Sul fronte della guerra russo-ucraina il massacro dei proletari continua!

(«il comunista»; N° 183 ; Agosto-Settembre 2024)

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La “controffensiva” ucraina, finora del tutto inconsistente rispetto alla linea del fronte in Donbass, dal 6 agosto scorso ha cambiato direzione spingendosi in territorio russo probabilmente sotto il nascosto comando anglo-americano e cogliendo di sorpresa l’esercito russo. L’Ucraina di Zelensky ha ricevuto il beneplacito dall’Unione Europea con tutti i suoi media esaltati da questa incursione, mentre continua a mandare al macello migliaia di soldati immolati a Santa Democrazia occidentale e ai suoi interessi imperialistici; l’imperialismo russo non è da meno, manda al macello in Ucraina i propri soldati col pretesto di battersi contro un risorto nazismo alle porte di Mosca, contro l’oppressione dei russofoni del Donbass da parte dei regimi ucraini filoccidentali e, naturalmente, contro il disegno euro-americano di sottomettere la Grande Russia al dominio occidentale attraverso le pressioni politiche e militari ai suoi confini: dopo la Finlandia, i Paesi Baltici e la Polonia, tutti saliti sul carro della Nato, all’Occidente euro-americano mancherebbe solo l’Ucraina per completare il fronte est-europeo sotto le mura di Mosca. Ovvio che la Russia non se ne sta a guardare.

La guerra della Russia contro queste manovre occidentali, rimandata per anni visti i grandi affari economici instaurati con l’Unione Europea, legati soprattutto alle forniture di gas e petrolio (Germania e Italia in cima ai più forti compratori), e viste le possibilità di giocare le proprie carte politiche nel forzare l’orientamento dei governi ucraini a proprio favore, è una guerra che non poteva non scoppiare, prima o poi: doveva rispondere alla guerra economica, politica e militare che la Nato e gli Stati Uniti in particolare avevano mosso fin dal crollo dell’URSS. Questa guerra, in realtà non è iniziata nel febbraio 2022, ma  nel 2014, quando fu rovesciato il governo Janukovich, filo-russo, e sostituito con il governo Poroshenko, filo-occidentale che non si fece alcun problema nel farsi sostenere dal partito neonazista Svoboda e ad inglobare nella Guardia nazionale il famoso battaglione Azov, la cui fede nel nazismo non è mai stata nascosta. Noi non ci facevamo e non ci facciamo impressionare dalla presenza in un governo democratico di personaggi legati al nazismo perché sappiamo da sempre che l’ideologia nazista (o fascista, è la stessa cosa) non è che parte dell’ideologia borghese corrispondente all’evolversi del potere borghese dalla fase democratico-liberale alla fase centralizzatrice e monopolistica, dunque imperialista, di cui storicamente prima il fascismo italiano e poi il nazismo tedesco hanno dato ampi esempi, generati della necessità, tutta borghese, di compattare il potere politico per avere un più ampio ed efficace controllo sociale, in particolare nei riguardi del proletariato, il cui movimento di classe è, da sempre, la vera bestia nera della borghesia. La tendenza alla centralizzazione e al totalitarismo politico è una necessità obiettiva del potere borghese anche dal punto di vista della gestione delle crisi economiche che il capitalismo, nel suo corso di sviluppo, non è mai riuscito a risolvere, e che semmai ha reso sempre più acute e devastanti, tanto da sfociare nelle guerre imperialistiche mondiali. Questa tendenza si accompagna alla necessità di ogni borghesia di indebolire dal punto di vista politico e sociale il proletariato e il suo movimento, possibilmente agendo preventivamente, svuotandolo della sua spinta classista o deviandolo dal terreno della lotta in difesa dei suoi interessi di classe al terreno della collaborazione interclassista e cementandolo col più spinto nazionalismo utilizzato come carburante della tanto amata coesione sociale.  

Delle ragioni, sia di carattere nazionale che internazionale, della guerra russo-ucraina abbiamo già trattato in parecchi articoli, raccolti poi nel primo opuscolo dedicato a questa guerra (1). Vediamo ora come questa guerra abbia assunto un carattere mondiale sebbene mascherata da guerra locale.

Le classi dominanti borghesi di ogni paese rispondono in prima istanza a interessi certamente di classe e nazionali, ma, da quando il capitalismo è entrato nella sua fase imperialistica – lo stadio più alto e ultimo del suo sviluppo, come, applicando il marxismo, affermava Lenin –, portandole inevitabilmente a scontrarsi fra di loro sul piano internazionale, i loro interessi nazionali si mescolano sempre più con i loro interessi internazionali: se nelle fasi precedenti dello sviluppo del capitalismo gli interessi nazionali degli Stati più sviluppati e forti tendevano a espandersi facendo del mercato mondiale il proprio terreno di caccia, nella fase imperialista – cioè nella fase in cui impera il capitalismo monopolistico ad alta concentrazione non solo di produzione e di distribuzione, ma soprattutto finanziaria – i territori economici, di cui ogni polo imperialistico è ghiotto, da territori separati tra i continenti e tra i paesi tendono a diventare un unico grande territorio economico mondiale. Così gli interessi nazionali di ogni Stato non solo si vanno a scontrare con gli interessi nazionali degli altri Stati in territori anche molto lontani dalla propria “nazione” come è stato grosso modo fino alla prima guerra mondiale, ma si vanno a intrecciare sempre più con gli interessi internazionali dei capitalismi più forti. A fronte di un’iperfolle produzione di merci in cerca di sbocchi su qualsiasi mercato, emerge con sempre maggior virulenza la necessità capitalistica di sopraffare i capitalismi più deboli, di piegare economie “nazionali” alle esigenze dell’economia “mondiale”, ossia agli interessi dei poli imperialistici dominanti. La concorrenza a ogni livello – economico, politico, diplomatico, militare – tende a spostarsi continuamente dai segmenti di mercato rappresentati dai diversi mercati nazionali su quadranti plurinazionali, multinazionali, continentali, dunque mondiali.    

Lo stesso sviluppo tecnologico della produzione capitalistica richiede anche quantità sempre maggiori di materie prime che raramente i paesi capitalistici più sviluppati posseggono nel proprio territorio nazionale o nei propri domini; in alcuni paesi determinate materie prime possono essere presenti in abbondanza e l’industria estrattiva può essere tecnicamente sviluppata per metterle a disposizione dell’apparato industriale nazionale, ma altre possono mancare e la necessità di accaparrarsele spinge gli imperialismi più forti a scontrarsi in modo sempre più acuto e, per ragioni esclusivamente di controllo imperialistico, a utilizzare tutti i mezzi a disposizione – capitali, protezioni politiche, accordi commerciali, forza militare – naturalmente a detrimento di tutti gli altri concorrenti, per impedire che tali paesi ne abbiano disponibilità esclusiva. La caccia alle materie prime indispensabili alla produzione ha indotto ogni capitalismo nazionale ad aprire nei secoli nuove vie di comunicazione e a sviluppare il più cieco e feroce colonialismo, depredando territori e massacrando popolazioni. Attitudine mai abbandonata, anche se in seguito alle tenaci lotte anticoloniali che hanno segnato in particolare sia l’Ottocento che il Novecento, le grandi potenze coloniali hanno dovuto avviare una “decolonizzazione” che, in realtà, rimanendo in piedi il sistema capitalistico mondiale, ha assunto nuove forme di colonizzazione, quelle imperialiste, che, qualora l’occupazione militare con le sue repressioni e i suoi massacri non risulti sufficiente o risulti troppo dispendiosa per garantire quanto l’imperialismo colonizzatore si attende, intervengono con l’investimento di capitali che, nel tempo, diventa il vettore principale di ogni attività colonizzatrice dei poli imperialistici più forti. Capitali e forze armate, ecco le due colonne del dominio imperialistico sul mondo. Naturalmente, alcuni paesi – come nel caso dei grandi produttori di petrolio, di gas naturale o di grano –hanno in mano una decisiva carta da giocare nel mercato internazionale a vantaggio del proprio capitalismo, carta che è decisiva solo temporaneamente perché l’intreccio finanziario che lega tutti i paesi all’andamento delle Borse e alla capacità finanziaria, economica, sociale e politica di ciascun paese di resistere agli scossoni inevitabili delle crisi periodiche del capitalismo, è ciò che realmente decide nei rapporti di forza tra i paesi imperialisti più forti.

Le guerre commerciali, le guerre di concorrenza, le guerre diplomatiche, le guerre economiche e finanziarie sboccano, prima o poi, nelle guerre guerreggiate in cui i rapporti di forza esistenti vengono rimessi in discussione. Le potenze dominatrici del mondo di un tempo vengono superate da nuove potenze che le relegano alla funzione non più di primi attori dell’economia mondiale, ma in seconda o terza posizione. È successo all’Inghilterra, vecchia padrona del mondo, sostituita, insieme alla Francia, dagli Stati Uniti e dalla Russia dopo la seconda guerra mondiale, mentre ora i nuovi “padroni” del 1945 se la devono vedere con la Cina, che ha tutte le carte in regola per mettere a dura prova il pluridecennale dominio americano sul mondo. Questo non significa che le vecchie potenze capitalistiche e coloniali abbiano perso le loro ambizioni imperialistiche, sottomettendosi pacificamente ai superimperialisti di Washington o di Pechino. E non significa che le guerre che hanno punteggiato gli otto decenni dalla fine del secondo massacro mondiale siano state condotte sotto la regia dei poli imperialistici più forti, come se questi fossero davvero in grado di manovrare secondo i propri esclusivi interessi le mosse di ogni borghesia nazionale. Come dicevano Marx ed Engels nel Manifesto del partito comunista del 1848: «I rapporti borghesi di produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, la società borghese moderna che ha creato per incanto mezzi di produzione e di scambio così potenti, rassomiglia al mago che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui evocate»: la classe dominante borghese è, come l’apprendista stregone, prigioniera delle potenze degli inferi – ossia dei mezzi di produzione e di scambio capitalistici – che, una volta evocate, non riesce più a dominare ma è da esse dominata.

 

Dopo ben due guerre imperialistiche mondiali, quel che succede in qualsiasi parte del mondo si riverbera automaticamente sui tavoli delle principali cancellerie imperialiste e, ovviamente, soprattutto su quelli di Washington, di Pechino, di Mosca, di Londra, di Parigi, di Berlino, di Tokyo, per citare le capitali dei centri imperialistici più importanti rispetto alle aree che un tempo definivamo “delle tempeste”, ma che ormai stanno diventando sempre più aree “degli uragani”, per ragioni economiche, ovviamente.

Non bisogna essere degli studiosi di storia, di economia e di politica per sapere che in ogni contrasto vige la legge del più forte. La forza di ogni classe borghese è determinata da una serie di fattori: economici, sociali, politici, ideologici e militari. Più il capitalismo è economicamente sviluppato, più la sua classe salariata è altrettanto sviluppata sia numericamente che tecnicamente e legata al collaborazionismo interclassista, e più il dominio politico e sociale della classe borghese nazionale è saldo; quindi, può confrontarsi con le altre borghesie partendo da un rapporto di forza importante che le permette di stabilire alleanze che rafforzano le proprie ambizioni in campo mondiale. Sebbene le leggi fondamentali del modo di produzione capitalistico non siano mai cambiate, sono certamente cambiati i rapporti di forza tra i vari capitalismi che, d’altra parte, si sono imposti attraverso le inevitabili guerre che le diverse borghesie non potevano non farsi, vista la spinta ineluttabile allo sviluppo sempre più accelerato dell’economia capitalistica e la necessità, da parte di ognuna di esse, di conquistare territori economici e, quindi, mercati sia per la vendita delle proprie merci sia per accaparrarsi le materie prime necessarie alla produzione e le vie di comunicazione per assicurare i propri commerci. In tutto il lungo, secolare e contraddittorio travaglio della nuova società capitalistica, lo sviluppo di alcuni paesi si confrontava con la mancanza di sviluppo dei paesi dominati, allargando sempre più la forbice tra i pochi paesi estremamente sviluppati capitalisticamente, perciò pronti a passare alla fase imperialista, e gli altri paesi. Lo sviluppo ineguale del capitalismo, di cui parlava già Marx, col tempo non si è attenuato, sebbene molti paesi, un tempo particolarmente arretrati, abbiano comunque raggiunto un certo sviluppo attraverso il quale sono stati attirati violentemente nel mercato mondiale. La forbice di cui sopra non si è chiusa, si è invece allargata. Quando si parla di sviluppo del capitalismo non si intende soltanto l’indispensabile sviluppo dell’industria a detrimento delle forme produttive artigianali se non precapitalistiche; si parla anche di sviluppo industriale dell’agricoltura e dei trasporti e, naturalmente, di sviluppo del capitalismo finanziario; su questi piani sono ben pochi i paesi che hanno una buona indipendenza industriale, alimentare e finanziaria. Se si ha molto ferro o petrolio e poco cibo per sfamare la popolazione, e in particolare il proletariato dal cui lavoro estorcere plusvalore, non si resisterà a lungo contro concorrenti che invece riescono a sfamare i propri proletari in casa e i propri soldati all’estero. Certo, se un paese ha a disposizione molti capitali può acquistare, oltre che il ferro, anche il cibo dai paesi che li producono per il mercato, ma gli stessi capitali non costituiscono di per sé una forza sempre uguale a sé stessa, perché la forza dei capitali è tratta dall’economia produttiva reale e dai rapporti di forza stabiliti internazionalmente a livello economico, politico e militare.

Gli Stati Uniti e la Russia, ancora oggi, sono due superpotenze dal punto di vista dell’armamento nucleare; entrambe sono in grado di mettere in campo tecnologie avanzate nei rispettivi armamenti ed entrambe posseggono nei propri paesi le materie prime fondamentali per far marciare le rispettive industrie e per sfamare la propria popolazione che, coi dati di oggi, è di 147 milioni per la Russia e di 331 milioni per gli USA, il che vuol dire che gli USA possono teoricamente mettere in campo un esercito molto più numeroso della Russia, ma devono sfamare un numero di persone più che doppio rispetto alla Russia. Ma il rapporto di forza fra di loro non si misura soltanto sulla base di dati come questi, ma sulla rete di interessi economici, sociali, politici, finanziari e naturalmente militari che queste due potenze hanno potuto e possono mettere in campo internazionalmente. Due potenze i cui territori non hanno confini comuni, perciò non si possono invadere facilmente via terra ed è molto, ma molto, difficile per entrambi anche l’eventuale invasione via mare: sia l’Artico all’estremo Nord, sia il Pacifico rispettivamente a Est e a Ovest dei due paesi, non sono certo agevoli da superare; oltretutto nel Pacifico si affaccia un’altra potenza, la Cina, che non è certo pro-americana come lo è, rispetto all’Atlantico, la Gran Bretagna. Resta l’Europa, come già nel 1914 e nel 1939, dove si sono decise le sorti delle due precedenti guerre imperialiste mondiali e dove, probabilmente, si decideranno le sorti di una futura terza guerra mondiale, sempre che contro questa guerra non si sollevi il movimento di classe e rivoluzionario del proletariato in Europa, in America o in Cina, riproponendo una situazione simile a quella del 1917.

Ecco allora che, dopo il crollo dell’Urss, e quindi del condominio russo-americano sull’Europa, l’avanzata della Nato, quindi degli USA, dall’Europa occidentale all’accorpata Europa orientale, è diventata una manovra fondamentale nei prossimi schieramenti di guerra; ecco perché la Russia, nei limiti in cui la sua forza economica, politica e militare le consente dopo il tracollo della Russia sovietica, non lascerà senza combattere la presa sull’Ucraina. Come abbiamo già detto, la Russia – stante l’impegno pluriennale e non temporaneo degli USA e dell’Occidente europeo nel sottrarre l’Ucraina all’influenza russa, come hanno fatto con tutti i paesi un tempo satelliti dell’Urss – non ha la forza di annettersi l’intera Ucraina; può solo ambire a dividere il paese in due parti – come tentò di fare, senza successo, nel 1939, in accordo con la Germania di Hitler, nei confronti della Polonia, e come accadde con la Corea nella guerra del 1950-51 – affondando i suoi artigli in Crimea e nel Donbass e confidando nella pelosa amicizia della Cina di Xi Jinping che ha tutto l’interesse – ma non si sa per quanto tempo – di combattere la concorrenza con gli Stati Uniti, mostrando loro un fronte alleato il cui nucleo attuale è appunto Cina e Russia, con l’appendice estremo-orientale della Corea del Nord. Nei disegni attuali di Mosca ci sono almeno due appendici europee: la Bielorussia, finora stabilmente a fianco della Russia, un pezzo di Ucraina e, perché no, la Transnistria in territorio moldavo.

 

LA «CONTROFFENSIVA» UCRAINA

 

La novità di queste ultime settimane sul fronte di guerra russo-ucraino è data dalla “controffensiva” ucraina – sembra affidata alle sue migliori truppe affiancate da mercenari di altre nazioni – che si sta snodando non nel Donbass, dove invece le truppe di Zelensky continuano a perdere vite e terreno, ma in territorio russo, nelle regioni confinanti di Kursk e Belgorod. Da quel che sostengono i vari media internazionali, questa incursione avrebbe sorpreso sia Mosca – il che è probabile visto che in quelle regioni le difese russe non erano particolarmente organizzate – sia i più forti alleati di Zelensky (USA e UK). Difficile da credere che l’assembramento di truppe e carri armati ucraini al confine della regione ucraina di Sumy con la regione russa di Kursk non sia stato segretamente concordato con Washington e Londra e non abbia insospettito prima di tutto i comandi militari russi. Resta il fatto che in questo territorio – non facilmente superabile vista la sua morfologia, dopo le parti montuose – si apre una distesa pianeggiante verso le città di Sudzha, importante snodo dei gasdotti che portano il gas russo in Austria e Ungheria, “conquistata” dalle truppe ucraine già tre giorni dopo l’inizio dell’incursione. D’altra parte, non è la prima incursione effettuata dall’esercito ucraino in quelle regioni: già lo scorso marzo reparti armati ucraini vi erano penetrati rimanendo in zona fino al 7 aprile per poi ritirarsi. Questa volta, secondo le parole di Zelensky, l’operazione mira a costituire una specie di “zona cuscinetto” in mani ucraine da utilizzare come merce di scambio nelle future trattative con Mosca, perciò non si tratterebbe tanto di un’incursione ma di un’operazione militare volta a occupare una parte di territorio russo. Nella regione si trova la centrale nucleare di Kursk, una delle tre centrali nucleari più grandi della Russia e una delle maggiori produttrici di elettricità del paese. In realtà, tutto dipenderà da quanto Kiev potrà supportare tale operazione con le forze che ha effettivamente a disposizione e, soprattutto, se sarà in grado di affrontare la reazione russa che, ovviamente, non si farà attendere. Di fatto, pur avendo avuto un temporaneo successo “politico”, questa iniziativa ha più le caratteristiche di un azzardo volto a rialzare il morale delle truppe ucraine infilate in una lunga guerra di logoramento e a tentare di portare stabilmente la guerra anche in Russia. Non sono mancate le elucubrazioni giornalistiche e degli “esperti militari” occidentali nel richiamare all’attenzione la mossa strategica di Scipione l’Africano che riuscì infine a battere Annibale e i cartaginesi non in Italia, ma sul loro stesso terreno e con le loro stesse “armi pesanti” (all’epoca, gli elefanti); mossa strategica a cui si sarebbe ispirato Zelensky, sempre secondo gli “esperti” filoamericani, per obbligare i russi a richiamare almeno una parte delle loro truppe dal Donbass per riconquistare i 1.250 km quadrati occupati dagli ucraini. Inutile dire che Zelensky può ancora contare su altre decine di miliardi di dollari che gli Usa hanno recentemente deliberato, e su missili capaci di colpire la Russia a oltre 1000 km di distanza, ma, come ribadito costantemente, né gli USA né tantomeno gli Stati dell’Unione Europea sono disposti a scatenare la guerra contro la Russia e a inviare le proprie truppe sul fronte ucraino.

Negli attuali disegni delle cancellerie occidentali non rientrano altre opzioni se non quella che gli ucraini vengano immolati alla causa dell’imperialismo atlantico. I proletari ucraini e i proletari russi non si possono attendere dall’escalation della guerra che si sta svolgendo in questi ultimi mesi, e che gli imperialisti occidentali hanno tutta l’intenzione di prolungare – tanto sono gli ucraini e i russi che si massacrano a vicenda – un vantaggio per le proprie condizioni sociali future; chi trarrà vantaggio da un paese semidistrutto dalla guerra, come è già oggi l’Ucraina, che andrà prima o poi ricostruito e che si sta indebitando per molte generazioni future? Gli imperialisti occidentali certamente e, ma in minima parte, anche l’imperialismo russo. Che effetto hanno avuto le sanzioni economiche, commerciali e finanziarie che avrebbero dovuto colpire l’economia russa mettendola prima o poi in ginocchio? In realtà, quelle sanzioni hanno colpito e colpiscono in particolare i paesi europei alleati degli USA che oggi, se non dipendono dal petrolio e dal gas russo, dipendono dal petrolio dei paesi arabi a prezzi più elevati e dal gas naturale americano. Sanzioni che, come gli stessi giornalisti embedded non potevano più nascondere, non hanno messo in ginocchio la Russia che, invece, ha continuato a fornire le sue materie prime energetiche a clienti terzi e ha ripreso a fornirle anche agli stessi “nemici” europei: dimostrazione che le leggi del capitalismo non seguono i diktat delle cancellerie imperialiste, ma sono queste a dover seguire, volenti o nolenti, i diktat del capitalismo con tutte le sue contraddizioni che la guerra guerreggiata non fa che acutizzare.

 

LE CARATTERISTICHE DELLA GUERRA IMPERIALISTA NON CAMBIANO SE LA GUERRA È «LOCALE» O «MONDIALE»

 

Ed è proprio sull’aggravamento delle contraddizioni del capitalismo che si giocano, in sostanza, le sorti sia della guerra imperialista sia della ripresa del movimento di classe del proletariato. Che si stiano accelerando le condizioni generali di una guerra mondiale, in cui il mondo verrà diviso in due blocchi imperialisti avversari mettendo in campo il loro massimo dispiegamento di forza economica e militare, è un fatto. E non è tanto la questione di una guerra mondiale che si svolge da tempo “a pezzi” – come ha detto il papa – visto che da questo punto di vista le condizioni della terza guerra mondiale si sono create già durante e dopo la fine della seconda guerra mondiale.

Nel 1947, scrivevamo nelle Tesi della Sinistra: «Invece di un mondo di libertà, la guerra avrà recato un mondo di maggiore oppressione. Quando il nuovo sistema fascista, apporto della più recente fase imperialistica dell’economia borghese, lanciò un ricatto politico e una sfida militare ai paesi in cui la passatistica bugia liberale poteva ancora circolare, superstite di una fase storica superata, tale sfida non lasciava all’agonizzante liberalismo alcuna favorevole alternativa: o gli Stati fascisti avrebbero vinto la guerra, o l’avrebbero vinta i loro avversari, ma a condizione di adottare la metodologia politica del fascismo. Nessun conflitto tra due ideologie o tra due concezioni della vita sociale, ma il necessario processo dell’avvento della nuova forma del mondo borghese, più accentuata, più totalitaria, più autoritaria, più decisa a qualunque sforzo per la conservazione e contro la rivoluzione» (2). Il mondo borghese nei decenni successivi, aldilà delle chiacchiere sulla “riconquistata democrazia” dovuta alla vittoria “sul fascismo”, ha dimostrato che stava andando esattamente come previsto dal nostro partito; e non fu una previsione fortunosamente “azzeccata”, ma una previsione dovuta all’applicazione corretta del marxismo.

E il movimento di classe del proletariato, come si comportò e come si sarebbe dovuto comportare? Fu colpito dalla controrivoluzione staliniana che lo azzoppò completamente rendendolo succube dell’ideologia borghese supernazionalistica sia nella versione democratica che in quella fascista, rendendo in questo modo più agevole l’applicazione della politica fascista della collaborazione di classe, sia in tempo di pace che in tempo di guerra, e fu organizzato e inquadrato, nei due fronti bellici contrapposti, a sostegno dell’imperialismo di casa propria mascherato, da una parte, come lotta alle “plutocrazie” e ai loro imperi coloniali e, dall’altra parte, alla lotta per la “libertà” e contro ogni forma di “totalitarismo”. In realtà i due schieramenti bellici non erano che due blocchi imperialisti che si combattevano per spartirsi totalitariamente il mondo. Il proletariato di entrambi i fronti di guerra fu indotto ad attendersi un cambiamento radicale della sua situazione in cui era precipitato «da uno scioglimento della guerra degli Stati e non dalla guerra delle classi». Già questo rappresentava una vittoria del mondo borghese sul proletariato internazionale che le drammatiche conseguenze della guerra stessa avrebbero potuto spingere a riprendere la sua lotta di classe antiborghese e anticapitalistica.

Il blocco imperialista democratico nella guerra vince sul blocco imperialista fascista: e il mondo come si è presentato? Rileggiamo quanto sostenuto dal partito nell’articolo citato sopra: «Realizzata questa vittoria, si saranno attuate le basi per uno svolgimento dell’era capitalistica imperialistico-fascista che prevarrà nei grandi paesi del mondo e graviterà su di una costellazione di grandi Stati, signori delle classi lavoratrici indigene, delle colonie di colore e di tutti i minori Stati satelliti nei paesi di razza bianca» (3), costellazione nella quale è entrata la nuova Russia per altissimi meriti controrivoluzionari, e nella quale, dopo un periodo di separazione, entrerà anche la Francia, mentre la Germania, occupata militarmente dagli Alleati e divisa in due, tornerà comunque a giocare un ruolo determinante nei rapporti di forza economici e politici sviluppatisi nei decenni del secondo dopoguerra, fino a diventare uno dei fattori di crisi della tenuta dell’imperialismo sovietico e uno dei fattori decisivi della politica europea sul mercato internazionale.

La costellazione di grandi Stati di cui sopra, adottando – anche se mascherati da forme democratiche ormai impotenti – i metodi totalitari e centralizzatori che la Germania nazista ha per prima realizzato con successo quanto a rendimento tecnico, politico e militare, ha confermato le previsioni marxiste sullo sviluppo del capitalismo nella fase imperialista, nella quale appunto, in quei grandi Stati è aumentata l’oppressione in primo luogo delle classi lavoratrici sia dei propri paesi che di tutti gli altri e, in secondo luogo, degli Stati più deboli. Nello stesso tempo, aumentando inevitabilmente i contrasti interimperialistici e il pericolo di scontri di guerra a grandi livelli, è aumentata anche l’attività delle forze opportuniste che hanno continuato a ribadire, pur sotto “nuove” vesti e di fronte a “nuove” situazioni, il compito di illudere, deviare, paralizzare e sconfiggere il movimento proletario nei suoi tentativi di ripresa della lotta di classe. Ma, considerando la quantità e la qualità sempre maggiore di forze opportuniste che i poteri borghesi sostengono, foraggiano e organizzano – soprattutto per aumentare sempre più la concorrenza tra proletari e, nello stesso tempo, rafforzare le condizioni materiali degli strati superiori del proletariato per cementare la collaborazione di classe –, è evidente che la borghesia dominante in qualsiasi paese, in particolare nei grandi Stati, sapendo che le contraddizioni del suo sistema economico porteranno le grandi masse proletarie a ribellarsi violentemente come già in passato, cerca di agire e agirà in tutti i modi per prevenire la ripresa della lotta di classe da parte del proletariato.

Il proletariato, oggi più di ieri, come classe antagonista della borghesia e come portatrice di una nuova società umana basata sull’eliminazione della divisione in classi e, quindi, del sistema economico capitalistico, appare non solo impotente ma storicamente perduto. La borghesia si presenta, attraverso i grandi Stati imperialisti, potente e invincibile, capace di uscire dalle crisi che la colpiscono ciclicamente rimettendo in moto la grande macchina produttrice di capitale e di profitto capitalistico. Appariva in questo modo anche nel 1848, nel 1871, nel 1914, nel 1917 e nel secondo dopoguerra di fronte ai moti anticoloniali; ma è la prima a non essere sicura della propria potenza: i contrasti e le crisi che punteggiano inesorabilmente il corso dello sviluppo capitalistico anche in questo suo ultimo stadio imperialistico, le ripropongono costantemente il grande problema: riuscirò a mantenere inquadrato a difesa dei miei interessi politici ed economici il mio proletariato? Riuscirò a irretire il proletariato degli Stati che opprimo così da fargli fare la guerra a difesa dei miei interessi politici ed economici? Riuscirò ad impedire che il proletariato in uno qualsiasi dei paesi decisivi per la conservazione sociale imbocchi la via della lotta di classe e rivoluzionaria?

Se guardiamo gli ultimi otto decenni dalla fine del secondo macello imperialista mondiale, la borghesia c’è riuscita, eccome. Ma la storia delle società divise in classi si è svolta e si svolge non in decenni ma in secoli, e lo sviluppo ineguale del capitalismo conferma che la stessa lotta di classe del proletariato si sviluppa materialmente in modo ineguale nei diversi paesi. Però, a differenza dello sviluppo della lotta di classe della borghesia contro le classi feudali, la lotta di classe del proletariato non si fonda su un modo di produzione superiore già nato e sviluppato all’interno dei rapporti borghesi di produzione, di scambio e di proprietà, e non si limita nei confini dello Stato x o y: è fondamentalmente una lotta politica che mira a conquistare il potere politico centrale di tutti gli Stati, pur iniziando il suo percorso rivoluzionario in uno o in pochi Stati. Il proletariato è fondamentalmente una classe internazionale e questo lo deve proprio alla borghesia che, pur basando la sua forza dominante su territori nazionali, non poteva e non può gestire lo sviluppo del capitalismo, da cui dipende totalmente, nei limiti nazionali.

Certo, come dichiarano Marx ed Engels nel Manifesto del 1848, la lotta dei proletari inizia prima di tutto in casa propria, contro la propria borghesia nazionale, ma la sua vittoria non sarà mai consolidata se la lotta rivoluzionaria non si estende agli altri Stati, dunque se i proletari degli altri paesi non seguono la stessa rotta, battendosi innanzitutto contro le rispettive borghesie nazionali.La storia delle lotte fra le classi ha già dato questo insegnamento. Si tratta di metterlo in pratica e non è certo un semplice problema di volontà. Qual è l’insegnamento che il nostro partito ha tratto dalla storia delle lotte fra le classi, qual è il bilancio tratto dalla seconda guerra imperialista mondiale?

Torniamo allo scritto del 1947 già citato che, in conclusione, afferma:

«Di fronte a questa nuova costruzione del mondo capitalistico, il movimento delle classi proletarie potrà reagire solamente se intenderà che non si può né si deve rimpiangere il cessato stadio della tolleranza liberale, della indipendenza sovrana delle piccole nazioni, ma che la storia offre una sola via per eliminare tutti gli sfruttamenti, tutte le tirannie e le oppressioni, ed è quella dell’azione rivoluzionaria di classe, che in ogni paese, dominatore o vassallo, ponga le classi dei lavoratori contro la borghesia locale, in completa autonomia di combattimento, e sopra le frontiere di tutti i paesi, in pace e in guerra, in situazioni considerate normali o eccezionali, previste o impreviste per gli schemi filistei dell’opportunismo traditore, unisca le forze dei lavoratori di tutto il mondo in un organismo unitario, la cui azione non si arresti fino al completo abbattimento degli istituti del capitalismo» (4).

La nostra prospettiva non cambia e non cambierà nemmeno per i proletari ucraini o russi, americani o europei, cinesi o giapponesi, sudamericani o africani. Noi comunisti rivoluzionari continuiamo a lavorare nella direzione di questa prospettiva, sicuri che il proletariato sarà capace di mettersi in movimento come classe quando le sempre più acute contraddizioni sociali faranno maturare le condizioni favorevoli all’inevitabile ripresa della lotta di classe.

 


 

(1) Cfr. Guerra russo-ucraina / 1. La guerra russo-ucraina dal suo scoppio alla “controffensiva” di Kiev; Opuscolo, Reprint N° 18 - Febbraio 2024. Vedi il sito http://www.pcint.org.

(2) Cfr. Il corso storico del movimento di classe del proletariato. Guerre e crisi opportunistiche, serie delle “Tesi della Sinistra”, nell’allora rivista di partito “Prometeo”, n. 6, marzo-aprile 1947. Poi raccolte in Per l’organica sistemazione dei principi comunisti, n. 4 dei testi del partito comunista internazionale, settembre 1973, p. 89.

(3) Ibidem, p. 92.

(4) Ibidem, p. 92.

 

22 agosto 2024

 

 

Partito Comunista Internazionale

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