Nella continuità del lavoro collettivo di partito guidato dalla bussola marxista nella preparazione del partito comunista rivoluzionario di domani

(Rapporti alla riunione generale di Milano del 18-19 maggio 2024)

(«il comunista»; N° 183 ; Agosto-Settembre 2024)

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La Pubblicazione dei rapporti tenuti nella  riunione generale di maggio è iniziata nel numero scorso e ha riguardato: 1) Corso dell'imperialismo mondiale, e 2) Sulla guerra civile di Spagna 1936-39: le origini del POUM (prima parte). In questo numero terminiamo il rapporto sul tema "Le origini del POUM" .

 

 

Lo sviluppo dell'attività di partito 

 

 

Riassumiamo qui alcuni brevi rapporti tenuti nelle ultime riunioni generali, con i quali intendevamo risottolineare che lo sviluppo dell’attività di partito dipende essenzialmente da due fattori: a) la continuità ideologica e organizzativa del partito, a sua volta risultato della lunga opera di restaurazione teorica svolta negli anni dal 1945 in avanti, e b) il lentissimo ma inesorabile corso delle contraddizioni economiche e sociali del capitalismo che giungerà, ad un certo punto, a far maturare le condizioni generali della ripresa della lotta di classe da parte del proletariato, non importa se in uno o più paesi capitalistici avanzati o in uno o più paesi capitalistici arretrati. Il partito, inevitabilmente isolato dalle masse proletarie nel lungo periodo controrivoluzionario seguito alla seconda guerra imperialista mondiale, pur costituito da pochissimi elementi, ha il compito di lavorare per difendere quella continuità ideologica e organizzativa e per prepararlo ai compiti positivi della ripresa della lotta di classe e rivoluzionaria di domani, di generazione in generazione di militanti comunisti.

 

 

Nelle nostre Tesi di Napoli del 1965 (1), al punto 5, scrivevamo:

«Il lavoro svolto per ricostituire ovunque il partito di classe dopo la fine della seconda guerra mondiale ha trovato una situazione estremamente sfavorevole, dopo che le vicende internazionali e sociali del tremendo periodo storico hanno favorito in tutti i sensi il piano opportunista di obliterare tutte le linee del conflitto fra le classi, e portare in evidenza davanti agli occhi accecati del proletariato la necessità di assecondare il ripristino per tutta la terra dei costituzionalismi parlamentari-democratici.

«In questa posizione spietata di controcorrente, aggravata dal tuffarsi di larghe masse proletarie nella pratica pestifera dell’elezionismo, apologizzata dai falsi rivoluzionari molto più spudoratamente di quanto non avessero fatto i revisionisti di oltre mezzo secolo prima, il nostro movimento non potette rispondere che facendo leva su tutto il patrimonio che gli derivava dalla lunga e sfavorevole vicenda storica.

«Adottata la vecchia consegna che risponde alla frase: “sul filo del tempo”, il nostro movimento si dette a riportare davanti agli occhi e alle menti del proletariato il valore dei risultati storici che si erano iscritti nel lungo corso della dolorosa ritirata.

«Non si trattava di ridursi ad una funzione di diffusione culturale o di propaganda di dottrinette, ma di dimostrare che teoria ed azione sono campi dialetticamente inseparabili e che gli insegnamenti non sono libreschi o professorali, ma derivano (per evitare la parola, oggi preda dei filistei, di esperienze) da bilanci dinamici di scontri avvenuti tra forze reali di notevole grandezza ed estensione, utilizzando anche i casi in cui il bilancio finale si è risolto in una disfatta delle forze rivoluzionarie.

«E’ ciò che noi abbiamo chiamato con vecchio criterio marxista classico: “lezioni delle controrivoluzioni”».

Va ricordato che queste Tesi nate, come è sempre stata abitudine del partito, da un lavoro collettivo erano state anticipate dagli “Appunti per le tesi sulla questione di organizzazione”, presentati alla riunione generale di Firenze del 31 ott.-1 nov. 1964 come risultato di quel lavoro collettivo, riunione nella quale fu presa la decisione di pubblicarli nel giornale (il programma comunista, n. 22, 30 novembre 1964) perché tutti i compagni, quindi anche coloro che non avevano potuto essere presenti, potessero leggere, riflettere su di esse e condividere, ed eventualmente sollevare dubbi e richieste di chiarimenti, seguendo così un processo organico di assimilazione che distingue tutte le Tesi di partito.

Essendo un testo collegato alla dottrina del partito, alla sua azione nelle successive situazioni storiche e quindi al suo programma, alla sua tattica e alla sua struttura organizzativa, andavano considerate – come detto fin dalle prime righe delle stesse Tesi – «come un insieme unico e nel corso della lotta della Sinistra sono state più volte ordinate ed enunciate senza mai apportarvi mutamenti».

Non è inutile ricordare che i capisaldi qui richiamati sono le Tesi complete della Frazione comunista astensionista italiana del 1919; le Tesi di Roma, cioè del II congresso del PCd’I, marzo 1922; le Posizioni prese dalla Sinistra comunista ai Congressi internazionali del 1922 e 1924 e all’Esecutivo Allargato del 1926; le Tesi della Sinistra alla conferenza illegale del PCd’I nel maggio 1924 tenuta a Como; le Tesi presentate dalla Sinistra al III congresso del PCd’I a Lione nel 1926.

Per la quasi totalità dei compagni di allora tutto ciò era chiaro ed era vissuto come, appunto, lavoro collettivo di partito. Un piccolo manipolo di militanti considerò invece queste Tesi come una manovra attraverso la quale Amadeo Bordiga intendeva far passare la sua “dittatura personale” sul partito con il pretesto di combattere il “centralismo democratico” sostituendolo col “centralismo organico”. Esiste una difficoltà oggettiva nel comprendere pienamente il significato del centralismo organico.

Nello scritto del 1922 intitolato Il principio democratico (2), collimando perfettamente nella critica al principio democratico di Lenin e dei bolscevichi, si conclude, tirando le somme da tutta la critica, che:

«Il criterio democratico è finora per noi un accidente materiale per la costruzione della nostra organizzazione interna e la formulazione degli statuti di partito: esso non è l’indispensabile piattaforma. Ecco perché noi non eleveremmo a principio la nota formula organizzativa del “centralismo democratico”. La democrazia non può essere per noi un principio; il centralismo lo è indubbiamente, poiché i caratteri essenziali dell’organizzazione del partito devono essere l’unità di struttura e di movimento. Per segnare la continuità nello spazio della struttura di partito è sufficiente il termine centralismo, e per introdurre il concetto essenziale di continuità nel tempo, ossia nello scopo a cui si tende e nella direzione in cui si procede verso successivi ostacoli da superare, collegando anzi questi due essenziali concetti di unità, noi proporremmo di dire che il partito comunista fonda la sua organizzazione sul “centralismo organico”. Così, conservando quel tanto dell’accidentale meccanismo democratico che ci potrà servire, elimineremmo l’uso di un termine caro ai peggiori demagoghi e impastato di ironia per tutti gli sfruttati, gli oppressi, e gli inganni, quale quello di “democrazia”, che è consigliabile regalare per esclusivo loro uso ai borghesi e ai campioni del liberalismo variamente paludato talvolta in pose estremiste».

I comunisti italiani di allora non hanno avuto difficoltà a comprendere il significato del centralismo organico, che in una certa misura, anche se il partito – come la stessa Internazionale – era organizzato secondo la formula del “centralismo democratico”, era stato introdotto nel lavoro stesso della direzione del partito. Ad esempio, la struttura dirigenziale del Partito comunista d’Italia, da parte della Sinistra comunista, aveva abolito la figura del Segretario generale del partito e di una numerosa e pesante Direzione politica con un Comitato Esecutivo costituito da cinque compagni – dunque facile da riunire – e con una serie di incarichi a compagni che avevano dimostrato nel tempo la propria fedeltà al marxismo, al programma e alla linea politica del partito, compagni che potevano essere sostituiti se non se la sentivano più di svolgere quegli incarichi o se avevano dimostrato coi fatti di non esserne all’altezza. Come in tutti gli organismi politici, ci sono compagni più preparati teoricamente, più adeguati a svolgere determinati incarichi piuttosto che altri, ma il criterio con cui i compagni assumono una certa autorevolezza e sono chiamati a svolgere determinati incarichi di direzione è, per l’appunto, un criterio organico per cui nel tempo e nello spazio dimostrano continuità nella difesa della teoria marxista, dei principi e del programma del comunismo rivoluzionario e un’attitudine personale a non porre la posizione individuale di direzione assunta come il motivo per pretendere obbedienza e disciplina da parte dei compagni della base.

Non c’è dubbio, come già all’epoca, che assimilare nell’atteggiamento pratico e organizzativo un criterio che non si basava più essenzialmente sulla democrazia organizzativa – che in sostanza si condensava nello stabilire che la ragione, politica, tattica, organizzativa e anche teorica stava in una maggioranza da rilevare ogni volta mediante votazioni – ma sulla collimazione delle decisioni politiche e pratiche prese con l’impianto programmatico e teorico del partito stesso. Dopo decenni e decenni di abitudine democratica si può capire che un principio organizzativo che capovolge completamente quel che è sembrato per tanto tempo logico e “risolutivo” degli eventuali dissensi, poteva essere molto difficile da digerire. Tanto più che proprio col principio democratico e col metodo democratico non solo la classe dominante esercita la sua potente influenza sul proletariato e su tutte le organizzazioni proletarie, sia di tipo sindacale che di tipo politico, ma sono chiamate a dare il loro vitale contributo alla conservazione sociale tutte le forze dell’opportunismo che hanno, per l’appunto, il compito di far passare il metodo e il principio democratico come le leve migliori per ottenere soddisfazione alle proprie rivendicazioni e alla stessa emancipazione di classe.

D’altra parte, se il partito comunista rivoluzionario combatte l’ideologia democratica e i suoi principi, e non da oggi (del resto, basta risalire a Marx ed Engels), come fa a ostacolare l’influenza della democrazia borghese su sé stesso, sulla sua organizzazione e sulla sua azione se non la combatte anche nella prassi politica quotidiana? Non per niente si è detto che il criterio democratico è finora un accidente materiale che la storia stessa della lotta fra le classi e fra i partiti ha creato e il cui uso – da tutti i punti di vista – la storia stessa ha dimostrato essere favorevole esclusivamente alla classe dominante borghese e alla sua permanenza al potere.

Ma, come spesso abbiamo detto, la democrazia, sia come principio sia come prassi, è la bestia nera dei comunisti. E la dimostrazione della sua pericolosità, se assunta come criterio tattico e organizzativo pur avendola rigettata ideologicamente, è data dal fatto che nel nostro stesso partito ha fatto ciclicamente forti danni, tanto da averlo portato nel 1982-84 alla sua crisi esplosiva. Democrazia, per la borghesia, significa anche nazionalismo, difesa della patria, difesa del regime che assicura (come la storia ha dimostrato) una vita più lunga al potere borghese. Per il proletariato, dal punto di vista dei suoi interessi di classe, significa inganno, false illusioni, è la “carota” che nasconde il “bastone” del potere borghese. Il movimento proletario di classe, quindi il movimento politico del proletariato, non poteva non subire l’influenza della democrazia borghese, non solo perché la classe borghese è la classe dominante – e quindi anche la sua ideologia è dominante –, ma anche perché la classe borghese per diventare storicamente classe dominante ha dovuto rivoluzionare la società in cui era nata e cresciuta e in cui era nato e cresciuto il nuovo modo di produzione capitalistico che avrebbe sviluppato a tal punto le forze produttive da spingerle materialmente a spezzare le forme sociali in cui erano costrette, feudali, dispotiche, asiatiche o tribali che fossero. La democrazia rivoluzionaria, per imporsi non aveva altra strada che coinvolgere le masse contadine povere e le masse proletarie urbane che il capitalismo in nuce già aveva cominciato a creare, offrendo a queste masse – senza le quali la classe borghese non avrebbe avuto la forza di imporsi e distruggere i poteri politici delle vecchie classi – la strada della loro emancipazione politica, istruendole necessariamente non solo all’azione militare ma soprattutto all’azione politica. Ma lo sviluppo del capitalismo non poteva che sviluppare anche i contrasti di classe fra borghesia, proletariato urbano e contadiname che, col tempo sono diventati contrasti storici fra le due classi principali della società moderna, borghesia e proletariato, dato che i contadini – col loro particolare attaccamento alla proprietà privata anche solo di un fazzoletto di terra che funziona come riserva economica – hanno dimostrato di condividere oggettivamente gli interessi fondamentali della borghesia legati appunto alla proprietà privata.

Ma la lotta fra le classi è andata avanti, e la fase rivoluzionaria della borghesia è stata sostituita prima dalla fase conformista e riformista, e poi – crescendo il movimento di classe del proletariato, il suo antagonismo nei confronti della classe borghese e la definizione teorica e programmatica dei suoi interessi di classe – si è trasformata nella sua fase controrivoluzionaria. Queste diverse fasi costituiscono il destino storico di tutte le società divise in classi, con una peculiarità per la sola società moderna borghese: l’estensione planetaria delle sue fasi, dovuta certamente al modo di produzione capitalistico su cui la borghesia fonda il suo potere, un modo di produzione il cui sviluppo non poteva che essere planetario. Ciò, storicamente, dà la possibilità all’unica classe antagonista della borghesia – il proletariato – di vedere il suo futuro sostanzialmente in due modi: o rimanere classe per il capitale, che è ciò che vuole la borghesia, o diventare classe per sé, che è la condizione storica della sua rivoluzione di classe per superare la società divisa in classi, partendo col distruggere le forme sovrastrutturali, politiche, ideologiche, culturali, religiose – dunque il potere politico borghese e il suo Stato –, e instaurare il suo potere di classe, la dittatura del proletariato. Questa fase rivoluzionaria, che non sarà per nulla breve, si rende necessaria per intervenire dispoticamente con decisione al fine di distruggere il modo di produzione borghese e i rapporti di produzione e di proprietà borghesi, sostituendoli con rapporti di produzione e sociali comunisti, i soli che rispondono alla soddisfazione dei bisogni di vita sociale dell’intera umanità non più divisa in classi, dominanti e dominate. Attraverso l’emancipazione della classe proletaria, della classe dei senza-riserve, la classe dei produttori, dal capitalismo si giungerà all’emancipazione dell’intera specie umana dal mercato, dalla proprietà privata, dallo Stato di classe, dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, da ogni oppressione e ogni guerra. La rivoluzione proletaria e comunista o mira a queste finalità, o non è rivoluzione proletaria e comunista.

La via democratica illude il proletariato facendogli credere che la sua emancipazione possa avvenire attraverso mezzi e metodi non rivoluzionari, pacifici, legali; facendogli credere che il confronto democratico e la collaborazione fra le classi siano i mezzi più adeguati per giungere a una equilibrata gestione sociale sia nel campo degli interessi di ognuno sia nel campo degli interessi più generali. Tutti gli apparati politici costituiti per dare al principio e al metodo democratico una loro realizzazione – parlamento, amministrazioni regionali, provinciali, comunali ecc. – sono stati eretti a difesa della conservazione sociale, della conservazione del regime borghese e del capitalismo. Ma nel momento in cui tali apparati – indeboliti dalle inevitabili crisi economiche e sociali del capitalismo – si dimostrano insufficienti alla difesa del potere borghese a causa del montare del movimento di classe del proletariato, o a causa di un indebolimento reale dovuto alle conseguenze delle sconfitte nelle guerre borghesi, allora la borghesia non si fa alcuno scrupolo a disfarsi con la violenza dei mezzi e dei metodi democratici e sostituirli con i mezzi e i metodi dell’aperta dittatura di classe che, in passato, abbiamo conosciuto come fascismo, nazismo, dittatura militare.

Perché mai il partito comunista rivoluzionario, che si è ricostituito dopo la seconda guerra imperialista mondiale sulle basi teoriche, programmatiche e politiche del marxismo e sui bilanci dinamici delle controrivoluzioni, dovrebbe tornare a utilizzare i mezzi e i metodi della democrazia che la stessa borghesia ha dimostrato di utilizzare al solo scopo di ingannare e deviare il proletariato dal suo terreno di classe e di disfarsene appena la situazione sociale si fa pericolosa per il suo potere?

Il partito comunista rivoluzionario ha il compito di prepararsi, e preparare il proletariato, alla rivoluzione contro il potere borghese, contro la società capitalistica, e non quello di cercare i possibili equilibri sociali e politici in una società che è già putrefatta. E come fa il partito comunista rivoluzionario a farsi riconoscere come l’organo della rivoluzione proletaria se non dimostra la sua continuità ideologica, politica e organizzativa alle avanguardie del proletariato che cercano necessariamente un indirizzo rivoluzionario su cui contare stabilmente per tutto il lungo periodo in cui la rivoluzione a livello mondiale si svolgerà, tanto più dopo aver vinto in uno o più paesi capitalistici?

Il partito comunista rivoluzionario non solo deve dimostrare la più ferma coerenza con la teoria rivoluzionaria di cui è portatore e detentore cosciente, ma la sua coerenza deve essere confermata nella sua organizzazione e nella sua azione. Per raggiungere questo livello di coerenza e di continuità ideologica e organizzativa – indispensabile per svolgere fino in fondo il suo compito storico – il partito non può mettere continuamente in discussione il proprio programma, le proprie azioni tattiche, la propria organizzazione interna, demandando di volta in volta le decisioni da prendere a una sempre mutevole maggioranza elettorale. Questo meccanismo – che corrisponde al noto centralismo democratico – ha già dato i suoi risultati negativi in tutto il corso storico passato attraverso la costituzione dei primi partiti socialisti, delle Internazionali e dei partiti comunisti. Il superamento di questi risultati negativi, che d’altra parte si sono riversati drammaticamente sul movimento rivoluzionario degli anni Venti del secolo scorso, non poteva che passare attraverso il rifiuto categorico da parte del nostro movimento, non solo del principio della democrazia, ma anche del mezzo e del metodo democratico inerente la sua organizzazione interna specifica.

E qui ci ricolleghiamo a quanto detto sopra, e cioè che nel nostro partito l’influenza negativa dell’ideologia democratica si è fatta sentire con forza e non solo all’epoca della scissione del 1952 tra il gruppo di “battaglia” e il gruppo di “programma”, ma anche nel 1965 con il gruppo che inneggiava apertamente al centralismo democratico contro il centralismo organico e ancora successivamente. Negli anni Settanta è avvenuta la scissione del gruppo fiorentino, che uscirà col giornale “Partito comunista”, che, dal punto di vista formale, si diceva concorde col centralismo organico, ma dal punto di vista sostanziale non ne accettava l’applicazione; e poi altri casi, più o meno gravi, fino alla crisi esplosiva del 1982-84 in cui venne messo in discussione, da tutte le varie tendenze che si erano formate, lo stesso centralismo.

Che deduzione trarre da questo andamento disastrato di una compagine di militanti che giurava sulle Tesi del partito ribadite più e più volte, pubblicate in tutte le lingue, e che giurava sul principio del centralismo organico senza aver assimilato, in realtà, il significato stesso del termine organico? E’ evidente che nonostante le dichiarazioni di costante osservanza delle tesi fondamentali del partito, sia nella lettera che nell’applicazione pratica, o quella costante osservanza è supportata dalla dimostrazione nei fatti, nell’attività quotidiana del partito in tutti i campi d’azione in cui agisce, oppure è destinata a rimanere una dichiarazione, mentre nella pratica si agisce in contrasto con quelle tesi.

Quanto all’accidente storico costituito dal metodo e dal mezzo democratici, tra gli organismi che esistono nella storia del movimento proletario, i sindacati economici e il partito politico, esiste una differenza sostanziale. Entrambi hanno la caratteristica di avere un’identità di classe precisa, ma la grande differenza tra loro è che il sindacato esprime la sua omogeneità di classe sul piano degli interessi proletari immediati, a livello aziendale, di categoria o nazionale, mentre il partito politico la esprime sul piano degli interessi storici della classe proletaria. Il sindacato di classe organizza tendenzialmente la grande maggioranza dei proletari, e solo proletari, sulla base appunto degli interessi immediati che li uniscono; il partito politico è un organo di classe per la teoria e il programma su cui basa la sua organizzazione, perciò per le finalità storiche di cui è portatore cosciente, ma alla sua struttura organizzativa non aderirà mai la maggioranza del proletariato ma solo la sua avanguardia più cosciente, capace di liberarsi dei vincoli che legano ogni proletario ai suoi interessi contingenti, immediati, abbracciando invece i compiti generali della rivoluzione che dovrà sovvertire completamente l’ordine costituito.

E’ dunque storicamente dato che nel sindacato le decisioni d’azione e di indirizzo siano sottoposte al vaglio della maggioranza dei suoi organizzati, perciò nel sindacato è ovvio che valga il metodo democratico. Ciò non deve far dimenticare, però, che nel sindacato altri fattori entrano in campo: «una gerarchia burocratizzata di funzionari che lo immobilizzano nel loro dominio e i gruppi di avanguardia che il partito politico rivoluzionario vi costituisce per condurlo sul terreno dell’azione rivoluzionaria» (3).

Al di là del fatto che, col tempo, i sindacati operai da sindacati operai riformisti sono diventati sindacati tricolori, ossia apparati funzionanti esclusivamente come organizzatori della collaborazione di classe (ereditando questa funzione proprio dal fascismo che della collaborazione di classe fece la sua politica sociale istituzionale), per noi è sempre valida la posizione definita nelle Tesi caratteristiche del partito, 1951:

«Il partito non sottace che in fasi di ripresa non si rinforzerà in modo autonomo, se non sorgerà una forma di associazionismo economico sindacale delle masse.

«Il sindacato, sebbene non sia mai stato libero da influenze di classi nemiche e abbia funzionato da veicolo a continue e profonde deviazioni e deformazioni, sebbene non sia uno specifico strumento rivoluzionario, tuttavia è oggetto d’interessamento del partito, il quale non rinuncia volontariamente a lavorarvi dentro, distinguendosi nettamente da tutti gli altri raggruppamenti politici. Il partito riconosce che oggi può fare solo in modo sporadico opera di lavoro sindacale, e dal momento che il concreto rapporto numerico tra i suoi membri, i simpatizzanti, e gli organizzati in un dato corpo sindacale risulti apprezzabile e tale organismo sia tale da non avere esclusa l’ultima possibilità di attività virtuale e statutaria autonoma classista, il partito esplicherà la penetrazione e tenterà la conquista della direzione di esso» (4).

Non è difficile constatare che questa posizione rispetto alla «questione sindacale» non è sostanzialmente cambiata dalle Tesi di Roma del 1922 del PCd’I in cui sono ribaditi i concetti contenuti nell’articolo già citato, Il principio democratico, nel quale, dopo aver ribadito che i comunisti, nella loro lotta contro le deviazioni opportuniste e burocratiche, dimostrano come i funzionari della burocrazia sindacale violino il concetto democratico e si infischino della volontà della maggioranza, mostrandone quindi l’evidente contraddizione, si afferma che tale attività dei comunisti negli organismi sindacali è necessaria «perché nei momenti in cui le grandi masse si muovono per effetto di situazioni economiche è possibile spostare l’influenza dei funzionari, che è un’influenza extra-proletaria e proveniente, sebbene non in forma ufficiale, da classi e poteri estranei all’organizzazione sindacale, e aumentare l’influenza dei gruppi rivoluzionari».

Ma in tutto ciò, si precisa, «non vi sono preconcetti “costituzionali”, e pur di essere compresi dalla massa e di poterle dimostrare che agiscono nel senso dei suoi interessi meglio intesi, i comunisti possono e devono regolarsi elasticamente rispetto ai canoni della democrazia interna sindacale; non vi è ad esempio alcuna contraddizione tra queste due attitudini tattiche: prendere la rappresentanza di minoranza negli organi direttivi del sindacato fino a che gli statuti lo consentono, e sostenere che questa rappresentanza statutaria deve essere soppressa allo scopo di rendere più agili gli organi esecutivi, appena questi sono da noi conquistati. Tutta la guida in questa questione è l’attenta analisi del processo di sviluppo dei sindacati nella fase attuale: si tratta di accelerare la loro trasformazione da organi di influenze contro-rivoluzionarie sul proletariato in organi di lotta rivoluzionaria; e i criteri di organizzazione interna non valgono in se stessi, ma in quanto si coordinano a questi fini». Non c’è miglior affermazione di come i comunisti rivoluzionari non si lasciano imbrigliare nel mito dei meccanismi democratici: i mezzi e i metodi democratici in campo sindacale, abbiamo affermato, costituiscono un accidente materiale storico e vanno perciò trattati con intelligenza rivoluzionaria sul piano tattico, considerando la lotta di classe per quella che storicamente è: scontro di interessi fra le classi antagoniste, e nella guerra di classe la tattica rivoluzionaria è necessariamente elastica. Come spiegato in uno dei primi capitoli della Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (5) dedicati alla questione della tattica, le norme tattiche del partito, che sono “obbligatorie” e vincolano sia il singolo militante che i gruppi periferici e il centro del partito, sono norme derivate, non originarie e immutabili, come sono invece i principi teorici. «Le norme tattiche, che nessuno ha il diritto di lasciare in bianco né di revisionare secondo congiunture immediate (...) sono norme praticamente ferme, ma teoricamente mobili, perché sono norme derivate dalle leggi dei grandi corsi, e con esse, alla scala storica e non a quella della manovra e dell’intrigo, dichiaratamente transitorie». Sapendo bene che questo è uno dei campi storicamente ostici per il partito proletario sul quale agisce costantemente l’opera della classe borghese che tenta in tutti i modi di influenzarlo, nel testo ora citato si sottolinea che i compagni militanti «intendano che nessun problema trova risposta in un codice tattico del partito. Questo deve esistere, ma per sé non scopre nulla e non risolve nessun quesito; le soluzioni si chiedono al bagaglio della dottrina generale e alla sana visione dei campi-cicli storici che se ne deducono». E questo vale per ogni questione tattica, in campo sindacale, politico, economico, sociale, culturale.

 

Non ci dobbiamo stupire se, nel corso della vita del nostro partito ci si è imbattuti più volte in crisi che hanno messo a dura prova la sua tenuta organizzativa. Non ci stupiamo perché sappiamo che il lungo periodo di grande depressione del movimento proletario toglie inevitabilmente una grande quantità di ossigeno politico che solo il movimento di classe può fornire alla possibilità di resistenza nel tempo del complesso organo di partito. Ma il grande lavoro di restaurazione teorica della dottrina marxista fatto dalla corrente della Sinistra comunista su cui si è potuto ricostituire il partito di classe tra il 1945 e il 1952, sviluppandosi poi nei decenni successivi, rimane come una grande riserva  su cui, anche se modestissime, le forze che oggi rappresentiamo possono basare il proprio lavoro mettendo al centro dell’attività quella che già all’epoca era stata definita come priorità: l’assimilazione della teoria marxista, insieme al continuo collegamento con il programma, la linea politica e tattica e i criteri organizzativi che sono stati definiti nei decenni del secondo dopoguerra e non vi è alcuna ragione per mutarli se non quella di stravolgere il senso di questa attività, sostituendo a questo lavoro organico un’impostazione (appunto quella democratica) che, invece di escludere successi storici a distanza visibile, incoraggiando elementi incerti ma desiderosi di rapida carriera, li metteva al centro degli obiettivi.

Così l’immediatismo, il carrierismo, l’individualismo, l’elezionismo, il mito del grande capo, riemergevano all’interno di un organismo che aveva costruito tutte le armi teoriche e politiche per combatterli e per dare una continuità organica «al grave lavoro di consegna storica delle lezioni feconde del passato alle generazioni presenti e future, alle nuove avanguardie che si andranno delineando nelle file delle masse proletarie, dieci e cento volte percosse, ingannate e deluse, e che finalmente insorgeranno contro il fenomeno doloroso della decomposizione purulenta della società capitalistica, e finalmente sentiranno nel vivo delle loro carni come la forma estrema e più velenosa siano le schiere dell’opportunismo popolaresco, dei burocrati dei grandi sindacati e dei grandi partiti e di tutta la ridicola pleiade dei pretesi cerebrali intellettuali ed artisti, “impegnati” o “ingaggiati” a guadagnare qualche pagnotta alla loro deteriore attività, mettendosi per il tramite dei partiti traditori al servizio da ruffiani recato alle classi ricche, e all’anima borghese e capitalistica nel senso peggiore delle classi intermedie ed atteggiate a popolo» (6).

Perciò, un rimedio alle alternative e alle crisi storiche a cui il partito proletario non può non essere soggetto, non può essere trovato «in una formula costituzionale o di organizzazione che abbia la virtù magica di salvarlo dalle degenerazioni». Secondo la nostra concezione del partito di classe questo non può essere concepito se non come fattore e prodotto dello svolgimento storico delle situazioni, mai come un elemento estraneo e astratto che possa dominare l’ambiente circostante. Esso non è se non l’integrazione organica fra il partito nella sua accezione storica - dunque la teoria del comunismo rivoluzionario - e il partito formale, contingente, organismo della lotta della classe proletaria mondiale contro tutto ciò che costituisce la società presente, capitalista, democratica o cristianuccia - dalla scienza borghese che «per noi è scienza di classe da distruggere e rimpiazzare pezzo per pezzo, non diversamente dalle religioni e dalle scolastiche delle precedenti forme di produzione», alla sua tecnica o tecnologia che altro non sono che mezzi per mantenere in vita la civiltà del capitalismo col suo portato di mercantilismo e di sfruttamento del lavoro salariato.. Il fine del partito è di seguire la linea storica tracciata oggettivamente dallo stesso sviluppo delle società divise in classi che, con il capitalismo, sono giunte alla loro massima espressione dopo di che non esistono alternative a quanto il partito storico - il marxismo - abbia già definito dalle sue prime affermazioni a metà dell’Ottocento: il balzo violento di rottura verticale con cui la società umana passerà dall’organizzazione sociale in classi antagoniste all’organizzazione sociale senza classi, senza Stato, senza più lotta di classe, dunque senza partito «a meno che non si intenda come partito un organo che non lotta contro altri partiti, ma che svolge la difesa della specie umana contro i pericoli della natura fisica e dei suoi processi evolutivi e probabilmente anche catastrofici» (7).

Questi stralci dalle Tesi ci servono per ribadire che il centralismo organico, a differenza del centralismo democratico, non è una semplice formula organizzativa, magari un po’ più complessa; e molto di più, è una applicazione alla struttura organizzativa del partito di classe a livello internazionale dei principi teorici e politici del marxismo, attraverso la quale è possibile che il partito formale meriti al tempo stesso la qualifica di partito storico e di partito formale, «ossia che si sia risolta nella realtà dell’azione e della storia la contraddizione apparente – e che ha dominato un lungo e difficile passato – tra partito storico, dunque quanto al contenuto (programma storico, invariante), e partito contingente, dunque quanto alla forma, che agisce come forza e prassi fisica di una parte decisiva del proletariato in lotta» (8).

 

Questo lungo ripasso ci serve per ribadire che l’attività di partito, che svolgiamo da quando ci siamo ricostituiti organizzativamente in seguito alla crisi esplosiva del 1982-84, quarant’anni fa, non ha cambiato sostanzialmente il suo modo di svolgersi da quanto affermavamo nelle Tesi caratteristiche del partito nel 1952, al punto 6:

«Il partito compie oggi un lavoro di registrazione scientifica dei fenomeni sociali, al fine di confermare le tesi fondamentali del marxismo. Analizza, confronta e commenta i fatti recenti e contemporanei. Ripudia l’elaborazione dottrinale che tende a fondare nuove teorie o a dimostrare l’insufficienza della dottrina nella spiegazione dei fenomeni. Tutto questo lavoro di demolizione (Lenin: Che fare?) dell’opportunismo e del deviazionismo è alla base oggi dell’attività del partito, che segue anche in questo la tradizione e le esperienze rivoluzionarie durante i periodi di riflusso rivoluzionario e di rigoglio di teorie opportuniste, che videro in Marx, Engels, Lenin e nella Sinistra “italiana” i violenti e inflessibili oppositori»,

e al punto 7:

«Con questa giusta valutazione rivoluzionaria dei compiti odierni, il partito, sebbene poco numeroso e poco collegato alla massa del proletariato e sebbene sempre geloso del compito teoretico come compito di primo piano, rifiuta assolutamente di essere considerato un’accolta di pensatori o di semplici studiosi alla ricerca di nuovi veri o che abbiano smarrito il vero di ieri considerandolo insufficiente. Nessun movimento può trionfare nella storia senza la continuità teorica, che è l’esperienza delle lotte passate».

 

Ci siamo dilungati in questo ripasso per ribadire a noi stessi, prima di tutto, e a tutti coloro che ci seguono, che il compito assunto nel nostro lavoro di partito non è una specie di “eredità” da rivendicare per il semplice fatto di aver militato nel partito di ieri, ma fa parte di un’attività di permanente collegamento con la teoria marxista e con le tesi fondamentali che il partito ha prodotto in tutta la sua storia.

Già durante la crisi di partito del 1982-84 avevamo iniziato la nostra battaglia contro le diverse tendenze che in vario modo intendevano liquidare il partito, tutte rivendicanti più o meno apertamente il metodo democratico: chi pretendendo di rappresentare le sezioni periferiche, chi rivendicando il “diritto” a elaborazioni personali, chi agendo con metodi anticentralisti giustificandoli come lotta contro un presunto “nuovo corso” imposto dal Centro, chi ritirando fuori la vecchia critica alla Sinistra comunista d’Italia di essere “teoricista”, incapace di tradurre i principi teorici in azione “politica”, e chi, esprimendo, pur passionalmente, un sentimentalismo di partito, finiva per farsi vettore di quel politicantismo personale che il partito aveva sempre combattuto.

La certezza del nostro lavoro di riconquista del patrimonio teorico-programmatico-politico del partito di ieri – e quindi della Sinistra comunista d’Italia – stava nel non aver mai cercato di svolgere un’attività a carattere di partito a condizione di essere un gruppo di compagni numericamente importante; nel non aver cercato espedienti tattici e organizzativi al fine di accorpare compagni di diverso orientamento portando “in dote” la militanza nel partito di ieri a fianco di Amadeo Bordiga, né di aver abbandonato l’intransigenza teorica e politica che il partito aveva difeso per decenni e che alcuni credevano avesse di per sé una forza taumaturgica capace di impedire al partito di cadere in crisi degenerative; né, tanto meno, di affidare la ricostituzione del partito compatto e potente di domani a una specie di crogiuolo in cui chiamare a raccolta singoli e gruppi coi quali si condividevano alcune posizioni genericamente anticapitalistiche e antiborghesi, mettendo in discussione la continuità del programma comunista per come la corrente della Sinistra comunista d’Italia sia del primo venticinquennio del Novecento, sia, dopo la tragica sconfitta della rivoluzione russa e mondiale degli anni 1926-27, nel lungo lavoro di restaurazione teorica del secondo dopoguerra, avevano concretizzato nelle battaglie di classe che l’hanno caratterizzata come l’unica corrente politica del comunismo rivoluzionario che riuscì a resistere allo tsunami della controrivoluzione e dello stalinismo, salvando le basi teoriche e programmatiche del marxismo su cui si sarebbe potuto ricostituire, in tempi successivi, il partito di classe.

Come negli anni Cinquanta, così negli anni successivi e, soprattutto, negli anni della crisi esplosiva e delle sue conseguenze sul partito e sulla sua rete organizzativa, non ci bastavano le dichiarazioni di antistalinismo, di fedeltà ai princìpi comunisti difesi per decenni dal partito di ieri, non ci bastavano i legami tra compagni che si erano costruiti in tanti anni di attività controcorrente e tanto meno quel sentimento di appartenenza al gruppo fisico di compagni che aveva costituito il nucleo del partito per molto tempo.

Fuori dal personalismo, dal politicantismo, dal sentimentalismo di partito, intendevamo riconquistare il giusto orientamento marxista che nessun attaccamento formale a una testata, fosse anche la testata storica “il programma comunista”, o ad un gruppo di vecchi compagni del 1921 o del 1945 per il solo fatto di rappresentare una continuità fisica della militanza comunista rivoluzionaria, potevano costituire di per sé motivo sufficiente per affrontare la vita politica e organizzativa del partito di ieri senza passarla intransigentemente al vaglio di un bilancio politico e dinamico di tutto il suo corso di sviluppo e, quindi, di tutte le sue crisi, fino alla degenerazione finale che lo mandò in mille pezzi. Cosa era stato fatto dal partito di ieri dopo il 1926 e dopo aver constatato che la degenerazione dell’Internazionale Comunista e del partito bolscevico, annunciata in mille moniti dalla Sinistra comunista d’Italia, aveva contribuito in modo significativo alla sconfitta della rivoluzione proletaria mondiale, se non un vitale lavoro di bilancio dinamico della controrivoluzione e di restaurazione del marxismo?

C’è stato chi dichiarava che la crisi che mandò in mille pezzi il partito nel 1982-84 era stata una triste parentesi negativa dovuta al lavoro di una cricca “anti-partito” che per un breve lasso di tempo si era impossessata della direzione organizzativa, e che non meritava se non di essere dimenticata, “riprendendo il cammino” senza bisogno di fare alcun bilancio.E chi dichiarava che quella crisi non era se non la conclusione inevitabile di un “nuovo corso” imposto al partito da un centro che, dopo aver avuto l’appoggio di Bordiga fino a quando le sue forze gli permisero di partecipare attivamente al lavoro di partito, ma che, con la sua scomparsa, si era lentamente trasformato in una specie di tumore degenerante, dando perciò all’individuo Bordiga esattamente il ruolo che Bordiga stesso aveva combattuto in tutta la sua vita di militante, cioè di deus ex machina, sballando in questo modo anche la critica, talvolta giusta, degli errori che il partito nella sua attività inevitabilmente fa e può fare.

Abbiamo ribadito questi aspetti del nostro lavoro più volte in questi quarant’anni dalla crisi esplosiva, ma è più che giustificato tornare sul metodo con il quale abbiamo ripreso l’attività di partito fin da allora, perché serve effettivamente non soltanto a difendere il patrimonio teorico e politico del partito di ieri, fuori da ogni politicantismo personale ed elettoralesco, ma anche a tener viva quella continuità ideologica e organizzativa del partito necessaria al suo organico sviluppo a fronte della ripresa della lotta di classe e rivoluzionaria di domani.

Ci sono molti ex compagni di partito che abbandonarono il partito anche prima della crisi esplosiva e che continuano a definirsi “partito comunista internazionale”, avanzando posizioni sia nella concezione del partito, sia su questioni particolarmente ostiche come quella “sindacale” o “nazionale-coloniale”, del tutto opposte alle nostre. Combattere quelle posizioni fa parte dei nostri compiti e non perché crediamo di poter un giorno appianare le differenze tra noi e coloro che si sono, di fatto, organizzati contro il partito, ma perché siamo convinti che quando il movimento proletario comincerà a mostrare i primi accenni di ripresa sul terreno della lotta di classe quelle posizioni – e quindi i raggruppamenti politici che ne sono portatori – si metteranno in un modo o nell’altro di traverso come successe negli anni Venti del secolo scorso con l’ordinovismo, il massimalismo e altre correnti opportuniste, aldilà della volontà cosciente dei militanti di quei gruppi. Le posizioni politiche prima di esprimere il pensiero di un determinato raggruppamento politico, sono il riflesso di contrasti materiali tra grandi forze sociali impersonali e, parlando della ionizzazione della storia, gli individui che esprimono e incarnano quelle posizioni, a un certo punto, volenti o nolenti, si schierano da una o dall’altra parte della barricata.

Ebbene, certi di aver imboccato la strada che la corrente della Sinistra comunista d’Italia aveva indicato a fronte delle crisi in cui incappa inevitabilmente il partito, siamo convinti che il nostro lavoro, già per il fatto di non essere stato fin dall’inizio intaccato da personalismi, ambizioni di carriera all’interno del partito, burocratismi e tanto meno legalitarismi, sia impostato correttamente sul filo del tempo che la Sinistra comunista ha seguito e insegnato fin dai suoi primi passi.

I giovani compagni che ultimamente si sono avvicinati, diventando poi compagni di partito a tutti gli effetti, ci fanno ben sperare in uno sviluppo futuro del partito, nonostante il terreno superaccidentato che stiamo attraversando da diversi decenni e che dovremo ancora attraversare. La situazione storica che si sta delineando all’orizzonte è stata, d’altra parte, prevista dal marxismo, e naturalmente dalla corrente della Sinistra comunista a cui siamo strettamente legati. I contrasti interimperialistici si stanno acutizzando in modo serio, tanto da spingere tutte le potenze imperialiste – anche quelle che finora erano sottoposte a una sottomissione alla potenza militare degli Stati Uniti, come la Germania e il Giappone, e quelle che negli ultimi vent’anni sono salite prepotentemente nella scala delle grandi potenze imperialistiche, come la Cina – ad approntare in modo consistente i propri armamenti e le proprie strutture militari in vista di scontri che non saranno più soltanto di concorrenza commerciale, industriale o politica, ma direttamente militari. D’altra parte, ormai lo sanno anche i sassi, la guerra non è che la continuazione della politica estera di ogni Stato fatta con mezzi militari.

Mala tempora currunt sed peiora parantur, dicevano i latini (corrono brutti tempi ma se ne preparano di peggiori), ma questa locuzione riguarda quale classe?

Riguarda certamente le classi borghesi che non sanno mai come districarsi dalle conseguenze devastanti delle leggi del modo di produzione capitalistico. Esse amerebbero tanto sviluppare i propri affari e dedicarsi ai propri interessi senza dover combattere continuamente contro ostacoli e complicazioni di ogni genere che il capitalismo stesso, sviluppandosi, produce aldilà di tutte le manovre e le misure che i vari poteri borghesi varano di volta in volta per metterci le classiche pezze. Lo sviluppo del capitalismo ha creato una massa sempre più ampia ed estesa a livello mondiale non solo di merci, ma anche di produttori di merci, di lavoratori salariati senza i quali il capitalismo non esisterebbe.

Mentre il mercato, luogo preposto allo scambio di merci e di capitali, a un certo punto, non riesce più a smaltire la quantità iperfolle di merci e di capitali che le aziende capitalistiche producono e vi rovesciano dentro, interrompendo in questo modo lo sviluppo progressivo dei profitti capitalistici – creando le ormai famose crisi di sovraproduzione sia di merci che di capitali –, sul versante dei rapporti sociali di produzione si innesta un altro tipo di crisi: la sovraproduzione di proletari, di lavoratori salariati, creando un sempre più ampio e mondiale esercito industriale di riserva che inevitabilmente preme sulle forme di produzione capitalistica e di potere della classe dominante borghese.

La borghesia dominante ha mostrato di poter superare le crisi di sovraproduzione di merci e di capitali muovendosi su due piani: 1) scatenando la distruzione delle merci e dei capitali in sovrappiù rispetto alle esigenze dei rispettivi mercati, fino alla guerra guerreggiata, così da poter riiniziare ulteriori cicli produttivi capitalistici, e 2) costringendo il proletariato a uno sforzo lavorativo ulteriore nella produzione, nello scambio e nei trasporti e, contemporaneamente, ad essere irreggimentato militarmente negli eserciti per essere mandato a far la guerra in difesa degli interessi borghesi. Ovvio che per compattare l’intera “nazione” intorno alla difesa degli interessi borghesi più generali, la classe dominante non può che centralizzare autoritariamente il suo potere, usando tutti i mezzi economici, politici, sociali e militari utili alla bisogna.

Il compito più complesso e più grave che deve affrontare il potere borghese è quello di irreggimentare le masse proletarie senza che queste ultime si ribellino e si organizzino in un’opposizione non solo ideale e verbale, ma fisica e strutturata, come solo la lotta di classe influenzata e diretta dal partito comunista rivoluzionario può dare. La classe dominante borghese sa per esperienza – dal 1848, 1871, 1917, 1927, e dalle diverse sollevazioni proletarie che hanno punteggiato i decenni seguiti alla fine del secondo macello imperialistico mondiale, anche la borghesia come classe internazionale ha tratto delle lezioni – che il maggior pericolo per il suo potere e per la sua sopravvivenza come classe dominante non viene tanto dalle crisi di sovraproduzione e dalla guerra imperialistica che si scatena per superarle, ma dalla lotta di classe e rivoluzionaria del proletariato che, inevitabilmente, non potrà che avere carattere internazionale non tanto perché sarà scatenata contemporaneamente in tutti i paesi del mondo, ma perché le condizioni stesse dei lavoratori salariati in tutti i paesi e la spinta alla lotta contro di esse fanno da vettori oggettivi del contagio classista e rivoluzionario. Quando dal rapporto tra le cose, gli oggetti, i prodotti-merci si passa al rapporto tra uomini, tra classi sociali antagoniste, non è più la concorrenza capitalistica, dunque la guerra fra Stati, ad essere il fulcro dello scontro – il capitalismo come modo di produzione non muore se vince uno o l’altro dei blocchi imperialisti che si fanno la guerra, ma continua a sopravvivere e, con esso, la classe borghese e il suo dominio sociale – ma la guerra di classe con la quale la classe del proletariato ha il compito storico di spezzare, distruggere il potere politico della borghesia, instaurare il suo potere politico, la dittatura proletaria, e iniziare a intervenire dispoticamente nei rapporti sociali ed economici capitalistici e borghesi, proiettando la guerra di classe, quindi la rivoluzione proletaria, su tutto il pianeta.

E’ questo che la classe borghese teme più di tutto, ed è il motivo per il quale le borghesie di ogni paese investono enormi forze e capitali per mantenere “vive” le illusioni democratiche attraverso le quali le organizzazioni opportuniste a tutti i livelli – politico, sindacale, economico, culturale, religioso – hanno il compito di deviare, paralizzare, reprimere il movimento proletario fin dai suoi primi tentativi di porsi decisamente sul terreno della lotta di classe.

Ma la storia delle società divise in classi insegna che lo sviluppo delle forze produttive su cui poggia il movimento delle classi rivoluzionarie, per quanto le classi reazionarie cerchino in tutti i modi di controllarlo e bloccarlo tutte le volte che va oltre i limiti entro i quali il potere dominante cerca di mantenerlo, è storicamente incontrollabile. Nessuna delle classi dominanti dell’epoca schiavistica o feudale è riuscita a frenare il corso di sviluppo delle forze produttive entro i limiti che avrebbero permesso al loro potere politico e sociale di durare in eterno. Nelle diverse parti del mondo quello sviluppo rivoluzionario è maturato in tempi diversi, a distanza di secoli, ma alla fine si è presentato con la forza dirompente che solo la rivoluzione  sociale può avere. Succederà anche alla società capitalistica e alla sua classe dominante, la borghesia. La storia delle società umane è fatta di secoli e di millenni, ma la differenza tra la società capitalistica e tutte le società di classe precedenti è che lo sviluppo delle sue forze produttive – vero motore del progresso sociale – ha conquistato il mondo in due-tre secoli e non in due o tre millenni.

E l’altra grandissima differenza tra la classe rivoluzionaria dell’epoca capitalistica – il proletariato, i lavoratori salariati, i senza-riserve – e le classi rivoluzionarie delle società precedenti è che l’obiettivo storico dell’emancipazione del proletariato non è di organizzare una diversa società divisa in classi (come è stato per le classi dominanti precedenti), ma di distruggere la società divisa in classi, quella capitalistica ovviamente ma anche i residui delle più vecchie società, e aprire la storia dell’uomo alla società senza classi, alla società di specie. Questo eccezionale salto storico si poteva fare in epoche precedenti? No, ci voleva uno sviluppo delle forze produttive tale che permettesse di universalizzare lo stesso modo di produzione e che creasse nei paesi dominanti la classe del proletariato, l’unica classe moderna che non aveva nulla da salvare nella società borghese, ma un mondo da guadagnare  in una società non più divisa in classi. La società capitalistica e borghese ha creato le condizioni storiche per le quali l’emancipazione della classe proletaria, cioè delle forze produttive positive, può avvenire soltanto emancipando l’intera specie umana.

Non si è comunisti rivoluzionari se non si ha questa generale visione della storia e del futuro. Non si è comunisti rivoluzionari se non si assimilano le basi teoriche del marxismo e se non ci si collega alla continuità ideologica e organizzativa che ha caratterizzato la Sinistra comunista d’Italia.

Sappiamo bene, e non da oggi, che ciclicamente si presentano sulla scena intellettuali e gruppi politici che “scoprono” la Sinistra comunista d’Italia, magari attraverso il “personaggio” Bordiga, e che di tale “scoperta” vantano delle loro particolari interpretazioni, elaborandoci sopra tesi o “teorie” vantate come “nuove” e più attinenti a una situazione storica che il marxismo, Bordiga e la Sinistra comunista d’Italia del 1921 non “prevedevano”.

E’ nostro compito anche quello di rifiutare e combattere questo uso commerciale della storia e delle posizioni del marxismo e della Sinistra comunista, come d’altra parte era già stato fatto ai tempi di Marx ed Engels e al tempo di Lenin. La borghesia è specialista nel trasformare in icone inoffensive i grandi rivoluzionari del passato, credendo in questo modo di poter esorcizzare la teoria della rivoluzione proletaria e del comunismo. Ma i fatti storici sono più forti di qualsiasi esorcismo: possono essere nascosti per molto tempo, falsati, “aggiornati” e “piegati” a interessi di parte, ma prima o poi, in un filo del tempo che non sparisce mai nel nulla, si ripresentano sulla scena con tutta la loro forza. La rivoluzione può essersi inabissata per decenni a causa di sconfitte tragiche e di situazioni immature, ma non per questo è stata sepolta per sempre.

Ma la rivoluzione proletaria richiama due fattori essenziali: la classe del proletariato che si mobilita nella lotta di classe antiborghese e anticapitalistica, dunque sul terreno rivoluzionario, e il partito di classe che, per il marxismo, possiede la coscienza di classe, ossia la conoscenza preventiva e chiara degli obiettivi della rivoluzione comunista; una conoscenza che precede il processo rivoluzionario e che non alberga nell’intera massa del proletariato e nemmeno nella cosiddetta sua maggioranza, «ma in una minoranza anche piccola, in un dato tempo in un gruppo anche esiguo, ed anche – scandalizzatevi dunque o attivisti – in uno scritto dimenticato momentaneamente. Ma gruppi, scuole, movimenti, testi, tesi, in un lungo procedere di tempo, formano un continuo che altro non è che il partito, impersonale, organico, unico, proprio di questa preesistente conoscenza dello sviluppo rivoluzionario» (9).

Ecco, siamo tornati al partito impersonale, organico, unico: la nostra concezione del partito è esattamente questa e, ovviamente, tutti coloro che inneggiano ai grandi personaggi del passato per candidarsi a esserlo nel presente o nel futuro prossimo, tutti coloro che nell’organizzazione di partito cercano il conforto di una famiglia per affrontare i disagi sociali in cui si è immersi, o l’organizzazione in cui fare carriera politica o diventare gli intellettuali “di riferimento”, sbagliano completamente indirizzo.

Il proselitismo, per noi, non significa ingrossare le file della nostra organizzazione attraverso espedienti organizzativi o tattico-politici grazie ai quali basta essere genericamente d’accordo con le posizioni generali del partito o dichiarando di essere d’accordo con frasi e testi di Bordiga per essere considerati aderenti e militanti. E non supereremo l’esiguità di compagni che formano il nostro partito cercando i punti di contatto con le altre organizzazioni che si rifanno alle nostre stesse radici storiche e che si dichiarano egualmente “partito comunista internazionale” e che “giurano” sullo stesso programma politico e sulle stesse tesi storiche del partito di ieri. Troppe volte le dichiarazioni verbali o magari anche scritte non hanno trovato coerenza negli atteggiamenti pratici rivelativi come espressione di concezione personalistica e democratica del partito. Troppe volte la tendenza, del tutto opportunista, di affrontare le difficoltà del periodo storico in cui si agisce cercando la via più breve, più facile per assicurare lo sviluppo delle forze di partito e la sua influenza sugli strati proletari più combattivi, ha fatto deviare compagni anche di provata fede politica e di esperienza militante. Troppe volte, la situazione di crisi sociale in cui il proletariato è spinto a mobilitarsi a difesa dei propri interessi immediati è stata interpretata come situazione favorevole allo sviluppo del partito e della sua influenza politica senza valutare tutti gli aspetti oggettivi e soggettivi della situazione e dei rapporti sociali, spingendo il partito a tralasciare il lavoro di collegamento teorico per gettarsi a capofitto nel lavoro pratico e di intervento. Le crisi che il partito ha attraversato nei suoi molteplici decenni di vita e di lavoro devono pur insegnare qualcosa. La risposta non è di certo quella di dedicarsi esclusivamente al lavoro di carattere teorico e storico generale e alla ripresentazione delle tesi e dei testi fondamentali del partito. Come ribadito più e più volte, il partito, sebbene ridotto a forze modestissime, deve approfittare degli spiragli che le contraddizioni sociali aprono per intervenire nelle file proletarie importandovi sia il programma politico rivoluzionario sia gli indirizzi di lotta classista di cui i proletari hanno bisogno per ricollegarsi a una tradizione classista passata, ma distrutta dall’opportunismo politico e sindacale.

L’attività di partito che i compagni più vecchi e più giovani sono chiamati a svolgere è, tendenzialmente, quella delle situazioni meno sfavorevoli, tenendo conto delle forze effettive che costituiscono la nostra organizzazione, ma nella certezza che il metodo centralista e organico che abbiamo adottato rende il partito più forte rendendolo capace di un lavoro molto al di sopra di quello che normalmente ci si aspetterebbe da un numero così esiguo di compagni.

Dalla riorganizzazione dopo la crisi esplosiva del 1982-84, abbiamo continuato la pubblicazione dell’organo di partito in lingua francese le prolétaire, siamo usciti con la testata in lingua italiana il comunista e il suo supplemento il proletario; abbiamo successivamente ripreso la pubblicazione della rivista teorica programme communiste, e poi, in lingua spagnola, el programa comunista accompagnando la produzione di stampa in lingua spagnola con il Supplemento Venezuela; una volta stabilizzato il lavoro di sezione in Spagna, siamo usciti anche con il periodico el proletario. I contatti con simpatizzanti di altre nazionalità ci hanno permesso di uscire sporadicamente con traduzioni di testi e di prese di posizione in russo, in ebraico, in inglese; poi, nello sforzo di mettere a disposizione di probabili contatti in ogni parte del mondo testi e articoli apparsi nella nostra stampa abituale, siamo usciti con il periodico in inglese proletarian riprendendo, successivamente, la pubblicazione della rivista in lingua inglese Communist Pogram.

Nel 2008 abbiamo costruito il sito internet di partito con un ben preciso e definito ruolo, non diverso da quello svolto dalla stampa di partito: aggiungere ai mezzi tradizionali di propaganda del partito (organi di stampa, volantini, riunioni, interventi nelle manifestazioni proletarie e negli organismi proletari della lotta immediata) lo strumento digitale. Il sito www.pcint.org raccoglie e ordina il materiale di partito, sia del partito di ieri che dell’organismo attuale, mettendolo a disposizione di compagni, simpatizzanti e lettori; non prevedeva e non prevede un forum di discussione mirante ad adattare il programma politico e le posizioni del partito a situazioni “nuove” e “impreviste”, ma prevede la divulgazione delle prese di posizione del partito di fronte agli avvenimenti più importanti. Avendo «sempre combattuto l’espedientismo per rimanere a galla», «il partito sulla linea di passate esperienze si astiene, quindi, dal lanciare ed accettare inviti, lettere aperte e parole di agitazione per comitati, fronti ed intese miste con qualsivoglia altro movimento e organizzazione politica», ma, nello stesso tempo, afferma che, in fasi di ripresa della lotta di classe, «non si rinforzerà in modo autonomo se non sorgerà una forma di associazionismo economico sindacale delle masse» caratterizzato dall’indipendenza organizzativa e politica dagli apparati e dalle istituzioni dello Stato (Cfr. Tesi caratteristiche, 1951).

Nell’ultimo periodo, grazie all’apporto di un compagno ceco abbiamo potuto uscire anche con testi e prese di posizione in lingua ceca, lavoro questo che continua anche in termini di intervento in manifestazioni politiche come risulta dalle corrispondenze pubblicate nei nostri giornali. Non ultima è l’iniziativa di uscire, in lingua italiana, con i Quaderni de “il comunista” in cui pubblicare testi voluminosi di carattere generale che non troverebbero posto nel giornale se non spezzandoli in molte puntate, come è stato il caso dei 110 anni dalla prima guerra imperialista mondiale, o testi dedicati alle grandi questioni storiche e teorico-politiche come saranno, ad esempio, quelli sulla Rivoluzione ungherese del 1919, sul Crollo dell’Urss ecc.

 

Da settembre di quest’anno iniziamo a mettere a disposizione di compagni, simpatizzanti e lettori una nuova collana di opuscoli: Tesi e testi della Sinistra comunista nel secondo dopoguerra (1945-1955), forniti di Introduzioni ad hoc e di articoli in Appendice.

 

Finora sono a disposizione i primi 5 titoli:

1. Tesi caratteristiche del partito (1951)

2. Tracciato d’impostazione (1946)

3. Natura, funzione e tattica del partito rivoluzionario della classe operaia (1945)

4. Le prospettive del dopoguerra in relazione alla Piattaforma del Partito (1945)

5. In difesa dei fondamenti della teoria rivoluzionaria marxista (1946-1947)

 

Sono in preparazione altri 5 titoli:

6. La classe dominante italiana e il suo Stato nazionale (1946)

7. Russia: rivoluzione e controrivoluzione (1946-1953)

8. Forza, violenza e dittatura nella lotta di classe (1946)

9. L’«invarianza» storica del marxismo (1952)

10. Movimento operaio e questione agraria (1947-1953)

La collana seguirà dedicandosi alle varie questioni riguardanti il fascismo, la democrazia, la guerra imperialista, l’opportunismo, la dittatura proletaria, la questione sindacale, la questione del parlamentarismo, le rivoluzioni multiple e i moti anticoloniali, la questione organizzativa del partito, il comunismo ecc. ecc.

 


 

(1) Le Tesi sul compito storico, l'azione e la struttura del partito comunista mondiale, secondo le posizioni che da oltre mezzo secolo formano il patrimonio storico della Sinistra comunista, chiamate Tesi di Napoli perché presentate alla RG di partito a Napoli il 17-18/7/1965, pubblicate nel "il programma comunista", n. 14 del 28/7/1965; anche nel volumetto In difesa della continuità del programma comunista, n. 2 dei "testi del partito comunista internazionale", Firenze 1970, p. 177.

(2) Il principio democratico, di A. Bordiga, fu pubblicato nella rivista teorica del Partito Comunista d'Italia, "Rassegna Comunista", anno II, n. 18 del 28.2.1922. E' stato inserito, insieme ad altri scritti della Sinistra comunista sia degli anni 1920-22, sia degli anni del secondo dopoguerra, dedicati alla questione del partito di classe, nel volumetto intitolato Partito e classe, come n. 4 dei "tesi del partito comunista internazionale", Napoli 1972; la citazione è a p. 63.

(3) Cfr. Il principio democratico, cit., p. 61.

(4) Cfr. le Tesi caratteristiche del partito, dicembre 1951, punto 11, nel volumetto "In difesa della continuità del programma comunista", cit. p. 164.

(5) Cfr. Struttura economica e sociale della Ruyssia d'oggi, 1955, pp. 54-55 del volume edito dal partito nel febbraio 1976.  

(6) Cfr. Tesi di Napoli, cit., punto 8.

(7) Le citazioni sono riprese ancora dalle Tesi di Napoli, cit., ai punti 11 e 12.

(8) Cfr. Considerazioni sull'organica attività del partito quando la situazione generale è storicamente sfavorevole, in "il programma comunista" n. 2 del 1965, poi nel volumetto "In difesa della continuità del programma comunista", cit. pp. 167-168.

(9) Cfr. "Sul filo del tempo" Danza di fantocci, dalla coscienza alla cultura, "il programma comunista, n. 12, 25/6-8/7 del 1953. Vedi anche www.pcint.org, sezione "Textes et thèses", Sul filo del tempo (1949-1955).

 

 

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