Nella continuità del lavoro collettivo di partito guidato dalla bussola marxista nella preparazione del partito comunista rivoluzionario di domani

(Rapporti alla riunione generale di Milano del 18-19 maggio 2024)

(«il comunista»; N° 182 ; Maggio-Luglio 2024)

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La riunione generale, di cui diamo da questo numero il resoconto, prevedeva i seguenti temi: 1) Corso dell'imperialismo mondiale; 2) Sulla guerra civile di Spagna 1936-39: le origini del POUM; 3) Che cosa ci distingue dagli altri gruppi politici che proclamano di essere eredi della corrente della Sinistra comunista d'Italia; 4) Attività del partito nell'ultimo periodo e aggiornamento sul sito www.pcint.org.

I Rapporti previsti tenuti dai compagni incaricati nelle diverse lingue e preparati per iscritto prima della riunione, sono stati messi a disposizione nel Bollettino Interno n. 8 nella lingua originale e nella loro traduzione in italiano affinché fossero seguiti da tutti i compagni partecipanti pur non conoscendo le diverse lingue. Ai compagni che non poterono essere presenti alla riunione è stato inviato il B.I. Iniziamo da questo numero del giornale il resoconto scritto dei diversi Rapporti, a cominciare dal Corso dell'imperialismo mondiale per il quale si è deciso di mettere in risalto un aspetto che non toccavamo da tempo, e cioè la questione del petrolio (e quindi del Medio Oriente) come una delle fonti di energia di cui l'apparato industriale capitalistico a livello mondiale non può fare a meno, aldilà delle continue dichiarazioni circa la "lotta contro le fonti fossili" per ridurre le conseguenze dei cambiamenti climatici dovute ai gas-serra.

 

 

Corso mondiale dell'imperialismo: petrolio, Medio Oriente e imperialismo

 

Come avviene spesso, i resoconti scritti successivi ai Rapporti esposti oralmente alle riunioni generali, consentono di precisare alcuni aspetti che nei rapporti orali sono stati appena accennati.

 

Il Medio Oriente, come spesso è accaduto in passato, è tornato prepotentemente in primo piano nelle tensioni mondiali, non solo per il petrolio, ma soprattutto a causa della guerra scoppiata tra Israele e Palestinesi, la cui causa contingente è stata l’attacco di Hamas ai kibbutz della parte di Israele confinante con la Striscia di Gaza e la risposta in termini di vera e propria guerra da parte di Israele con i suoi bombardamenti e con l’invasione della Striscia con i mezzi corazzati e le sue truppe.

Il timore che questo conflitto israelo-palestinese, che ormai dura da 9 mesi, si allarghi a tutto il Medio Oriente ha riempito e riempie le colonne di tutti i media mondiali, tanto più che oltre alle risposte armate di Hamas e all’intervento dei razzi degli Hezbollah dal sud del Libano contro le postazioni israeliane, questa volta sono intervenuti anche gli houti dello Yemen con gli attacchi al naviglio commerciale nel Mar Rosso destinato a Israele e, attraverso il Canale di Suez, all’Europa. E’ noto che l’Iran sostiene gli Hezbollah, fornendo finanziamenti e armi, e sostiene anche gli houti yemeniti che combattono contro le fazioni yemenite protette dall’Arabia Saudita e dagli imperialisti occidentali.

L’allargamento del conflitto a tutto il Medio Oriente in questo momento, però, non conviene a nessuna potenza imperialistica e, infatti, sebbene Israele abbia attaccato, distruggendola, l’ambasciata iraniana a Damasco, uccidendo alcuni pasdaran e il generale che avevava la responsabilità delle operazioni iraniane in Siria e in Libano, la “risposta” iraniana a questo attacco israeliano, pur annunciata con grandi minacce, è stata in realtà relativamente debole anche se il lancio di 300 droni e missili contro postazioni militari israeliane non è stata poca cosa, ma per il 99% sono stati intercettati (grazie al sistema di difesa israeliano, ma anche all’intervento dell’aviazione statunitense, britannica, francese e giordana), cosa che l’Iran era in grado ovviamente di sapere preventivamente. D’altra parte, dopo questa mossa, con la quale è riuscito soltanto a provocare dei danni alla base israeliana del deserto del Negev, l’Iran non ha proceduto ad altri attacchi. I primi a non volere che il conflitto si allarghi a tutto il Medio Oriente – che vorrebbe dire anche al Nord Africa e al corno d’Africa – sono gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Francia, ma anche l’Arabia Saudita, la Turchia e l’Iran, e tanto meno la Russia che già è superimpegnata nella guerra in Ucraina e non sarebbe in grado di sostenere un’altra guerra nel Medio Oriente; nessuna potenza è pronta in questo periodo ad una guerra che avrebbe tutte le caratteristiche di una guerra mondiale (gli arsenali delle varie potenze imperialiste non sono ancora gonfi di armamenti necessari alla guerra “moderna” e non si sono ancora formati in modo stabile i blocchi imperialisti che si scontrebbero), sia perché nel mercato mondiale vi sono ancora porzioni importanti di sviluppo dei commerci non solo di materie prime: la crisi generale di sovraproduzione non si è ancora presentata.

Ma Medio Oriente, da sempre, significa petrolio ed è a questa materia prima che dedichiamo una particolare attenzione.

Il rapporto è stato corredato di alcune Tabelle con le quali si sono messi in evidenza i costi di produzione dell’estrazione di petrolio nei diversi paesi, l’origine stessa del petrolio e, quindi, la differenza di rendita tra i vari paesi, tenendo conto che la rendita differenziale, come succede normalmente per l’agricoltura, è inerente al meccanismo secondo il quale il prezzo di vendita praticato sul mercato è determinato dal maggior costo di produzione  (quindi, dai costi di estrazione, di raffinazione e di trasporto del petrolio più alti), il che significa che i costi di produzione più bassi permettono margini di profitto molto superiori rispetto alla media dei prezzi di mercato.

Altre Tabelle indicano i paesi produttori, importatori ed esportatori di petrolio; con i nuovi sistemi di estrazione del petrolio dalle rocce e dalle sabbie bituminose; i costi di produzione si sono ovviamente abbassati quel tanto per cui il petrolio di scisto o da sabbie bituminose diventa remunerabile con un buon margine di profitto se il prezzo di mercato a barile rimane intorno ai 100 dollari Usa. In ogni caso, grazie al petrolio di scisto gli Stati Uniti sono diventati i primi produttori di petrolio al mondo, davanti alla Russia e all’Arabia Saudita.

Ma, come abbiamo visto più e più volte, quando i rapporti interimperialistici si fanno più tesi e coinvolgono il petrolio (o il gas naturale, come recentemente a causa delle sanzioni contro la Russia per la guerra in Ucraina), i paesi dell’OPEC – un vero e proprio cartello internazionaledei produttori ed esportatori di petrolio –, rappresentando circa il 35% del petrolio prodotto a livello mondiale e l’80% circa delle riserve mondiali, hanno in mano un’arma di ricatto che, d’altra parte, hanno già usato in occasioni precedenti; è stato il caso della crisi petrolifera del 1973, quando ci fu la guerra dello Yom Kippur: Israele contro Egitto e Siria. Israele fu sostenuto dai paesi occidentali e, contro questo sostegno, i paesi dell’OPEC bloccarono per alcuni mesi l’esportazione del loro petrolio che salì di prezzo del 70%. Ed è stato anche il caso della Guerra del Golfo 1990-91, quando l’Iraq di Saddam Hussein chiese, ed ottenne, che i paesi membri dell’OPEC alzassero il prezzo del petrolio per consentire all’Iraq di ripianare i debiti della guerra. Oggi, di fronte alla crisi energetica causata dalla guerra russo-ucraina, l’OPEC ha tagliato la produzione di barili, tendendo ad alzare il prezzo del petrolio andando in questo modo contro il tentativo da parte degli Stati Uniti, e degli altri paesi occidentali, di mettere un tetto al prezzo del petrolio russo, e permettendo in questo modo anche a Mosca di non registrare un calo economico a causa delle sanzioni occidentali, causando inevitabili frizioni tra gli USA e i paesi, come l’Arabia Saudita, con cui essi hanno buone relazioni di partenariato.

I paesi membri dell’OPEC [fondato nel 1960 da 5 paesi: Arabia Saudita, Iran, Iraq, Kuwait e Venezuela, per contrastare il monopolio delle famose “Sette Sorelle” (le statunitensi Exxon, Mobil, Texaco, Standard Oil of California, Gulf oil, l’anglo-olandese Royal Dutch Shell e la britannica British Petroleum)] sono attualmente 12: Algeria, Rep. del Congo, Guinea Equatoriale, Gabon, Iran, Iraq, Kuwait, Libia, Nigeria, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Venezuela; l’Angola ne faceva parte, ma dal gennaio 2024 ne è uscita. Dal 2016 si è formato l’OPEC+ con altri 10 paesi produttori di petrolio: Russia, Messico, Kazakistan, Azerbaijan, Bahrein, Brunei, Malesia, Oman, Sudan e Sudan del Sud. Ciò dimostra una volta di più la tendenza a cartellizzare le materie prime in modo che il blocco di paesi che fanno parte del cartello possono dettare, entro certi limiti, le condizioni di vendita della materia prima trattata.

Ma da quando gli Stati Uniti, con il petrolio da scisto, è diventato il primo produttore di petrolio ed ha iniziato anche ad esportarlo, i rapporti internazionali tra produttori ed esportatori hanno iniziato a tendersi e non poco. In realtà l’obiettivo degli Stati Uniti, soprattutto dopo la pandemia del Covid-19, era ed è di abbattere l’inflazione per cui si è reso necessario abbassare il prezzo del petrolio che l’Opec non ha alcun interesse ad abbattere (e ciò ha fatto alzare il grado di tensione tra Opec e Russia, visto che Mosca, a causa delle sanzioni occidentali, vende il petrolio a prezzi molto più bassi di quelli decisi dall’Opec); ma, come spiegato in riunione generale, il prezzo non può abbassarsi troppo perché, rispetto agli alti costi di produzione del petrolio da scisto (o da sabbie bituminose), causerebbe un abbattimento della rendita e quindi una perdita secca dei profitti. Il quadro mondiale, visto che il petrolio insiste nell’essere ancora una materia prima strategica per l’industria di tutti i paesi, potrebbe ripresentarsi – con attori modificati – come un vettore importante di una prossima crisi generale, come nel 1973. 

Col petrolio ha a che fare anche la guerra che Israele sta conducendo contro Gaza, che non costituisce solo la risposta militare all’attacco di Hamase del 7 ottobre scorso, come in occasioni precedenti, ma il pretesto per impossessarsi della Striscia e della costa mediterranea ad essa prospiciente evitando nello stesso tempo di subire la minaccia da parte di Hamas, o di Hezbollah, e dei loro razzi con cui possono colpire sia le piattaforme di Tamar (ad una ventina di km dalla costa) sia quelle del più grande giacimento di gas del Mediterraneo, Leviathan (a 120 km dalla città portuale israeliana di Haifa). Infatti, secondo le ricerche fatte già nel 2020 da Israele (attraverso la grande compagnia New Med Energy, consorziata con la multinazionale petrolifera statunitense Chevron), nel bacino del Levante, che va dal Sinai egiziano alla Siria, esiste un enorme giacimento di petrolio e gas (sono stati calcolati 1,7 miliardi di barili di petrolio e 650 miliardi di metri cubi di gas) che i palestinesi non sono in grado di sfruttare e che Israele intende iniziare a commercializzare a partire dal 2025. Il progetto di sfruttamento di questi giacimenti prevede un gasdotto, l’EastMed, lungo oltre 3 mila km dal Mediterraneo orientale all’Italia, che funzionerebbe come porta d’ingresso europea per il gas di Leviathan. Si capisce, quindi l’interesse ben preciso dell’Italia nel sostenere la guerra di Israele, e l’interesse dell’Egitto – da cui partirebbe il gadsotto verso l’Italia – di tenere ottimi rapporti con Israele da cui importa il gas e, un domani, anche il petrolio.

 

Nel Rapporto esposto verbalmente si è messo in risalto, al di là dell’importanza evidente del Medio Oriente – sia per il petrolio, sia perché vi insistono gli imperialismi europei e quello russo, sia per la via di comunicazione commerciale strategica che collega l’Oceano Indiano, attraverso il Mar Rosso e il Canale di Suez, al Mediterraneo e quindi all’Europa –, come l’interesse dell’imperialismo americano degli ultimi tempi, che è ancora il più forte al mondo, si andava concentrando sull’area dell’Indo-Pacifico piuttosto che sull’area Atlantico-Mediterraneo.

Nel 1980, la cosiddetta “dottrina Carter”  sottolineava che “ogni tentativo di controllo della regione del Golfo Persico da una forza estranea sarà considerato come un attentato agli interessi vitali degli Stati Uniti d’America e sarà represso con tutti i mezzi necessari, compresa la forza”.

All’epoca l’URSS aveva invaso l’Afghanistan dal quale – se lo avesse sottomesso definitivamente come era nelle sue intenzioni – Mosca avrebbe avuto la possibilità di controllare sia l’Oceano Indiano che lo stretto di Ormuz, ossia la via navigabile attraverso la quale passa la maggior parte del petrolio mondiale. Oggi la situazione non è sostanzialmente cambiata, anzi, in un certo senso si è confermata come la via navigabile più importante, tanto più per il forte aumento dei commerci della Cina che transitano attraverso la stessa via. Per l’importanza che ha assunto negli ultimi venti-trent’anni la Cina con i suoi commerci, Obama cambiò l’orientamento della politica estera degli Stati Uniti, mettendo in primo piano non più il Medio Oriente ma l’Indo-Pacifico, politica continuata da Trump e anche da Biden.

Ma il rialzo del prezzo del petrolio ha riproposto a Biden nuovamente la priorità messa in campo da Carter: il Medio Oriente. Questo dimostra come la definizione di una specifica politica estera dei grandi paesi imperialisti non determina il corso economico del capitalismo mondiale, ma sono le contraddizioni del  corso economico del capitalismo a determinare la loro politica estera. Se gli americani pensavano di avere la possibilità di portare le tensioni tra gli Stati mediorientali ad un accomodamento – soprattutto tra Israele e gli Stati arabi (attraverso i cosiddetti Accordi di Abramo) – con gli scossoni sui prezzi del petrolio la loro speranza di allentare la presenza in Medio Oriente per rafforzarla in modo decisivo verso l’Indo-Pacifico ha subito un sonora disillusione. Potranno continuare a invocare demagogicamente “due popoli, due Stati” per israeliani e palestinesi, potranno sperare di poter utilizzare ancora Israele come un gendarme al loro esclusivo servizio, ma le contraddizioni reali, sia economiche che politiche, che emergono costantemente in quella regione così strategica per il petrolio di cui nessuna potenza può fare a meno, dettano una legge più forte della volontà di un presidente qualsiasi, fosse pure il presidente dell’imperialismo più forte al mondo. Dunque, a 40 anni di distanza è la “dottrina Carter” ad essere ancora il perno della politica attuale dell’imperialismo americano.

Ciò non toglie che negli ultimi trent’anni i rapporti di forza tra i più importanti imperialismi siano cambiati, come ricordavamo nella riunione generale del gennaio 2018, e ciò ha spinto potenze regionali come Iran, Israele, Arabia Saudita, Turchia – per rimanere nell’area mediorientale – ad approfittare di una diminuita capacità di Washington di essere presente con grande forza in tutte le parti del mondo contemporaneamente, come negli anni Cinquanta/Sessanta del secolo scorso, e quindi di poter “dettar legge” dappertutto a vantaggio dei propri interessi vitali.

Sono diversi i tentativi di staccarsi dalla dipendenza diretta dagli Stati Uniti, dai loro capitali e dalla “dittatura” del dollaro, e uno di questi è messo in campo dall’associazione chiamata BRICS.

Ricordiamo da quali paesi è composta questa associazione:

 

•  la formazione iniziale si è basata sull’accordo tra Brasile, Russia, India e Cina nel 2009 (per fronteggiare le conseguenze deleterie della crisi generale provocata dai subprime americani del 2008) [la sigla era BRIC]

• nel 2010 si è aggiunto il Sudafrica [la sigla diventa BRICS]

• nel 2024 si aggiungono Egitto, Etiopia, Iran, Emirati Arabi Uniti [Arabia Saudita, pur avendo chiesto l’adesione, ha deciso di rimanere ancora slegata; l’Argentina che era ufficialmente accettata è tornata indietro dopo l’elezione del presidente Milei, intendendo iscriversi all’OCSE]

• altri paesi, al 15° vertice del BRICS tenuto a Johannesburg nell’agosto 2023, hanno chiesto l’adesione:

AlgeriaBangladeshBahrein, BielorussiaBoliviaCubaHonduras, Indonesia, Kazakistan, Kuwait, Nigeria, Palestina, Senegal, Thailandia, Venezuela, Vietnam, e sono in attesa di un’accettazione ufficiale.

 

L’associazione BRIC, poi diventata BRICS, è nata in opposizione alla più vecchia associazione dei paesi dell’Occidente (l’OCSE, fondata come OECE nel 1948 da paesi europei tra i quali era considerata anche la Turchia, e diventata OCSE nel 1961 quando vi hanno iniziato ad aderire paesi degli altri continenti come gli Stati Uniti, il Canada, il Giappone ecc. ecc.), radunando i paesi cosiddetti “emergenti”, ossia con uno sviluppo economico accelerato registrato agli inizi del XXI secolo. Ma come a suo tempo l’OCSE, anche il BRICS ha iniziato ad attirare altri paesi dei diversi continenti che non si considerano “Occidente”, che, anzi, vogliono staccarsi dalla tutela dei grandi paesi occidentali; che poi ci riescano o meno è un’altra questione. Naturalmente non sopravalutiamo le ambizioni del BRICS che riguardano, negli scambi tra i paesi che lo compongono, anche l’uso di una moneta che non sia il dollaro USA..., ma quale? Nessuna è forte, oggi, come il dollaro USA, non il rublo e nemmeno il renminbi (la cinese “moneta del popolo”: che ha come unità monetaria lo yuan), a parte condizioni particolari determinate da una guerra, come nel caso delle sanzioni occidentali verso la Russia a causa della guerra russo-ucraina, per le quali il petrolio russo non veniva più acquistato dai paesi europei come in precedenza, cosa che ha obbligato la Russia ad offrire il proprio petrolio, a costi ribassati, ad altri grandi compratori come la Cina che l’ha acquistato ma a condizione di pagarlo in yuan, mentre all’India la Russia lo ha proposto che fosse pagato in dirham (la moneta degli Emirati Arabi Uniti, che però è legata al dollaro USA) visto che l’India non intendeva pagarlo in rubli e la Russia non accettava le rupie. Dubai, in effetti, soprattutto dagli anni ‘90 in poi, è diventato un rilevante centro finanziario del Golfo, tanto da rappresentare uno dei tanti paradisi fiscali del mondo.

Tornando al petrolio e alla sua importanza per i paesi imperialisti, è recente la notizia relativa a una nave di ricerca russa che ha scoperto un enorme giacimento di petrolio nel Territorio britannico dell’Antartide: si tratterebbe di un giacimento da 511 mld di barili di petrolio, circa 10 volte la produzione petrolifera del Mare del Nord nel corso degli ultimi cinquant’anni (The Telegraph, 11.5.2024, Le Temps, 16.5.2024). Naturalmente questa scoperta, perdipiù fatta dai ricercatori russi, ha messo in allarme Londra e Washington che sono, insieme a Russia, Giappone, Australia, Sudafrica, Norvegia, Francia, tra i principali firmatari dell’originario Trattato dell’Antartico che prevede una rilevante protezione della zona da ogni sfruttamento economico e commerciale, ammettendo solo interventi di ricerca scientifica. Naturalmente, come tutti i trattati che gli Stati firmano, nemmeno questo garantirà il suo totale rispetto; la fame di petrolio è tale, che nessun capitale si fa fermare da trattati firmati, perdipiù 60anni fa...

Segnaliamo anche un articolo pubblicato ne “il programma comunista”, n. 8 del 1955, intitolato Il cartello del petrolio e le basi della conservazione capitalistica, in cui (era l’epoca del cartello delle famose “Sette sorelle”) si scriveva, a riprova di quanto ricordato nel Rapporto alla riunione generale sulla rendita differenziale:

«Pur di mantenere in piedi la roccaforte del capitalismo e della contro-rivoluzione mondiale (gli Stati Uniti), che risulterebbe gravemente minata in seguito ad un eventuale crollo dell’industria petrolifera, il prezzo di vendita del petrolio grezzo che il trust internazionale impone, deve stare alla quota toccata dagli alti costi di produzione dei pozzi americani. Per tale sacrosanto motivo di classe, il petrolio del Medio Oriente che potrebbe essere venduto a quasi trenta centesimi di dollaro viene a costare invece un dollaro e settantacinque centesimi per barile. Se tale esorbitante prezzo dovesse subire riduzioni, verrebbe a mancare la convenienza economica di coltivare i giacimenti ad alti costi degli Stati Uniti: la incontenibile concorrenza dei petroli del Medio Oriente renderebbe necessario chiudere molti pozzi americani.

«Ma a chi gioverebbe un disastro dell’industria petrolifera americana? Non certamente ai membri europei del cartello internazionale i quali si spartiscono con i soci d’oltreatlantico favolosi sovraprofitti di cui mettono a parte le società a capitale misto estero-nazionale. Forse gioverebbe agli esportatori di petrolio del blocco russo-orientale i quali praticano, è vero, prezzi più bassi che quelli del cartello internazionale, ma non dispongono della potenza finanziaria e militare che si erge dietro il monopolio quadripartito [americano-anglo-franco-olandese, NdR] del blocco occidentale».

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