Orgia di democrazia elettorale nel mondo borghese

(«il comunista»; N° 182 ; Maggio-Luglio 2024)

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Il 2024 è un anno in cui si sta svolgendo una mastodontica orgia di democrazia. Sono più di 70, quest’anno, gli appuntamenti elettorali organizzati dalle classi dominanti borghesi nel mondo: presidenziali, nazionali, comunitarie e locali, a cominciare da Taiwan proseguendo con Bangladesh, El Salvador, Indonesia, Bielorussia, Iran e poi Russia, India, Messico, i 27 paesi dell’Unione Europea, e ancora Venezuela per terminare, in novembre, con gli Stati Uniti. Si tratta in totale di 76 paesi, pari al 51% della popolazione mondiale, più di 4 miliardi di abitanti. Questa impressionante giostra di democrazia dovrebbe rassicurare i popoli del mondo riguardo al loro supposto potere di cambiare col metodo democratico i governi che non rispondono ai loro desideri, cioè secondo il principio della democrazia sbandierato da ogni borghesia come l’unico e più alto principio di libertà e di uguaglianza. Un principio e un metodo di cui si servono anche le autocrazie e le aperte dittature che autogiustificano il proprio potere difendendo gli stessi poteri – la nazione, la sovranità popolare, gli interessi generali del popolo – per i quali è invocata in generale la democrazia.

Aldilà di quel che succederà dopo i risultati delle elezioni nei vari paesi – e in Europa abbiamo già avuto un piccolo terremoto politico provocato dalla perdita secca del partito di Macron in Francia e del partito di Sholtz in Germania – è interessante fare un quadro della situazione in cui nei principali paesi si sono tenute e si terranno quest’anno le elezioni.

 

 Già nel Manifesto del partito comunista del 1848, Marx ed Engels mettevano in evidenza come la borghesia è sempre in lotta, contro le classi feudali – che da tempo non contano più nulla e sopravvivono solo nei residui marginali dei paesi arretrati –, contro le fazioni borghesi che contrastavano lo sviluppo della grande industria e contro il proletariato che i opponeva allo sfruttamento sempre più intenso, sventolando demagogicamente le bandiere della libertà e dell’uguaglianza. Grazie all’irrefrenabile sviluppo della grande industria quella lotta si è trasformata in lotta del capitale finanziario contro qualsiasi altro capitale (industriale, agrario, commerciale) aumentando in questo modo il parassitismo capitalistico che è la caratteristica della fase imperialista del suo sviluppo. Fase in cui non è diminuito lo sfruttamento della forza lavoro proletaria, anzi, è aumentato enormemente, sottomettendo agli interessi di pochi gruppi capitalistici multinazionali interi paesi come bacini di materie prime e di masse proletarie indispensabili per la grande produzione di merci. Mentre per sfruttare capitalisticamente il sottosuolo allo scopo di ricavarne le materie prime necessarie all’industria – e, per farlo, la borghesia non ha mai chiesto “il permesso” alla terra o all’ambiente –, e per sfruttare in modo redditizio la forza lavoro proletaria da cui estorcere il pluslavoro, e quindi il plusvalore, la borghesia usa i più diversi metodi di controllo sociale, tra i quali il metodo democratico, variamente applicato, è risultato storicamente il più efficace perché diffonde una doppia illusione: da un lato, illude le masse di essere le protagoniste del buon andamento economico e della pace sociale del paese da cui dipende anche la loro sopravvivenza, dall’altro lato, illude le masse di poter cambiare – quando non sono soddisfatte della situazione economica e sociale che stanno vivendo – l’orientamento della politica governativa attraverso il loro voto. Duecento e passa anni di democrazia borghese dimostrano che l’indirizzo economico, sociale e politico di ogni paese non è in mano alle masse di elettori, ma alle consorterie capitalistiche che detengono concretamente il potere. In realtà, come ha dimostrato il marxismo, nemmeno i borghesi, i grandi capitalisti e le loro associazioni hanno il potere di intervenire sul modo di produzione capitalistico e sui suoi fondamenti per rimediare in modo risolutivo alle crisi provocate dallo stesso modo di produzione e dal suo sviluppo. Il loro intervento, in generale, si limita necessariamente a “curare i sintomi” della malattia, mai a debellarla. Come sottolinea lo stesso Manifesto di Marx-Engels, le forze produttive che il capitalismo ha sviluppato e sviluppa continuamente sono costrette in rapporti economici e sociali che non le contengono più, ostacolando il loro stesso sviluppo; le crisi commerciali, economiche, monetarie, finanziarie, e quindi politiche, mettono a soqquadro l’intera società e non sono superabili con misure graduali e mezzi pacifici perché l’enorme ricchezza prodotta non crea a sua volta il profitto necessario alla vita dei capitali investiti: i mercati si bloccano, masse enormi di prodotti e di forze produttive vengono distrutte, mettendo in evidenza sempre più che le crisi di cui soffre il capitalismo sono crisi di sovraproduzione, sovraproduzione di beni, di capitali e di forze produttive. Per rimettere in moto la macchina produttiva capitalistica e tornare a valorizzare i capitali e ad accumulare profitti, la borghesia non ha che un mezzo drastico da mettere in campo: distruggere quantità sempre più grandi di beni, di capitali e di forze produttive. Lo stesso Manifesto del 1848 risponde alla domanda: “Con quale mezzo la borghesia supera la crisi? Da un lato con la distruzione coatta di una massa di forze produttive, dall’altro con la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento più intenso dei vecchi. Dunque con quali mezzi? Mediante la preparazione di crisi più generali e più violente e la diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stesse”.

La guerra commerciale, la guerra monetaria, la guerra economica, la concorrenza sempre più spietata tra poli capitalistici e tra Stati per conquistare nuovi mercati e sfruttare più intensamente i vecchi: la guerra guerreggiata non è che lo sviluppo naturale delle crisi perché la concorrenza si vince soltanto sottraendo con la forza ai concorrenti il controllo dei mercati. Ma per condurre al top delle proprie possibilità politiche, economiche, sociali e militari la guerra di concorrenza, ogni Stato borghese deve ottenere il più ampio consenso e sostegno sociale interno e, per ottenere questo risultato, cosa c’è di meglio della democrazia? Il coinvolgimento democratico degli strati sociali della media e piccola borghesia e del proletariato assicura la tenuta e la continuità del sistema capitalistico generale, al di là dei partiti e dei leader che si sono passati il testimone gli uni con gli altri, o se lo sono strappati di mano con la violenza dei colpi di Stato.

E sono proprio i grandi paesi capitalisti, con la loro forza centralizzatrice e imperialistica che domina sul mondo, a dimostrare che la democrazia, nella sua continuità nel tempo o nella sua riproposizione dopo una fase di aperta dittatura, è il modo migliore per far fare al proletariato quello che non vorrebbe mai fare: imbracciare un fucile per difendere la stessa “patria” che lo manda a massacrarsi e a massacrare altri proletari in guerra. Il proletariato non è ancora nelle condizioni di riconoscersi come classe che ha un compito che la storia delle lotte di classe gli ha affidato: battersi contro l’intero sistema borghese, non solo sul piano economico e immediato, ma soprattutto sul piano politico e sociale generale, e lottare, per la prima volta nella storia umana, contro ogni divisione della società in classi, per una società senza classi, di specie, dunque per rivoluzionare da cima a fondo l’intera società capitalistica. Il proletariato ha già dimostrato nel passato di lottare sul terreno rivoluzionario utilizzando le stesse armi materiali e politiche usate dalla borghesia rivoluzionaria per abbattere i poteri feudali; ha già dimostrato nella sua lotta rivoluzionaria di elevare la propria lotta di classe a compiti che riguardano l’intera società, basandosi sullo stesso sviluppo delle forze produttive innescato dal modo di produzione capitalistico; la sua lotta ha già dimostrato che il capitalismo è, in realtà, un formidabile freno allo sviluppo ulteriore delle forze produttive e che tale freno è costituito precisamente dai rapporti di proprietà e sociali borghesi.

Il capitalismo non è soltanto il modo di produzione che sfrutta la forza lavoro salariata, che dà alla minoranza della borghesia capitalista il potere di appropriarsi dell’intera ricchezza prodotta socialmente dalla stragrande maggioranza degli uomini ridotti a schiavi salariati, è anche la base vitale del potere borghese. Il proletariato, avviato a suo tempo alla lotta politica dalla stessa borghesia rivoluzionaria perché senza il suo coinvolgimento non avrebbe mai potuto vincere il potere feudale, ha condiviso con essa la democrazia attraverso la quale ottenere soddisfazione alle rivendicazioni economiche, sociali e politiche che ne facevano un protagonista attivo nello sviluppo della società capitalistica moderna. Ma la democrazia moderna, la democrazia borghese, affonda le sue radici nella divisione in classi della società: idealmente pone tutti gli esseri umani uguali nei diritti, liberi come individui non dipendendo per legge da nessuno, ma nella realtà sociale e materiale è il dominio del capitale e del suo modo di produzione a dettare la legge della vita: il lavoratore salariato è l’espressione più evidente della diseguaglianza sociale, la sua vita dipende dal salario, dalla compravendita della sua forza lavoro. Il diritto alla vita dei lavoratori salariati non è un dono della borghesia e delle sue leggi democratiche, è in realtà il risultato della loro lotta quotidiana contro lo sfruttamento capitalistico. Ma la storia della lotta di classe del proletariato contro la classe borghese dominante ha dimostrato che la democrazia, i principi, i metodi e le istituzioni della democrazia borghese non favoriscono l’emancipazione del proletariato e, meno ancora, l’emancipazione del genere umano, non portano il benessere economico e sociale per tutti gli abitanti della terra, tutt’al contrario ne impediscono lo sviluppo sociale, ne impediscono una vita sociale armoniosa. L’uguaglianza e la libertà di cui si vanta l’ideologia borghese sono concetti del tutto astratti che ingannano le masse attraverso gli artifici elettorali e parlamentari: che eguaglianza ci può essere tra i borghesi, che sfruttano e piegano ai loro interessi di classe le masse lavoratrici, e queste stesse masse lavoratrici, sfruttate e immiserite, affamate e massacrate nelle guerre borghesi? Che libertà hanno le masse lavoratrici rispetto alla condizione obbligata di sottostare allo sfruttamento della loro forza lavoro se vogliono vivere in una società in cui domina il denaro?

Il proletariato, presentatosi all’appuntamento storico con la sua rivoluzione antiborghese e anticapitalistica nel 1848, nel 1871, nel 1905, nel 1917, nel 1919, nel 1927, ha dimostrato che la via rivoluzionaria indicata dal marxismo era, ed è, l’unica attraverso la quale la borghesia dominante – che il suo potere sia vestito da monarchia costituzionale, da democrazia parlamentare o presidenziale, da autocrazia o da dittatura militare o fascista – può essere battuta: è la via della rivoluzione proletaria guidata dal partito comunista rivoluzionario che per obiettivi ha l’abbattimento del potere politico borghese e del suo Stato, l’instaurazione della dittatura proletaria esercitata dal partito comunista rivoluzionario, l’avvio della trasformazione, una volta conquistato il potere politico, dell’economia capitalista in economia socialista, il sostegno della lotta rivoluzionaria del proletariato in ogni paese per la rivoluzione mondiale fino alla vittoria del comunismo sul capitalismo.

Lo sappiamo, la rivoluzione proletaria dal 1848 europeo al 1927 cinese è stata alla fine battuta; la borghesia non solo ha vinto, ma ha sviluppato l’economia capitalistica nelle parti del mondo che nell’Ottocento e nei primi del Novecento erano particolarmente arretrate; e la prospettiva della rivoluzione mondiale appena riassunta è ritenuta utopistica e irrealizzabile tale è la potenza che esprime il potere borghese in tutto il mondo. Ma la realtà sempre più contraddittoria e critica del capitalismo sviluppato – che con la prima guerra mondiale ha definitivamente raggiunto il suo stadio ultimo di sviluppo chiamato imperialismo – ha nello stesso tempo trasformato enormi masse contadine in proletari puri, ossia nella massa di lavoratori salariati che sopravvivono in condizioni di esistenza sempre più intollerabili, aumentando le tensioni sociali non solo nei paesi della periferia delle metropoli imperialiste – tenuta a bada con la repressione e le guerre – ma anche all’interno dei paesi imperialisti stessi.

Per quanto la borghesia faccia per impedire che i proletari si organizzino in associazioni classiste, sia a livello di difesa economica sia a livello politico, sono le contraddizioni insite nella struttura economica stessa della società borghese a spingere le masse lavoratrici a rivoltarsi contro un potere che le soffoca, a cercare un orientamento politico affidabile dal punto di vista programmatico e rivoluzionario. Con lo sviluppo della grande industria - sottolineerà ancora il Manifesto del 1848 - viene tolto di sotto i piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa produce anzitutto i suoi seppellitori.

La borghesia non si rimette al voto democratico coinvolgendo tutto il popolo elettore quando deve decidere come investire i suoi capitali, come sviluppare i suoi commerci, come cercare di abbattere i costi di produzione (tra cui c’è anche la non secondaria voce: salari) o scatenare direttamente o indirettamente la guerra in qualche parte del mondo dove i contrasti interimperialistici non sono sanabili se non con la forza militare. La democrazia, da questo punto di vista, è davvero solo cibo per il popolino, per i proletari, per tutti coloro che si illudono di contare in modo decisivo sulle “scelte” governative attraverso la scheda elettorale infilata nell’urna di tanto in tanto.

Il proletariato, per la propria lotta classista e per battersi non solo contro le conseguenze delle crisi capitalistiche che colpiscono le sue condizioni di lavoro e di vita, ma contro l’attuale corsa verso la guerra mondiale, non ha scelta: o riconquista la sua tradizione storica di classe, riorganizzandosi al di fuori e contro la collaborazione di classe in cui da decenni è stato infilato da tutti i partiti opportunisti e da tutti i sindacati collaborazionisti, facendo proprie le lezioni della controrivoluzione che il partito di classe ha il compito di importare nelle file proletarie, oppure si lascia ingannare ancora dalle sirene delle borghesie democratiche e sedicentemente antitotalitarie, facendosi irreggimentare per l’ennesima volta nel grande esercito di difesa degli interessi nazionali – sia militare, sia industriale – facendosi portare al massacro di guerra e diventando, nello stesso tempo, massacratore di sé stesso.

Per quanto modestissime siano le nostre forze attuali, per quanto la nostra voce come partito comunista internazionale sia forzatamente poco diffusa, noi continuiamo la nostra lotta politica e teorica in vista della ricostituzione del partito compatto e potente di domani, coscienti del fatto che senza questo partito il proletariato sarà sconfitto per l’ennesima volta. E una voce fondamentale che ci caratterizza riguarda la lotta contro la democrazia borghese, da tutti i punti di vista, come ideologia, come principio, come programma, come metodo di governo e anche come meccanismo organizzativo del partito stesso. Troppi danni ha prodotto l’illusione di piegare la democrazia borghese agli interessi generali e storici della lotta rivoluzionaria del proletariato. Noi non siamo e non intendiamo essere gli aggiornatori o gli innovatori di una democrazia che, si chiami come si vuole – diretta, di base, proletaria, socialista o comunista e magari anche rivoluzionaria –, è stata e sarà sempre il cancro che debilita il corpo proletario fino a spegnerne ogni energia di classe. La borghesia dominante vuole esattamente questo e per ottenere tale risultato è disposta a investire e spendere enormi capitali perché sa che il ritorno immediato e, soprattutto, futuro è a suo esclusivo favore.

 

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Quest’anno, come dicevamo all’inizio, più della metà degli abitanti del pianeta è stata coinvolta nel caravanserraglio delle elezioni. Diamo una scorsa ai principali paesi in cui si sono tenute.

 

RUSSIA

Nel marzo scorso, le elezioni preparate, incanalate e “liberate” da ogni possibile opposizione, in piena guerra di rapina in Ucraina, Putin, con il suo clan, si è assicurato, con una specie di plebiscito, il quinto mandato per governare per altri sei anni in un clima di sistematica repressione interna, con una politica estera volta ad annettere definitivamente la parte dell’Ucraina russofona e a rafforzare – secondo una linea di interessi imperialistici antioccidentali condivisi con la Cina e, in parte, con i paesi del Brics – la propria sovrastruttura militare così da renderla pronta a una prevista – anche se non immediata – terza guerra mondiale.

Aldilà delle ipotesi avanzate più volte dai governi dei paesi dell’Unione Europea su minacciose invasioni russe a occidente per riprendersi in parte o totalmente i paesi dell’ex impero sovietico, è chiaro che l’imperialismo russo non ha più alcuna intenzione di subire, senza reagire, ulteriori pressioni e attacchi ai suoi interessi non solo economici ma anche politici e di influenza soprattutto ai suoi confini, in Europa come nel Caucaso, in Asia centrale ed estremo-orientale. Per sviluppare i suoi specifici interessi imperialistici anche la Russia “dello Zar Putin” – stretta a Occidente e nel Mediterraneo dalle potenze della Nato, a Oriente dalla Cina (ora amica, ora nemica) e a Sud verso il Golfo Persico e l’Oceano Indiano dall’Iran e dall’India – ha bisogno di un forte consenso interno cercato con ogni mezzo, anche col mezzo delle elezioni democratiche che, finora, gli hanno dato un vantaggio, anche perché il proletariato è quasi del tutto ripiegato su sé stesso e ha risposto alla mobilitazione di guerra contro l’Ucraina di Zelensky con l’arma della corruzione e della diserzione che, se da un lato rivelano un malcontento e un disagio sociale reale, dall’altro lato mostrano la sua estrema debolezza e la sua inesistenza come forza capace di opporsi alla borghesia dominante come classe.

 

STATI UNITI D’AMERICA

Il prossimo novembre si terranno le elezioni presidenziali per le quali da tempo Biden e Trump sono in corsa per contendersi nuovamente la poltrona alla Casa Bianca. Come in Russia e in ogni paese del mondo capitalistico, anche in America dietro il nome di un capo politico ci sono sempre gruppi economici e finanziari che, manovrando le linee politiche e i comportamenti dei partiti o delle loro fazioni maggioritarie, tendono a dirigere “la politica” a beneficio e a protezione dei sempre più forti loro interessi a difesa dei quali gli Stati rafforzano la sovrastruttura politica, centralizzandola, al fine di battere, con ogni mezzo, anche quello militare, la concorrenza imperialistica sui mercati mondiali. Al di là delle vicende giudiziarie in cui sono caduti e cadono sistematicamente capi di Stato, premier, presidenti del consiglio, ministri, magnati, capi d’industria, governatori di banche e chi più ne ha più ne metta (l’esempio italiano vale come cartina di tornasole), le indagini e le sentenze di condanna che questi eccelsi rappresentanti della classe dominante borghese hanno accumulato negli anni non li tolgono di mezzo, tutt’altro. Le leggi della democrazia hanno permesso che venissero indagati, processati e condannati, come nel caso di Trump e del figlio di Biden. Le leggi degli interessi economici e finanziari in ballo, ben più potenti e concrete di qualsiasi articolo dei codici penali o delle costituzioni repubblicane, si scontrano con le leggi della democrazia e normalmente vincono su tutta la linea (Berlusconi docet). Quel che prevale su tutto, in ogni caso, è il metodo corruttivo connaturato nella società capitalistica che si sposa magnificamente sia con la legalità sia con i metodi illegali e mafiosi, che prevedono l’ampio spettro che va dall’adulazione all’intimidazione, dalla pressione psicologica e materiale al ricatto, dal singolo atto di forza e di violenza alla violenza diffusa e sistematica. Non esiste paese al mondo in cui il capitale non si muova corrompendo, ricattando, esercitando la violenza del suo potere materiale.

 

INDIA

Per sei settimane, da aprile all’inizio di giugno si sono tenute le elezioni politiche nelle quali Narendra Modi, già a capo del governo da due legislature, si è assicurato anche la terza legislatura, ma con una notevole flessione di voti rispetto alle politiche del 2019, tanto che i media considerano il risultato elettorale della National Democratic Alliance, di cui fa parte il BJP, il partito di Modi, come una sconfitta più che una vittoria. In pratica, al Congresso Modi non ha più la maggioranza assoluta e, per governare, dovrà venire a patti con gli altri partiti alleati. E’ noto che la politica applicata da Modi nelle due legislature precedenti era incentrata soprattutto sul nazionalismo indù, in netto scontro con la minoranza musulmana indiana. Il clima generale, infatti, vissuto in India nei dieci anni scorsi è stato segnato da quella che noi abbiamo chiamato più di cinquant’anni fa democrazia blindata, cioè una democrazia formale che poggia su una politica di repressione e discriminazione. Le “libere elezioni” si sono svolte con arresti dei leader dell’opposizione, congelamento dei conti correnti del principale partito di opposizione, un sistema mediatico quasi interamente schierato a favore del governo e con risorse economiche per il partito di Modi estremamente superiori a quelle degli oppositori. L’India è sempre stata presentata come la democrazia più grande del mondo, grazie al suo miliardo e mezzo di abitanti, e figlia del pacifismo gandhiano, un pacifismo che, in realtà, è stato spezzato più volte e non da rivolte proletarie interne che avrebbero potuto avere un senso storico nella prospettiva rivoluzionaria anticapitalistica e antidemocratica, ma dai governi borghesi che si sono succeduti sia al governo centrale di Nuova Delhi sia nei diversi Stati federati, per contrasti religiosi ed etnici (soprattutto nel Kashmir e nel Manipur) che non sono mai riusciti a risolvere definitivamente – non diversamente dalle borghesie degli altri paesi. Ebbene, questa grande democrazia presuntamente pacifica e pacifista, dopo le diverse guerre di confine con Cina e Pakistan, superate ma solo diplomaticamente, è un paese che nel giro di trent’anni è diventata, secondo il Pil nominale, la quinta potenza economica del mondo, è cofondatrice dei Brics, e applica una politica di misurata “equidistanza” tra Stati Uniti e Cina, tra Stati Uniti, Russia e Unione Europea, in attesa di schierarsi un domani sul fronte di guerra mondiale più conveniente per i suoi interessi di potenza emergente.

 

IRAN

Il primo marzo di quest’anno, si sono tenute le elezioni per il rinnovo del parlamento. Dopo anni di repressione contro le diverse opposizioni – solo nel 2023 sarebbero state giustiziate 834 persone, il più alto numero dal 2015 (1) – e i movimenti sociali formatisi in seguito al brutale assassinio, nel settembre del 2022, della giovane curda Mahsa Amini (2), assassinio che non è rimasto isolato, l’ayatollah Khamenei e i governanti volevano che queste elezioni dimostrassero che il popolo iraniano – nonostante la crisi economica in cui è precipitato il paese date anche le sanzioni da parte dei paesi occidentali e il clima di repressione sociale – almeno nella sua parte politicamente attiva, offriva loro ancora un forte sostegno. In realtà, nonostante la pressione propagandistica da parte di tutto il clero fondamentalista per convincere gli iraniani ad andare a votare, il risultato è stato particolarmente magro: a un eccezionale astensionismo si è aggiunta una percentuale importante di schede bianche, il che ha significato che i voti validi non hanno superato il 35%: la grandissima parte dei 61 milioni degli “aventi diritto” non è andata a votare. Va detto che i partiti riformisti tollerati dal potere confessionale si sono rifiutati di partecipare a queste elezioni dopo l’esclusione dalle liste di molti loro candidati, per “lesa democrazia”. Resta il fatto che un generale e strisciante malcontento, sia per motivi economici che politici (e non solo rispetto alla repressione religiosa, ma anche rispetto all’elevata corruzione che riguarda anche i vertici del clero), caratterizza il clima sociale iraniano, in particolare nelle grandi città e che il blocco conservatore e reazionario al potere dovrà affrontare altre proteste e, ci auguriamo, scioperi operai con i quali un proletariato oppresso e represso dimostrerebbe di non essere completamente succube di una borghesia che non smette di perseguire i suoi scopi di potenza regionale ai quali incatenarlo, magari preparandolo a scontri di guerra con Israele (ora, per l’ennesima volta, rimandati) e in ogni caso contro le bande del terrorismo islamista che operano ai confini con la Siria, l’Iraq e il Pakistan. D’altra parte, i veri antagonisti per l’Iran, dal 1979, sono gli Stati Uniti, con cui era comunque giunto a firmare un accordo sul nucleare nel 2015, stracciato da Trump nel 2018. Biden, di tanto in tanto, tenta di ricucire un dialogo con Teheran, anche per allontanarlo da Mosca, sapendo che non riuscirà ad allontanarlo da Pechino con cui Teheran ha sottoscritto, nel marzo 2012, un accordo di 25 anni grazie al quale quale riceverà investimenti per 400 miliardi di dollari nei settori dell’energia e delle infrastrutture, contro petrolio venduto a prezzi più bassi di quelli di mercato. Ma, a parte i rapporti economici tra Teheran e Pechino, che valgono molto di più per l’Iran che per la Cina, sulle relazioni tra i due paesi pesano molto gli interessi cinesi verso il Medio Oriente in generale – facilitati dalla mediazione di Pechino nella riconciliazione tra Iran e Arabia Saudita – e verso l’Africa del Nord, aree in cui la Cina va a contrastare inevitabilmente gli interessi non solo degli USA ma anche della Russia. E’ evidente che la borghesia clericale iraniana ha interesse a mostrarsi compatta in un paese non scosso da tensioni sociali che, normalmente, non fanno bene agli “affari”, perciò contava su un risultato elettorale non così scarso...

 

MESSICO

In giugno, si sono svolte le elezioni presidenziali. Per la prima volta nel paese è salita alla presidenza una donna, Claudia Sheinbaum, esponente dello stesso partito del precedente presidente, López Obrador, (Movimento della Rigenerazione Nazionale) di carattere nazionalpopulista che per queste elezioni ha costituito una coalizione cosiddetta “di sinistra” (chiamata pomposamente Sigamos Haciendo Historia). Ha vinto nettamente col 60% dei voti contro la candidata dell’opposizione, Xochitl Gálvez di origini indigene. Come López Obrador, anche Claudia Sheinbaum è stata sindaco di Città del Messico e persegue la stessa politica riformista di Obrador con cui intende lanciare l’economia messicana a uno sviluppo ulteriore, coinvolgendo il proletariato in una più stretta collaborazione di classe investendo soprattutto nelle infrastrutture, come previsto da diversi megaprogetti. Tanto per citarne alcuni: il Corridoio Intraoceanico, dal Golfo del Messico al Pacifico attraverso l’istmo di Tehuantepec, per collegarlo con la rete mondiale dei corridoi logistici; la nuova linea ferroviaria, il Tren Maya ad alta velocità, di 1.500 chilometri, che dovrebbe collegare le coste dello Yucatan al Chiapas, passando per il Quintana Roo, il Campeche e il Tabasco; l’Acueducto Independencia, nello Stato di Sonora che, intercettando le acque del fiume Yaqui, servirà soprattutto al settore commerciale e industriale, sottraendo l’acqua alla popolazione indigena Yaqui che da secoli coltiva e vive in quel territorio; il Gasoducto Sonora, sempre nello stesso territorio, lungo 824 km, annunciato dallo stesso ex presidente López Obrador nell’agosto 2020 come una necessità vitale per l’economia nazionale per poter esportare il gas verso l’Asia, che, partendo dalla frontiera occidentale Messico-Usa, attraversa tutto lo Stato di Sonora e termina a Puerto Libertad nel Golfo di California; un altro gasdotto è previsto nel Proyecto Integral Morelos (il PIM), lungo 160 km, che attraverserà gli Stati di Tlaxcala, Puebla e Morelos, e contro il quale lo stesso López Obrador, nella campagna elettorale del 2014, si scagliò denunciandolo come uno dei progetti che avrebbe distrutto il territorio e inquinato le sue scarse acque, ma che, appena eletto presidente, ha fatto suo, infischiandosene delle promesse fatte agli eredi di Zapata (3). Inutile dire che questi progetti – che in parte riprendono opere già avviate tempo fa e poi abbandonate – comportano un’ulteriore e vasta distruzione del territorio, una sistematica deforestazione e un profondo inquinamento delle acque, mettendo le popolazioni indigene di quei territori in condizioni sempre più precarie e di emarginazione. In un paese in cui dilagano la criminalità, soprattutto legata al traffico di droga e di esseri umani, e la corruzione a ogni livello politico, e dove – come a Ciudad Juarez e nello Stato del Guerrero – e lungo il confine con gli Stati Uniti, il controllo del territorio avviene anche attraverso assassinii e sparizioni di persone che “danno fastidio”, le belle parole usate in campagna elettorale sulla lotta alla criminalità organizzata, sulla difesa dell’ambiente e dei diritti delle popolazioni indigene, questa volta pronunciate dalle due donne candidate alla presidenza, Sheinbaum e Gálvez, suonano come un gigantesco inganno a copertura di promesse che non saranno onorate – come il mantenimento dei sussidi statali che riguardano non meno di un quarto della popolazione (e che corrispondono a un buon bottino elettorale), il sostegno degli strati sociali più miseri, senza aumentare le tasse – in una situazione di risorse pubbliche molto limitate e di fronte a una costante emergenza idrica nelle municipalità rurali e, soprattutto, nelle grandi città (Città del Messico, Monterrey, Puebla ecc.).

Il proletariato messicano è stretto in una morsa tra la criminalità organizzata e i charros (i sindacalisti venduti ai padroni e allo Stato). Il suo potenziale di lotta si è fatto vivo in determinate occasioni, come nello sciopero di 6 mesi, tra il 2008 e il 2009, dei minatori delle miniere di rame a Cananea – del Grupo Mexico – che ricevette solidarietà da molti altri operai non solo in Messico, ma anche nei confinanti Stati Uniti e perfino in Perù. E nello sciopero degli operai Teksid Hierro (del gruppo Fiat-Chrysler, oggi Stellantis) dell’aprile-maggio 2014, che trascinarono nello sciopero anche gli operai dell’americana Gunderson-Gimsa (vagoni ferroviari) e della messicana Pytco (tubi e profilati d’acciaio). Nel marzo 2019 fu la volta di 25.000 lavoratori e lavoratrici delle maquiladoras di Matamoros (città di confine col Texas) (4) la cui pressione fu tale da obbligare il maggiore sindacato mafioso, la CTM, a farsi carico delle rivendicazioni dei lavoratori riassunte sostanzialmente in un aumento salariale del 20% per tutti gli operai e le operaie e un bonus di 32.000 pesos (quasi 1,68 dollari americani). Inutile dire che, terminati gli scioperi, grazie al lavorio dei sindacati collaborazionisti, gli scioperanti più in vista sono stati licenziati, mentre le conquiste salariali verranno gradualmente rimangiate dall’inflazione. Se per i proletari americani la conquista del terreno classista delle sue lotte è ostacolata da una tradizione operaista e tendenzialmente democratica, per i proletari messicani non sarà facile scrollarsi di dosso il mito zapatista della guerriglia dei contadini, per i quali vale ancora il grido “pane e libertà”, al posto del quale dovranno anch’essi, come qualsiasi altro proletariato al mondo, gridare “guerra di classe”, “abbasso la repubblica borghese, la sua democrazia e il suo parlamento”, “viva la lotta di classe”, “viva la rivoluzione comunista”.

 

INDONESIA

Nel febbraio scorso, le elezioni per votare il presidente e i parlamentari hanno ridato la preferenza a Prabowo Subianto, ex ministro della Difesa del precedente governo di Joko Widodo e membro della stessa coalizione di destra di J. Widodo (Partito del Movimento della Grande Indonesia), con oltre il 58% dei voti; la partecipazione è stata piuttosto alta, oltre l’82% dei quasi 205 milioni di elettori di tutto l’arcipelago. Chi è Prabowo Subianto? E’ l’ex genero del generale Suharto (protagonista del colpo di Stato che detronizzò Sukarno), capo indiscusso dell’Indonesia dal 1965 al 1988, che fece strage di comunisti interrompendo le strette relazioni con la Cina stabilite dal precedente nazionalista Sukarno per avvicinarsi agli USA; è stato generale anche lui e si è distinto per i massacri contro gli indipendentisti di Timor Est nei primi anni Ottanta, e contro gli attivisti antigovernativi verso la fine degli anni Novanta; è sostenuto dai gruppi islamici radicali. Il clan di cui fa parte e che ha governato l’Indonesia, prima sotto Suharto e poi, dopo alcuni presidenti “democratici”, sotto la figlia di Sukarno, Megawati Sukarnoputri, è tornato alla ribalta col governo di Widodo e ora di Prabowo Subianto.

L’Indonesia, attualmente, è classificata dal FMI, secondo il PIL nominale, in diciassettesima posizione nell’economia mondiale. E’ un paese costituito da 17.508 isole (lo Stato-arcipelago più grande del mondo) che, con i suoi quasi 300 milioni di abitanti, è il quarto paese più popoloso dopo India, Cina e Stati Uniti e il più popoloso a maggioranza musulmana.

Ex colonia portoghese e, dal 1600 alla seconda guerra mondiale, colonia olandese (le Indie Orientali Olandesi), accede al capitalismo grazie al commercio delle spezie di cui è ricchissimo e ai giacimenti di carbone, stagno, nichel, argento mentre nella Nuova Guinea Occidentale (le isole Papua) si trova la più grande miniera d’oro al mondo e la seconda più grande miniera di rame al mondo. La scoperta di importanti giacimenti di petrolio e di gas naturale farà fare un ulteriore balzo in avanti nell’industrializzazione del paese, sia per l’uso interno che per l’esportazione (5). Un altro dato che caratterizza l’Indonesia: è un paese relativamente giovane (il 25% della popolazione ha meno di 15 anni, e solo il 7% ne ha più di 65); e come succede in tutti i paesi la cui popolazione è particolarmente giovane, la memoria delle tragedie del passato per i più è persa. Puntando tutto sulla competitività – e quindi sulla produttività del lavoro – il capitalismo indonesiano sa che deve utilizzare risorse importanti non solo per attirare investimenti stranieri, ma anche per ottenere dal proprio proletariato il massimo sforzo lavorativo attraverso la solita politica degli incentivi a lavorare di più (ad essere sfruttati di più) e dei sussidi per la disoccupazione. Quel che mancava nei decenni precedenti al 2000 era uno sviluppo sostenuto del mercato interno, ed è anche grazie a questo sviluppo che l’economia indonesiana ha segnato una crescita importante se paragonata agli altri grandi paesi del mondo (nell’ultimo decennio, ad esempio, è cresciuta a una media del 5,2%). Come illustrato più volte nelle nostre riunioni di partito, le condizioni fondamentali per uno sviluppo importante del capitalismo sono costituite da: popolazione numerosa, importanti risorse minerarie ed energetiche, ampia campagna per lo sviluppo agricolo e tanti capitali da investire. L’Indonesia, da questo punto di vista, è sulla strada che la porterebbe probabilmente a superare, nella classifica economica mondiale, addirittura paesi come il Regno Unito e la Germania andandosi a collocare non lontano da Cina, USA, India e Giappone (6). Sviluppo industriale significa sviluppo della massa di lavoratori salariati, perciò ben venga questo sviluppo che, inevitabilmente, come già in passato, andrà a insistere sulle masse contadine, espropriandole e trasformandone un’ulteriore parte in proletari puri. La competitività che caratterizzerà l’economia indonesiana schiaccerà ancor più nello sfruttamento brutale le grandi masse proletarie che, se non si faranno deviare per l’ennesima volta dal nazionalismo e dal confessionalismo islamico, saranno spinte a lottare per sé stesse, solo a difesa dei propri interessi di classe.

Quanto alla politica estera di Giakarta, l’atteggiamento di una certa “equidistanza” tra Stati Uniti e Cina, tra Stati Uniti, Russia e Giappone, consente ancora all’Indonesia di mantenere buoni rapporti d’affari e diplomatici con tutte le grandi potenze con le quali è comunque in contrasto per determinati interessi: con gli Stati Uniti per non farsi fagocitare da Washington come avvenne sotto Suharto; con la Cina, nonostante le dispute nel Mar Cinese Meridionale sulle acque intorno alle isole Natuna avendo definito un’ampia Zona Economica Esclusiva contestata da Pechino per la quale entrambi i paesi rivendicano i diritti di pesca e di ricerca nei fondali marini; col Giappone, seppellito l’odio per i massacri subiti nella seconda guerra mondiale, da oltre sessant’anni vi sono relazioni bilaterali tanto da fare del Giappone il suo terzo partner commerciale; con la Russia, Giakarta mantiene una posizione di sostanziale neutralità anche rispetto alla guerra russo-ucraina, anche se prima di quella guerra l’Indonesia era il secondo importatore mondiale di grano ucraino, e nello stesso tempo, importava e continua a importare dalla Russia fertilizzanti e altri prodotti agricoli. Questo atteggiamento di non allineamento deciso su nessun fronte non la mette al riparo delle conseguenze che potrebbero verificarsi date le tensioni nell’Indo-Pacifico; e infatti anche Giakarta ha aumentato sensibilmente gli investimenti nei propri armamenti e ha partecipato nel 2023 alla seconda edizione dell’esercitazione militare multinazionale (Super Garuda Shield) insieme a Stati Uniti, Australia, Giappone, Singapore, Francia e Regno Unito (7). Gli scontri di guerra si stanno sempre più avvicinando anche in quella parte del mondo, e i proletari non solo indonesiani, ma di tutti i paesi dell’area, verranno inevitabilmente coinvolti in attesa di essere triturati in una guerra di rapina imperialistica contro la quale avranno una sola via d’uscita: battersi innanzitutto contro la borghesia di casa propria e solidarizzare sul terreno della lotta di classe con i proletari di tutti gli altri paesi.

 

UNIONE EUROPEA e G7

Tra il 6 e il 9 giugno si è tenuto il grande circo elettorale per il parlamento europeo, il luogo dove, secondo i politicanti di tutti i partiti, da destra a sinistra, si decidono le sorti di una buona parte dei problemi dei paesi membri dell’Unione. Da anni, sicuramente dal crollo dell’URSS del 1991-92 – sedicente paese del “socialismo reale” – i partiti “di sinistra” e di “estrema sinistra” si sono sempre più scoloriti, hanno cambiato nome, abbandonando finalmente il nome di “comunista” (salvo qualche sparuto gruppo rifondarolo e legato alla resistenza partigiana) nel tentativo di cancellare un passato che stava diventando troppo pesante e che non sarebbe più stato efficace nella raccolta di voti e di iscritti. Diventati anche formalmente democratici borghesi – cosa che d’altra parte erano da sempre, sebbene mimetizzati da “socialisti” e “comunisti” – o socialdemocratici, il che è lo stesso, hanno continuato la loro opera opportunista svelando il fatto che le riforme, con cui illudevano i proletari, che sostenevano in parlamento in realtà portavano acqua al mulino della conservazione borghese; riforme che, prevedendo sempre qualche piccolo e temporaneo beneficio per i proletari, si basavano esclusivamente sulla collaborazione di classe tra sfruttati e sfruttatori. Ma la storia delle riforme economiche e sociali che riguardano le condizioni di vita e di lavoro del proletariato ha dimostrato che il potere borghese le concede e le cancella a seconda delle situazioni di espansione o di crisi del capitalismo e a seconda dei rapporti di forza tra borghesia e proletariato, rapporti di forza che l’opportunismo dei sedicenti socialisti o comunisti hanno consolidato dalla parte della borghesia dominante.

Ogni paese che è diventato membro dell’Unione Europea si è portato appresso la sua storia passata che è fatta di lotta della borghesia nazionale contro il proletariato nazionale e contro i proletari che immigrano da ogni altra parte del mondo, di lotta di concorrenza con gli altri paesi sul mercato nazionale e soprattutto sul mercato internazionale, di alleanze e di conflitti politici che evidenziano non la tendenza a unire gli interessi delle diverse borghesie europee, ma la tendenza ad agire su ogni piano in difesa dei loro interessi espressamente nazionali. La forza economica di ogni paese decide il tipo di alleanza che stabilisce di attivare e gli interessi imperialistici di ogni borghesia orientano le decisioni sui diversi piani: economico, finanziario, politico, diplomatico. L’Unione europea è nata come tentativo delle borghesie continentali più importanti di coordinare i propri mercati nazionali (a partire dal carbone e dall’acciaio, per passare attraverso il Mercato comune europeo e, infine, alla UE) per affrontare la concorrenza di forze imperialistiche extraeuropee occidentali, come gli Stati Uniti d’America, la Russia e la Cina, in un periodo in cui le conseguenze della crisi mondiale del 1975 spingevano i paesi europei occidentali a unire le proprie forze nel tentativo di uscire da quella crisi almeno sul piano del commercio e di accordi validi per tutto il continente quanto a libera circolazione delle merci, dei capitali, dei servizi e delle persone. All’inizio del secolo XXI si arriverà alla moneta unica, l’euro, per facilitare appunto quelle “quattro libertà” di cui il capitale in generale ha bisogno per svilupparsi. Questo andamento ha caratterizzato i rapporti tra i paesi europei dagli anni ’90 in poi, come se in questo spazio chiamato Europa non dovesse più presentarsi la minaccia della guerra e dove gli affari avrebbero avuto libertà illimitata di progredire. Il fatto è che il progresso degli affari in Europa non poteva essere separato dal progresso degli affari in tutto il mondo: il capitale, per sua natura, non conosce confini, si basa su un modo di produzione che ha conquistato il mondo diventando universale. Il capitalista è riconosciuto come tale in ogni angolo del mondo, come del resto il proletario è riconosciuto come proletario, come lavoratore salariato in ogni angolo del mondo. Il capitale non può fare a meno della proprietà privata, di un mercato nazionale e di un organismo centrale e centralizzante, lo Stato, che ne difenda gli interessi. Ma una delle sue contraddizioni è che, nello stesso tempo, è nazionale e internazionale, scontrandosi sia sui mercati nazionali, sia sul mercato internazionale, con gli interessi e la forza di tutti gli altri capitali nazionali: scontro che è diventato sempre più violento quanto più il capitalismo finanziario ha preso il sopravvento sul capitalismo industriale e commerciale; questo sviluppo è chiamato imperialismo, cioè il capitalismo dei monopoli.

I monopoli, come spiega Lenin, sono nati dalla concentrazione della produzione, con la formazione di cartelli, sindacati di produzione, trust; grazie ad essi si è sviluppata la conquista delle fonti più importanti di materie prime, aumentando in questo modo l’antagonismo tra i monopoli e tutto ciò che non è monopolio. Lo sviluppo della concentrazione dei capitali ha portato le banche ad essere monopolizzatrici del capitale finanziario, condizionando pesantemente le istituzioni economiche e politiche della società. Infine, aggiungendosi alla classica politica coloniale, il capitale finanziario acutizza sempre più la lotta per le fonti di materie prime, per l’esportazione di capitale, per le sfere d’influenza, dunque per le zone d’affari, di concessioni, di utili monopolizzati, di extraprofitti come li chiamano ora ecc., insomma per il controllo di sempre più vasti territori economici.

Ecco allora che non solo l’Africa, non solo il Medio Oriente e l’Oriente, o l’America Latina, ma anche l’Europa è diventata un territorio economico di grandissima importanza, e non tanto e non solo per le materie prime indispensabili per le produzioni industriali avanzate (litio, terre rare ecc.), ma soprattutto per l’esportazione di capitali, per gli affari, per una maggiore concentrazione di capitali a livello mondiale.

Dopo la fine della seconda guerra imperialistica mondiale, e le sue massicce distruzioni, l’Europa era diventata un territorio economico della massima importanza sia per l’imperialismo americano che per l’imperialismo russo, tanto da trasformarla in una specie di vasta zona da colonizzare da parte dei vincitori, con il dollaro piuttosto che con le forze armate. La divisione dell’Europa tra zona occidentale e zona orientale, rispondeva a interessi imperialistici e di dominio di classe da parte delle borghesie più potenti sia di carattere economico-finanziario aprendo le porte all’esportazione dei capitali americani, sia di carattere sociale per un controllo sempre più stretto delle masse proletarie che nei decenni precedenti avevano dimostrato di possedere una grande forza di classe e una spinta rivoluzionaria che aveva ipotecato, con la vittoriosa rivoluzione d’Ottobre in Russia e con la costituzione dell’Internazionale Comunista, un futuro rivoluzionario a livello europeo e mondiale. I moti proletari del giugno 1953 a Berlino e del 1956 a Budapest, mettevano per l’ennesima volta i poteri borghesi imperialistici nella necessità di usare la loro massima forza per spegnerli nel sangue, cosa che riuscì, vista la grande influenza che avevano sulle masse proletarie i partiti stalinisti e le illusioni democratiche.

Aldilà della presenza di potenze capitalistiche e coloniali di primaria importanza, come la Gran Bretagna, la Francia, la Germania, il Belgio, l’Olanda, la stessa Europa diventò una specie di colonia per l’imperialismo americano come per quello russo. Ma la marcia di sviluppo del capitalismo finanziario non poteva non far rifiorire tutte le basi imperialistiche che si erano già costituite nel territorio economico chiamato Europa. E così la concentrazione monopolistica, sia industriale che finanziaria, ritrovava una nuova e florida stagione nei vecchi paesi imperialistici, ridando ai capitali tedeschi, francesi, inglesi, olandesi, italiani ecc. – protetti e foraggiati dai rispettivi Stati centrali – la spinta a concorrere sempre più ferocemente sui propri mercati e sui mercati internazionali contro i capitali americani e russi, ai quali, strada facendo, si aggiunsero i capitali giapponesi e di tutti gli altri poli finanziari che negli anni si sono formati grazie ai mercati delle materie prime (sia minerali come il petrolio, il carbone, il gas naturale, il rame ecc., sia agricole, come il grano, il mais, la soia ecc.).

Ed è in conseguenza di questa vera e propria guerra di concorrenza a livello mondiale per il controllo dei territori economici e finanziari che gli scontri che si verificavano, nel trentennio successo alla fine del secondo macello imperialistico mondiale, nei continenti extra-europeo ed extra-nordamericano, tornarono in Europa quando la crisi di sovraproduzione divenne simultanea a livello mondiale (1975) creando le condizioni perché si aprissero crepe irrimediabili in quello che fu il condominio russo-americano in Europa. Quella crisi era destinata a generare ulteriori fattori di crisi che successivamente andavano a intaccare la tenuta degli imperialismi meno forti, e il crollo dell’URSS all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, con la successiva perdita delle sue “colonie” europee a favore degli Stati Uniti e dei paesi europei occidentali riuniti poi nell’Unione Europea, dimostrava che nella lotta di concorrenza vincono i capitali monopolistici più forti, infischiandosene altamente di diritti umani, Stati di diritto, valori democratici e pace. 

Non è un caso che, in seguito al cedimento del condominio russo-americano in Europa, oltre al crollo dell’URSS c’è stato anche il crollo della Jugoslavia, che ha innescato una guerra tra le diverse “repubbliche” che costituivano la Jugoslavia di Tito, e che per la prima volta riemergeva nei confini europei allargandosi anche all’intervento della Nato col pretesto di proteggere la popolazione del Kosovo dalla Serbia. Lo spezzettamento della ex Jugoslavia in sette Stati diversi, di cui soltanto la Serbia, nonostante dieci anni fa abbia chiesto l’adesione all’UE, è rimasta legata a Mosca, con cui anche recentemente ha firmato accordi economici e militari, ha spinto gli altri 6 paesi a mettersi sotto le ali dell’Unione Europea, andando così ad ingrossare, insieme agli altri ex satelliti di Mosca dell’Europa dell’est, un’Unione Europea che appare sempre più la faccia politico-diplomatica della Nato, agli ordini, volente o nolente, degli Stati Uniti d’America.

Dopo la guerre in Jugoslavia, l’Europa è stata terremotata da un’altra guerra, quella tra Russia e Ucraina che, come abbiamo già sostenuto, è in realtà una guerra che prepara altre guerre, e non solo in Europa. Ma l’avvicinarsi della guerra europea – e quindi mondiale – rimette in discussione tutti gli equilibri, tutte le politiche che ogni borghesia aveva ipotizzato se il territorio economico europeo non fosse minacciato da scontri che non si limitano più a scaramucce sulla politica agricola “comunitaria” o sulla destinazione dei fondi europei, o sul costo del denaro che per la gran parte dei membri dell’UE è l’euro. I mercati sia delle merci che dei capitali si restringono sempre più, perciò la concorrenza tra gli imperialismi si acutizza perché i problemi di base che ogni capitalismo deve risolvere sono la produttività del lavoro salariato da cui estorcere il plusvalore senza il quale non ci sarebbero né profitti né, tantomeno, extraprofitti, e la concorrenza con gli imperialismi avversari nel tentativo di accaparrarsi mercati o fette di mercati per i propri capitali.

Ecco allora che il gruppo intergovernativo nato durante la grande crisi del 1975, chiamato G7 e che riunisce le principali sette economie dei paesi più industrializzati (Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti) – diventato per un breve periodo G8, dal 1998, quando fu ammessa la Russia, esclusa poi nel 2013, quando iniziò le operazioni che portarono al referendum in Crimea per la sua annessione –, da quella data si riunisce ogni anno per discutere le questioni economiche e finanziarie, di sviluppo e di sicurezza che preoccupano questi grandi paesi, e per concordare come agire senza che nessuno di loro ne abbia degli svantaggi. Aldilà delle intenzioni, quando gli imperialisti si incontrano lo fanno per dividersi il mondo, i mercati, e per stabilire politiche che li avvantaggino rispetto al resto del mondo. Ma briganti sono e briganti rimangono, perciò ognuno, dati i rapporti di forza che può mettere in campo, tira l’acqua al proprio mulino e quando le tensioni, che le crisi economiche e finanziarie inevitabilmente creano, tendono ad aumentare, allora i rapporti di forza diventano decisivi, così capitali e armamenti diventano un unico capitolo.

Il recente G7, la cui presidenza è toccata all’Italia, dal punto di vista delle questioni economiche e finanziarie è stato un nulla di fatto: sostanzialmente non è previsto alcun cambiamento da quanto sta già avvenendo circa la corsa agli armamenti, il sostegno all’Ucraina contro la Russia, e a Israele – nonostante le false lacrime sulla popolazione palestinese massacrata e affamata –, e la lotta contro l’immigrazione “clandestina” per la quale tutti gli imperialisti concordano nel combatterla nell’unico modo che conoscono: repressione a 360°, facendola passare naturalmente per una lotta contro i “trafficanti di esseri umani”... In qualche modo hanno pesato anche i risultati delle elezioni europee, che hanno visto avanzare di molto i partiti di destra e di estrema destra a detrimento degli altri di centro e di centro-sinistra, in particolar modo in Francia e in Germania, e sullo sfondo il probabile cambio di governo a Washington con un Trump che naviga a gonfie vele pur nella tempesta giudiziaria che sta attraversando. Nulla di fatto perché, aldilà degli sproloqui sul sostegno all’Ucraina di Zelensky... fino alla vittoria, degli sproloqui sulla questione Israelo-palestinese sui “due popoli, due Stati”, parlano i fatti concreti circa la democraticissima “lotta contro gli immigrati” svolta attraverso accordi, come quelli tra Italia, Libia e Tunisia, lasciando a loro il compito di riprendersi i barconi zeppi di immigrati per riportarli nei loro campi di concentramento, quando non vengono lasciati affogare perché ogni soccorso è stato e viene sistematicamente impedito.

Il governo Meloni non poteva non usare questa vetrina internazionale per vantarsi di aver ottenuto un’alta considerazione per l’amata Nazione da parte dei convenuti. I sorrisi della Meloni al premier inglese Rishi Sunak, che ha appena concordato con il Ruanda – uno dei paesi più poveri al mondo, tenuti in piedi solo dai cosiddetti “aiuti internazionali” – la deportazione degli immigrati “clandestini” dal territorio britannico, fanno da contraltare alla faccia dura verso il francese Macron che, invece, ricaccia in Italia gli immigrati che tentano di superare la frontiera verso la Francia e dal quale non riceve certo alcun appoggio in sede europea nella sua proiezione riassunta nel motto: “cambiamo l’Italia per cambiare l’Europa” attraverso il gruppo dei Conservatori. Le ambizioni meloniane, in forza del risultato elettorale europeo che ha dato al suo partito, Fratelli d’Italia, la percentuale di voti più alta, di entrare nel clan dei decisori delle diverse alte cariche dell’Unione Europea, sono state deluse su tutta la linea; i partiti che fanno parte del gruppo dei Popolari, che puntano nuovamente sulla von der Leyen, vincendo, hanno praticamente messo fuori gioco la Meloni e i conservatori. Le sfilate in passerella fatte insieme in Tunisia per convincere il presidente Kais Saïed a tenersi gli immigrati che cercano di imbarcarsi alla volta dell’Italia – promettendo milioni, motovedette e, soprattutto, convincere il FMI di sbloccare i prestiti per 1,9 miliardi di dollari bloccati perché Saïed non intende piegarsi alle richieste del FMI di politiche di austerità, compresi i tagli ai servizi pubblici e ai sussidi alimentari ed energetici. Resta il fatto che, oltre a una situazione economica che tende alla bancarotta a causa della quale, prima o poi, la Tunisia di Saïed, o di chi per lui, dovrà per forza piegarsi ai diktat del FMI se vuole entrare in possesso di quei miliardi – finita da tempo la “primavera” che fece cadere Bel Ali e finite tutte le illusioni di democrazia e benessere che si portò appresso –, la Tunisia per la sua posizione strategica sul Mediterraneo troverà comunque un appoggio imperialistico e antiproletario che ne farà un bastione borghese contro ogni sollevazione del suo proletariato che già nel 2010-2011 aveva dimostrato di non temere la repressione. Purtroppo sono state le illusioni nella democrazia occidentale e nel capitalismo “dal volto umano” a fregare per l’ennesima volta i proletari che speravano in un miglioramento delle condizioni di esistenza dopo essersi liberati dei vari Bel Ali, Mubarak ecc.

Il G7 “italiano” tenuto in Puglia, nel ridente Borgo Ignazia (una specie di resort di lusso allestito come fosse un cartonato che riprendeva le sembianze dei veri borghi storici italiani), isolato quel tanto che bastava per proteggerlo da qualsiasi contaminazione reale del popolo pugliese, è servito solo a registrare che i “Grandi”, in realtà, non fanno che prepararsi a una guerra che credono di potere affrontare come fossero già un blocco unito contro altri “Grandi”, come la Cina, la Russia e forse altre potenze di seconda grandezza. Come se la temporanea alleanza trovata contro la Russia utilizzando l’Ucraina come il proprio avamposto da dare in pasto ai bombardamenti di Mosca, e il tentativo di allearsi contro la Cina sulla questione delle auto elettriche e, soprattutto, sulla guerra nascosta per accaparrarsi le materie prime, avessero già disegnato i principali blocchi della guerra mondiale futura.

In realtà, gli schieramenti di guerra non si sono ancora formati; ci vorrà ancora del tempo, visto che ci sono troppe incognite sul quadrante internazionale rispetto al posizionamento di molti paesi non secondari, a partire dall’India, per proseguire con l’Indonesia e la mai schierata totalmente Turchia, per non parlare dei paesi del Medio Oriente o dell’Africa. Ma le crociate a sostegno di una futura guerra sono cominciate già da tempo; tra queste primeggia la crociata antitotalitaria che vede – come già prima della seconda guerra mondiale – le oligarchie borghesi britanniche e americane in pole position nel tentativo “di trascinare nel proprio campo le correnti proletarie, non solo nei propri paesi ed in quelli alleati e vassalli, ma altresì nei paesi nemici”, come scrivevamo nel lontano 1946 nel testo Le prospettive del dopoguerra in relazione alla Piattaforma del Partito (8).

La via proletaria è quella di rifiutare ogni posizione, borghese o opportunista, che sostenga la “difesa della patria”, qualunque sia la sua motivazione, e abbracciare la via della rivoluzione comunista mondiale.

 


 

(1) Cfr. https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/ iran - i - molti - fronti - aperti - di - teheran -170615

(2) Cfr. la presa di posizione del partito:     Iran. Dalle manifestazioni per il pane alle dure proteste dopo la morte di una ragazza di 22 anni, arrestata, bastonata e uccisa dalla polizia religiosa perché non indossava il velo “secondo le regole”, 25 settembre 2022, www.pcint.org

(3) Cfr. Inés Durán Matute e Rocio Moreno, Lottare per la vita nel Messico dei Megaprogetti, https://ecor.network/estrattivismo/lottare-per-la-vita-nel-messico-dei-megaprogetti-1403/

(4) Maquiladoras: fabbriche che trasformano o assemblano, per conto di aziende straniere, perlopiù americane, componenti temporaneamente esportati da paesi più industrializzati, in regime di duty free e di esenzione fiscale. I salari pagati in questi stabilimenti sono bassissimi, anche meno di 1 dollaro al giorno e per questo sono soprattutto le donne, giovani e anziane, ad essere assunte ma  a condizioni estreme: sono sottoposte a turni massacranti, in ambienti nocivi e senza misure di sucurezza, e sono spesso sottoposte a forme di caporalato brutale, soprattutto a Jaurez e Tihuana; se rimangono incinte vengono licenziate. E tutto ciò avviene con la complicità dello Stato e dei sindacati charros. (5) Per un approfondimento dell'evoluzione capitalistica dell'Indonesia vedi La genesi del capitalismo e dell'imperialismo, e le sue ripercussioni sull'evoluzione dell'Indonesia (il programma comunista, nn. dall'1 al 5 e dal 7 al 9 del 1967).

(6) Dati ricavati da: ispionline.it/it/pubblicazione/indonesia-un-gigante-al-voto-163863; ilpost.it/2024/02/15/prabowo-subuanto-generale-esercito/; ilpost.it/2924/03/20/indonesia-prabowo-subianrto-confermato-presidente; Stati per PIL nominale, Fondo Monetario Internazionale (2018-2019).

(7) Cfr. analisidifesa.it/2023/09/lequilibrismo-dellindonesia-nelle-tensioni-dell'indo-pacifico/

(8) Vedi Prometeo, n. 3, ottobre 1946; anche in "i testi del partito comunista internazionale" n. 6, Per l'organuica sistemazione dei principi comunisti, Ivrea, settembre 1973.

 

 

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