenea dal punto di vista teorico-programmatico e convinta dei criteri centralistici in campo organizzativo, l’agire stesso del partito mette alla prova costantemente il partito e ogni suo membro sull’impostazione generale del partito e sulla sua applicazione pratica e tattica. Non concependo la tattica del partito come un risultato automatico delle tesi generali che il partito si è dato, e dovendo il partito affrontare le diverse situazioni basandosi sempre sull’invarianza marxista ma senza infischiarsene delle modificazioni nei rapporti sociali e nei rapporti di forza prodotte dallo stesso sviluppo e dalle stesse crisi del capitalismo, è materialisticamente ovvio che il partito, o una parte di esso, possa sbagliare. L’importante, come dissero Lenin e Bordiga, è che gli errori vengano riconosciuti e corretti, ma tale lavoro di riconoscimento e correzione il partito lo può fare solo alla condizione di non stravolgere la teoria marxista o parte di essa. Non risulta che il sindacalismo e l’anticentralismo siano caratteristiche del marxismo rivoluzionario.

 

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La persistenza dell’influenza controrivoluzionaria del collaborazionismo interclassista e della democrazia sulle grandi masse proletarie dei paesi capitalisti avanzati determina ancor oggi le condizioni sfavorevoli alla ripresa della lotta di classe proletaria e, quindi, alla possibilità per il partito di classe di estendere la sua azione e la sua influenza classiste e rivoluzionarie nelle file proletarie. Ciò non toglie che il partito, sebbene esistente oggi più come suo nucleo embrionale che come partito agente e influente nella società, debba assumersi i compiti del partito compatto e potente di domani, senza scimmiottare gli aspetti organizzativi dell’organo che guiderà la rivoluzione di domani, ma preparando le basi, difendendole da ogni attacco opportunista, su cui si svilupperà quel partito.

Da ciò si deduce facilmente che ogni aspetto dell’attività del partito, pur nella sua specificità, è strettamente collegato a tutti gli altri aspetti e che, soprattutto, alzare una barriera tra teoria e prassi, ossia tra i dettami teorici marxisti, che definiscono il partito storico, e l’azione del partito nella realtà fisica e sociale che definisce il partito formale, significa condannare il partito all’opportunismo, quindi alla sua preventiva liquidazione come partito rivoluzionario della classe proletaria. Se poi si aggiunge, come è il caso del gruppo spagnolo di cui stiamo parlando, la contrapposizione al centralismo di partito da parte di una sorta di democrazia locale giustificata con le più assurde motivazioni che già negli anni Venti del secolo scorso caratterizzavano opportunisti ben più preparati e raffinati degli attuali « madrileni », allora si capisce che tutto il castello di citazioni con cui riempiono una sedicente linea continua tra la Sinistra comunista d’Italia, il partito comunista internazionale di ieri e la loro passata e attuale linea politica, è un castello dalle fondamenta teoriche inesistenti. Le citazioni dai nostri testi classici, estrapolate dal loro contesto e raccolte al solo fine di giustificare esattamente il contrario di quel che ne deriva in termini politici e concreti, vanno così a costituire una specie di cortina fumogena grazie alla quale si nascondono le reali posizioni attiviste e antipartito.

Perché nascondere le proprie origini sindacaliste e anticentraliste come fa il gruppo politico di cui parliamo ? Evidentemente si vergogna. Oggi, nel clima di una specie di « riscoperta » in Spagna della Sinistra comunista d’Italia da parte di intellettualoidi e di gruppi antipartito, come Grupo Barbaria e simili, in un paese che non può essere annoverato tra quelli in cui si sia radicata storicamente una tradizione comunista rivoluzionaria alla stessa stregua della Francia, della Germania, dell’Italia, della Russia e in cui il partito di ieri non ha avuto la possibilità di radicarsi per decenni come è stato il caso di altri paesi ; in un clima in cui vi è una ricerca incessante di visibilità politica costruita su fondamenta antipartito, succede di vedere il misero spettacolo di un gruppo come El comunista nueva edición che nasconde il proprio immediatismo col dimenarsi da vestali dell’ortodossia davanti ad un pubblico che ignora le vere le origini di queste novelle vestali.

Gente del genere lavora contro la ricostituzione del partito di classe, si maschera oggi, come fecero gli stalinisti, i filocinesi e ogni altro filone opportunista e contro-rivoluzionario, presentandosi come irriducibili dogmatici marxisti mentre ieri sputavano sul partito storico difeso strenuamente da quella stessa Sinistra che oggi vogliono piegare, stravolgendola, a giustificazione del loro attivismo e anticentralismo con inventate situazioni particolari della Spagna...

Al mercato dell’immediatismo sono tanti i gruppi di estrema sinistra, e non da oggi, che si contendono un collegamento o addirittura un legame con la corrente della Sinistra comunista d’Italia ; la loro merce, come è ovvio nel mondo del commercio dei principi, a seconda di come gira il vento, viene impacchettata con confezioni che appaiono più gradite al pubblico consumatore del momento : ma la merce è sempre la stessa, avariata fin dall’inizio da un sostanziale politicantismo.

Contro il partito hanno agito tendenze tra di loro contrastanti, ma oggettivamente convergenti.

L’immediatismo, come il volontarismo e il velleitarismo, portano inevitabilmente a debilitare le forze del proletariato tutte le volte che i suoi gruppi più combattivi cercano di staccarsi dagli abbracci del collaborazionismo, incuneandoli in altri tunnel dai quali non esiste una via di uscita rivoluzionaria ; non solo, ma sono votati – quando la situazione sociale sarà davvero scossa da crisi ancora più profonde e in cui la borghesia dominante si preparerà seriamente alla terza guerra imperialista – o a scomparire dall’orizzonte politico sedicentemente rivoluzionario abbandonando alla loro sorte i proletari che li hanno seguiti fino ad allora, o a trasformare il loro immediatismo, il loro volontarismo, il loro velleitarismo nel più putrescente nazionalismo guerrafondaio giustificandolo, per l’ennesima volta, con « la situazione imprevista », con la partecipazione alla guerra borghese perché il paese e, quindi, il proletariato, è stato « aggredito » da forze e da Stati reazionari per cui diventa prioritario vincere su di essi... prima di scatenare la lotta di classe e rivoluzionaria contro la propria borghesia. Abbiamo visto troppe volte nella storia passata questi capovolgimenti, questi veri e propri tradimenti della causa proletaria, soprattutto dallo scoppio della prima guerra imperialista mondiale in poi.

 

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El comunista nueva edición, inoltre, intende dimostrare ai suoi lettori, a quarant’anni di distanza della crisi esplosiva del partito del 1982, che i nostri giornali « le prolétaire » e « il comunista » sono stati e sono la punta di lancia della degenerazione del partito e che questa degenerazione – classificata come « nuevo curso » – avrebbe origine fin dagli anni ’70, ripetendo a pappagallo quel che hanno sostenuto gli ex militanti di Ivrea, Torino, Schio, Marsiglia ecc. Non è il primo gruppo che si prende la briga di attaccarci, e non sarà l’ultimo ; ne abbiamo sentite di tutti i colori fino ad oggi. Ma non ci era ancora capitato di essere attaccati non da chi espone le proprie posizioni politiche, cercando di dimostrare la propria coerenza con le posizioni classiche del marxismo rivoluzionario e con quelle della Sinistra comunista d’Italia e, quindi, del partito comunista internazionale di ieri, ma da chi avanza una sorta di arringa avvocatesca usata nelle aule dei tribunali borghesi mescolando illazioni e formalismi che con gli avvenimenti reali della lotta politica svoltasi all’interno del partito non hanno nulla a che fare ; che, anzi, pretendono di « dimostrare » quel che non è mai avvenuto, poggiando quindi le proprie accuse su falsità. I lettori avranno ancora un po’ di pazienza, ma questa matassa va sbrogliata.

Sulla critica di posizioni sbagliate assunte dal partito dagli anni Settanta in poi, arrivano tardi, le abbiamo fatte noi già allora e, soprattutto, col lavoro di bilancio delle crisi del partito rintracciabile nel sito attraverso la stampa di partito, disponibile interamente nel sito www.pcint.org. La nostra critica non ha mai avuto l’obiettivo di squalificare l’attività del partito nel quale abbiamo militato per decenni – cosa che invece, insieme ad altri gruppi di ex militanti, è quanto hanno fatto e fanno i novelli avvocati di El comunista nueva edición – ma è sempre stata volta a ricollegarci alla corretta linea politica del partito definita dal lavoro di restaurazione teorica e politica svolto nei decenni dopo la fine della seconda guerra mondiale e attraverso un puntuale bilancio dinamico della rivoluzione dell’Ottobre ’17 e della controrivoluzione staliniana, fuori da ogni personalismo e politicantismo. Gli avvocaticchi di El comunista nueva edición hanno aggiunto alle accuse di « degenerazione », come farina del loro sacco, l’accusa della « continuità » di questa « degenerazione » attraverso i formalismi che il partito ha necessariamente utilizzato, e utilizza, per pubblicare legalmente la sua stampa.

E qui è necessario chiarire politicamente, per i lettori del loro periodico, la funzione formale del « direttore responsabile » richiesta dagli obblighi di legge per far uscire legalmente una testata, come per obblighi di legge deve esserci un « proprietario commerciale » della testata stessa che potrebbe essere la stessa persona o persone diverse. Se non ci fossero questi obblighi, la stampa di partito non avrebbe bisogno di scrivere alcun nome di « responsabile », ma solo l’indirizzo dei luoghi dove le sezioni del partito si riuniscono e con le quali prendere contatto. Per la legge borghese, dunque, è necessario che vi siano degli individui « responsabili » con cui eventualmente prendersela se sgarrano dal punto di vista legale, amministrativo, finanziario o politico.

Che la figura del tutto formale di « direttore responsabile » richiesta dalla legge non avesse una funzione di direzione politica nel partito è dimostrato anche dal fatto che per diversi anni il direttore responsabile del « programma comunista » non fu Bruno Maffi, che era anche membro del centro, ma furono compagni che si dimostrarono nel tempo del tutto avversi all’indirizzo politico, tattico e organizzativo del partito, come fu il caso, tra il 1970 e il 1973, di un compagno toscano che fu tra i promotori della fazione « fiorentina » e del suo distacco dal partito, e il successivo caso di un compagno di Ivrea, a sua volta partecipe, dal 1980 al 1981, delle posizioni espresse poi nella forma dell’attendismo da parte delle sezioni di Torino, Ivrea, Schio ecc. Al di là del fatto che le loro convinzioni politiche, ad un certo punto dell’attività di partito divergessero da quelle dell’indirizzo centrale, il partito non ha mai impedito loro di partecipare ad un lavoro di chiarimento interno, mentre era escluso per principio che i compagni che venivano chiamati a coprire la funzione formale di « direttore responsabile » del giornale la usassero per piegare le posizioni di partito sulle proprie posizioni personali o di gruppo. L’indirizzo politico del partito rimaneva disciplinatamente l’indirizzo che il partito si era dato sulla base del lungo lavoro comune di restaurazione dottrinaria e di bilancio della controrivoluzione e che il centro aveva il compito di sintetizzare applicandone gli indirizzi politici e pratici secondo la disciplina centralistica ; una disciplina di partito che fu infranta più volte dai compagni dissenzienti attraverso incontri orizzontali tra sezioni, di nascosto dal centro del partito. Nel caso di Torino, Ivrea, Schio ecc., l’accusa è stata che il partito aveva deragliato dalle sue posizioni classiche scritte nelle tesi fino al 1966 (ossia da quando Amadeo Bordiga, colpito poi da grave malattia, non fu più in grado di svolgere una costante attività politica come in precedenza), ma la loro azione non fu mai il risultato di un atto di forza col quale mandare all’aria la direzione politica del partito, come invece fu il caso del Centro internazionale di Parigi nel 1982 e del Comitato Centrale « italiano » nel 1983 che, in Italia, prese il controllo della direzione politica e del giornale « il programma comunista ».

Certo, di fronte ad eventuali dissensi politici, un compagno che ricopre funzioni dirigenti ha la semplice soluzione di non ricoprirla più, chiedendo di essere sostituito, e tornare ad essere un militante di base al quale comunque, come a tutti i militanti di partito, per principio non è impedito di esternare i suoi dubbi, le sue convinzioni, il suo dissenso ma senza infrangere la disciplina centralista del partito ; e l’esempio di Amadeo Bordiga, e di tutti i compagni della Sinistra degli anni Venti, quando la direzione dell’Internazionale Comunista sostituì la direzione del PCd’I con compagni più ligi alle linee politiche deliberate dall’I.C. stessa, sta a dimostrare che ogni singolo compagno, convinto delle proprie posizioni in contrasto con la linea politica, tattica e organizzativa che si è imposta nel partito, può continuare a sostenere le proprie posizioni senza rompere la disciplina centralista di partito almeno fino a quando nell’organizzazione di partito è consentito di esprimere le proprie posizioni finalizzando questo atteggiamento al potenziale raddrizzamento del partito della cui deviazione si è convinti. Naturalmente, come dicono le Tesi di Napoli del 1965 (4), chi non è d’accordo con la strada che il partito ha preso e non si sente all’altezza dei gravosi compiti storici assunti dal partito e definiti nelle sue tesi, sa benissimo che può prendere qualunque altra direzione che dalla nostra diverga

Torniamo, per un momento, alla questione dell’adempimento degli obblighi di legge rispetto alla pubblicazione della stampa di partito. E’ seguendo l’impostazione del problema sopra ricordata che, nel 1952, quando il gruppo che seguì Damen si rivolse al tribunale perché sottraesse la testata « battaglia comunista » al partito dando ragione al suo « proprietario commerciale », il partito scrisse il famoso trafiletto Al lettore (5) in cui si legge : «Essendosi trattato di far valere contro il partito, contro la sua continuità ideologica ed organizzativa e contro il suo giornale, e beninteso dopo averla carpita, una fittizia proprietà commerciale esistente solo nella formula burocratica che la legge impone, non ci prestiamo a contestazioni e contraddittori tra persone e nominativi ; subiremo senza andare sul terreno della giustizia costituita le imposizioni esecutive. Quelli che se ne sono avvalsi non potranno più venire sul terreno del partito rivoluzionario. Inutile quindi parlare dei loro nomi e dei loro moventi, oggi e dopo».

Ebbene, nel 1983, fecero esattamente la stessa azione legale coloro che si reimpossessarono del giornale del partito « il programma comunista », facendo valere, contro il partito e il suo giornale, una fittizia proprietà commerciale esistente solo nella formula burocratica che la legge impone. All’epoca, cercammo di convincere Bruno Maffi e compagni di non scendere al livello a cui erano scesi Damen e compagnia nel 1952, spingendoli invece a riprendere la lotta politica interna assieme a noi contro le diverse deviazioni che avevano mandato in crisi il partito, ma dalla quale si erano in realtà ritirati lasciando campo libero all’azione degenerata del Comitato Centrale e abbandonando, nello stesso tempo, tutti i compagni della periferia ed isolati nella confusione più grande. Presa la strada dell’azione legale, il gruppo di Maffi rompeva inevitabilmente anche la possibilità di lavorare con noi per il bilancio delle crisi che avevano distrutto il partito, diffondendo, invece, tra i compagni che cercavano di uscire dal disastro della crisi su posizioni chiare e in linea con la tradizione del partito e della Sinistra comunista, un maggiore disorientamento. Questa azione provocò un ulteriore danno al partito, non solo tra le sezioni italiane, ma anche tra i compagni che si stavano riorganizzando dopo la crisi dell’ottobre 1982 in Francia e in Svizzera, e, inoltre, diede spazio anche all’oscena operazione di dileggio da parte dei componenti il Comitato Centrale (C.C.) nei confronti della Sinistra comunista d’Italia e del partito che ne proseguì l’opera teorica e politica, accusando l’una e l’altro di un « vizio d’origine » che sarebbe consistito nel non sapere « fare politica » che, per questi liquidatori dell’ultima ora, voleva dire distorcere i fondamenti teorici del partito per renderlo duttile ad ogni compromesso contingente pur di aumentare di numero i propri aderenti. E così, a maggior scorno dei compagni che precipitarono nell’azione legale contro il partito e contro il suo giornale, il Comitato Centrale si prese il lusso di lanciare loro in faccia la feroce critica contenuta nel trafiletto « Al lettore » del 1952 (che abbiamo ricordato sopra), come se al C.C. stesse davvero a cuore la continuità ideologica e organizzativa del partito mentre, in realtà, la stava spezzando definitivamente.

Il grande disorientamento creatosi nel partito richiedeva un lavoro di riconquista della linea storica del partito e di bilancio della crisi che poteva richiedere anni, e che infatti ha richiesto anni, ma al quale era necessario e urgente dedicarsi. Bilancio che il gruppo del nuovo « programma comunista » ritenne superfluo e addirittura dannoso perché, a suo dire, si trattava soltanto di « riprendere il cammino » del partito una volta eliminata legalmente la « cricca » che si era impossessata del giornale... Si dimenticava che quella « cricca » era composta in realtà dai rappresentanti delle sezioni italiane più importanti che erano rimaste in piedi dopo la crisi dell’82, e che erano sostenuti da gran parte dei compagni delle rispettive sezioni, contro le cui posizioni era doverosa una serrata lotta politica interna al fine non solo di strappare alla loro influenza più compagni possibile, ma anche di preparare l’inevitabile rottura organizzativa nella chiarezza politica. Con il pretesto della « cricca », il gruppo del nuovo « programma comunista » voleva giustificare la sua azione legale sostenendo che il problema prioritario del momento era quello di... salvare l’onore del partito ; bel salvataggio davvero, disonorandolo con l’azione legale attraverso la quale si chiedeva al tribunale borghese di stabilire che la giusta linea politica del partito fosse quella decisa dal suo proprietario commerciale !

El comunista nueva edición zampetta, di fatto, sullo stesso terreno della giustizia borghese ; sostenendo che tra il « programma comunista » degli anni precedenti la crisi del 1982, « combat » e « il comunista » vi sia una linea continua di quel « nuovo corso » – così caro alla cosiddetta « sezione di Schio » da cui i madrileni hanno ripreso gli argomenti – sostiene in realtà un falso colossale che poggia esclusivamente sul formalismo imposto dalla legge borghese, come se il filo logico di una linea politica continua fosse riconoscibile solo attraverso le figure burocratiche che la legge borghese impone. Se non è personalismo questo, che cos’è ?

Naturalmente questo gruppo di politicanti si è ben guardato dal leggere tutto il materiale che abbiamo pubblicato sulla crisi, sulle differenze tra noi e il nuovo « programma comunista », tra noi e tutti gli altri gruppi staccatisi – loro compresi e compresa Schio – dal partito nei diversi momenti, e naturalmente tra noi e « combat » (6). A questo gruppo di politicanti interessava sostenere la tesi secondo la quale « le prolétaire-il comunista » non sono stati che l’espressione di una supposta degenerazione dovuta ad un cosiddetto « nuovo corso ». Attaccano alcuni articoli che contengono posizioni equivoche apparsi negli anni turbolenti della crisi, e che noi stessi abbiamo rettificato senza bisogno del loro vociare, come se in quegli articoli, tra le migliaia pubblicati, ci fosse la summa delle nostre posizioni e non, invece, una parte, non prevalente, dello sforzo nel lavoro di riconquista delle posizioni corrette del partito e dell’intero patrimonio teorico-politico del partito. Vorrebbero dimostrare una degenerata continuità politica esclusivamente attraverso la formale e casuale presenza dello stesso nome legalmente « responsabile » tra « il programma comunista » dal 1981 al 1983, « combat » nel 1984 e « il comunista » dal 1985 in poi. Pretendono di fare una critica politica semplicemente sottolineando un aspetto esclusivamente formale che la legge borghese obbliga a rispettare senza aver capito il valore politico, e non semplicemente formale, dell’anonimato per il partito, senza aver capito in che cosa consiste la lotta politica all’interno del partito fuori del personalismo e del politicantismo. Pensano che la lotta politica del partito e, quando necessario, nel partito, si faccia soltanto attraverso le cariche formali o le prese di posizione personali del compagno tale o talaltro. Di fatto, condividono la stessa idea dei signori proprietari di « battaglia comunista » nel 1952 e de « il programma comunista » nel 1983. Quanto a « Combat », questi avvocaticchi non hanno letto, o hanno escluso di considerare, quel che abbiamo scritto fin da subito – quando cioè avremmo potuto essere smentiti sia da « il programma comunista » che da « combat » – e cioè che la nostra battaglia politica la conducemmo da semplici militanti di base : nessuno di noi faceva parte della direzione del partito né in Francia dopo la crisi dell’ottobre 1982, né in Italia dal colpo di mano del Comitato Centrale del giugno 1983 in poi. Noi siamo stati sempre contrari ad usare l’azione legale al posto della battaglia politica all’interno del partito ; la nostra battaglia partiva dal fatto che era ancora possibile strappare dei compagni alla completa débacle mentre la proprietà commerciale era nelle mani dei componenti il Comitato Centrale così come la direzione politica di quel che era rimasto dell’organizzazione. L’inserimento del nome del « direttore responsabile » nel giornale « combat » fu un ulteriore colpo di mano contro il quale ci si sarebbe potuti opporre o attraverso un’azione legale o una battaglia politica portata fino alla rottura. Ovviamente noi abbiamo percorso la via della battaglia politica che portò effettivamente alla rottura con « combat », e non quella del tribunale borghese, e questo ci diede la possibilità di riprendere i contatti con i compagni in Francia e in Svizzera da cui eravamo stati esclusi dal Comitato Centrale e la possibilità di riprendere i contatti con alcuni compagni lombardi e del Veneto strappandoli al ricatto del Comitato Centrale. Per quel che riguarda « il comunista », come già scritto a suo tempo, ma di cui gli avvocaticchi di El comunista nueva edición non tengono assolutamente conto, questa testata era stata registrata su disposizione del centro già nel 1982, perché si prevedeva, dal 1983, che « il programma comunista » passasse da quindicinale a mensile, e di uscire inizialmente bimestralmente con un foglio di agitazione politica, « il comunista », come dichiarato ufficialmente in una riunione generale e pubblicato poi ne « il programma comunista » n. 22, 11 dicembre 1982.

Va ribadito, in ogni caso, che l’indirizzo politico del partito – che discende dall’impostazione generale definita e accettata da tutti i membri del partito – rimane responsabilità del centro il quale non ha alcun diritto di cambiarlo in base a supposte situazioni nuove ed impreviste. La disciplina richiesta a tutti i membri del partito è perciò innanzitutto politica da cui deriva la disciplina formale. Altra cosa è infrangere la disciplina centralistica, cosa successa in diverse occasioni che sboccarono poi in crisi organizzative e politiche preparate, guarda caso, attraverso incontri orizzontali tra sezioni di nascosto dal centro e dalle altre sezioni del partito. In più occasioni, compagni dissenzienti si trasformarono in frazionisti, organizzando incontri e accordi politici tra di loro, orizzontalmente, contro il partito e contro il centro. Sceglievano, in realtà, la via di una lotta politica al di fuori della disciplina centralistica, su basi democratiche, magari facendosi forti del sostegno delle sezioni locali di cui facevano parte ; di fatto, la sezione locale veniva così posta in alternativa al centro come elemento organizzativo autonomo. La sezione locale non era più considerata una sezione del partito, ma il partito ; stabiliva quale direttiva del centro seguire e quale no, quale attività o intervento fare e quale no, se prendere contatto con altre sezioni o con compagni fuoriusciti o no, che cosa riferire e che cosa no al centro ecc. ecc. Non è forse questo il modo per distruggere il centralismo organico osannato a parole, ma negato nei fatti ? I fuoriusciti di Firenze del 1973 erano arrivati addirittura a sostenere che il singolo militante di partito, in ogni suo intervento esterno, non solo rappresentava il partito, cosa che è normale per ogni militante di partito, ma che era il partito, perciò qualsiasi cosa facesse o dicesse, in linea o contro la linea politica del partito, era come se fosse il partito a farla e a dirla. Erano così arrivati alla consacrazione più alta dell’individualismo.

 

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Quanto alla « questione nazionale », gli avvocaticchi di El comunista nueva edición hanno messo in fila una serie di citazioni di Lenin e del nostro partito alle quali ci siamo riferiti anche noi più e più volte nei nostri lavori sulla questione, ma non hanno affrontato la questione dell’oppressione nazionale delle popolazioni oppresse, oggi ancor più di ieri, dal punto di vista dell’atteggiamento che deve avere il proletariato dei paesi imperialisti per dimostrare ai proletari delle nazionalità oppresse di non essere complici della propria borghesia imperialista ; un atteggiamento che non può essere semplicemente il richiamo ideale della rivoluzione proletaria di un domani con la quale si risolveranno i problemi di ogni oppressione borghese, compresa quella nazionale, della donna, del salario ecc. ecc. In tutto il periodo storico segnato dall’oppressione borghese e imperialista, che cosa devono fare i proletari dei paesi imperialisti se vogliono lottare per imporsi come classe rivoluzionaria ? Devono abbandonare totalmente i proletari delle popolazioni oppresse all’influenza delle rispettive borghesie che hanno, invece, l’interesse di legare i propri proletari, i propri contadini poveri alla lotta contro l’oppressione nazionale nell’esclusivo obiettivo dell’indipendenza nazionale ? Non devono dimostrare ai proletari delle popolazioni oppresse di non rimanere in silenzio rispetto alla propria borghesia colonialista e imperialista, di non essere indifferenti alla sorte dei proletari delle popolazioni oppresse, di prendere una posizione di contrasto concreto con gli interessi reali della propria borghesia colonialista e imperialista anche sul terreno immediato dei proletari delle popolazioni oppresse ?

Quando Lenin affermava che i comunisti dovevano sostenere la lotta proletaria per l’autodeterminazione dei popoli oppressi non diceva forse che questo sostegno, naturalmente espresso nella piena indipendenza politica e organizzativa da parte comunista e senza sospendere la lotta classista contro la propria borghesia, serviva ai proletari dei paesi oppressori per dimostrare di non essere complici di questa oppressione e ai proletari dei paesi oppressi per liberare il terreno della loro lotta dal nazionalismo borghese (che nasconde il vero obiettivo della borghesia nazionale, cioè quello di sfruttare in prima persona il proprio proletariato) per abbracciare apertamente la lotta di classe antiborghese e, quindi, facilitare l’alleanza internazionalista fra i proletari dei paesi oppressori e dei paesi oppressi ? Questa visione dialettica era particolarmente ostica anche a molti comunisti bolscevichi dell’epoca, visto che Lenin su questa questione dovette tornare mille volte ; e che si sia mantenuta ostica nel tempo – alla stessa maniera della questione sindacale – è dimostrato dal fatto che non sono bastate le « Tesi sulla questione nazionale e coloniale » dell’Internazionale Comunista del 1920, ispirate da Lenin, per chiudere ogni possibile dissenso, visto che l’incomprensione dello spirito rivoluzionario che animava quelle tesi era ancora ben presente tra i compagni della Sinistra comunista d’Italia che, dopo la fine della seconda guerra imperialista mondiale, si riorganizzarono per ricostituire il partito di classe e per restaurare il marxismo falsificato fino all’ultima parola dallo stalinismo. Per « battaglia comunista », dopo essere diventata la voce soltanto del gruppo di Damen, la « questione nazionale » non è più una cosa di cui il proletariato si deve occupare già fin dal 1914 !!! ; altre tendenze dello stesso tipo, con qualche differenza da quella del gruppo di Damen, si sono ripresentate nel nostro partito in tutto il corso della sua vita fino a diventare, nel 1982, il detonatore della crisi, questa volta esplosiva, del partito, come dieci anni prima lo fu la « questione sindacale ». Se non si è d’accordo con Lenin, se si ritiene che le argomentazioni di Lenin, su questa questione come su cento altre della tattica comunista, non hanno più valore, lo si dica apertamente. Il nostro partito ha faticato non poco per rimettere in piedi l’intera e complessa « questione nazionale », ricadendo più di una volta in posizioni completamente sbagliate o insufficienti proprio dal punto di vista della dialettica marxista ; noi questo non l’abbiamo mai nascosto.

El comunista nueva edición cita un articolo da « le prolétaire » n. 89 del 1970 nel quale scrivevamo che non abbiamo mai creduto alle « soluzioni nazionali » in Vietnam, a Cuba o in Palestina, non abbiamo mai incoraggiato la minima illusione su queste « vie » perseguite dalle rivolte degli sfruttati che non hanno né l’organizzazione né l’armamento teorico del proletariato né sono organizzati come vera classe rivoluzionaria ; da ciò si deduce che, più facilmente, queste rivolte, non essendo presenti né il partito di classe né la sua influenza né la sua azione, sono prigioniere del nazionalismo borghese e piccoloborghese. In realtà, in questo articolo, come succede il più delle volte negli articoli del giornale, si prende di mira la critica delle posizioni opportuniste maggiormente influenti sul proletariato ; in questo caso il focus è dato dalla prospettiva diffusa dell’imperialismo russo nei confronti delle rivolte dei popoli coloniali e, quindi, anche delle masse palestinesi, di una lotta di « liberazione nazionale » che si intrecciava con la falsa prospettiva della « via nazionale al socialismo ». Ovvio dunque sottolineare, in particolare, l’atteggiamento controrivoluzionario del cosiddetto « socialismo reale » rappresentato dalla Russia post-staliniana e mettere in risalto soprattutto la prospettiva generale della lotta proletaria contro il nazionalismo borghese, anche se questa lotta fosse inserita nelle rivoluzioni democratico-borghesi nelle quali la partecipazione del proletariato, per mantenere viva la prospettiva rivoluzionaria antiborghese, doveva avvenire nella piena indipendenza politica e organizzativa. Quel che questo articolo non dice, ma non era il suo scopo principale, è che la lotta del proletariato delle nazioni oppresse contro l’oppressione colonialista e imperialista, per non cadere nella trappola del nazionalismo borghese, deve trovare nel proletariato dei paesi colonialisti e imperialisti un sostegno reale sul terreno della lotta classista contro l’oppressione esercitata dalle proprie borghesie colonialiste e imperialiste. Come dimostrare ai proletari delle popolazioni oppresse di non essere complici delle proprie borghesie in quell’oppressione ? Lottando perché quell’oppressione nazionale finisca, perché le truppe di occupazione vengano ritirate dai paesi coloniali, perché alla popolazione oppressa sia riconosciuta l’autodeterminazione. Sarebbe sufficiente questa lotta da parte dei proletari dei paesi oppressori per far scomparire l’oppressione generale della borghesia ? Certamente no, perché la lotta classista ha per obiettivo principale la lotta rivoluzionaria per abbattere il potere borghese e instaurare la dittatura di classe in ogni paese. Ma il proletariato dei paesi colonialisti e imperialisti, che ammonisce il proletariato dei paesi oppressi dalla sua borghesia di non farsi intrappolare nella lotta nazionalistica, con che diritto, con che faccia chiede a quei proletari di imboccare la via della rivoluzione proletaria quando lui stesso si disinteressa completamente dei problemi oggettivi che si presentano alla lotta dei proletari delle popolazioni oppresse, quando non muove un dito contro l’oppressione coloniale e imperialistica della propria borghesia, rimandando la soluzione di tutti i problemi, di tutte le contraddizioni del capitalismo, di ogni oppressione alla vittoria della rivoluzione proletaria di un domani ? Nel frattempo che fa il partito di classe ? El comunista nueva edición su questo punto centrale della lotta di classe tace, si limita a proclamare la grande prospettiva ideale della rivoluzione proletaria « pura » librandosi nell’illusione che il proletariato dei paesi oppressi, spontaneamente, senza l’aiuto del proletariato dei paesi oppressori, anzi in assenza totale del suo aiuto nella lotta contro l’oppressione nazionale, riesca ad imboccare la via della rivoluzione proletaria che lo stesso proletariato dei paesi colonialisti e imperialisti ha completamente smarrito !

Se i proletari dei paesi imperialisti non si battono contro l’oppressione nazionale delle popolazioni più deboli, significa che lasciano mano libera alle proprie borghesie imperialiste, le quali usano i profitti ricavati dallo sfruttamento bestiale dei proletari delle nazioni più deboli per concedere ai propri proletari di casa qualche euro in più nella busta paga, qualche beneficio economico e sociale in più per tenerli lontani dalla lotta di classe. E’ così che la borghesia imperialista alimenta la collaborazione di classe in casa propria e, nello stesso tempo, la concorrenza più feroce tra i proletari autoctoni e i proletari delle nazioni più deboli. Ed è su queste basi che nascono e prosperano le forze dell’opportunismo di ogni tendenza. Se poi la borghesia delle nazioni più deboli ha già raggiunto storicamente l’indipendenza politica, si è già organizzata con uno Stato riconosciuto dagli altri Stati e la sua economia è già capitalistica, sebbene in presenza di molti residui arretrati – come è il caso, ormai, della gran parte dei paesi del mondo – ciò non toglie che persistano sacche di oppressione nazionale caratterizzate ancora dalle forme del vecchio colonialismo, come appunto per i palestinesi, i curdi ecc., di cui le masse proletarie oltre a subire l’oppressione salariale e razziale, subiscono anche l’oppressione nazionale.

E’ indiscutibile che la loro grande combattività offra il terreno politico alla propria borghesia per coinvolgerle nella lotta « di liberazione nazionale », in una lotta che storicamente non ha alcuna possibilità reale di giungere ad una sistemazione nazionale allo stesso modo in cui avvenne nell’Ottocento e nel Novecento per molti paesi non solo europei ma anche latinoamericani, asiatici ed africani. Rimane però presente un’oppressione nazionale, esercitata oltretutto da potenze economiche regionali che hanno rilevato dai paesi imperialisti l’esercizio locale di questa oppressione, come è il caso di Israele, della Turchia, dell’Arabia Saudita ecc. – paesi imperialisti che sono comunque responsabili, dato che le appoggiano economicamente, politicamente, finanziariamente, militarmente.

Che il nostro partito abbia preso posizioni sbagliate su questa questione negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso è cosa che noi stessi abbiamo denunciato e combattuto ; che quelle posizioni sbagliate su questa questione siano state il detonatore della crisi esplosiva del 1982-84 noi l’abbiamo apertamente affermato fin dal primo momento ; che non sia stato facile riconquistare la corretta impostazione della questione nazionale, alla luce dello sviluppo imperialistico del capitalismo e alla luce degli errori in cui il partito è caduto, è egualmente cosa che abbiamo messo in conto nel nostro sforzo di riallacciarci alla giusta impostazione politica di questa questione, come di quella sindacale e della tattica in generale. Ma è certo che la questione dell’oppressione nazionale non può essere « risolta » negandone l’esistenza e, soprattutto, negando il fatto che il proletariato dei paesi imperialisti, che sono i maggiori oppressori al mondo, si deve far carico di una lotta che necessariamente passa attraverso il riconoscimento di quello che Lenin ha chiamato « autodeterminazione dei popoli oppressi », un riconoscimento che non esclude assolutamente la lotta di classe proletaria che punta ad essere internazionale (ma che inevitabilmente inizia a livello nazionale), ma che non può escludere a priori la partecipazione a questa lotta di classe internazionale del proletariato dei paesi e dei popoli oppressi.

La partecipazione del proletariato dei popoli oppressi alla lotta di classe proletaria e internazionale – l’esempio di ieri è quello delle diverse nazionalità oppresse dallo zarismo e dal potere borghese, e prima ancora dell’Irlanda da parte del Regno Unito, e poi di tutti i popoli colonizzati dal capitalismo europeo e americano – si ottiene seguendo le indicazioni tattiche svolte da Marx e da Lenin, e poi da Bordiga, e cioè ancorando la lotta proletaria per l’ »autodeterminazione nazionale » dalla potenza oppressiva alla lotta proletaria di classe, antiborghese e, quindi, anticoloniale, antimperialista del proletariato dei paesi capitalisti avanzati. E si torna al punto di partenza : quale deve essere l’atteggiamento del proletariato dei paesi più forti, dei paesi che opprimono i paesi e le popolazioni più deboli se non quello di lottare contro la propria borghesia coloniale, imperialista contro ogni oppressione, lottando sul terreno strettamente sindacale come su quello dell’oppressione della donna e quello dell’oppressione nazionale ? Come fanno i proletari italiani, spagnoli, tedeschi, francesi, inglesi, americani, giapponesi, russi e di qualsiasi altro paese oppressore come quello israeliano, turco, indiano, cinese, arabo ecc., a dimostrare ai proletari delle popolazioni oppresse, come ad esempio quella palestinese, curda, yemenita, somala, eritrea, saharawi ecc., di non essere beneficiari dell’oppressione nazionale che le proprie borghesie attuano nei loro confronti ? Pensando soltanto al proprio tornaconto economico e sociale disinteressandosi del tutto della sorte del proletariato dei paesi e dei popoli oppressi ?

La lotta di classe del proletariato, per essere tale ed avanzare nella prospettiva della lotta rivoluzionaria internazionale, non attende che il capitalismo sviluppi economicamente, politicamente, socialmente, culturalmente tutti i paesi e tutti i popoli del mondo.

Questo è uno sviluppo che il capitalismo non potrà mai avere, anzi, più si sviluppa il capitalismo monopolistico e finanziario, dunque l’imperialismo, e più si sviluppano le diseguaglianze tra i paesi, più si accentua l’ineguale sviluppo del capitalismo già affermato e previsto dal marxismo. Il comunismo rivoluzionario, quindi il partito comunista rivoluzionario, si è posto l’obiettivo della rivoluzione anticapitalistica quando il capitalismo aveva già espresso tutte le sue caratteristiche e tendenze storiche anche se solo in alcuni paesi del mondo – come l’Inghilterra, la Francia, la Germania, gli Stati Uniti – e il Manifesto del partito comunista di Marx-Engels è lì a dimostrarlo, nella consapevolezza che la rivoluzione proletaria vittoriosa e la sua dittatura di classe avrebbero dovuto farsi carico dello sviluppo economico, politico, sociale e culturale in tutti quei paesi a cui il capitalismo non aveva ancora provveduto e in cui i residui delle società precapitalistiche erano ancora fortemente presenti.

Questo non voleva forse dire che il proletariato dei paesi più avanzati, o meglio, il proletariato più avanzato dal punto di vista di classe e rivoluzionario (come sono stati per un certo periodo il proletariato francese, e poi quello tedesco, e poi quello russo) doveva farsi carico dei compiti che la borghesia non aveva portato a termine ? Si dirà, oggi lo sviluppo capitalistico è andato talmente avanti dal punto di vista economico e sociale che il proletariato non ha più il compito di contribuire alla vittoria della rivoluzione borghese antifeudale, antischiavistica e antidispotismo asiatico dal punto di vista economico, perciò può e deve dedicarsi esclusivamente alla propria rivoluzione di classe antiborghese ; inoltre, i tentativi rivoluzionari della classe proletaria del 1848-50 europeo, del 1871 parigino, del 1919-20 in Germania, in Ungheria, in Italia non sono andati a buon fine, e la vittoria rivoluzionaria nell’arretrata Russia zarista del 1917, dopo aver acceso le speranze rivoluzionarie nel mondo, non è stata sufficiente per mandare a gambe all’aria il capitalismo mondiale : quale conclusione trarre da queste successive sconfitte ?

Ma dalle sconfitte del movimento rivoluzionrio è il partito di classe che deve trarre le lezioni indispensabili per la ripresa della lotta di classe e per la vittoria rivoluzionaria. I rivoluzionari a parole, quando riprendono le citazioni di Marx, di Lenin o di Bordiga, ne riprendono la lettera ma non lo spirito ; per loro il mondo è semplice : esistono soltanto proletari e borghesi, o si sta con i proletari o si sta con i borghesi, e non si accorgono che i rapporti sociali nel capitalismo imperialistico sono molto più complicati di quello che pensano e che lo sviluppo del capitalismo non ha semplificato i rapporti sociali ma li ha ancor più confusi e complicati e non solo perché ha dato spazio alle mezze classi piccoloborghesi, ma anche perché, mentre accresceva ogni forma di oppressione soprattutto nei paesi più deboli, sviluppava nello stesso tempo larghi strati di aristocrazia operaia (che già Engels aveva individuato nello sviluppo del capitalismo inglese) per legare alla propria conservazione e alla propria sorte una parte non indifferente del proletariato dei paesi più avanzati in modo da influenzare direttamente e capillarmente gli strati proletari più sfruttati che, in realtà, costituiscono la maggioranza del proletariato mondiale.

Che importanza ha per il partito comunista rivoluzionario la valutazione del rapporto che l’aristocrazia operaia ha con il resto del proletariato ? Con l’andare del tempo l’importanza è diventata sempre più grande, perché l’aristocrazia operaia è, nello stesso tempo, fattore decisivo nella concorrenza tra proletari e vettore decisivo della collaborazione di classe fra proletariato e borghesia. Più è duratura e stretta la collaborazione di classe nei paesi capitalisti più avanzati e meno i proletari dei paesi più deboli, e a maggio ragione i proletari delle popolazioni oppresse, vedono nei proletari dei paesi oppressori i propri fratelli di classe, i propri alleati. I proletari dei paesi più deboli e delle popolazioni oppresse vengono così gettati in pasto alle rispettive fazioni borghesi, ai loro interessi, alle loro manovre politico-economiche con le borghesie imperialiste, alle loro campagne nazionaliste. E’ forse escluso che i proletari palestinesi, curdi, yemeniti e delle altre nazionalità oppresse, sull’onda della loro ribellione e della loro lotta contro l’oppressione nazionale imbocchino la strada della lotta di classe e, quindi, in prospettiva della rivoluzione proletaria ? No, non è escluso, ma è escluso che, anche se questo, in una situazione di crisi generale del capitalismo mondiale, avvenisse – come avvenne in seguito alla prima guerra imperialistica mondiale al proletariato russo –, senza una ripresa più ampia e duratura della lotta classista nei paesi imperialisti più importanti, quella loro ribellione, quella loro lotta contro l’oppressione nazionale non avrebbe alcuno sbocco internazionalista se non si allacciasse alla lotta proletaria e internazionalista dei proletari dei paesi imperialisti. Le due cose non sono separate, o stanno insieme o non esiste alcuna possibile vittoria rivoluzionaria né nei paesi oppressi né nei paesi oppressori.

Non è accidentale il fatto che il marxismo, dunque la teoria del comunismo rivoluzionario, sia nato nel cuore dell’Europa capitalistica avanzata. Ricordate ?, il marxismo è il superamento dialettico di tutto ciò che poterono dare storicamente l’economia inglese, la filosofia tedesca e il socialismo utopistico francese ; qui il capitalismo ha disegnato il suo inevitabile e intero sviluppo storico. Il proletariato, si è rivelato l’unica classe rivoluzionaria della società moderna, l’unica classe che non aveva e non ha nulla da guadagnare nella società capitalistica – e tanto meno nelle società precapitalistiche – ma aveva ed ha un mondo, cioè una società senza classi, da guadagnare. Doveva però sobbarcarsi il peso di una rivoluzione che avrebbe dovuto portare a termine i compiti economici e sociali che la borghesia capitalistica non avrebbe mai portato a termine, e non perché non lo volesse, ma perché non lo poteva, dato che è sempre stata prigioniera dei suoi interessi di classe, a loro volta condizionati dallo sviluppo ineguale del capitalismo che, se da un lato ingigantiva gli interessi della borghesia più potente, dal lato opposto schiacciava gli interessi delle borghesie più deboli, ma insieme schiacciavano sempre più le masse proletarie e proletarizzate che lo stesso sviluppo capitalistico formava incessantemente nei vari paesi del mondo. E’ lo sviluppo storico della società capitalistica che ha consegnato al proletariato dei paesi capitalisti avanzati la chiave del futuro rivoluzionario del proletariato mondiale, e la sconfitta della gloriosa rivoluzione russa è la dimostrazione più lampante.

Questo è un motivo in più perché il proletariato dei paesi sviluppati dimostri al proletariato di tutto il mondo di essere davvero la punta più avanzata della lotta di classe e della rivoluzione di classe, di essere all’altezza dei suoi compiti rivoluzionari internazionali. Come abbiamo sottolineato più e più volte nei testi coi quali abbiamo rimesso in piedi la giusta valutazione dei movimenti di lotta palestinese o curda, e la giusta prospettiva della loro lotta, correggendo gli errori in cui è caduto il partito, la rivendicazione dell’autodeterminazione da parte della nazionalità palestinese ha senso per noi solo se la lotta dei proletari palestinesi contro l’oppressione nazionale esercitata dalle borghesie straniere è contemporaneamente legata alla lotta contro la propria borghesia nella prospettiva della rivoluzione proletaria e, nello stesso tempo, se il proletariato dei paesi oppressori – a cominciare dal proletariato israeliano, ma coinvolgendo i proletari di tutti i paesi capitalisti dell’area mediorientale e del mondo che dall’oppressione dei palestinesi ci guadagnano sia economicamente e socialmente, sia politicamente – si prende in carico la lotta contro quell’oppressione nazionale di cui le proprie borghesie sono le vere beneficiarie. Qual è la rivendicazione che contribuirebbe, oggi e non un lontano domani, a dimostrare la non complicità dei proletari dei paesi capitalisti nell’oppressione nazionale, a dimostrare ai proletari palestinesi che la loro lotta è la nostra lotta di proletari dei paese avanzati liberando il terreno alla lotta di classe antiborghese sui due fronti, quello « nazionale » e quello internazionale ? Ce lo ha detto Lenin : la rivendicazione dell’autodeterminazione nazionale, ma non slegata dalla lotta classista contro la propria borghesia imperialista. Negare a priori la rivendicazione dell’autodeterminazione delle nazionalità oppresse – anche se questa rivendicazione oggi riguarda una parte più ristretta di quanto non fosse nel secolo scorso – significa accettare che la propria borghesia imperialista continui ad opprimere le nazionalità più deboli, significa, di fatto, partecipare alla stessa oppressione nazionale, significa trarre vantaggio da questa oppressione, significa acutizzare la concorrenza tra proletari, significa schierarsi con la borghesia controrivoluzionaria. Questa è la strada che ha imboccato El comunista nueva edición alla stessa stregua del nuovo « programma comunista », di Schio e di tutti i gruppi che tra il 1982 e il 1984 tentarono di far scomparire il partito.

Come dice Lenin, sostenere l’autodeterminazione nazionale per i popoli repressi e oppressi non significa automaticamente lottare per l’indipendenza nazionale e per la costituzione dello Stato borghese ; come lottare per gli aumenti salariali non significa, per i comunisti rivoluzionari, lottare per il mantenimento in eterno del regime salariale e quindi del capitalismo, così lottare per l’autodeterminazione delle popolazioni oppresse dal capitalismo colonialista e imperialista non significa, per i comunisti rivoluzionari, lottare per la costituzione di uno Stato nazionale per ogni piccola o grande popolazione esistente. Noi siamo per l’abbattimento del regime salariale come per l’abbattimento di ogni Stato nazionale, ma la dialettica storica passa attraverso differenti fasi della lotta proletaria che soltanto il partito di classe conosce e prevede, partito che ha il compito, certamente gravoso e per nulla semplice, di preparare e guidare il proletariato di ogni paese – avanzato o arretrato, oppressore o oppresso che sia – verso la ripresa della lotta di classe e, quindi, della lotta rivoluzionaria, senza negare le contraddizioni sempre più forti e profonde che lo sviluppo dell’imperialismo produce inevitabilmente. Credere che la ripresa della lotta classista del proletariato, a livello nazionale e internazionale, si presenti magicamente un giorno per il solo effetto delle crisi economiche, politiche, finanziarie del capitalismo e per il solo sviluppo spontaneo della « coscienza di classe » nelle masse proletarie, è come credere alla ruota della fortuna, è portare la superstizione ai più alti livelli dell’incoscienza. Il partito per cui noi abbiamo lottato e lottiamo, pur con tutti gli errori fatti e che faremo ancora, non è quello che credono di essere o che vogliono essere un domani gruppi come El comunista nueva edición, gruppi che hanno imboccato la strada contraria a quella che porterà alla ricostituzione del sano e forte partito comunista internazionale.

 


 

(1) Le tesi sulla questione sindacale : Il partito di fronte alla « questione sindacale », furono pubblicate ne « il programma comunista » n. 3 del 1972, anticipate dalla pubblicazione di estratti dai testi del marxismo rivoluzionario fin da Engels e Marx, nella serie intitolata : « Basi storiche-programmatiche del comunismo rivoluzionario circa il rapporto tra Partito e Classe, azione di classe e associazioni economiche operaie », nei nn. 22, 23 e 24 del 1971 e nn. 1 e 2 del 1972 di « programma comunista ». Le circolari citate sono state pubblicate come materiali per il bilancio delle crisi del partito, nei nn. 33 del 1992 e 34-35 del 1993 de « il comunista ».

(2) Vedi ne « il comunista » nn. 33 e 34-35 del 1992-1993 l’articolo « Riprendendo il bilancio sulle crisi avvenute nel nostro partito ».

(3) Cfr. Lenin, L’« Estremismo », malattia infantile del comunismo, Opere, vol. 31, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 47.

(4) Le Tesi di Napoli, come comunemente sono state definite le Tesi sul compito storico, l’azione e la struttura del partito comunista mondiale, secondo le posizioni che da oltre mezzo secolo formano il patrimonio storico della sinistra comunista, furono presentate alla Riunione generale del 17-18 luglio 1965 nella città di Napoli, e pubblicate ne « il programma comunista » n. 14 del 28/7/1965. Queste tesi sono state poi raccolte con le altre tesi fondamentali del partito dal 1920 al 1966, nel testo di partito intitolato In difesa della continuità del programma comunista, pubblicato nel giugno del 1970.

(5) Pubblicato dal n. 1 al n. 3 del 1952 ne « il programma comunista ».

(6) Tra i vari materiali dedicati al bilancio delle crisi del partito vedi Che cosa significa fare il bilancio della crisi del partito (il comunista, n. 6, nov.1986-febbr.'87) ; Sul bilancio delle crisi di partito : La riconquista del patrimonio teorico e politico della sinistra comunista passa anche attraverso la riacquisizione della corretta prassi di partito (il comunista, nn. 8 e 9-10/1987) ; Materiali sul bilancio politico delle crisi interne di partito. Intermezzo di collegamento (il comunista, n. 45, aprile 1995) e il Reprint, giugno 2006 : Sulla formazione del Partito di classe. Lezioni dalla crisi del 1982-84 del partito comunista internazionale « programma comunista ».

 

 

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