Nella continuità del lavoro collettivo di partito guidato dalla bussola marxista nella preparazione del partito comunista rivoluzionario di domani

(Rapporti alla riunione generale di Milano del 16-17 dicembre 2023)

(«il comunista»; N° 181 ; Marzo-Aprile 2024)

Ritorne indice

 

Sul filo del tempo della corrente della Sinistra comunista d’Italia

Cosa ci differenzia dai gruppi politici che proclamano di esserne eredi

 

Continuiamo col resoconto esteso del Rapporto tenuto all’ultima riunione generale col quale intendiamo definire i punti fondamentali che ci distinguiamo da ogni altro gruppo politico che rivendica le stesse origini a cui noi siamo strettamente collegati : la corrente della Sinistra comunista d’Italia. Abbiamo iniziato perciò col trattare le posizioni del « Partito comunista-battaglia comunista » di cui abbiamo pubblicato la prima parte nel numero precedente del giornale. Naturalmente, avendo già trattato in linea generale questo tema in diverse riunioni generali precedenti e nel nostro primo volume [presente nel sito www.pcint.org] Il Partito Comunista Internazionale nel solco delle battaglie di classe della Sinistra Comunista e nel tormentato cammino della formazione del partito di classe (2010)], rimandiamo gli interessati a rileggere i capitoli ad esso dedicato. Sulla stessa traccia, continueremo la nostra critica agli altri gruppi politici.

 

 

Le posizioni di « battaglia comunista »

 

 

2) la valutazione della lotta sindacale : questa lotta è data, dal gruppo di Damen, per inutile e deviante perché i sindacati – ormai completamente assorbiti negli ingranaggi dello Stato – si limitano alla « logica contrattualistica » cosa che impediva loro di uscire dalla divisione in classi della società e di lottare conseguentemente contro « lo sfruttamento del lavoro salariato » ; data invece, in generale, dal gruppo che seguirà Bordiga, come un terreno necessario al partito per collegarsi alla vita immediata e alle lotte del proletariato attraverso cui espandere l’influenza del partito rivoluzionario in quella che era considerata, alla Lenin, come la scuola di guerra del proletariato nella quale il partito aveva il compito di prenderne la guida per dirigerne l’azione elevandola dal terreno immediato al terreno politico generale. Per il gruppo di Damen la lotta sindacale era controproducente per il proletariato per il quale si ammetteva la necessità di lottare per il salario, ma solo come trampolino immediato della sua lotta politica per la rivoluzione e la presa del potere, perché ribadendo il salario si ribadiva lo sfruttamento capitalistico. E’ evidente, qui, la totale assenza di dialettica marxista. Come se la nota frase di Marx : l’emancipazione del proletariato è opera del proletariato stesso, significasse che il proletariato raggiunge la coscienza rivoluzionaria senza bisogno dell’attività e dell’azione del partito di classe, e che il « partito », nella rivoluzione proletaria, ha solo un compito organizzativo e amministrativo, al massimo culturale.

I sindacati operai, siano organizzati e diretti da riformisti, collaborazionisti o da comunisti, sono sempre e comunque organizzazioni operaie dalle quali una parte importante degli operai che si iscrivono si attendono la difesa dei loro interessi immediati che vanno dal salario alla lotta contro i licenziamenti, dalla lotta contro la nocività nei posti di lavoro alla lotta perché le agitazioni e le azioni sindacali siano riconosciute dai padroni e dallo Stato ecc. Ciò non toglie che i sindacati operai rientrino – superata la fase in cui non erano tollerati dal potere della borghesia – negli obiettivi di influenza diretta e indiretta della classe dominante, affinché la vasta organizzazione tendenzialmente indipendente degli operai non sia più indipendente, ma sia piegata alla difesa delle esigenze delle aziende capitalistiche all’interno della quale inserire anche le esigenze dei lavoratori salariati, ma sempre dipendenti dalle prioritarie esigenze delle aziende. E’ col fascismo che la libertà degli operai di organizzarsi in sindacati per lottare contro i padroni viene eliminata, affossando i sindacati « liberi » e costituendo al loro posto i sindacati di Stato a cui, tra l’altro, gli operai erano obbligati ad iscriversi. Nascono così i sindacati istituzionalmente collaborazionisti con il padronato e con lo Stato borghese. Ma erano comunque organizzazioni che raggruppavano ampi strati operai e nelle quali – come sosteneva Lenin – era un dovere dei comunisti lavorarci per influenzare gli strati o i gruppi di operai più sensibili alla lotta indipendente della classe operaia (Lenin diceva addirittura che, nella Russia zarista, era un obiettivo dei comunisti lavorare anche all’interno dei sindacati diretti dalla polizia ; e che cos’erano i sindacati diretti dalla polizia se non sindacati istituzionalmente collaborazionisti ?). Il problema per i comunisti è di avere un contatto diretto con il proletariato, le sue lotte e le sue organizzazioni immediate (negli anni Venti si parlava anche delle cooperative, delle leghe contadine ecc., quindi non solo dei sindacati classici) per svolgervi certamente la loro azione politica, ma anche per assumere la direzione di quelle organizzazioni immediate per sviluppare azioni unificanti i proletari dei diversi settori e delle diverse branche produttive. I punti politici decisivi, per i comunisti, sono ben descritti nelle nostre Tesi caratteristiche (dicembre 1951), ai punti 6 e 7, Parte II. Compito del Partito comunista, Tesi che furono contestate dal gruppo di Damen :

Punto «6. Il marxismo ha vigorosamente respinta, ogni volta che è apparsa, la teoria sindacalista, che dà alla classe organi economici nelle associazioni per mestiere, per industria o per azienda, ritenendoli capaci di sviluppare la lotta e la trasformazione sociale. Mentre considera il sindacato organo insufficiente da solo alla rivoluzione, lo considerà però organo indispensabile per la mobilitazione della classe sul piano politico e rivoluzionario, attuata con la presenza e la penetrazione del partito comunista nelle organizzazioni economiche della classe. Nelle difficili fasi che presenta il formarsi delle associazioni economiche, si considerano come quelle che si prestano all’opera del partito le associazioni che comprendono solo proletari e a cui gli stessi aderiscono spontaneamente ma senza l’obbligo di professare date opinioni politiche religiose e sociali. Tale carattere si perde nelle organizzazioni confessionali e coatte o divenute parte integrante dell’apparato di Stato».

Punto «7. Il partito non adotta mai il metodo di formare organizzazioni economiche parziali comprendenti i soli lavoratori che accettano i principi e la direzione del partito comunista. Ma il partito riconosce senza riserve che non solo la situazione che precede la lotta insurrezionale, ma anche ogni fase di deciso incremento dell’influenza del partito tra le masse non può delinearsi senza che tra il partito e la classe si stenda lo strato di organizzazioni a fine economico immediato e con alta partecipazione numerica, in seno alle quali vi sia una rete emanante dal partito (nuclei, gruppi e frazione comunista sindacale). Compito del partito nei periodi sfavorevoli e di passività della classe proletaria è di prevedere le forme e incoraggiare la apparizione delle organizzazioni a fine economico per la lotta immediata, che nell’avvenire potranno assumere anche aspetti del tutto nuovi, dopo i tipi ben noti di lega di mestiere, sindacato d’industria, consiglio d’azienda e così via. Il partito incoraggia sempre le forme di organizzazioni che facilitano il contatto e la comune azione tra lavoratori di varie località e di varia specialità professionale, respingendo le forme chiuse».

Riguardo il punto 6, quando si dice che le organizzazioni economiche operaie di tipo confessionale, coatto o divenute parte integrante dello Stato hanno perso il carattere di prestarsi all’opera del partito, cioè all’opera di trasformare queste organizzazioni in cinghia di trasmissione del partito, non si dice che il partito non deve mai tentare di lavorarci al loro interno se sono le uniche forme organizzative operaie di carattere economico esistenti ; dice che non sono e non saranno quelle organizzazioni a diventare la cinghia di trasmissione del partito nella lotta di classe e rivoluzionaria. Tentativi di infiltrazione politica clandestina tra gli operai iscritti ai sindacati fascisti furono certamente fatti da elementi del PCI e del PSI , soprattutto durante la seconda guerra mondiale, quando nel marzo del 1943 qualche centinaio di operai delle fabbriche di Torino, di Sesto S.G. e di Milano e di molte altre città del Nord Italia si mobilitarono e fecero degli scioperi per ragioni soprattutto economiche, ma anche contro la guerra (ad es. i noti « scioperi » di marzo 1943, vietati dal regime fascista. Scriverà « la Stampa », l’8/3/2023 in occasione dell’anniversario di quegli scioperi : « Fatto scatenante è la disposizione governativa di corrispondere un’indennità speciale di 192 ore, pari al salario di un mese, ai lavoratori sfollati che si sono trasferiti lontano dai centri industriali per evitare i pericoli dei bombardamenti e che per lavorare sopportano spese e disagi del pendolarismo : il provvedimento appare iniquo a coloro che rimangono nelle città perché non hanno i mezzi per sfollare e affrontano le emergenze quotidiane delle bombe e della fame. Di qui la richiesta di corrispondere l’indennità a tutti, perché “tutti hanno la bocca sotto il naso” ». Il che dimostra come lo stesso regime fascista cercava di tenere controllati i proletari più disagiati concedendo loro alcune misure economiche, sebbene temporanee, in modo da attenuare le conseguenze negative dello sforzo bellico che li portavano a lottare, ed è evidente che tali misure venivano trasmesse agli operai attraverso i sindacati fascisti).

Per quanto riguarda l’altro aspetto, quello della formazione di nuclei, gruppi o addirittura frazione comunista sindacale, è evidente che essi possono agire all’interno dei sindacati opportunisti e collaborazionisti nella misura in cui la « libertà » di organizzazione sindacale permetta la formazione di sindacati non unici e obbligatori di Stato, ma « democratici », e che al loro interno gli statuti e le pratiche concrete consentano l’attività e l’azione di critica e di propaganda dei comunisti rivoluzionari. Sappiamo per esperienza diretta del nostro partito di ieri che i sindacati tricolore (a partire dalla CGIL), una volta passati all’iscrizione dei proletari delle diverse aziende soltanto attraverso le deleghe alle aziende stesse (trattenendo la quota di iscrizione direttamente dal salario) e non più attraverso il diretto versamento della quota sindacale da parte di ciascun iscritto agli operai che funzionavano da collettori. La lotta che il partito ingaggiò all’epoca – siamo nel 1969 – contro la delega all’azienda per l’iscrizione al sindacato, è stata uno dei motivi che i bonzi sindacali utilizzarono per isolare i nostri compagni e per espellere i nostri compagni delegati sindacali che insistevano nel raccogliere le quote sindacali direttamente dagli operai. Questa era una delle forme specifiche che contribuivano a mantenere, almeno formalmente, una certa indipendenza dell’organizzazione sindacale operaia dalle aziende, e dallo Stato ; inoltre facilitava il contatto diretto e organizzativo dei nostri compagni con gli operai, e che i sindacati tricolori volevano eliminare come, progressivamente, elimineranno le assemblee operaie in cui discutere i problemi, le tattiche e i tempi dell’azione sindacale, sostituendole ad esempio con referendum sugli accordi presi direttamente con le direzioni aziendali. Il peso della burocrazia sindacale aumentava in questo modo la sua pressione anche all’interno delle fabbriche attraverso l’organizzazione dei « Consigli d’azienda » (che andavano a sostituire le « Commissioni Interne » ormai super corrotte, e nei quali eleggere i « delegati sindacali »). La progressiva istituzionalizzazione anche degli organismi sindacali di fabbrica, controllati dai sindacati tricolore e dalle direzioni aziendali, andava via via soffocando anche quei limitati spazi di azione sindacale classista che gli statuti dei sindacati collaborazionisti ancora permettevano (attuata non solo dai nostri compagni, ma anche da elementi combattivi che facevano riferimento ad altre organizzazioni politiche extraparlamentari), impedendo via via, soprattutto nelle grandi fabbriche, un’attività organizzativa classista all’interno stesso dei sindacati ufficiali. Ma la pressione dei fatti materiali continuavano a spingere gli elementi combattivi della classe operaia a oltrepassare i limiti organizzativi e istituzionali fissati dalle direzioni sindacali, e ad organizzare spontanee azioni di protesta e di lotta con o senza l’assenso delle burocrazie sindacali di fabbrica o territoriali. In determinati settori, soprattutto nei servizi, come l’ospedaliero e il trasporto pubblico, e in alcune grandi fabbriche (Fiat, Olivetti, OM, Innocenti ecc.), si costituirono organismi di lotta fuori dal controllo sindacale ufficiale e i compagni di partito si trovarono spesso a dover conciliare il loro atteggiamento classista all’interno degli organismi sindacali di fabbrica ufficiali e all’esterno di essi, nei comitati di base e nei coordinamenti di lotta che continuavano a nascere su iniziativa dei proletari più combattivi. Sono gli anni in cui formazioni politiche come Lotta Continua, Avanguardia Operaia, la stessa Lotta Comunista, Autonomia Operaia ed altre, attraverso loro militanti all’interno delle fabbriche, erano spesso le ispiratrici di quei comitati di base e, nello stesso tempo, dei coordinamenti di settore o territoriali. Che lo facessero per aumentare la loro specifica influenza sugli strati operai più combattivi e per aumentare il numero dei propri militanti era chiaro, ma erano anche coloro che raccoglievano a piene mani le spinte alla lotta immediata che provenivano dalla base operaia e che le organizzazioni sindacali tricolore non riuscivano a controllare o deviare. Inutile dire che i nostri compagni si trovavano spesso in situazioni davvero complicate perché, da un lato, il partito non intendeva essere il vettore del sabotaggio delle lotte e degli scioperi organizzati dai sindacati ufficiali (l’indicazione generale era di intervenire sempre e comunque in queste lotte portando il nostro indirizzo classista e la critica più ferma degli obiettivi, dei metodi e dei mezzi opportunisti adottati dai sindacati collaborazionisti), ma nello stesso tempo non intendeva andare contro i tentativi di organizzazione delle lotte attraverso organismi di base al di fuori del controllo diretto dei sindacati tricolore, anzi, intendeva portare anche in quegli organismi l’indirizzo classista e la critica dei metodi e dei mezzi opportunisti che spesso venivano utilizzati dagli elementi che facevano riferimento ai gruppi politici extraparlamentari, come ad esempio di lottare contro i sindacati ufficiali in quanto organizzazioni sindacali facendo dei comitati di lotta degli organismi politici (questo atteggiamento era caratteristico sia di Lotta Comunista che di Autonomia Operaia).

Rimaneva comunque valida la direttiva che il partito aveva dato e che rispondeva fondamentalmente alle indicazioni provenienti da Amadeo Bordiga, (come da sua lettera al CE del partito del 5 gennaio 1951 ; vedi alla p. 177 del libro di S. Saggioro, « Né con Truman né con Stalin, Storia del P.C. Internazionalista, 1942-1952 ») e cioè che – in attesa del «risorgere di organizzazioni di classe non politiche e a larghi effettivi» – il partito «non può e non deve : né proclamare il boicottaggio di sindacati organi di azienda e agitazioni operaie ; né proclamare la presenza sempre e dovunque alle elezioni di fabbrica di sindacati etc. con liste proprie ; né dove sia localmente in prevalenza di forze, usare in aperte agitazioni la parola del boicottaggio invitando a non votare, non iscirversi al sindacato, non scioperare o simili. In senso positivo : nella maggioranza dei casi astensione pratica e non boicottaggio» ; tutto ciò senza mai sospendere la propaganda comunista (attraverso i gruppi comunisti di fabbrica) dei principi della lotta sul terreno sindacale caratteristici del Partito Comunista d’Italia (e dell’I.C) nella fase favorevole del primo dopoguerra, tra cui il principio fondamentale era : «senza organismi operai intermedi tra partito e classe non vi è possibilità rivoluzionaria ; il partito non abbandona tali organismi per il solo fatto di esservi in minoranza. Tanto meno sottopone i suoi principi o direttive al volere di quelle maggioranze sotto pretesto siano « operaie », e «ciò vale anche per i Soviet (v. Lenin, Zinoviev etc.) ». La questione di base che poneva Bordiga era prima dittuto quella della valutazione della situazione : una cosa era il primo dopoguerra (Partito comunista presente, forte, influente) e situazione generale oggettivamente rivoluzionaria, un’altra cosa è il secondo dopoguerra caratterizzato dalla «progressiva eliminazione del contenuto dell’azione sindacale col sostituirsi di funzioni burocratiche all’azione di base» svolta nelle assemblee operaie, attraverso le frazioni dei partiti nei sindacati ecc. «Tale eliminazione, difesa nel suoi interesse dalla classe capitalistica, vede sulla stessa linea storica i seguenti fattori : corporativismo fascista, economia diretta in guerra o pace, sindacalismo tipo CLN, sindacalismo tipo Di Vittorio o Pastore. Tale processo non può essere dichiarato irreversibile. Se l’offensiva capitalista è fronteggiata da un PC forte, se si strappa il proletariato dalla tattica CLN di fronte a quella ; se lo si strappa all’influenza della attuale politica russa, nel momento X e Paese X possono riosorgere i sindacati classisti ex novo o dalla conquista magari a legnate degli attuali. Ciò non è storicamente da escludere. Certamente quei sindacati si formerebbero in una situazione di avanzata o di conquista del potere. La differenzamtra le due situazioni rende secondaria quella tra la dirigenza d’Aragone, che non escluse la nostra azione di frazione nella CGL, e quella Di Vittorio».

Certo, per una situazione positiva così descritta Amadeo Bordiga giustamente ha messo in campo una serie di se che non possono essere esclusi per principio. La tendenza Damen, invece, escludeva per principio che la situazione storica, nello svolgersi delle contraddizioni capitalistiche e delle inevitabili crisi sociali, potesse presentare quelle eventualità. In ogni caso, rimaneva ferma la posizione marxista che senza organismi operai intermedi tra Partito e classe, a larghi effettivi, non vi è possibilità rivoluzionaria. A commento delle tesi uscite dal convegno del CC del PCInt.sta (allargato ad altri compagni di diverse sezioni) del gennaio 1951, Bordiga, in un’altra lettera (del 4 marzo 1951) accenna ad un lavoro di approfondimento a cui vuole dedicarsi e che riguarda la questione del rapporto tra economia e politica, per la quale espone sinteticamente quanto segue : «Non vi sono due capitalismi : quello vecchio che rendeva possibile l’azione sindacale rivendicativa e quello attuale che la ha esclusa. Vi è uno svolgimento in senso monopolistico ossia nel preciso senso della critica marxista alla economia borghese stabilita al tempo del preteso liberismo, e vi è una egualmente preveduta fase politica antiliberale demascherata. Il nuovo rapporto tra classe dominante e sindacati è un rapporto politico di influenza e dominazione : errore enunciarlo così : i sindacati sono diveuti organi della classe borghese dopo un lungo periodo e processo di corruzione dei quadri e di infeudamento... ; come organi sociali non erano borghesi nemmeno i sindacati fascisti. L’appetito economico è sempre il nostro punto di partenza, non un nudo sterile confessionalismo rivoluzionario» (vedi il libro di Saggioro, cit., p. 185). Più chiaro di così. Qui si batte non solo la posizione della tendenza Damen, ma anche la successiva tendenza « fiorentina » che parla tuttora di « sindacati di regime », dopo che nel partito negli anni 1969-1971 aveva sostenuto, influenzando anche il centro del partito, la battaglia contro l’annunciata unificazione tra CGIL, CISL e UIL (che poi non fu mai fatta) scambiandola per la costituzione del sindacato « fascista » contro cui i proletari doveva lottare per difendere la CGIL che, per l’occasione, era stata elevata da sindacato tricolore – come dettavano le posizioni della Sinistra comunista ribadite da Amadeo Bordiga per anni, e che il partito le aveva « dimenticate » – a sindacato « di classe ».

 Inutile dire che la tendenza Damen era già allora, 1951-1952, del tutto schierata nella lotta non solo contro i sindacati ufficiali, ma contro ogni forma sindacale, quindi anche nei confronti della costituzione di ogni organismo sindacale che fosse sorto con indirizzo classista, in quanto organismo dedicato alla difesa economica immediata dei proletari, contrapponendo loro – e su questo va detto che sono sempre stati « coerenti » – la sola attività politica dei gruppi comunisti di fabbrica e l’illusione che le masse proletarie, senza alcuna organizzazione sul terreno della difesa immediata e senza alcuna esperienza di lotta classista su questo specifico terreno, scendano direttamente sul terreno della lotta politica rivoluzionaria per virtù propria... La posizione di « b.c. », che ha ispirato la Piattaforma politica della TCI, è questa : «Nell’epoca imperialista, indipendentemente dalla loro composizione sociale, i sindacati sono organizzazioni il cui compito è quello di sostenere il capitalismo, specialmente nei momenti cruciali in cui questo è particolarmente minacciato. Gli stessi sindacati di base, che si pretendono alternativi e radicali e che sorgono un po’ ovunque in contrapposizione ai sindacati ufficiali, finiscono per diventare armi spuntate perché sono anch’essi parte di una logica contrattuale, spesso in conflitto gli uni con gli altri, dividendo così la classe. Incapaci di sfuggire alla logica vertenziale per sostenere la lotta di classe rivoluzionaria, finiscono inevitabilmente per costituire un limite al diffondersi della lotta proletaria e, soprattutto, al maturare di una coscienza e di una organizzazione rivoluzionaria e anticapitalista. Da ciò consegue che è impossibile, per i rivoluzionari, conquistare i sindacati o trasformarli in organismi per la rivoluzione. Ovunque la rivoluzione proletaria dovrà combattere i sindacati che si ergeranno come bastioni della controrivoluzione». Questa posizione dà, quindi, per scontato che, in qualsiasi situazione, anche nella situazione di crisi profonda del capitalismo e, quindi, di crisi della sua tenuta politica nel controllo delle masse proletarie attraverso i molteplici strumenti – compresi, ma non solo, i sindacati tricolore – sarà impossibile per il partito comunista rivoluzionario « conquistare i sindacati o trasformarli in organismi per la rivoluzione ». Si dà per scontato che la borghesia imperialista continuerà a organizzare direttamente i sindacati « operai », in qualsiasi situazione, anche la più critica per il suo potere (come, ad esempio, successe nel 1919-1920) e nella quale possono risorgere organizzazioni sindacali rosse. Si dà per scontato che la lotta operaia di difesa economica (salario, orario, ritmi di lavoro, nocività, licenziamenti ecc.) possa sfuggire al controllo della borghesia soltanto se le lotte si «autorganizzano», se partono «spontaneamente dai lavoratori, fuori e contro il sindacato, per scegliere autonomamente le forme di mobilitazione più efficaci, necessariamente al di là delle compatibilità del sistema». Qui si dà un potere incommensurabile alla spontaneità operaia, come se la spontaneità operaia fosse una qualità incorruttibile, come se essa sola – libera di esprimersi e al di fuori di qualsiasi organizzazione stabile, anzi, esprimendo un’opposizione congenita ad ogni organizzazione stabile della lotta operaia sul terreno della difesa immediata dei suoi interessi di classe – fosse la fonte certa, pura, incorruttibile di una lotta operaia al di là delle compatibilità del sistema ; una spontaneità operaia che avrebbe la magia di non farsi catturare dall’ideologia borghese dominante che, proprio perché è dominante (vedi Marx, Engels), indirizza la « spontanea » lotta in difesa delle condizioni di esistenza e di lavoro operaie secondo « le compatibilità del sistema », e che soltanto l’esperienza pratica nella lotta in difesa delle condizioni di esistenza e di lavoro operaie attraverso un’organizzazione stabile e larga delle masse operaie, è possibile l’incontro tra la lotta proletaria di resistenza al capitale (Engels) – spontanea e compatibile col sistema capitalistico – e l’orientamento classista e rivoluzionario che il partito di classe importa nelle lotte operaie, nella classe operaia in generale. Il partito, nel suo compito di importare l’orientamento classista e rivoluzionario nella classe proletaria, lotta non contro la spontaneità dei proletari a lottare contro le condizioni di esistenza e di lavoro imposte dal capitale, ma contro lo spontaneismo, ossia la teoria secondo la quale la spontaneità dei proletari ad opporsi al capitale sia sufficiente perché essi recepiscano l’orientamento rivoluzionario che il partito di classe indica alla lotta proletaria in generale e senza che i proletari passino attraverso la loro esperienza diretta dell’organizzazione stabile e larga che può essere data solo dalle sue associazioni economiche di classe. In realtà, l’autorganizzazione di cui parla « b.c. » non è intesa come la spinta a formare quello «strato di organizzazioni a fine economico immediato e con alta partecipazione numerica» (le cui forme possono « assumere anche aspetti del tutto nuovi, dopo i tipi ben noti di lega di mestiere, sindacato d’industria, consiglio d’azienda e così via »), e in seno alle quali il partito ha il compito di organizzare propri nuclei, gruppi o frazioni comuniste sindacali – come detto chiaramente nelle nostre Tesi caratteristiche del 1951 – ma come un atto esclusivamente limitato ai momenti della lotta operaia, ai momenti in cui la spontaneità operaia spinge gli operai a scendere in lotta per loro rivendicazioni di carattere economico ; non è previsto, quindi, un altro compito che ha e deve avere un’organizzazione stabile di difesa delle condizioni di esistenza e di lotta proletarie come quello di far tesoro delle lotte avvenute, tirare delle lezioni da quelle lotte e dagli errori o meno fatti durante quelle lotte e preparare i proletari, nei periodi di assenza di lotta, alle lotte successive. Come dire che i proletari, ogni volta che sono spinti a lottare, devono ripartire da zero perché non possono contare su una loro associazione economica stabile che abbia assimilato le lezioni dalle lotte e dalle sconfitte negli scontri con la classe dominante ; secondo « b.c. » essi possono contare soltanto sui militanti comunisti, quando e dove ci sono, e sappiamo che nei lunghi periodi di passività della classe proletaria i militanti comunisti, oltre ad essere un numero infinitesimo, non sono e non possono essere presenti e operanti in tutti i luoghi di lavoro, grandi medi e piccoli ; ma anche se fossero presenti in molti luoghi di lavoro e nelle fabbriche più importanti, il loro compito non sarà mai solo quello di dare ai proletari obiettivi politici generali e futuri della loro lotta, ma anche quello di contribuire all’organizzazione della difesa delle loro condizioni di esistenza e di lavoro immediate combattendo, fuori e dentro le loro organizzazioni sindacali, tutte le tendenze e le pratiche opportuniste, corporative, collaborazioniste, interclassiste.

L’idea che i lavoratori salariati, grazie alla loro specifica caratteristica di essere la forza produttiva indispensabile nell’economia capitalistica, possano per virtù propria abbracciare la causa storica della rivoluzione grazie alla propaganda del comunismo e all’attività culturale del partito comunista rivoluzionario, fa parte di una visione idealista – combattuta da sempre dalla Sinistra comunista d’Italia anche in seno alla Terza Internazionale – che «vuole un piccolo partito di “élite” » che «cade nell’errore di isolarsi dalle rete associativa economico-sindacale del proletariato», come detto nelle citate Tesi caratteristiche (cit. punto 8). Il gruppo di « b.c. », e quindi la TCI, non considerano «il reale processo deterministico per cui la ribellione di classe sorge da reazioni ed atti che precedono di gran lunga la coscienza teorica» e che precedono anche la stessa chiara volontà di lotta da parte dei proletari. Nel contraddittorio processo di sviluppo delle lotte operaie e della formazione di organizzazioni economiche per la lotta immediata, forme che, come sottolineato dalle nostre Tesi, potranno assumenre anche aspetti del tutto nuovi da quelli finora conosciuti, non solo i proletari devono fare esperienza diretta dei metodi e dei mezzi di lotta e delle stesse forme organizzative della loro lotta, ma anche i militanti di partito che costituiscono i nuclei, i gruppi comunisti o le frazioni comuniste sindacali all’interno di quelle forme organizzative. Il fatto che la rivoluzione non sia una questione di organizzazione non significa che non ci voglia l’organizzazione stabile dei proletari sul terreno della lotta immediata, come non significa che non ci voglia l’organizzazione stabile, omogenea e solida dal punto di vista teorico e pratico del partito, riconosciuta dai proletari non tanto e non solo per la propaganda comunista e le posizioni mai cambiate nel corso degli eventi, ma anche per aver verificato sul terreno fisico della lotta immediata la sua affidabilità militante e organizzativa in funzione della difesa esclusiva degli interessi di classe del proletariato, in grado quindi di prendersi la responsabilità di organizzare e guidare, unificandole, le lotte proletarie sul terreno immediato che è il terreno fondamentale e principale sul quale le masse proletarie possono prepararsi – appunto come in una scuola di guerra, alla Lenin – alla lotta più elevata e generale, alla lotta politica e rivoluzionaria. Credere che il proletariato giunga preparato alla lotta rivoluzionaria di domani senza avere attraversato una lunga preparazione a quella lotta sul terreno della lotta immediata, e senza aver verificato su questo stesso terreno l’affidabilità politica e organizzativa del partito di classe che, attraverso i suoi militanti, ha lottato e lotta a fianco dei proletari, facendo le stesse esperienze, affrontando gli stessi ostacoli, gli stessi problemi, le stesse situazioni, la stessa repressione, vuol dire fantasticare una rivoluzione che non avverrà mai perché non sarà mai preparata da lunga data, vuol dire diffondere tra i proletari l’idea che il partito comunista rivoluzionario sia l’evangelista dei tempi moderni che si limita ad indicare la « via della salvezza » : la via dell’emancipazione del proletariato, la società senza classi, il comunismo ; tutto il resto è compito del proletariato sempre che voglia essere illuminato sulla via di Damasco...

Mentre il potere borghese, la classe dei capitalisti, tende tutte le sue forze ad organizzare su tutti i piani : economico, sociale, politico, culturale, la difesa della società capitalistica, l’indicazione che va data ai proletari secondo i grandi pensatori di « b.c. » è quella di disorganizzarsi, di rifiutare l’unica organizzazione proletaria possibile sul terreno della lotta immediata (che è la lotta su cui tutti i proletari si possono incontrare, qualsiasi idea abbiano in testa, se appartengono o no a qualche partito, di qualsiasi nazionalità o genere o età siano), grazie alla quale sia possibile effettivamente unificare le forze, contrapponendo alla borghesia la propria organizzazione all’organizzazione avversaria, metodi e mezzi di lotta classisti contro metodi e mezzi di lotta borghesi, violenza proletaria a violenza borghese. Certo, in periodo di passività proletaria prolungata come quello che stiamo attraversando dalla fine della seconda guerra imperialista mondiale ad oggi non vi sono organizzazioni sindacali classiste che radunino ampie masse proletarie e nelle quali organizzazioni il partito di classe agirebbe coi propri gruppi o le proprie frazioni sindacali. Ma il gruppo di « b.c. » esclude a priori che, in un futuro periodo di crisi catastrofica del capitalismo, i proletari più combattivi e più sensibili agli interessi esclusivi di classe siano in grado di rompere la pace sociale e spezzare le organizzazioni sindacali collaborazioniste, formando associazioni economiche indipendenti, classiste e non chiuse (magari con forme nuove rispetto a quelle finora conosciute), adatte non solo alla lotta di difesa economica immediata, ma anche a preparare i proletari ad elevare la propria lotta al livello più alto, politico generale, attraverso le quali fosse facilitato il contatto e la comune azione tra lavoratori di varie località e di varia specialità professionale.

 

3) la valutazione dei moti nazionali nelle colonie : secondo la tendenza Damen, le lotte nazionalrivoluzionarie nelle colonie non avevano alcuna potenzialità rivoluzionaria nemmeno a livello borghese perché ormai prigioniere dei giochi di forza tra imperialismi, cosa che impediva loro di incidere in qualche modo sulla stabilità dell’ordine mondiale che, al contrario, andavano rafforzando ; tale valutazione portava questo gruppo a sostenere che la « questione nazionale » non era più una questione che riguardava la lotta rivoluzionaria del proletariato fin dal 1914, ossia dallo scoppio della prima guerra imperialista mondiale, come dire che l’apparizione della fase capitalistica che Lenin definì politicamente imperialismo aveva fatto saltare completamente tutte le questioni sociali che la borghesia non aveva risolto fino al 1914, facilitando così al proletariato il compito di dover lottare esclusivamente per la conquista del potere in ogni angolo del mondo senza dover passare – nei paesi capitalistici arretrati e coloniali – attraverso le tappe intermedie delle rivoluzioni nazionaldemocratiche, portando così il gruppo di Damen a spiegare la rivoluzione in Russia del 1917 come « un’eccezione » che non poteva ripetersi in altri paesi a causa della strapotenza dell’imperialismo. Questa valutazione, secondo il maxismo e Bordiga, era completamente sbagliata perché non comprendeva la realtà estremamente contraddittoria del processo storico secondo la quale il capitalismo, pur avendo raggiunto in alcuni paesi lo stadio imperialista, non aveva automaticamente superato, nella gran parte del mondo soggiogato dal colonialismo, la fase storica della rivoluzione nazionale borghese, per la quale non solo il partito bolscevico di Lenin, ma anche il congresso dell’Internazionale Comunista e il congresso di Bakù, entrambi del 1920, avevano scolpito tesi indelebili sulla questione nazionale e coloniale e sulla questione dell’autodeterminazione dei popoli.

Il gruppo di compagni che sostenevano le tesi di Bordiga, ritenne invece che, nel secondo dopoguerra, lo sviluppo di lotte anticoloniali generate dallo sconquasso di una guerra che aveva coinvolto inevitabilmente molti popoli non bianchi, in particolare dell’Africa oltre che dell’Asia, avrebbe certamente sconvolto l’ordine imperialistico uscito dalla guerra e permesso un collegamento con un parallelo sviluppo di lotte proletarie nelle metropoli capitalistiche indebolite non solo dalle conseguenze di una guerra che in Europa era stata particolarmente distruttiva, ma anche dalla ribellione armata di intere popolazioni.

La dimostrazione venne non solo dalla Cina, ma anche dall’Algeria, dal Congo, dalle vecchie colonie francesi, inglesi e tedesche in Africa e in Asia minore. L’importanza dei moti nazionali nelle colonie non era data soltanto dal fatto che si ribellavano all’oppressione nazionale e coloniale dell’imperialismo bianco, e che coinvolgevano volenti o nolenti il proletariato locale anche se poco numeroso, ma anche dal fatto che coivolgevano direttamente il proletariato delle metropoli coloniali e imperialiste il quale aveva il dovere di battersi – come non si stancherà mai di sottolineare Lenin – contro la propria borghesia che esercitava la propria oppressione a vantaggio esclusivo del proprio potere e dei propri commerci. Il proletariato dei paesi imperialisti doveva dimostrare ai proletari dei popoli oppressi di non essere complice dell’oppressione borghese e di battersi invece per la loro autodeterminazione senza perdere la prospettiva marxista rivoluzionaria che vincolava i partiti comunisti alla lotta indipendente di classe anticapitalistica e antiborghese sia nei paesi imperialisti che nei paesi coloniali [ a questo proposito i riferimenti ad articoli e tesi si rintracciano nel sito www.pcint.org , sezione Temi, voce 2.13 La questione nazionale e coloniale, delle nazionalità oppresse e dell’ « autodecisione dei popoli » ].

Secondo la « Piattaforma politica della TCI », già citata : «Il carattere globale del capitalismo nell’epoca imperialista implica che le apparenti differenze tra le varie formazioni sociali nel mondo non riflettano differenze effettive nei modi di produzione. Per questo non c’è necessità per il proletariato di adottare differenti strategie per l’azione rivoluzionaria nelle diverse regioni del globo». Con queste quattro righe « b.c. » cancella d’un colpo tutte le Tesi di Lenin e dell’Internazionale Comunista sull’«autodeterminazione dei popoli» e sulla «questione nazionale e coloniale» : dal 1914, ossia dallo scoppio della prima guerra imperialista mondiale, secondo « b.c. » «l’epoca della storia nella quale le liberazioni nazionali potevano rappresentare un elemento progressivo per il mondo capitalista» si era conclusa.

Questa visione da economicismo imperialista, con cui si appiattisce ogni sviluppo ineguale del capitalismo, concepisce la lotta proletaria, sia nei paesi imperialisti che nei paesi soggiogati dall’imperialismo, come una lotta che non deve tener conto dell’oppressione nazionale e coloniale e del fatto che tale oppressione possa spingere le masse contadine, piccolo borghesi, borghesi e anche le masse proletarie sebbene minoritarie dei paesi coloniali, a lottare contro la borghesia colonialista – cosa tra l’altro che è effettivamente avvenuta in molti paesi dell’Africa e d’Asia – mettendo in difficoltà le potenze coloniali. La concepisce, inoltre, come una lotta che non deve impegnare il proletariato dei paesi imperialisti lottare esso stesso contro la propria borghesia imperialista di casa perché riconosca l’indipendenza ai popoli colonizzati, dimostrando in questo modo di non essere complice dell’oppressione coloniale esercitata dalla borghesia di casa propria e di stare dalla parte del proletariato dei paesi colonizzati. Lenin giustamente sottolineerà che la differenza tra la lotta del proletariato del paese oppresso e il proletariato del paese oppressore sta nel fatto che il proletariato del paese oppressore deve rompere con la propria borghesia che lo vuole complice di quell’oppressione (una complicità pagata con dei privilegi economici, politici e sociali non riconosciuti ai proletari dei paesi oppressi), e il modo più efficace per fare di questa rottura una fatto compiuto è di lottare perché la propria borghesia imperialista riconosca l’indipendenza al paese oppresso. Mentre, riguardo al proletariato del paese oppresso, Lenin indica di lottare sì a fianco del contadiname e anche della piccolaborghesia e della borghesia nazionale se dimostrano di lottare per la rivoluzione nazional-democratica, ma tenendo fermamente separata la propria organizzazione politica, senza sospendere la sua lotta di difesa economica contro i capitalisti e i borghesi nazionali, e senza nascondere che il fatto di lottare insieme, con le armi, contro l’opprimente borghesia imperialista non sospendeva la sua lotta classista contro la stessa borghesia nazionale poiché questa avrebbe sostituito la borghesia imperialista nell’oppressione salariale, sociale e politica. Il motto rivoluzionario « Proletari di tutti i paesi unitevi ! » poteva concretizzarsi realmente alla condizione che il proletariato del paesi più forti dimostrasse al proletariato dei paesi oppressi e più deboli di stare sullo stesso fronte di lotta.

La posizione di « b.c. » è antimarxista da ogni punto di vista. Per « b.c. » l’epoca delle lotte di liberazione nazionale era conclusa nel 1914, con lo scoppio della prima guerra imperialista mondiale ; perciò è fondamentalmente antimarxista, e quindi anticomunista, quanto la posizione di un Kautsky o di un Serrati. Per noi l’epoca delle rivoluzioni nazionaldemocratiche nei paesi coloniali si è conclusa col 1975, ossia con la vittoria della rivoluzione borghese in Angola e Mozambico ; ciò non significò per noi che le questioni nazionali e coloniali fossero state risolte una volta per tutte nemmeno con quelle rivoluzioni. In altre parti del mondo (come la questione tra Eritrea ed Etiopia, o il Tibet, o il Nepal, per non parlare del popolo curdo e palestinese) la questione nazionale e coloniale non si risolse con la rivendicazione o la costituzione di uno Stato indipendente ; e noi non siamo mai stati i sostenitori per principio dell’indipendenza nazionale.

E’ evidente che la questione nazionale e coloniale non sarà mai risolta dall’imperialismo visto che esso accresce ogni tipo di oppressione, perciò anche quella nazionale e coloniale, magari in forma diverse e più sottili ; essa potrà avviarsi alla soluzione soltanto con la vittoria della rivoluzione proletaria internazionale.

Ma prima di quella vittoria, e perché quella vittoria venga preparata adeguatamente dal partito di classe e dagli strati proletari più avanzati politicamente, è necessario che il proletariato dei paesi imperialisti, i maggiori oppressori al mondo, combatta contro questa particolare oppressione prendendo su di sè il compito di eliminare questo tipo di oppressione : ciò significa che, all’interno della sua lotta di classe conrro le classi dominanti borghesi, esso deve lottare – come sosteneva Lenin – anche per l’autodeterminazione dei popoli, nel senso che, a vittoria rivoluzionaria raggiunta, la dittatura proletaria dovrà riconoscere al popolo un tempo oppresso la sua autodeterminazione, ossia se vorrà organizzarsi in modo indipendente dal potere proletario vittorioso potrà farlo (come nel 1920 fu il caso dell’Ucraina), ma, nel contempo, continuerà a lottare sul terreno dell’unificazione proletaria tra i proletari di tutti i paesi contro ogni borghesia, anche contro quella a cui è stato riconosciuto il « diritto di indipendenza » ; sarà la guerra di classe, la guerra rivoluzionaria a decidere le sorti di quei « diritti di indipendenza ». Restano quindi confermati come fondamentali, ribadendo l’impostazione leninista della questione nazionale – come detto nelle Tesi della Sinistra presentate a Lione nel 1926 – «i concetti delle dirigenza della lotta mondiale da parte degli organi del proletariato rivoluzionario, e della suscitazione, non mai del ritardo o della obliterazione, della lotta di classe negli ambienti indigeni, della costituzione e dello sviluppo indipendente del partito comunista locale». E, cosa altrettanto importante, l’ammonimento che «L’estensioone di queste valutazioni dei rapporti a paesi in cui il regime capitalistico e l’apparato statale borghese sono da tempo costituiti rappresenta un pericolo, in quanto sotto tale aspetto la questione nazioonale e l’ideologia patriottica sono diretti espedienti controrivoluzionari, tendenti al disarmo di classe del proletariato. (...) L’elevare a principio la lotta delle minoranze nazionali per se stessa è dunque la deformazione della concezione comunista».

Quel che sosteniamo oggi è che non possiamo escludere a priori che la questione « nazionale e coloniale » non torni ad intralciare il cammino della rivoluzione proletaria internazionale, poiché la crisi generale in cui cadrà l’intero sistema capitalistico generale, e che aprirà la via ad una terza guerra imperialista mondiale, potrebbe scuotere a tal punto la tenuta degli imperialismi più forti da riportare in auge la lotta antimperialista nelle forme delle rivolte armate nazionaldemocratiche in cui i proletariati, non solo dei paesi soggiogati dalle potenze imperialiste, ma anche dei paesi imperialisti meno forti, potrebbero essere coivolti. Sarà in ogni caso sempre l’atteggiamento politico e pratico del proletariato dei paesi imperialisti più forti che condizionerà l’atteggiamento dei proletariati dei paesi più deboli. Fra l’internazionalismo del capitalismo e l’internazionalismo proletario c’è una grande differenza. L’internazionalismo del capitalismo si fonda sul modo di produzione capitalistico che condiziona l’economia di tutti i paesi del mondo, anche di quelli economicamente arretrati e, in un certo senso, per i capitalisti, il loro internazionalismo è un prodotto politico « naturale » dello sviluppo dell’economia capitalistica. L’internazionalismo proletario è invece una conquista politica, è un traguardo che non si basa soltanto sul fatto che i proletari sono forza lavoro salariata in ogni paese del mondo, ma si basa su un salto politico di qualità che parte sì dalla lotta proletaria che, per sua natura, è aziendale o al massimo nazionale, ma che per diventare internazionale e per rimanere internazionale deve raggiungere un livello elevato di coscienza politica che solo l’attività e l’azione del partito di classe fra le masse proletarie – sia dei paesi capitalisti avanzati che di quelli arretrati – può contribuire in modo decisivo a formare. Non va mai dimenticato che il proletariato nasce e si sviluppa come forza lavoro salariata, ossia come classe per il capitale. Per diventare classe per sé, cioè classe indipendente e protagonista della sua storia e della sua emancipazione, essa deve acquisire la qualità di classe rivoluzionaria attraverso la combinazione tra la sua lotta classista di difesa immediata e l’orientamento politico rivoluzionario che soltanto il partito di classe può importare nella classe stessa, combinazione che la storia finora ha dimostrato avvenire in una fase di avvicinamento alla lotta generale del proletariato contro il capitalismo, cioè in un periodo in cui la crisi sociale del capitalismo fa saltare tutti gli equilibri politici, economici e sociali precedenti.

 

4) la questione organizzativa e del partito. Qui « b.c. » dimostra tutta la sua inconsistenza teorica, abbandonando il marxismo non solo come teoria del comunismo rivoluzionario e della rivoluzione comunista, ma anche come scuola di pensiero e guida per la definizione dei compiti del partito nelle diverse situazioni storiche. Il partito di classe non è il punto centrale delle preoccupazioni politiche di « b.c. », non è quella particolare attività dei militanti comunisti rivoluzionari che rispondono ad un teoria invariante e ad un programma politico fissato per l’intera fase storica che genera i fattori sfavorevoli e favorevoli alla rivoluzione proletaria, all’abbattimento dello Stato borghese, all’instaurazione della dittatura di classe, al programma immediato della dittatura proletaria, al sostegno della rivoluzione proletaria a livello internazionale, alla difesa dello Stato proletario appena instaurato. Il partito di classe, per « b.c. », non è al centro del rivoluzionamento generale della società capitalistica e borghese ; al centro di questo rivoluzionamento generale viene messo il proletariato non in quanto unica classe rivoluzionaria di questa società dotata di coscienza degli obiettivi storici della sua emancipazione rappresentata dal partito di classe, ma in quanto bruta forza lavoro salariata sfruttata dal capitale.

Il gruppo « b.c. » eleva la classe dei lavoratori salariati – cioè la classe per la borghesia, per il capitale – ad unica forza in grado di rivoluzionare la società ed emancipare se stessa dallo sfruttamento grazie al solo fatto di essere classe salariata, la classe produttrice sfruttata dal capitale, grazie ad una forza intrinseca che possiederebbe per il solo fatto di essere classe produttrice. Nella visione di « b.c. », anche se non lo afferma chiaramente, il partito – cioè la coscienza storica di classe, il socialismo per dirla con Engels – nasce direttamente dalla stessa lotta della classe operaia, è espressione di questa lotta, mentre il socialismo marxista – rappresentato nella società capitalistica dal partito di classe – nasce dal superamento dialettico della filosofia tedesca, dell’economia politica inglese e del socialismo utopistico francese, dunque di qualcosa di molto più complesso e radicato nello sviluppo contraddittorio di quel che l’umanità – come dirà Lenin – ha creato di meglio durante il secolo XIX.

Proletariato e partito di classe sono due forze storiche del tutto distinte : né il proletariato è allo stesso tempo classe per il capitale e classe per sé, né il partito di classe, per svolgere i suoi compiti rivoluzionari, si deve sciogliere nella classe proletaria o, peggio, deve farsi dare dalla lotta contingente del proletariato le indicazioni per far avanzare quella stessa lotta verso gli obiettivi storici del socialismo.

 Ovviamente il partito di classe, per essere la guida rivoluzionaria riconosciuta dalle masse proletarie deve aver dimostrato al proletariato di aver ben chiari gli obiettivi della lotta rivoluzionaria, di sapere prevedere quali passi è necessario fare, o non fare, per avanzare nella lotta e per difenderla da tutti gli attacchi degli avversari, di saper definire in anticipo la rotta e saperla mantenere nonostante le tempeste sociali che si dovranno attraversare, di saper guidare non solo le masse rivoluzionarie alla conquista del potere ma di saperle organizzare ia fini della vittoria rivoluzionaria e dell’instaurazione della dittatura di classe che non potrà essere se non esercitata dal partito di classe. E non perché il partito si sostituisca alla classe proletaria, né perché il partito deve dittare sulla classe proletaria, ma perché il partito di classe è l’unico organo che possiede la visione generale e storica di tutto lo svolgimento rivoluzionario e controrivoluzionario, l’unico organo che possiede la coscienza storica di classe.

Nella visione distorta della storia che « b.c. » ha avuto ed ha, il proletariato è la classe sociale che rivoluzionerà, trasformerà l’attuale società, per il solo fatto di essere la classe salariata, la classe che produce la ricchezza sociale e che è spinta a lottare contro l’ordine costituito borghese perché non vuol essere più sfruttata. Ma è il concetto marxista di classe che non è entrato nella zucca dei battaglini. Giustamente Amadeo Bordiga dirà che la classe non è un « insieme di persone », ma una « rete di interessi » (e ciò vale per la classe proletaria come per la classe borghese) e che, fino a quando la classe proletaria non è rappresentata e guidata verso gli obiettivi storici di classe dal partito comunista rivoluzionario (appunto il partito di classe), il proletariato è « classe » solo per la borghesia, appunto per il capitale, ma non per sé, non per i suoi obiettivi storici.

Il partito di classe del proletariato non è come tutti gli altri partiti politici esistenti nelle società divise in classi. Esso non si basa su una classe che esprime un modo di produzione esistente come è stato per tutte le classi dominanti delle società precedenti. Il partito di classe è definito non dall’azione politica che si basa su un’economia radicata, ma dalla teoria di una società senza classi, da una società che trasformerà l’economia esistente in un’economia sociale antimercantile, anticapitalistica. Per il marxismo è la teoria che guida l’azione, non viceversa. La distinzione che fece Amadeo Bordiga tra partito nella sua accezione storica (Marx), il partito storico, e partito formale chiarisce che il partito di classe è innanzitutto teoria rivoluzionaria che deve diventare l’organo specifico dell’azione rivoluzionaria di classe, il partito formale, e che quando il partito di classe meriterà al tempo stesso la qualifica di partito storico e partito formale sarà possibile la vittoria della rivoluzione proletaria e comunista (vedi Considerazioni sull’organica attività del partito quando la situazione generale è storicamente sfavorevole, 1965), e l’esempio storico è dato proprio dal partito bolscevico di Lenin e dalla rivoluzione d’Ottobre 1917 tanto ossannata ma non compresa.

Per « b.c. » il compito del partito rivoluzionario viene praticamente ridotto ad una specie di consulente politico e organizzativo del cui servizio le masse proletarie possono decidere, a seconda delle situazioni, di servirsi o meno. Un consulente che abbia studiato, e che debba studiare, i rapporti sociali esistenti e che, forte della sua cultura in merito, presenti alle masse proletarie una piattaforma politica predisposta ad accogliere tutte le varianti che le diverse situazioni, che si presentano di volta in volta, richiederanno.

L’anarchia del mercato che i « battaglini » dicono di voler combattere perché incotrollabile da parte dei poteri centrali del capitalismo e della borghesia, e che pensano di poter superare semplicemente « pianificando dal basso la produzione della ricchezza collettiva sulla base dei bisogni reali », viene così trasformata in anarchia delle posizioni politiche, le une non necessariamente conseguenti alle altre, sempre rivisitabili a secondo delle contingenze e di situazioni « impreviste ». E così il « socialismo scientifico » – che ha il suo punto di forza nel prevedere lo sbocco storico della lotta fra le classi e i metodi e i mezzi grazie ai quali lo sbocco storico (cioè il comunismo integrale) potrà essere raggiunto – e di cui i « battaglini » dicevano di voler combattere « tutte le revisioni possibili », viene trasformato in una ipotesi di sbocco storico per la quale sono in via di definizione permanente programmi, metodi e mezzi la cui utilità o la cui indispensabilità potranno essere confermate soltanto dall’esperienza pratica, immediata, contingente delle masse proletarie. Così, il compito del partito-consulente sarà quello di classificare le diverse ipotesi alla luce delle numerose e contraddittorie esperienze pratiche che i proletari faranno, o non faranno, nelle diverse situazioni, nei diversi paesi, nelle diverse lotte, nelle diverse organizzazioni. Starà al partito-consulente convincere i proletari a continuare per la strada già imboccata o a cambiare strada ; e quale mezzo userà il partito-consulente per convincere i proletari ad accettare le indicazioni che in quel momento vengono loro offerte se non quello della messa ai voti in apposite assemblee dalle quali far sorgere una maggioranza ? Questo mezzo, di per sè, è il mezzo che dà i risultati più oscillanti e contraddittori possibili, come la storia della democrazia ha insegnato, perché registra inevitabilmente gli stati d’animo delle masse che vengono condizionati dai fatti contingenti e locali che, in questo modo, prendono il sopravvento su qualsiasi attività ed azione prevista (con lo stesso metodo) e definita in precedenza, dando al movimento proletario non punti fermi di riferimento, non obiettivi generali certi e visibili per cui lottare, ma un’insicurezza permanente, un anarchico guazzabuglio di direttive e di contrordini che porta il movimento proletario stesso, sceso spontaneamente sul terreno della lotta contro l’ordine costituito, non verso l’unificazione delle forze che borghesia e opportunisti fanno di tutto per dividere e confondere, ma verso lo spezzettamento, il localismo, l’immediatismo, il situazionismo con buona pace della borghesia che, in questo modo, ha trovato e troverà un ulteriore strumento (questa volta vestito da comunista internazionalista) per paralizzare i proletari e ricordurli sotto il giogo degli interessi borghesi, riportando il proletariato ad essere classe per il capitale e non classe per sé.

Basta leggere la Piattaforma politica della Tendenza Comunista Internazionalista (Prometeo, nr. 23, giugno 2020), organizzazione che raduna il gruppo di « battaglia comunista » che continua solo per onor di bandiera a chiamarsi « partito comunista internazionalista » (ma che di questa organizzazione ha mantenuto soltanto le posizioni peggiori che già erano emerse nei dissensi del 1951-52), per capire che sotto le solite chiacchiere sul marxismo, sulla rivoluzione d’Ottobre e gli sporadici richiami a Lenin, vive una forza revisionista che sul terreno rivoluzionario comunista non potrà mai venire. Il fatto di essersi costituiti in una Tendenza in cui ogni organizzazione politica aderente mantiene la propria « identità » e la denominazione dell’organizzazione fisica originaria, significa essere approdati nel fronte unico politico che è quanto la Sinistra comunista d’Italia combatteva fin dalla sua prima formulazione nel 1921. Resuscitare il fronte unico politico, immergendo le posizioni politiche di ciascuna organizzazione in una specie di brodo di coltura in cui ogni ingrediente perde una parte delle sue caratteristiche originarie, significa riaprire l’avvenire politico della lotta proletaria ai più osceni ribaltamenti teorici, politici e tattici, mettendo l’organizzazione politica che si vorrebbe costituire come partito della rivoluzione nelle condizioni di dipendere sistematicamente dai flussi e riflussi della lotta fra proletariato e borghesia, con un programma politico instabile, da mettere sempre in discussione, perciò inaffidabile e svincolato da punti di riferimento fermi, saldi teoricamente e politicamente, riconoscibili sotto ogni cielo e da qualsiasi proletario al di là della sua nazionalità, genere o età. Il gruppo di « b.c. » afferma di essere «per il partito, ma non siamo il partito, né l’unico embrione» ; e allora perché continuano a chiamarsi « partito comunista internazionalista » ? E’ evidente che l’inganno serve per sbandierare nei confronti di altri gruppi politici una radice storica che gli altri non possono rivendicare e che serve, come fanno normalmente i borghesi, nella contrattazione delle posizioni politiche tra i vari contraenti.

 

 

Partito Comunista Internazionale

Il comunista - le prolétaire - el proletario - proletarian - programme communiste - el programa comunista - Communist Program

www.pcint.org

 

Top

Ritorne indice