L'Italia sgonfiona prepara ulteriori misure da lacrime e sangue (I)

(«il comunista»; N° 183 ; Agosto-Settembre 2024)

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Mentre la presidente del Consiglio Meloni vanta un’economia nazionale tra le migliori in Europa e un’attenzione specifica per il lavoro e le famiglie, i dati ufficiali degli stessi istituti ufficiali raccontano una realtà del tutto opposta.

I redditi in Italia, secondo i dati Eurostat, nel 2023 sono stati il 6,2% più bassi che nel 2008! Nel 2023 e nel 2024 i dati ufficiali sull’occupazione, grazie alla ripresa post-Covid, migliorano nel senso che diminuiscono i disoccupati di lunga durata, il cosiddetto “lavoro povero”, la disoccupazione giovanile, ma, in generale, i salari non aumentano per coprire gli alti costi dei generi di prima necessità, mentre a un aumento degli occupati a tempo indeterminato corrisponde un aumento dei part-time, dei lavori stagionali, dell’esclusione dal mondo del lavoro della manodopera femminile; e aumenta lo sfruttamento della forza lavoro fornita dall’immigrazione grazie soprattutto alla sua parte clandestina e a quel fenomeno che chiamano caporalato – certamente non nuovo –, contro cui lo Stato superdemocratico ha dimostrato di essere del tutto inefficace e insensibile.

Un altro aspetto che non va dimenticato è quello che riguarda il cosiddetto lavoro autonomo, le famose «partite iva». Ormai è assodato che una parte consistente dell’aumento ufficiale degli «occupati» è costituita dai lavoratori autonomi, ossia quella massa di lavoratori che vengono costretti ad accettare un salario contro la posizione non da dipendenti ma da «liberi professionisti», appunto da lavoratori «autonomi». Questo significa che questa massa di lavoratori – presenti soprattutto nel terziario, trasporti, turismo, facchinaggio, consegne a domicilio ecc. – oltre a guadagnare cifre insufficienti a garantire una stabilità economica nel tempo, non godono di alcuna previdenza e protezione sociale se non pagata interamente di tasca propria.

Cominciamo col dare uno sguardo alla situazione della sanità pubblica: troviamo dei vuoti enormi, e non da oggi, che tendono ad aumentare, in campo medico, in campo infermieristico e riguardo a posti letto e ospedali.

Il fenomeno della diminuzione di posti letto disponibili negli ospedali riguarda tutta l’Europa, dunque l’Italia non è un’eccezione, ma  in Italia è molto più marcato della media della Ue. Secondo i dati Eurostat, marzo 2022, l’Italia, da 364,3 letti disponibili ogni 100mila abitanti nel 2010 è passata a 316,3 nel 2019: -13,2%. Se paragonata alla media Ue di 574,1 posti letto del 2010, calati a 531,9 nel 2019 (-7,4%), l’Italia ha quasi raddoppiato la percentuale negativa. E l’andamento tra il 2020 e il 2022 è ancora peggiorato: secondo il Forum delle 75 Società scientifiche dei clinici ospedalieri e universitari italiani (Fossc), riporta l’Ansa del 18/4/2024, in soli due anni sono stati tagliati altri 32.500 posti letto.

Non solo i tagli alla sanità pubblica, partendo dai posti letti, sono condivisi da tutti i governi borghesi d’Europa, ma sono condivisi anche da qualsiasi coalizione politica che sia salita al governo. Nel caso dell’Italia, dall’aprile 2008 in avanti si sono dati il cambio Berlusconi (centrodestra) e Monti (governo cosiddetto tecnico), poi è arrivato Letta (2013-2014), seguito da Renzi (2014-2016) e da Gentiloni (2016-2018) (tutti di centrosinistra), poi sono arrivati i governi Conte I e Conte II con coalizioni miste (sia di destra che di sinistra) (2016-2021), seguiti da Draghi (altro governo cosiddetto tecnico) tra il febbraio 2021 e l’ottobre 2022, quando al governo è salita la presidente Meloni (destra estrema coalizzata con Lega e Forza Italia). La Meloni, in polemica con le opposizioni parlamentari, sostiene che sulla sanità ha aumentato l’investimento. Lo stesso Fossc, citato sopra, afferma che il finanziamento del Fondo sanitario nazionale è aumentato in termini assoluti rispetto al 2021 (ma dai 131,7 miliardi del 2022, si è passati ai 131,1 miliardi del 2023, mentre per il 2024 – ma il dato è solo stimato –, la spesa sanitaria dovrebbe attestarsi sui 138,7 miliardi); quel che più conta, però, è il dato rispetto al PIL, dove si rileva che la spesa sanitaria in realtà diminuisce, senza contare che queste risorse sono state in larga parte utilizzate per aumenti contrattuali irrisori del personale. Secondo l’Ocse, nel 2023 la spesa italiana per il servizio sanitario è stata pari al 6,8% del PIL, ma nel 2024 scenderà al 6,3% (e continuerà a scendere fino al previsto 6,2% nel 2027), contro la media dell’Ocse e dell’Ue del 7,1%, mentre Francia e Germania si attestano intorno al 10%.

Di fatto, come denunciato da molti, non ultimo il premio Nobel Giorgio Parisi (euroactiv.it, 8/4/2024), l’Italia si evolve «nella stessa direzione degli Stati Uniti» dove «non esiste un Servizio Sanitario Nazionale naturale, e tutto è lasciato al settore privato». Se poi si va a verificare la situazione della sanità italiana nelle diverse regioni, appaiono evidenti le enormi differenze tra regione e regione sia rispetto ai posti letto ospedalieri, sia rispetto alle prestazioni sanitarie, alla certezza della cura; la tutela sanitaria, prevista da quell’osannato testo della Costituzione italiana, è deficitaria da tutti i punti di vista anche nelle regioni considerate più organizzate.

Le prestazioni peggiori, manco a dirlo, si riscontrano in Sicilia, Molise, Basilicata e Calabria; appena un po’ meno peggio, sono Sardegna, Campania, Lazio, Umbria, Abruzzo e Puglia.

Dunque il Centro-Sud italiano vive costantemente una situazione peggiore rispetto al Nord italiano, dove ovviamente non mancano le diseguaglianze: secondo i dati del Crea (Centro Ricerca Economica Applicata in Sanità) – vedi: pagellapolitica.it/articoli/diseguaglianze-sanita-italia-grafici, 15/7/2024 – le regioni “migliori” sarebbero Veneto, Piemonte, Toscana e provincia autonoma di Bolzano, che raggiungono il 60% soltanto dell’indice (in una scala che vada 0 a 100) che riassume venti indicatori sui sistemi sanitari esistenti (situazione economico-finanziaria, equità, esiti, innovazione, dimensione sociale ecc.), contro il 35% della Calabria; il 90%, o anche solo l’80%, in Italia sono da sempre irraggiungibili. Ai posti letto ospedalieri mancanti che costringono i pronto-soccorso a sovraffollamenti caotici e a visite del tutto inadeguate, va considerato che la popolazione italiana invecchia ed è perciò esposta a malattie croniche che richiedono cure più assidue e continuative che non possono essere assicurate: è noto il fenomeno dei tempi lunghissimi per le visite specialistiche e gli esami e le distanze sempre più lunghe per raggiungere gli ospedali, il che comporta la rinuncia alle cure da parte di molte persone che non si possono permettere prestazioni a  pagamento.

L’Istituto nazionale di statistica, per il 2021, riporta che il 5,4% della popolazione italiana (circa 3.200.000 persone) ha dovuto rinunciare a visite specialistiche per ragioni economiche.

E poi c’è il capitolo medici, infermieri e personale paramedico.

Da anni – e la pandemia di Covid-19 l’ha evidenziato in modo drammatico – il servizio sanitario italiano è carente di tutte queste figure, che, oltretutto, sono pagate meno che nel servizio sanitario privato e hanno abnormi carichi di lavoro come in pochi altri settori. Secondo gli ultimi dati, mancherebbero 4000 medici di pronto soccorso, 5000 medici di base e tra i 60mila e i 70mila infermieri (Il Sole24 Ore, 22/12/2023).

 

(continua nel prossimo numero)

 

 

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