Dove va l’Ucraina ?

(«il comunista»; N° 188 ; Agosto-Ottobre 2025)

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Dove va l’Ucraina? Possiamo sintetizzare la risposta così: l’Ucraina va dove la spingono i contrasti interimperialistici, non solo tra gli Stati Uniti e la Russia, ma anche tra la Russia e l’alleanza Regno Unito-Unione Europea, tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea e, in sottofondo, la Cina. Che la situazione si sia notevolmente complicata e la «fine della guerra russo-ucraina» non sia così vicina come vorrebbe Trump, è cosa evidente.

 

Senza riprendere qui i molteplici aspetti della «questione ucraina» trattati in tutta la serie di articoli a essa dedicata fin dal marzo 2022 (1), va ricordato che tra i motivi principali della guerra russo-ucraina predominano quelli di carattere imperialistico che contrappongono le potenze occidentali (Stati Uniti d’America, Unione Europea, Regno Unito, Nato) e la Russia (che trova appoggio politico ed economico tra i suoi alleati orientali, Cina e Corea del Nord). L’imperialismo russo ha perso, con il crollo dell’URSS, l’influenza diretta su tutti i paesi dell’Europa dell’Est, ma non poteva permettere di esporre direttamente tutti i propri confini alle forze militari della Nato che già si erano impossessate di quasi tutti i paesi dell’Europa orientale, tranne la Bielorussia e l’Ucraina che, con la Finlandia, confinano direttamente con la Russia (2).

La Bielorussia si era già saldata all’imperialismo di Mosca da cui molto difficilmente si staccherebbe visto che per oltre il 90% dei suoi abitanti sono di etnia e di lingua russe. L’Ucraina, da parte sua, resasi indipendente dall’URSS nell’agosto 1991, da quell’anno attraversa una serie di tormentati tentativi di accaparrarsi il suo territorio dovuti all’attrazione dei due campi d’interesse avversari, quello russo e quello europeo occidentale. Molto succintamente, dal 1991, questi sono i suoi diversi governi: dagli ex dirigenti del PCUS Kravchuk a Kuchma al filorusso Yanukovich, sostituito nel 2004 dal filo-occidentale Yuschenko, ma poi tornato al potere nel 2006, potere poi perso un anno dopo a favore della filo-occidentale Tymoshenko, caduta per malversazione di fondi pubblici. Nel 2010 è tornato al governo Yanukovich che ha interrotto l’avvicinamento dell’Ucraina all’Unione Europea. Contro tale decisione si erano scatenati, col sostegno degli occidentali, grandi movimenti di protesta– denominati Euromaidan – e violenze anche per mano dei nazisti, mai scomparsi dall’Ucraina. Il 22 febbraio 2014 Yanukovich fugge in Russia e sale al governo il filo-occidentale Poroshenko che nel giugno firma a Bruxelles l’Accordo di associazione tra Ucraina e Ue. Nel frattempo in Crimea (abitata in maggioranza da russofoni) cresce la tensione fra la minoranza ucraina sostenuta da Kiev e la maggioranza russofona: gli scontri prendono sempre più spesso il carattere militare anche per la presenza di militari russi senza divisa (i famosi omini verdi), fino a quando il leader filorusso locale, Aksënov, l’11 marzo 2014 dichiara la Crimea indipendente da Kiev, e il 16 marzo, in seguito al referendum per l’«autodeterminazione», la Crimea viene annessa alla Russia. Anche nelle oblast’ Donec’k e Luhans’k, che insieme rappresentano la maggior parte del territorio denominato Donbass (3), esiste una forte presenza di russofoni e i contrasti con Kiev sono sempre presenti, anzi, si sono aggravati scatenando la repressione di Kiev: pretesto più che sufficiente per quella che Mosca ha chiamato l’«operazione militare speciale», a difesa della popolazione russofona, operazione che si è rivelata ben presto come l’inizio di una guerra di occupazione e di annessione. Non poteva essere diversamente, dato che nessuna potenza borghese, tanto più se imperialista, si scosta dalla sua principale caratteristica: la ricerca di conquistare territori economici da sottomettere al proprio dominio, attuando l’oppressione di minoranze e di popolazioni più deboli, fatta passare spesso per sostegno alla loro «autodeterminazione» e alla loro «indipendenza». Questi due principi sono stati storicamente fondamentali per la democrazia borghese, principi che però la borghesia, giunta al potere, non ha quasi mai attuato pienamente e non perché non ne fosse capace, ma perché non rientravano nei suoi interessi specifici di classe nazionale.

L’autodeterminazione dei popoli oppressi è una cosa seria e storicamente positiva perché esprime la tendenza a battersi contro l’oppressione esercitata da un popolo e da uno Stato più forti; ma non è mai esistita, non esiste e non esisterà mai al mondo una potenza capitalistica e imperialistica che non tenda ad opprimere paesi e popoli che storicamente si sono dimostrati e si dimostrano più deboli. Soltanto il potere rivoluzionario del proletariato, come dimostrato dalla dittatura proletaria instaurata in Russia nel 1917, nel paese che più di altri al mondo opprimeva decine e decine di popoli, ha dimostrato con i fatti di sostenere l’autodeterminazione dei popoli, e il caso dell’Ucraina è, a questo proposito, emblematico (4). Perciò, tutte le volte che dai seggi del potere borghese viene propagandata la chiamata alle armi per la «liberazione» di un popolo da un potere oppressivo, vuol dire che quel potere borghese intende liberarsi del potere borghese concorrente per prendere il suo posto e godere dei vantaggi procurati dai propri metodi di oppressione. E’ quel che è successo anche in Ucraina, al tempo degli zar, mentre, in tempi recenti, gli imperialisti euro-americani sono venuti in conflitto con l’imperialismo russo; un conflitto che si sta svolgendo in una situazione internazionale non ancora «matura» per trasformarsi in guerra mondiale, ma sufficiente per mettere alla prova i rispettivi dispositivi di offesa e di difesa utilizzando come cavia predestinata, in questo caso, l’Ucraina – e quindi il popolo e il proletariato ucraino.

Insieme alla questione dell’etnia russa di una parte importante del Donbass, e della lingua russa – Kiev aveva vietato il suo uso ufficiale (come avevano fatto gli zar) – c’è sempre stata la vera questione fondamentale: il Donbass rappresenta sia il territorio più industrializzato e ricco di minerali e di terre rare dell’Ucraina, sia il territorio nel quale Kiev ha costruito in dieci anni di guerra (2014-2024) una cintura fortificata – la cui costruzione è iniziata nel 2014 quando Kiev ha riconquistato il territorio interessato dai rivoltosi filorussi sostenuti da Mosca – che rappresenta una linea di difesa strategica: «lunga 50 km che comprende quattro città (Slovyansk, Kramatorsk, Druzhkivka e Kostiantynivka e diversi centri abitati più piccoli), una barriera da Nord a Sud che ostacola l’obiettivo della Russia di conquistare l’intero Donbass, e anche la sua capacità di minacciare altre regioni» (5). Si capisce, quindi, perché, per proteggere questa linea di difesa, l’Ucraina di Zelensky è disposta a qualunque sacrificio di uomini e di mezzi, soprattutto dopo il fallimento della «controffensiva» del 2023, rinforzandola con bunker e trincee collegati per diversi chilometri dalla linea del fronte alle retrovie. Questa linea di difesa ucraina, in realtà, nonostante i piccoli avanzamenti delle truppe russe, tiene ancora molto bene, tanto che, dalla fallita conquista russa di Slovyansk nella primavera del 2022 – Slovyansk è il nodo cruciale nella direzione sud verso Mariupol e il ricongiungimento delle truppe russe che controllano la zona –, le truppe russe non sono mai riuscite ad accerchiarla e farla cadere, il che vuol dire che la linea fortificata dell’Ucraina potrebbe resistere ancora per anni, come sostenuto recentemente dall’Institute for the Study of War (Isw) (6).

Ma alla Russia non conviene protrarre la guerra per anni, anche in considerazione del possibile nuovo rapporto con gli Stati Uniti di Trump che ora spinge per la pace.

Nello scorso numero 186 (marzo-aprile 2025), nell’articolo La pace imperialista è l’altra faccia della guerra imperialista. Che cosa insegna la guerra russo-ucraina, sintetizzando gli obiettivi dell’Amministrazione Trump rispetto alla guerra in Ucraina, e ai rapporti con i paesi europei, scrivevamo:

«Lanciando la nuova politica di disimpegno dalla guerra in Ucraina, Trump persegue degli obiettivi molto più vitali per gli interessi americani nel mondo: 1) rimettere in riga i paesi europei per quanto concerne gli investimenti Nato, costringendoli a impegnarsi direttamente al proprio riarmo; 2) riprendere i contatti con la Russia in modo da diminuire la pericolosa tensione anti-russa prodotta dalla presidenza Biden e scoraggiare i paesi europei dall’escalation guerraiola grazie alla quale hanno ottenuto ciò che all’America non sta bene, e cioè un’alleanza più stretta tra Russia e Cina; 3) rimettere sul tavolo dei rapporti con i paesi dell’Unione Europea il problema dell’intercambio commerciale all’insegna dell’America First per rovesciare il rapporto troppo sfavorevole per gli USA; 4) insistere nella priorità politica e strategica del quadrante Indo-Pacifico nel quale si giocherà una partita decisiva sia in termini di supremazia imperialistica mondiale tra Stati Uniti e Cina (perciò Washington è interessata a sganciare la Russia dalla Cina), sia in termini di rafforzamento politico-economico-militare del blocco USA-Giappone-Filippine nel quale attirare l’Australia; 5) quanto all’Ucraina, vista la sua dipendenza totale da ciò che gli USA potranno ottenere dalla Russia in termini di cessate il fuoco e fine della guerra, Washington intende rientrare il più rapidamente possibile degli investimenti finanziari e militari concessi finora a Kiev ottenendo un notevole “rimborso” in termini di risorse minerarie (non solo le terre rare) e di infrastrutture; 6) inoltre, essendo l’iniziativa per un accordo di pace con la Russia esclusivamente americana, l’Amministrazione Trump intende approfittare dei contrasti infra-europei – che, a livello più o meno alto, in verità, esistono da sempre – e delle difficoltà economiche reali che molti paesi europei hanno in fatto di riarmo, per declassare l’Europa a terzo o a quarto attore, a seconda delle questioni pratiche da affrontare, come ad esempio gli investimenti per la ricostruzione postbellica in Ucraina, l’eventuale forza militare di interposizione in Ucraina o nei paesi limitrofi che Londra e Parigi hanno proposto, ecc.». 

Quanto ai punti che dovrebbero far parte della «trattativa» per giungere a un «fine guerra», al di là e al di sopra di quelli contenuti nelle molteplici «proposte di pace» che in questi ultimi tre anni sono state scritte dalle varie cancellerie, quel che pesa veramente nella «trattativa» non è solo quel che vogliono ora gli Stati Uniti dalla Russia, ma quel che intende ottenere la Russia, dopo l’invasione dell’Ucraina, da una guerra che l’Ucraina non sta certo vincendo, visto che finora ha perso la Crimea e buona parte del Donbass oltre ad alcuni territori nell’oblast di Sumy. Certo, non va dimenticato che c’è una differenza tra il territorio ucraino occupato dai russi nel primo anno di invasione e quello che attualmente occupano senza che vi sia la possibilità da parte ucraina di riconquistarlo.

La differenza sta nell’estensione del territorio ucraino sotto controllo russo: dopo il primo anno di guerra la percentuale occupata dai russi era intorno al 40% dell’Ucraina, oggi, a tre anni e mezzo di distanza, la percentuale è scesa a circa il 20%. L’esercito ucraino, grazie al vitale appoggio finanziario e militare dell’Unione Europea, del Regno Unito e degli Stati Uniti, non solo ha resistito all’urto delle forze militari russe, ai bombardamenti e alla distruzione di molte infrastrutture, città, industrie e alla perdita di centinaia di migliaia, se non di un milione e passa di soldati e civili, ma è riuscito a respingere le truppe russe da una parte del territorio in precedenza da loro conquistato e rendere loro molto difficile la conquista dell’intero Donbass. Questo fatto, che in parte corrisponde alla super sbandierata controffensiva di Kiev, non ha cambiato sostanzialmente il corso della guerra e le possibilità per l’Ucraina di realizzare quel che periodicamente va proclamando: riconquistare i territori perduti per obbligare la Russia ad una... «pace giusta e duratura», ossia a un ritiro totale dall’Ucraina...

Questo risultato sarebbe stato molto, ma molto difficile da ottenere anche se nella guerra, a fianco dell’Ucraina, fosse sceso un contingente militare europeo, come il presidente francese Macron ha più volte ventilato che si dovesse fare. Praticamente avrebbe voluto dire che alcuni paesi della Nato – ma non gli Stati Uniti, l’Italia, l’Ungheria e molti altri – sarebbero scesi in guerra contro la Russia per «difendere» un paese che non fa parte della Nato e che, stando agli Stati Uniti non solo di Trump, ma anche dell’ex presidente Biden, non ne farà parte di certo per molti anni, oltretutto senza essere stati attaccati. Per quel che valgono i patti militari tra i vari paesi, essi comunque rappresentano quel minimo di accordi di base che permettono agli alleati di mantenere tra di loro un determinato equilibrio senza il quale si scatenerebbe la guerra di tutti contro tutti. Il fatto poi che la Russia sia una potenza militare nucleare di prima grandezza fa della Russia un potenziale avversario pericolosissimo che, se fosse messo davvero alle strette e non vedesse vie d’uscita, potrebbe ricorrere all’uso di una quantità di bombe atomiche venti volte superiore rispetto a quelle che potrebbero usare la Francia o il Regno Unito che sono le uniche potenze imperialistiche europee a possederne. Come disse a suo tempo Biden: dollari e armi a Kiev, sì; soldati, no! Come ha detto ultimamente Trump: fin troppi dollari e fin troppe armi statunitensi sono stati dati finora a Kiev, ora è venuto il momento di riscuotere il debito di Kiev nei confronti di Washington; soldati americani in Ucraina? non se ne parla proprio; altre armi a Kiev? che se ne occupi l’Europa a cui Washington è pronta a venderle. Così, gli Stati Uniti di Trump si erano già messi sulla strada della trattativa con Mosca, senza attendere l’incontro con Putin; incontro che attendeva di concretizzarsi non appena la situazione sul campo ucraino di guerra avesse fatto emergere la possibilità, se non altro, di cominciare a parlarne. Non è un caso che Trump, prima di incontrare Putin, abbia incontrato Zelensky – dapprima per scuoterlo dalla sua sicumera, poi per costringerlo a iniziare a pagare il debito che l’Ucraina ha contratto, di fatto, con gli USA, consegnando parte del territorio in cui vi sono anche le famose terre rare così vitali per le nuove tecnologie e concordando un probabile trattamento privilegiato per le aziende americane nella futura ricostruzione del paese.  

L’altra differenza, che riguarda la tenuta della forza dei due eserciti nel tempo, è data dal fatto che, sebbene i disertori siano molti sia da parte ucraina che da parte russa, la tenuta sociale in campo russo appare più forte di quella in campo ucraino. Non essendovi stata alcuna reazione di classe dei rispettivi proletariati contro una guerra voluta e condotta esclusivamente da interessi imperialistici sia da parte russa che da parte ucraino-occidentale (ossia, da parte dell’Ucraina come forza d’urto dell’imperialismo euro-americano), lo svolgimento di questa guerra, il suo prolungamento nel tempo e le condizioni della sua fine dipendono da due fattori principali: dalla continuità e dalla consistenza economico-finanziaria-militare dell’appoggio all’Ucraina di Zelensky, o chi per lui, da parte degli imperialisti europei e americani, e dalla continuità e dalla consistenza economico-finanziaria-militare della Russia e dall’appoggio che Mosca avrà o non avrà dai suoi alleati, non tanto e non solo dalla Corea del Nord, ma soprattutto dalla Cina e da alcuni membri dei Brics.

La «pace giusta e duratura» di cui vanno blaterando i leader europei, in realtà, vista l’insistenza europea nei confronti di Zelensky di far continuare la guerra... fino a «piegare la Russia» a restituire il maltolto, non è che la politica del dissanguamento di un intero paese – l’Ucraina – vendutosi all’imperialismo euro-occidentale piuttosto che all’imperialismo russo. Il tentativo di «pace» che emerse nell’aprile 2022 negli incontri di Istanbul tra Ucraina e Russia per porre fine alla guerra che era appena cominciata, fu contrastato e seppellito immediatamente dal Regno Unito di Boris Johnson che, aveva promesso un forte appoggio da parte dell’Europa e degli Stati Uniti, sia in armamenti che in finanziamenti, grazie al quale l’Ucraina avrebbe respinto rapidamente gli invasori russi; le successive sanzioni economiche e finanziarie contro la Russia, che colpirono soprattutto le esportazioni russe di petrolio e gas e i depositi russi nelle banche europee, e che dovevano piegare economicamente la Russia si rivelarono un boomerang: furono danneggiate le economie dei paesi europei più dell’economia russa. In sostanza, la guerra che la Russia pensava di limitare allo scontro con la sola Ucraina, ha rivelato il suo carattere asimmetrico, coinvolgendo le potenze imperialiste occidentali non con le proprie truppe a fianco di quelle ucraine, ma con i propri armamenti, le proprie strategie e tecnologie militari e i propri finanziamenti.

A tre anni e mezzo di distanza dall’inizio dell’invasione russa, a che punto è la situazione?  

Biden non c’è più, è stato sostituito da Trump, ma aveva già iniziato a diminuire i finanziamenti americani all’Ucraina, mentre gli europei continuavano a spingere per il proseguimento della guerra, tanto più con l’arrivo alla Casa Bianca di Trump che si prese immediatamente la scena promettendo di far terminare la guerra in 24 ore grazie ai suoi personali rapporti con Putin. Che fosse una delle tante sparate di Trump era evidente, ma avevano un fondo di verità: la guerra in Ucraina può terminare a condizione che gli Stati Uniti e la Russia trovino un accordo fra di loro, da far digerire a Regno Unito e Unione Europea e trattando Zelensky come un «presidente in scadenza» da abbandonare subito dopo aver firmato la «pace».

 

IL VERTICE DI ANCHORAGE, IN ALASKA

 

L’incontro dello scorso ferragosto fra Trump e Putin alla base militare di Anchorage, in Alaska, è stato salutato dai grandi media del mondo come un’attesa svolta della situazione dalla quale l’Ucraina, perdendo sempre più soldati e non riuscendo a riconquistare i territori occupati dai russi, rischia di soccombere nella guerra contro la Russia, mentre la Russia – certamente più forte militarmente ed economicamente, ma interessata, dopo 41 mesi di sforzo bellico, a incassare un risultato positivo – stava considerando i vantaggi che avrebbe potuto avere dalla fine della guerra in Ucraina se le sue principali condizioni (sia rispetto all’Ucraina, sia rispetto agli USA e alla Nato) per porvi fine fossero state accolte.

La Russia, dopo il crollo dell’URSS tra il 1989 e il 1991, si era fortemente indebolita come potenza economica e il suo imperialismo doveva sudare parecchio per riconquistare un posto che la ponesse a un livello, se non simile a quello dell’URSS nel trentennio dopo la fine della seconda guerra mondiale, almeno tra le prime dieci potenze imperialiste del mondo. Poteva contare, come sempre, sull’eccezionale estensione euroasiatica del suo territorio e sull’abbondanza di materie prime di cui questo territorio è ricco; per quanto il capitalismo si sia sviluppato notevolmente in Russia sotto Stalin e i suoi successori, il grande paese non è mai riuscito a portare la propria potenza economica e finanziaria al livello di quella degli Stati Uniti, dipendendo, in particolare, dalla fortissima industrializzazione dei paesi europei occidentali, i quali sono assetati soprattutto di petrolio, prodotti petroliferi e gas naturale (che rappresentano quasi la metà del bilancio federale russo), oltre a consistenti forniture di cereali sia dalla Russia che dalla Bielorussia (ma anche dall’Ucraina) a prezzi competitivi, tanto da aver sollevato più volte vibranti proteste da parte dei governi di Polonia, Lettonia e Repubblica Ceca, ma anche da parte degli agricoltori italiani (la pasta italiana fatta con grano russo significherebbe dire addio al «made in Italy»). Di fronte ai blocchi delle importazioni di prodotti dalla Russia e alla sfilza di sanzioni antirusse varate dall’Unione Europea e dagli USA, la Russia ha avuto certamente un danno perché per continuare a esportare petrolio, gas, fertilizzanti, cereali ecc. ha dovuto abbattere i prezzi – Cina e India, in particolare, ringraziano... – o mimetizzare le sue esportazioni verso l’Europa sotto le bandiere del Kazakistan, della Turchia e di altri paesi che hanno libero accesso ai porti europei. Nonostante questi danni, la Russia se l’è passata meglio degli Stati europei che hanno subito gli effetti delle sanzioni come un boomerang contro la loro stessa produzione industriale perché i costi dell’energia sono più che triplicati (basti pensare al GNL praticamente imposto all’Europa dagli Stati Uniti, prima ancora di varare il rialzo dei dazi con cui l’Europa ha subito un’ulteriore batosta).

L’incontro di Anchorage sembrava un passo avanti verso il negoziato per la fine della guerra in Ucraina, ma poco tempo dopo si è rivelato un passo inutile, se non addirittura un passo indietro; passo indietro che significherebbe un prolungamento della guerra russo-ucraina di mesi se non di anni.

Trump e Putin non hanno rivelato che cosa si sono detti e che cosa abbiano eventualmente concordato nelle tre ore di colloqui ad Anchorage, e anche a distanza di tempo non se ne sa nulla. E’ plausibile pensare – visto che in ballo ci sono molte questioni inerenti i rapporti futuri tra le maggiori potenze imperialistiche mondiali – che si siano scambiati idee su che cosa, sia gli Stati Uniti che la Russia, non sono disposti in generale a «mettere in discussione» e su che cosa eventualmente iniziare a discutere per il «fine guerra in Ucraina». L’importanza della guerra russo-ucraina è data soprattutto dal fatto che Regno Unito e Unione Europea (d’accordo con l’Amministrazione americana targata Biden) si sono impegnati a fondo perché l’Ucraina, guidata da Zelensky, svolgesse il ruolo dell’ariete nei confronti del colosso economico e militare russo, ricavandone le più diverse conseguenze su tutti i piani che una guerra, localizzata territorialmente ma di interesse imperialistico mondiale dal punto di vista economico-finanziario e politico, poteva determinare. Alle strategie militari si sommavano, come in ogni guerra imperialistica, strategie economiche, finanziarie, commerciali, industriali, politiche e diplomatiche per le quali ogni potenza, grande e piccola, era interessata a trarre più indicazioni possibili rispetto agli schieramenti e alle alleanze che dovranno formarsi in vista di una terza guerra mondiale. Saggiare la propria capacità industriale, economica e sociale rispetto allo sforzo di guerra è uno dei problemi che nessuna potenza imperialistica può delegare ad altri: ogni Stato imperialista, di fronte a un periodo di crisi prolungata di sovraproduzione come l’attuale, tende a compattare le classi sociali nazionali intorno alla difesa dei propri interessi imperialistici. Lo scoppio di una guerra locale – come è stata quella della Nato nel 1999 contro la Serbia, e come, soprattutto, quella attuale in Ucraina – portata avanti con i mezzi tecnologici più avanzati e con la possibilità concreta di provare sul campo di battaglia quali sono le iniziative più adatte per conquistare o per difendere terreno, città per città, villaggio per villaggio, fabbrica per fabbrica, ponte per ponte ecc. e quali tipologie di armi utilizzare in contemporanea per rafforzare i piani d’attacco e quelli di difesa, non ha rappresentato soltanto un mezzo per tamponare le conseguenze più gravi della crisi economica di sovraproduzione di cui soffre stabilmente l’economia capitalistica, ma anche il mezzo per radicare nella carne e nei cervelli dei proletari il concetto che la loro vita immediata e futura dipende dall’abbracciare sempre più strettamente la difesa della «patria» per la quale c’è sempre un aggressore ai suoi confini pronto ad attaccare…

 

LA GUERRA IN EUROPA

 

Abbiamo citato la guerra in Jugoslavia e la guerra in Ucraina perché, a cinquant’anni dalla fine della seconda guerra imperialista mondiale, la guerra è scoppiata in Europa e non fuori dai suoi confini storici; il fatto che sia scoppiata nell’Europa dell’Est conferma che sono proprio i confini europei orientali ad essere i più delicati, i più deboli. Questi confini sono stati protagonisti sia nella prima che nella seconda guerra mondiale: per i contrastanti interessi imperialistici tra gli Imperi centrali e gli imperialismi inglese e francese nella prima guerra mondiale, e quelli tra le potenze imperialiste europee come la Germania e l’Italia votate a conquistare i territori economici più deboli a oriente, contro le solite Inghilterra e Francia, alle quali si unì la Russia di Stalin dopo aver tentato di mettersi d’accordo con la Germania di Hitler, il quadro internazionale nel giro di un ventennio ha presentato nuovamente l’Europa come il focus dell’incendio mondiale. La probabilità che torni ad essere l’Europa il punto centrale in cui lo sviluppo dei sempre più acuti contrasti inter-imperialistici darà fuoco alle micce della terza guerra mondiale sembra riprendere forza e non solo per il contrasto con l’imperialismo russo, ma anche per i contrasti che stanno maturando all’interno dei rapporti tra le potenze occidentali. In effetti, aldilà della facciata con la quale l’Unione Europea vuole presentarsi come compattamente unita nel sostegno dell’Ucraina (che fa la parte dell’aggredita) contro la Russia (che viene presentata come l’aggressore), a causa del prolungarsi delle crisi economiche del capitalismo e della contro-aggressione commerciale attuata dall’America di Trump soprattutto contro i paesi europei, oltre alla Cina, l’Unione Europea mostra tutta la sua disunione, la sua debolezza politica come ente unitario. D’altra parte, fin dalla sua nascita essa mostrava una forza economica e finanziaria soprattutto attraverso la forza della Germania alla quale si unirono Francia e Regno Unito che diventarono il nucleo forte della UE. Questa unione non aveva la pretesa di diventare una specie di Stati Uniti d’Europa, anche perché la storia stessa dei paesi che la formano non è andata nella direzione di una grande unione statale: questo poteva essere soltanto il risultato di una guerra generale condotta e vinta da uno Stato contro tutti gli altri che sarebbero stati sottomessi con la forza. Un tentativo di questo genere, in piena fase imperialistica del capitalismo, lo fece la Germania di Hitler nella seconda guerra mondiale, ma non ebbe fortuna; e, in ogni caso, se si fosse realizzato questo progetto si sarebbe trattato comunque di uno Stato «ultraimperialista» (come dirà Lenin nel suo Imperialismo, ultimo stadio del capitalismo), reazionario all’ennesima potenza e gravido di contraddizioni che lo avrebbero scosso dalle fondamenta a causa non solo dei contrastanti interessi delle diverse “nazioni” sottomesse, ma anche della lotta della classe proletaria che si sarebbe rigenerata come reazione a un’oppressione e repressione senza precedenti da parte del potere imperialistico installatosi. L’Unione Europea, nata nel 1992 sulla scorta della Comunità Economica Europea (la CEE), dai dodici Stati fondatori si allargò nel corso degli anni fino a comprenderne 28. I dati numerici dicono che la UE è un mercato di 450 milioni di abitanti e che, con l’uscita del Regno Unito dall’UE nel 2020 – primo strappo che mostrava come gli interessi specifici di una grande potenza economica e finanziaria come il Regno Unito a un certo punto si sono scontrati con quelli degli altri paesi dell’UE –, i paesi aderenti dipendevano ancor più dalla grande potenza economica e finanziaria rappresentata dalla Germania, che già si era imposta nel 2002 con l’introduzione della moneta unica, l’euro che, tra l’altro, riguarda soltanto 20 dei 27 paesi aderenti all’UE. Da allora in poi, anche altri paesi europei, e addirittura euroasiatici come la Turchia e la Georgia, sono in attesa di essere accettati; tra di loro spicca l’Ucraina che ha chiesto l’adesione nel 2022, guarda caso in contemporanea con l’invasione militare da parte della Russia, richiesta accompagnata da quella di far parte della Nato che, come si sa, è stato uno dei motivi centrali della guerra russo-ucraina. Senza addentrarci dettagliatamente nei meandri dei contrasti che scuotono continuamente l’UE, in termini economici e finanziari, in termini politici e militari, il fatto che l’UE sia soprattutto un trattato commerciale che riguarda lo scambio di merci, di denaro e di persone all’interno dei suoi confini e che al suo interno gli Stati aderenti si comportino come concorrenti da tutti i punti di vista (dal campo bancario e finanziario all’agricoltura, alle condizioni di lavoro dei proletari di ogni nazione ecc.) è dimostrato continuamente, tanto che alcuni paesi come, ad esempio, Ungheria e Slovacchia intrattengono apertamente rapporti di carattere economico e commerciale con la Russia nonostante questa sia sotto le sanzioni dell’UE, mentre molti altri paesi europei, Italia compresa, si riforniscono di petrolio russo – a prezzi competitivi – attraverso le famose navi mascherate. Se c’è una cosa che il sistema capitalistico non sopporta è la mancanza di libertà di scambio di merci e capitali, una libertà che per ragioni politiche – e la storia porta moltissimi esempi – può essere repressa, ma solo temporaneamente, perché il capitale e la sete di profitto dominano comunque il mercato e la società, e le scappatoie ai divieti fanno parte dello stesso sistema.

   

LA CORSA AL RIARMO

 

 Dello stesso sistema fa parte anche la tendenza ad armarsi fino ai denti e, come si sa, più i capitalismi nazionali entrano in concorrenza tra di loro – e non possono farne a meno – più devono armarsi in difesa dei propri specifici interessi. E così, la guerra russo-ucraina ha fornito il pretesto di sperimentare concretamente sul campo i propri armamenti non solo alla Russia e all’Ucraina, ma anche agli Stati Uniti e ai paesi europei. L’Ucraina, come d’altra parte Israele, costituisce il campo di prova di guerra per tutte le industrie belliche del mondo; si sperimentano, nello stesso tempo, non solo gli armamenti esistenti, ma soprattutto gli armamenti più tecnologicamente avanzati, e insieme ad essi tutti i dispositivi utili alla più efficace ricognizione e al puntamento di obiettivi prefissati. Nel grande affare della guerra ci si sono tuffati tutti, direttamente e indirettamente. In Ucraina, nonostante sia sottoposta a bombardamenti e a una guerra di trincea come non si era visto dai tempi della prima guerra mondiale, è stata sviluppata, sulla base di un’esperienza secolare della sua industria bellica, la produzione di droni e di missili a un livello tale da interessare i governi europei tanto da prendere importanti accordi mentre continua il massacro dei proletari. La stessa cosa vale per Israele che, non per caso, nell’ultimo anno di guerra scatenata contro i palestinesi a Gaza e in Cisgiordania, ha aumentato enormemente le sue tecnologie militari e le sue esportazioni di armi (7).  

Ormai tutte le cancellerie del mondo non parlano d’altro che di riarmo. L’Unione Europea, per bocca della stessa von der Leyen, è entrata nell’epoca del riarmo: è del marzo scorso il progetto chiamato ReArm Europe che vale 800 mld di euro ai quali sono stati aggiunti 150 mld di euro per stimolare acquisizioni pan-europee nei settori più critici come i mezzi aerei, la difesa missilistica, i droni, il munizionamento ecc. Naturalmente questi capitali, uniti a quelli che ogni Stato aderente alla Nato si è impegnato a investire in campo bellico (per raggiungere il famoso 5% del proprio PIL), vengono e verranno tolti da altri settori (quelli della sanità, della prevenzione sociale, dell’istruzione ecc. ecc.), e ciò prima o poi genererà tensioni sociali e lotte che i proletari dovranno condurre se non vogliono essere trasformati in carne da macello nella prossima guerra mondiale. Tale progetto non è campato in aria come spesso succede ai progetti dichiarati dai vertici politici di ogni paese, soprattutto se riguardano le condizioni di vita e di lavoro proletarie. Infatti esso è stato accompagnato dalla solita retorica dei suoi aspetti «positivi» che riguarderebbero le ricadute industriali e sociali, cioè comporterebbero nuova occupazione, innovazioni e ricerche, insomma sarebbe una manna per l’economia dei paesi della UE che, in questo modo, avrebbero un grande rilancio; questo rilancio non è altro che la produzione di mezzi di distruzione sempre più devastante sia in termini di prodotti che di produttori. In tempi di recessione, di difficoltà a incrementare il Pil di ogni paese imperialista, e di impoverimento generale della classe proletaria e anche di alcuni strati delle classi medie, la corsa al riarmo – giustificata dal pericolo incombente di una guerra mondiale provocata dal solito «Impero del male» (la Russia) che non vedrebbe l’ora di invadere la… pacifica, democratica e libera Europa – sarebbe lo stratagemma per prendere due piccioni con una fava: alzare il livello di deterrenza nei confronti della Russia, come nella passata «Guerra fredda», e ridare fiato all’economia sofferente dei paesi europei, considerando che una guerra locale – come quella attuale in Ucraina o quella passata nella ex Jugoslavia – ha comunque risvolti di carattere internazionale utili ad accumulare esperienza militare da parte di ogni Stato coinvolto.

Se poi, per convincere «il popolo», e soprattutto il proletariato di ogni paese, a ulteriori sacrifici, non bastasse sventolare il pericolo dell’invasione dell’Europa da parte della Russia, ma ci volesse qualche argomento più efficace, a questo ha provveduto il presidente della repubblica italiana Mattarella con la sua recente dichiarazione nella visita ufficiale in Slovenia: «Ci stiamo muovendo in un crinale in cui anche senza volerlo si può scivolare in un baratro di violenza incontrollata. Come avvenne nel 1914, con l’inizio della prima guerra mondiale. “L’imprudenza dei comportamenti – spiega il presidente – provoca conseguenze anche se queste non sono scientemente volute» (8).

Ecco un esempio di come i portavoce della classe dominante borghese non sono mai stati in grado di spiegare le vere ragioni per cui a un certo punto scoppia la guerra fra gli Stati. La guerra scoppierebbe per volontà o per incoscienza di determinati personaggi collocati al vertice dei poteri politici: tutto dipenderebbe dalla pazzia o dall’imprudenza dei comportamenti di questo o quell’attore di cui si tratterebbe di limitare le azioni o che dovrebbe essere sostituito, come si trattasse della scena in una pièce teatrale. I personaggi storici, politicipazzi, imprudenti, illuminati, pazienti, lungimiranti o impreparati e quanti altri aggettivi si vogliono trovare, non sono che l’espressione di rapporti economici e sociali ben precisi che da più di duecento anni costituiscono il capitalismo, rappresentando tutte le limitazioni, tutti i contrasti e tutte le orrende conseguenze del suo sviluppo nel mondo. La guerra, come diceva il generale prussiano von Clausewitz: «non è che la continuazione della politica con altri mezzi. La guerra non è, dunque, solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi»; in questo senso non è mai «un atto isolato» (9) perché è uno strumento della politica generale del governo capitalista con cui imporre agli avversari i propri interessi di carattere economico, finanziario, politico. I mezzi militari, oltre ad essere i mezzi più violenti per piegare e sottomettere i nemici, sono anche i mezzi più distruttivi che i governi abbiano in mano e con i quali cercano di superare non solo e non tanto le crisi commerciali, economiche, finanziarie che punteggiano il corso dello sviluppo del capitalismo, ma la crisi più caratteristica dello sviluppo del capitalismo: la crisi di sovraproduzione che, come anticipavano Marx ed Engels nel Manifesto del 1848, dimostra l’impossibilità da parte della borghesia di controllare lo sviluppo incessante delle forze produttive che lei stessa ha creato ma che, a un certo punto del loro sviluppo, vanno a cozzare contro i limiti costituiti dalle forme di produzione del capitalismo, che sono in particolare la produzione di merci, la proprietà privata e l’appropriazione privata dell’intera ricchezza prodotta in ogni paese che operano nel sistema mercantile dove la stessa legge di concorrenza tra aziende e tra Stati condiziona permanentemente la politica dei governi borghesi. 

Ogni guerra ha un inizio e una fine e il tempo che trascorre tra una guerra e la successiva, chiamato pace, in realtà è il periodo in cui la politica estera di ogni paese risponde alla necessaria conquista di nuovi mercati in una rinnovata lotta di concorrenza in cui sono coinvolti tutti i paesi del mondo. Nella fase imperialista del capitalismo ogni guerra, anche la più locale, tende a prendere le caratteristiche della guerra imperialista, ossia della guerra in cui sono coinvolti interessi di una o più potenze imperialistiche. La stessa cosa accade nel periodo di pace che succede al periodo di guerra: la pace tra i belligeranti giunge anch’essa per interesse imperialistico e la sua durata dipende da una serie di fattori legati agli equilibri che le potenze imperialistiche riescono o meno a trovare tra i loro interessi contrastanti. La pace di cui tanto si vanta l’Europa occidentale è giunta dopo un lunghissimo periodo di guerre intestine tra le varie potenze europee tanto da alzare il livello dei contrasti fino alla prima e alla seconda guerra mondiale, una più distruttiva e catastrofica dell’altra. E, mentre il capitalismo in Europa godeva dei vantaggi della pace per ricostruire le economie dei maggiori paesi europei ridando loro vigore, Russia compresa, ogni potenza imperialistica si dava da fare in tutti gli altri continenti adottando sempre più i mezzi militari per conquistare territori e nuovi mercati, soprattutto in Asia e in Africa. La pace in una parte del mondo, ad esempio in Europa, corrispondeva alla guerra in ogni altra parte del mondo.

 

LA GUERRA DI COREA, AD ESEMPIO

 

Era da poco finito il secondo macello imperialistico mondiale quando, nel 1950, scoppiò la guerra in Corea dove si fronteggiarono la Corea del Nord, sostenuta dalla Russia (che allora si chiamava ancora URSS), e la Corea del Sud, sostenuta dagli USA; la Corea del Nord intendeva unificare la penisola approfittando della «liberazione» dal Giappone che era stato vinto nella guerra mondiale e aveva quindi perso tutti i territori occupati in precedenza. Per tre anni questa guerra mise in pericolo la «pace mondiale», rappresentando una miccia che avrebbe potuto far scoppiare la terza guerra mondiale poiché nessuna delle due superpotenze imperialistiche coinvolte era intenzionata a mollare la presa sul pezzo di Corea dominato. Ma la guerra mondiale non era all’ordine del giorno. Troppi affari in ballo, troppo sviluppo economico dovuto alla ricostruzione in Europa dopo le grandi distruzioni della guerra mondiale, troppa tensione sociale soprattutto nei paesi europei vinti nella guerra, come Germania e Italia, col pericolo di far rinascere la lotta di classe in Europa, e troppa turbolenza sociale nelle colonie dove i movimenti indipendentisti avevano iniziato a mostrare la loro determinazione nell’approfittare dello scossone che gli imperialismi, soprattutto inglese e francese, avevano subito a causa della guerra mondiale. Nel frattempo la Cina di Mao tse-tung, nel 1949, impose, nella guerra nazionale, la propria indipendenza, mettendosi subito a fianco della Corea del Nord per l’unificazione della penisola: erano motivi sufficienti perché URSS e USA non avessero interesse a scontrarsi in una guerra che sarebbe stata ancora più catastrofica della seconda; i capitalisti americani, da parte loro, anche quelli non legati alla produzione bellica, non avrebbero avuto gli stessi benefici che avrebbero intascato continuando a investire nella ricostruzione dell’Europa. Per la Corea si giunse a quello che è stato chiamato il «conflitto congelato» tra le due Coree: sul 38° parallelo nord che separa la Corea del Nord da quella del Sud è stata situata una striscia di terra «demilitarizzata», il che non impedisce a entrambi gli Stati, ancor oggi, di fronteggiarsi su quella stessa linea con la presenza di forze militari come in nessun’altra parte del mondo.

Per l’Ucraina si sta prospettando una conclusione simile. Da qualche tempo anche i grandi media hanno ricordato la «soluzione coreana», cioè la divisione dei territori ucraini e russi fra i quali vi sia una striscia di «terra di nessuno» nella quale, come ricordato, i russi non accettano che vi sia alcuna eventuale forza di interposizione costituita da soldati della Nato.

A una possibile soluzione della guerra russo-ucraina come quella imposta nel 1953 in Corea, avevamo dedicato un importante articolo già nel gennaio-febbraio 2023 (Ucraina, Corea del XXI secolo? ne «il comunista» n. 176). Mettevamo in evidenza come, non essendo, oggi, nessuna delle grandi potenze imperialistiche mondiali pronta a sostenere una terza guerra mondiale, la guerra russo-ucraina fosse probabilmente destinata a chiudersi, non così velocemente come pensava Trump, con una «soluzione» che non sarebbe andata bene a nessuno. Né alla Russia che, per chiudere il periodo di guerra attiva, dovrebbe rinunciare a qualche parte di territorio del Donbass, né all’Ucraina che, per la stessa ragione, dovrebbe rinunciare a un fetta importante del suo territorio del Donbass, oltre alla Crimea, né all’Unione Europea che, dopo avere tanto soffiato sul fuoco, non avrebbe avuto nessuna possibilità di essere protagonista nel condurre – con gli Stati Uniti – il negoziato: gli Stati Uniti l’hanno esclusa a priori (Trump, dicendo che «la guerra l’ha voluta Zelensky», intendeva dire che l’ha voluta l’Europa), e la Russia prenderà accordi soltanto con gli USA, visto che gli europei hanno insistito a prolungare la guerra fin dai primissimi mesi dell’invasione dell’Ucraina, e continuano a gettare benzina sul fuoco annunciando che la Russia non dovrà e non potrà vincere la guerra perché, se fosse questo il risultato finale, Mosca non si fermerebbe all’Ucraina, ma continuerebbe a mettere nei propri obiettivi di espansione territoriale la Polonia, i Paesi Baltici, la Finlandia, insomma… pian piano l’intera Europa! Gli imperialisti occidentali conoscono abbastanza la storia per sapere che l’obiettivo della Russia non è certo quello di far la guerra all’Europa intera perché vorrebbe dire tirare in ballo direttamente gli Stati Uniti con la Nato. Nello stesso tempo la Russia perderebbe il sostegno economico da parte dell’India e, soprattutto, si inimicherebbe la Cina che ha ancora forti interessi economici nel mercato europeo e americano e, rispetto ai suoi piani imperialistici planetari, ha scadenze del tutto diverse da quelle russe: di fatto, è l’egemonia mondiale degli Stati Uniti il vero nemico della Cina di oggi, mentre la Russia – come la storia degli ultimi due secoli dimostra – per sopravvivere come potenza imperialistica è sempre pronta, se necessario, ad accordarsi con le potenze occidentali. Il fatto che gli europei sventolino il pericolo di un’invasione russa in tutta Europa è solo propaganda bellica: serve per giustificare i sacrifici sempre più duri cui sottoporre i propri proletariati per riarmare le proprie forze armate e per compattare sotto le bandiere dei relativi nazionalismi le «nazioni democratiche» contro le «nazioni totalitarie», in primis la Russia, ma un domani potrebbe trattarsi della Cina o addirittura di una Germania rinata sotto la stella di un nuovo Hitler.

Quel che frastorna le cancellerie euro-occidentali, oggi, è l’ondivago Trump che un giorno dice una cosa e il giorno dopo dice il contrario. Ma un atteggiamento sostanzialmente favorevole a trattare la Russia quasi da pari a pari è ormai emerso con evidenza ed è su questa linea che gioca la sua possibilità sia di dare un contentino all’Ucraina, visto che la guerra comunque l’ha persa, sia di ribadire che i paesi europei della Nato – finché rimarrà in vita – dipendono inevitabilmente dagli Stati Uniti. Anche nel più recente episodio dei droni russi caduti in territorio polacco, mentre l’Unione Europea ha immediatamente gridato che oggi i droni russi erano 19, ma domani avrebbero potuto essere 400 o addirittura 800 –parlando perciò di una Russia che… vuole invadere l’Europa… –, Trump ha nicchiato parecchio dichiarando, 36 ore dopo il volo dei droni sui cieli dell’aeroporto polacco Rzeszow (hub degli aiuti bellici per Kiev), che avrebbe potuto trattarsi di un errore… Sta di fatto che, al di là delle vere intenzioni russe, questo lancio di droni Gerbera (perlopiù non attrezzati con esplosivi) può essere stato un piccolo test sui sistemi di difesa occidentali (ne sono stati colpiti 4 su 19, bucando la difesa Nato in modo evidente). Inoltre, tenendo conto dei costi dei droni utilizzati dalla Russia rispetto ai missili utilizzati dalla difesa aerea polacca, non c’è paragone: «il missile aria-aria utilizzato dal caccia F-16 polacco – scrive “la Repubblica” del 12/10/2025 – per disintegrare uno degli intrusi costa un milione di euro; i Patriot tedeschi che li hanno inquadrati ed erano pronti a far fuoco hanno un prezzo superiore a tre milioni mentre i droni Gerbera russi si costruiscono con 10-15 mila euro» (10). Se in più si tiene conto del fatto che i missili della Nato (i Patriot Gem) sono molto grandi e dopo essere statti lanciati «lasciano cadere parti pesanti del motore – chiamate booster con il rischio di danneggiare o incendiare le case, colpendo nel sonno i civili ignari della battaglia aerea», si capisce come mai il generale polacco in congedo Jaroslaw Gromadzinski abbia detto: «Usare quelle armi è come sparare a una mosca con un cannone» (11). I costi esorbitanti dei missili, e la loro pericolosità, visto che dopo il lancio perdono pezzi, non vanno d’accordo con un riarmo efficace, efficiente e proporzionato nei costi. Si capisce, perciò, come mai l’UE stia discutendo con Zelensky perché l’industria di droni ucraina diventi fornitrice permanente delle forze armate dei paesi europei. Resta il fatto che una ventina di droni hanno messo in crisi la difesa della Nato sul confine polacco-russo. Si è trattato di un test che i russi hanno voluto fare sull’efficacia della difesa aerea polacca? crediamo che sia così. Si è trattato di un atto di deterrenza, come dire: se gli europei continuano a soffiare sul fuoco impedendo a Stati Uniti e Russia di proseguire i contatti per un negoziato reale per porre fine alla guerra, non avranno vita facile se continueranno a sobillare Zelensky a proseguire una guerra che gli stessi Stati Uniti hanno dato per persa, altrimenti questi ultimi non avrebbero mai parlato di pace contro scambio di territori… E mentre di bombe volanti Shahed-Geran la Russia ne fabbrica 3000 al mese, a costi irrisori se confrontati con quelli dei missili Aim 120 (usati dai caccia polacchi) o Patriot Gem della Nato (12), quanti costosissimi missili dovrebbero essere fabbricati in Polonia, in Germania o in qualsiasi altro paese della Nato, e quanto tempo ci vorrebbe per averne a disposizione una quantità sufficiente per far fronte allo sciame continuo di droni russi?

Gli anni che verranno saranno anni in cui le condizioni di vita e di lavoro dei proletari peggioreranno sempre più, perché a ogni soluzione innovativa da una parte ci sarà la rincorsa a trovarne altre più innovative da utilizzare per neutralizzare i risultati tecnologici della parte avversa, e tale rincorsa richiede risorse sempre più consistenti; e dove trovare queste risorse? I governi le trovano aumentando la valorizzazione del capitale attraverso l’aumento dello sfruttamento del lavoro salariato, risparmiando sulla spesa pubblica destinata alle prestazioni sociali, e impedendo, attraverso un controllo sempre più serrato delle masse proletarie, abbinato alla tradizionale repressione, ogni tentativo da parte proletaria di sottrarsi a quel controllo e di organizzarsi per lottare contro il potere borghese.

 

IL PROLETARIATO E LA SUA PROSPETTIVA DI CLASSE

 

«La guerra russo-ucraina – scrivevamo nell’articolo citato “Ucraina, Corea del XXI secolo?” – era nell’aria da anni; vi si intrecciavano aspetti sia economici sia politici che direttamente coinvolgevano le classi borghesi dominanti non solo di Russia e Ucraina, ma anche delle potenze europee e, soprattutto, degli Stati Uniti. L’aspetto economico, per entrambe, non riguarda soltanto le esportazioni delle proprie materie prime – petrolio, gas, ferro e acciaio, carbone, frumento ecc., da parte russa, e ferro, acciaio, cereali, minerali di ferro ecc., da parte ucraina –, ma anche il contrasto alle crisi economiche e recessive che colpiscono periodicamente tutti i paesi capitalisti avanzati, quindi anche Russia e Ucraina, puntando sull’economia di guerra e, quindi, utilizzando il mezzo che va per la maggiore dalla fine della seconda guerra imperialista mondiale: appunto, la guerra».

Ed è contro la preparazione alla guerra imperialista – quindi al massacro delle masse proletarie dei paesi coinvolti in essa – che il proletariato non solo russo, ucraino, europeo, statunitense, ma di tutto il mondo, è chiamato a sollevarsi come classe antagonista a tutte le classi dominanti borghesi, trascinando dietro di sé e la sua lotta di classe le masse contadine povere, diseredate, e le frazioni di piccola borghesia rovinate dalle crisi economiche capitalistiche e dall’economia di guerra. La forza di classe del proletariato, come la storia passata dimostra, se utilizzata sul terreno della lotta di classe e se diretta a livello internazionale dal suo partito di classe con saldezza teorica e intelligenza politica, ha potenzialità invincibili contro quello che finora sembra un potere borghese e imperialista incontrastabile. Oggi queste parole possono apparire poggiate sul nulla e ricalcanti vecchie speranze di una rivoluzione che avrebbe dovuto cambiare completamente il corso della storia affossando il capitalismo facendo emergere la nuova società comunista dalle sue ceneri. Anche nel 1917, quando la Rivoluzione d’Ottobre scoppiò e vinse, segnando l’inizio del movimento proletario rivoluzionario in tutto il mondo, tutti i poteri borghesi imperialistici esistenti davano quella rivoluzione per un’illusoria soluzione alla guerra che stava devastando l’Europa.

Com’era possibile che nel paese più arretrato d’Europa, in mano ancora al potere zarista, potesse emergere un movimento rivoluzionario proletario con tale forza, pur immerso in un mondo arretrato e in grande maggioranza contadino e analfabeta, da abbattere nel giro di otto mesi, e in piena guerra mondiale, sia il potere zarista che il potere borghese che ne prese il posto? Com’era possibile che il potere proletario, costituitosi in dittatura del proletariato guidata dal partito bolscevico, potesse non solo resistere in una situazione economica disastrosa, ma potesse ambire a una pace, mentre tutto il resto del mondo continuava la guerra, realizzandola pur a costo di importanti amputazioni territoriali, e potesse organizzare «dal nulla» dopo aver disorganizzato l’esercito zarista con un vincente disfattismo rivoluzionario su ogni fronte di guerra un’Armata Rossa che si sarebbe dimostrata non solo all’altezza dei compiti di difesa della dittatura proletaria instaurata, ma anche capace di sbaragliare completante le armate bianche guidate da generali zaristi e sostenute da tutti gli imperialisti che nel frattempo continuavano a farsi la guerra? Com’era possibile che il proletariato rivoluzionario russo, in generale molto meno istruito e specializzato del proletariato dei paesi dell’Europa occidentale o dell’America, avesse la capacità di prendersi in carico la gestione politica, economica, sociale e militare di un nuovo potere politico non potendo contare su una lunga esperienza di governo come invece i poteri borghesi in Europa e in America? Com’era possibile che il proletariato rivoluzionario russo, col suo partito di classe guidato da Lenin, si fosse messo alla testa del movimento proletario internazionale e desse lezioni a tutti i proletariati del mondo e soprattutto ai proletariati più sviluppati d’Europa e d’America, organizzasse l’Internazionale Comunista sulle ceneri della Seconda Internazionale traditrice e passata armi e bagagli nel campo imperialista, e facesse sacrifici immani non per sostenere lo sforzo economico e sociale della guerra imperialista come in tutti gli altri paesi, ma per sostenere il movimento rivoluzionario proletario e comunista in tutto il mondo nella prospettiva di trasformare la guerra imperialista in guerra di classe, in quella guerra civile in assenza della quale nessun proletariato al mondo riuscirà mai a combattere e vincere i poteri borghesi?  

Non esisteva e non esiste una particolare ricetta, magari zeppa di espedienti politici e tattici, per fare di un proletariato sottomesso e senza prospettive storiche un proletariato rivoluzionario e punta di diamante della rivoluzione anticapitalistica internazionale. La combinazione di fattori storici concentrati in Russia in un lasso di tempo di poco più di un decennio (dalla guerra russo-giapponese del 1905 alla guerra mondiale del 1914-1918) e su cui hanno agito una serie di fattori economici, sociali, politici e militari legati non solo allo sviluppo imperialistico del capitalismo, ma al contemporaneo antagonismo di classe cresciuto nel primo quindicennio del Novecento in tutti i paesi d’Europa, sono stati il terreno sociale e politico in cui si è formato e sviluppato il partito bolscevico di Lenin. Legando la teoria marxista e il suo programma politico rivoluzionario alla situazione mondiale creatasi in quel decennio, il partito bolscevico di Lenin riuscì a fornire al movimento proletario russo e internazionale la sua storica prospettiva rivoluzionaria, dimostrando che l’azione del partito di classe del proletariato si basa innanzitutto sulla teoria marxista – che è storica e internazionale – e non sulla nazionalità dei suoi esponenti o sulle esperienze specifiche in un dato paese. La teoria marxista, dunque la teoria del comunismo rivoluzionario, nasce come teoria mondiale, non come teoria «tedesca», o «francese», o «russa», perciò valida per tutti i paesi del mondo, e la sua declinazione «nazionale» non è altro che il riflesso in campo politico delle situazioni create dallo sviluppo ineguale del capitalismo dal quale non si può prescindere e per le quali il marxismo ha previsto lo svolgimento fondamentale su cui agiscono le esperienze dirette della lotta di classe dei proletari di ogni paese.

La grandezza e l’unicità della teoria marxista sta proprio in questo: nel fatto che non dipende dallo sviluppo economico, sociale, politico, culturale, ideologico di un dato paese, perché nasce e si definisce storicamente, né prima né dopo, ma nel momento in cui lo sviluppo capitalistico ha fornito tutte le sue caratteristiche fondamentali, capite le quali, attraverso il materialismo storico e dialettico, è stato possibile interpretare sia i caratteri fondamentali del capitalismo sia il suo necessario sviluppo fino al punto di non ritorno, di rottura storica tra le forme della produzione e dei suoi rapporti sociali e le forze di produzione lanciate oggettivamente in uno sviluppo crescente, ma che il modo di produzione capitalistico interrompe e mette costantemente in crisi. Il punto di rottura storica, come è avvenuto per tutti i modi di produzione precedenti, e quindi per le società sorte sul loro imporsi e svilupparsi, è quel periodo storico in cui lo sviluppo delle forze di produzione è tale da non poter più essere controllato e costretto nelle forme di produzione esistenti. Illustrando l’avvicendamento dei regimi di classe nel marxismo rivoluzionario, nel testo di partito intitolato «Il rovesciamento della prassi nella teoria marxista», dopo aver negato che lo svolgimento storico del capitalismo segua un andamento sinusoidale, un andamento del salire e scendere continuamente, si legge: «Il potenziale produttivo ed economico generale sale sempre finché l’equilibrio non è rotto, e si ha una fase esplosiva rivoluzionaria, nella quale in un brevissimo periodo precipitoso, col rompersi delle forme di produzione antiche, le forze di produzione ricadono per darsi un nuovo assetto e riprendere una più potente ascesa» (13).

Oggi, 2025, non siamo ancora a quel punto di rottura storica, anche se dal punto di vista della maturazione economica del suo sviluppo il capitalismo non è più in grado di apportare alcun progresso reale all’economia mondiale; può portare soltanto crisi sempre più devastanti che le classi dominanti borghesi non sanno affrontare se non con mezzi che ripropongono inevitabilmente fattori di crisi ancor più caotici e devastanti. Quel che manca all’appuntamento storico con la rivoluzione di classe è proprio la classe rivoluzionaria per antonomasia: la classe del proletariato, la classe dei senza riserve, dei senza patria, la classe che non ha nulla da difendere nella società del capitale in cui è resa schiava del lavoro salariato. La guerra borghese, la guerra imperialista, se non viene contrastata decisamente dalla lotta di classe del proletariato – ossia da un proletariato che lotta esclusivamente per sé, per i suoi interessi di classe che sono, sotto ogni cielo, completamente antagonistici a quelli della borghesia – conferma la totale schiavitù del proletariato in una società che ripresenta continuamente, a periodi ciclici, crisi e guerre, devastazioni e carestie e profitti sempre più giganteschi e concentrati nelle mani di un’infima minoranza di capitalisti. Come diceva Marx, finché il proletariato, la classe dei lavoratori salariati, non combatte per i propri interessi di classe esiste soltanto come classe per il capitale. Per diventare classe per sé, cioè classe che lotta esclusivamente per i suoi interessi storici, oltre che immediati, deve diventare la classe rivoluzionaria di cui il suo stesso movimento storico ha dimostrato la possibilità e l’inevitabilità quando il famoso potenziale economico del capitalismo giunge, nel suo sviluppo, a un punto in cui tutti gli equilibri saltano facendo precipitare l’intera società, quindi tutte le classi della società, nel caos più totale dal quale può uscire soltanto la classe che possiede un futuro, la classe che rappresenta la rivoluzione necessaria a che il futuro della specie umana non dipenda più dall’economia mercantile, dalla proprietà privata, dal capitale e dal lavoro salariato e dall’appropriazione privata dell’intera produzione sociale, ma che sia finalmente una realtà non più esclusivamente economica, ma una realtà sociale a misura planetaria.

Noi questo futuro lo chiamiamo, con Marx ed Engels, comunismo, ma per raggiungere quella vetta è necessario passare attraverso la rivoluzione proletaria, l’abbattimento di ogni potere politico borghese e di ogni Stato, l’instaurazione della dittatura proletaria al posto della dittatura della borghesia, negando decisamente alle classi grandi, medio e piccoloborghesi qualsiasi libertà politica, economica, sociale, culturale e, naturalmente, militare, perché ogni spiraglio lasciato alle classi antagoniste del proletariato può diventare la via per la restaurazione del potere politico borghese e imperialista. I comunisti rivoluzionari sono geneticamente antiborghesi, quindi antidemocratici, e non perché amino la forma dittatoriale, ma perché il salto di qualità che la storia della società umana dovrà necessariamente fare richiede il massimo della forza di classe a disposizione, e il più concentrata e centralizzata possibile, per distruggere permanentemente e a livello mondiale – in tutto il tempo che ci vorrà – ogni forma di produzione e ogni rapporto di produzione e sociale che richiami le forme capitalistiche. Il comunismo è la società senza classi, quindi senza antagonismi di classe, e perciò senza le basi economiche che supportano la divisione in classi nella società. Per arrivare a questo traguardo storico non si può che passare attraverso la rivoluzione violenta del proletariato e la sua dittatura di classe perché la classe borghese non lascerà mai il suo potere volontariamente e pacificamente. Non lo fece nella sua lunga lotta rivoluzionaria contro i poteri feudali che tentarono più volte di restaurare il loro potere e i loro rapporti di produzione e sociali, e non l’ha fatto nella sua lotta reazionaria contro la nuova classe rivoluzionaria, il proletariato, tutte le volte che esso ha tentato di detronizzarla dal potere politico. Le esperienze della Comune di Parigi del 1871 e del potere bolscevico nella Russia sovietica degli anni 1917-1924 stanno a dimostrare che la borghesia più è vicina alla sua morte storica e più aumenta la sua forza di conservazione e di reazione. Perciò la prossima rivoluzione proletaria dovrà essere ancora più decisa, dittatoriale e tremenda nei confronti di tutte le borghesie del mondo perché esse si alleeranno, al di sopra della loro congenita concorrenza, in un unico grande fronte antiproletario e anticomunista per il semplice fatto che sanno che la loro morte politica e sociale condurrà alla distruzione del loro modo di produzione su cui hanno basato e basano il loro potere finora incontrastato.

Come la borghesia europea del 1700-1800 sentiva di essere la classe rivoluzionaria che avrebbe prima o poi abbattuto, non solo in Europa, il potere delle vecchie classi aristocratiche e feudali, facendosi forte delle basi economiche capitalistiche che stavano radicandosi già sotto le forme di produzione, sociali e politiche del feudalesimo, così il proletariato da metà del 1800 in avanti ha sperimentato direttamente nei suoi tentativi rivoluzionari di essere la nuova classe rivoluzionaria apparsa nella storia delle società umane. Una classe che, a differenza della borghesia, non può contare su basi economiche comunistiche radicantesi nella società capitalistica, perché le basi economiche del capitalismo non permettono la nascita e lo sviluppo di un’economia che non risponda alla proprietà privata e all’appropriazione privata della produzione sociale. Il proletariato rappresenta le forze produttive per eccellenza; senza il lavoro delle masse salariate l’economia capitalistica non esiterebbe. Ma è proprio la produzione sociale il risultato rivoluzionario portato dalla borghesia nella storia dello sviluppo delle società divise in classi, e sarà questo risultato la leva che consentirà alla classe del proletariato di utilizzare il potere politico conquistato per rovesciare le finalità capitalistiche della produzione sociale: eliminando l’appropriazione privata della produzione sociale e la proprietà privata dei mezzi di produzione, la produzione sociale si libera dei vincoli di classe che la chiudono nell’appropriazione privata, e raggiunge la sua massima potenzialità a disposizione dei bisogni reali della vita sociale della specie umana. Per arrivare a questa svolta storica è necessario che la classe del proletariato usi la sua forza di classe nell’unica direzione storica in cui tale forza può realmente rovesciare del tutto le finalità capitalistiche: la conquista del potere politico e l’instaurazione della dittatura di classe del proletariato. La classe borghese non è soltanto proprietaria di tutti i mezzi di produzione e non si è limitata a imporre la condizione salariale alle masse lavoratrici appositamente espropriate di ogni risorsa per sopravvivere, ma è anche la classe che ha eretto a difesa dei suoi interessi di classe generali lo Stato che altro non è se non la forza armata e politica in difesa del suo potere economico e sociale. L’unico lato del potere borghese generale che il proletariato può attaccare per vincere la classe dominante è il suo potere politico; ed è da qui che il proletariato deve cominciare il suo cammino rivoluzionario come la storia delle rivoluzioni proletarie ha dimostrato. Perciò è indispensabile che gli interessi generali e storici del proletariato siano rappresentati da un organo particolare: un organo che possieda la coscienza generale della classe proletaria rivoluzionaria, un organo che possieda non solo un progetto sociale, non solo un metodo di intervento nelle diverse situazioni e nei diversi paesi, ma una teoria generale della nuova società senza classi verso la quale la storia stessa degli antagonismi di classe spinge l’umanità. E questo organo particolare non è che il partito di classe, il partito comunista rivoluzionario, le cui «tavole della legge», se vogliamo chiamare così le prospettive generali della lotta di classe del proletariato, sono state scritte nel 1848, nel Manifesto del partito comunista, un partito che non ha declinazioni nazionali perché nasce come partito mondiale e si rivolge ai proletari di tutti i paesi.

Saranno nuovamente i proletari russi, oppure tedeschi o i proletari francesi o, perché no, i proletari ucraini, polacchi oppure i proletari cinesi a rappresentare con la loro lotta di classe la punta di diamante della rivoluzione proletaria internazionale di domani? Oggi come oggi non lo sappiamo e non lo sa nessuno. Ma è certo che ogni sconvolgimento sociale causato dalle crisi capitalistiche e dalle guerre, contribuisce oggettivamente alla formazione dei fattori di crisi sociale che porteranno le masse proletarie in questo o quel paese a reagire istintivamente a condizioni di vita e di lavoro sempre più incerte e sempre più indirizzate alla fatica, allo sfruttamento estremo, alla povertà sempre più generalizzata, ai massacri di guerra. Allora l’esplosione rivoluzionaria sarà certa quanto è certo lo sfruttamento e il massacro di guerra del capitalismo!

 


 

(1) Vedi, in particolare, il nostro Reprint n. 18, del febbraio 2024: Guerra russo-ucraina / 1. La guerra russo-ucraina dal suo scoppio alla “controffensiva” di Kiev, che contiene i nostri articoli e le prese di posizioni più importanti.

(2) A occidente i confini terrestri della Russia riguardano i seguenti paesi: Finlandia, membro della UE dal 1995 e della Nato dal 4 aprile 2023 in seguito all’invasione russa dell’Ucraina, per 1340 km (mentre i confini marittimi riguardano il Golfo di Finlandia dove, a est, alla foce del fiume Neva, è situata la città di San Pietroburgo); Estonia, Lettonia e Lituania, tutti membri della UE e anche della Nato dal 2004. L’Estonia confina con la Russia per 294 km, la Lettonia per 217 e la Lituania per 227, tutti e tre con accordi del 1991. Esiste poi una exclave russa, l’Oblast’ di Kaliningrad, nel territorio della Lituania e confinante con la polonia, che dà sul Mar Baltico e la cui capitale, Kaliningrad, è un importante porto commerciale russo. La Bielorussia confina per 959 km con la Federazione Russa, per 141 km con la Lettonia e per circa 679 km con la Lituania. E poi l’Ucraina con 1576 km, in forse dopo l’invasione russa del 2022 e l’occupazione delle Oblast’ di Donec’k e Luhans’k e della Crimea, con cui ovviamente sono cambiati anche i confini marittimi relativi al Mar Nero.

(3) Il Donbass corrisponde al vasto territorio del bacino idrografico del fiume Donec che in Ucraina si estende nelle oblast’ di Donec’k e Luhans’k, arrivando fino a quelle di Dnipropetrovs’k, Charkiv e Poltava, mentre in Russia occupa la parte occidentale dell’oblast’ di Rostov. In pratica il Donbass corrisponde più o meno a un territorio corrispondente a quello di Piemonte, Liguria e Lombardia. La grande ricchezza di questo territorio è data dal fatto che, dal punto di vista geologico, la regione poggia su strati risalenti al Carbonifero e che costituiscono appunto il bacino carbonifero del Donec.

(4) Vedi, in particolare, tra i tanti testi di Lenin dedicati alla questione: Sul diritto delle nazioni all’autodecisione, (febbraio-maggio 1914, Opere, vol. 20, pp. 375-434), testo legato al precedente articolo di Lenin: Osservazioni critiche sulla questione nazionale (dell’ottobre-novembre 1913, Opere, vol. 20, pp. 9-41). Quanto all’Ucraina, basta leggere alcuni testi di Lenin del 1917: L’Ucraina e L’Ucraina e la sconfitta dei partiti dirigenti della Russia, entrambi del giugno 1917 (Opere, vol. 25), Manifesto al popolo ucraino con richieste ultimative alla Rada ucraina [riguardo gli Accordi di pace con i tedeschi] (Opere, vol. 26). Di particolare importanza sono poi le Tesi sulla situazione politica attuale che Lenin presentò al CC del partito bolscevico il 10 maggio 1918, e il successivo Rapporto sulla politica estera alla seduta comune del CEC del partito bolscevico e del soviet di Mosca, del 14 maggio 1918, in cui Lenin presenta una precisa valutazione della situazione internazionale in cui deve agire la dittatura proletaria, con particolare riguardo al Trattato di pace di Brest-Litovsk e alle cause sia interne che esterne alla Russia della straordinaria gravità della situazione politica che si stava delineando grazie al sopravvento del partito della guerra nella politica tedesca, e che riguardava in particolare l’Ucraina, la Finlandia e la Turchia (Opere, vol. 27).

Non si può chiudere questa nota senza ricordare il grande sforzo del proletariato e dei contadini poveri russi nella guerra civile contro le truppe controrivoluzionarie dei generali zaristi, sostenuti soprattutto dagli imperialisti tedeschi, in particolare in Ucraina e in Siberia, dove Denikin e Kolciak diedero molto filo da torcere all’Armata Rossa. Sarebbe lungo fare l’elenco dei telegrammi di Lenin a Stalin (responsabile del Consiglio rivoluzionario del fronte sud-ovest) e dei suoi interventi al CC, per lettera e in articoli, ma vale la pena di invitare i lettori a scorrere i volumi 28, 29, 30 e 31 delle Opere di Lenin per rintracciare la grandissima attenzione che i bolscevichi, e Lenin in particolare, ebbero nella strenua difesa della dittatura proletaria in Russia perché fosse e rimanesse il primo bastione della rivoluzione proletaria mondiale, rivoluzione che, senza tener ferma la rotta predisposta dalla teoria marxista e dal suo programma politico, la lunga guerra civile che gli imperialisti inglesi e francesi scatenarono contro la dittatura rossa, non sarebbe stata, alla fine, vinta, sbaragliando le truppe di Iudenic, di Kolciak, di Denikin, di Wrangel.

(5) Cfr. https://www.linkiesta.it/2025/08/donbas-russia-ucraina-difesa/         

(6) Ibidem.

(7) Negli ultimi tempi l’arma israeliana più diffusa non è più il fucile mitragliatore UZI, ma il sistema di difesa missilistica israeliano noto come Iron dome (“cupola di ferro”) che ha contribuito – insieme ai droni, ai missili, ai computer per la difesa aerea e ai sistemi di puntamento per i caccia a reazione – al record di vendite di armi all’estero nel 2024, che hanno toccato i 148 mld USD. Così Israele è diventato l’ottavo maggior esportatore di armi del mondo, subito dopo il Regno Unito e davanti a due paesi che negli ultimi anni hanno risalito questa classifica, la Corea del Sud e la Turchia. Tali esportazioni, di fatto, contribuiscono anche “a proteggere Israele dall’embargo sulle armi o da altre sanzioni per la sua condotta della Guerra a Gaza”. Cfr. The Economist, 10/9/2025, in https://www.internazionale.it/notizie/2025/09/10/commercio-armi-israele-sanzioni

(8) Cfr. https://tg24.sky.it/politica/2025/09/10/mattarella-slovenia-oggi

(9) Cfr. Carl von Clausewitz, Della Guerra, Mondadori, Milano 1997.

(10) Le citazioni successive sono sempre riprese da la Repubblica del 12/10/2025. A proposito di droni e di difesa aerea dei paesi Nato, nello stesso giornale, citando il Financial Times, si legge: «i risultati del blitz sono stati incoraggianti per il Cremlino: venti droni hanno messo in crisi lo schieramento atlantico sul confine più caldo. I russi fabbricano più di tremila bombe volanti Shahed-Geran al mese: da gennaio a ieri sull’Ucraina ne hanno scagliate 35.698. I governi europei, quello di Varsavia per primo, stanno investendo centinaia di miliardi per comprare armi sofisticate, dai tank ai cacciabombardieri F-35 fino alle batterie anti-missile, che però sono inutili contro i piccoli droni lowcost che da oltre un anno sono diventati protagonisti del conflitto ucraino, con milioni di esemplari che causano oltre il 70 per cento dei caduti».

Ovviamente i governi europei sono più che interessati a mettersi almeno alla pari con i russi nel campo dei droni; parlando di cosa dovrebbero avere a disposizione le forze armate, il generale A. Conserva, capo di Stato maggiore dell’Aeronautica italiana dichiarava, in un’audizione in parlamento (ancora su la Repubblica, 12/10/2025), che per disporre di una quantità notevole di droni-intercetta-droni, pilotati dall’intelligenza artificiale e sotto il controllo dei comandanti “in carne ed ossa”, ci vorranno, ad essere ottimisti, come minimo tre anni “se ci saranno le risorse”….

(11) Cfr. la Repubblica, cit.

(12) Cfr. la Repubblica, cit.

(13) Cfr. Il rovesciamento della prassi nella teoria marxista, in particolare la Tavola II dell’Appendice, in “Partito e classe”, testi del partito comunista internazionale, n. 4, Milano 1972, p. 131.

 

 

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