Al lavoro come in guerra

 

(«il proletario»; N° 11; Supplemento a «il comunista» N. 129 - Giugno 2013)

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Pakistan. Karachi. La Ali Enterprises è un’azienda dove lavoravano 1500 operai divisi in turni da 450. L’11 settembre 2012 scoppia un incendio. Le finestre dell’edificio sono bloccate da sbarre e le uscite di sicurezza sono chiuse in modo permanente. 247 lavoratori muoiono e i feriti si sa che sono molti di più ma non si è mai avuto un numero preciso. Le vittime sono perlopiù morte arse vive nel rogo scoppiato all’interno della fabbrica, e altre sono annegate nei locali inondati dall’acqua usata per spegnere l’incendio. Vi si producevano soprattutto jeans per la catena tedesca di abbigliamento low cost Kik e la fabbrica era del tutto priva di qualsiasi mezzo antincendio. Lo stesso capo dei vigili del fuoco ha dichiarato che “nell’edificio non c’era alcuna misura anti-incendio” (http://www. ilfattoquotidiano.it/ 2012/09/13/ pakistan-a-fuoco-fabbrica-tessile-muoiono-247-persone-nessuna-sicurezza/351744/)

Lo stabilimento di Karachi della Ali Enterprises era stato appena certificato come sicuro. La certificazione era stata concessa dal Rina di Genova (Registro Italiano Navale) che è una società di ispezione accreditata a livello mondiale. Il Rina tiene sotto controllo centinaia di aziende in tutto il pianeta per conto della SAAS (Social Accountability Accreditation Service) di New York, che è un organismo finanziato dalle maggiori multinazionali, le stesse che fanno produrre, in condizioni disumane e mortali, le loro merci “griffate”, dagli imprenditori del Pakistan, del Bangladesh, del Vietnam, della Cambogia, del Perù, dell’India, della Cina. “Corruzione, malagestione, ricatti, omertà: è il sistema dell’industria tessile pakistana”, si legge nel giornale “il fatto quotidiano” del 15 ottobre 2012. E’ un settore industriale, quello tessile e dell’abbigliamento, che vale il 53% delle esportazioni del paese (http://www. ilfattoquotidiano.it/ 2012/10/15/pakistan-operai-bruciati-vivi-in-industria-tessile-con-certificazione-italiana/382115/). 

Dunque, le certificazioni di organismi ufficiali considerati al disopra di ogni interesse di parte, non sono che la copertura ufficiale del sistema di corruzione, di malagestione, di ricatti e di omertà che vige in Pakistan come in Italia, in Bangladesh come in Gran Bretagna o negli USA, in India come in Germania, con la differenza che le multinazionali con sede nei paesi europei e in America, sempre più spinte dalla lotta di concorrenza mondiale a cercare non solo mercati di sbocco per le proprie merci, ma anche mercati di lavoratori salariati a costi sempre più bassi, hanno continuato a delocalizzare la produzione nei paesi in cui hanno le mani più libere e dove la fame e la disperata ansia di sopravvivenza offrono masse enormi di proletari disposte a farsi sfruttare a qualsiasi condizione pur di non morire. Il Pakistan ha leggi sulla sicurezza del lavoro, ovviamente, ma queste leggi non sono né rispettate né fatte rispettare; e parlare di corruzione dei funzionari e dei controllori, è ancora ben  poca cosa perché essa poggia sul sistema di sfruttamento capitalistico che se, da un lato, genera costantemente condizioni schiavistiche di lavoro e di sopravvivenza per i proletari, dall’altro genera costantemente le condizioni di corruzione, malversazione, ricatto...

Due giorni prima, il 9 settembre, a Lahore, la capitale del Punjab pakistano, 25 operai muoiono arsi vivi o soffocati dal fumo dell’incendio in una fabbrica di scarpe. E lo stesso giorno, sempre a Karachi, in un’altra fabbrica tessile muoiono per incendio altri 9 lavoratori.

 

Italia. Ilva di Taranto. Il 30 ottobre 2012, un operaio locomotorista del reparto MOF  muore schiacciato dal locomotore che stava manovrando. Il corpo è stato trovato ai piedi di un locomotore nei pressi di uno dei moli interni al recinto dello stabilimento. E’ il terzo operaio morto in pochi mesi all’Ilva. E’ scattato immediatamente uno sciopero di 24 ore e un presidio ad oltranza di 15 giorni. Gli operai tentano di rifiutarsi ad operare in solitudine – e il locomotorista di cui parliamo era solo quando è successo l’incidente ed è morto più tardi in ospedale –, ma l’azienda li minaccia, li “deporta” in mensa e poi li raggiunge con provvedimenti disciplinari come la sospensione dal lavoro senza retribuzione. Tutto ciò avviene nel silenzio della triplice sindacale collaborazionista che nel novembre del 2010 ha firmato un accordo aziendale che permette all’azienda di agire in questo modo. All’interno dell’Ilva vige un clima di intimidazione permanente contro il quale i sindacati non solo non si oppongono con forza ma agiscono come complici degli aguzzini di turno.

 

Bangladesh. Dhaka. Nuovi incendi nelle fabbriche di abbigliamento. Nella notte del 24 novembre 2012 scoppia un incendio nel magazzino della Tazreen Fashion, fabbrica di 9 piani situata ad Ashulia, a nord di Dhaka, dove lavorano più di 1600 operai. L’edificio non ha uscite d’emergenza. 124 le vittime che sono morte bruciate vive o gettandosi dalle finestre nel tentativo di salvarsi. A 48 ore di distanza, il 26 novembre, un altro incendio in una fabbrica di vestiti nel distretto industriale di Dhaka, all’interno di un edificio di 12 piani, invaso dalle fiamme partite dal terzo piano: 112 le vittime accertate, bruciate vive o morte gettandosi dalle finestre. Sono fabbriche che producono capi d’abbigliamento per molti marchi e catene internazionali, tra cui le statunitensi Dinsey e Wall-Mart, le italiane Ande e Italian Style, le francesi Carrefour e Teddy Smith, l’olandese C&A, la scozzese Edinburgh Woollen Mill e la Li&Fung di Hong Kong. La primo ministro bengalese, Sheik Hasina, dettasi “sconvolta” per la morte degli operai, ha annunciato... una giornata di lutto nazionale...

Il clamore internazionale di queste tragedie ha indotto le società occidentali – che sanno perfettamente che in paesi come il Bangladesh possono contare su imprenditori locali senza scrupoli, veri e propri criminali, che sfruttano una manodopera a costi bassissimi esponendola sistematicamente alla morte – a pronunciarsi su questi episodi per non perdere la “credibilità” che i loro marchi hanno nei mercati d’Europa e d’America. I media hanno raccontato che qualche società, come la statunitense PVH che distribuisce firme come Tommy Hilfiger e Calvin Klein, ha fatto un accordo con i sindacati del Bangladesh e di altri paesi “per sviluppare un programma antincendio, per prevenire futuri incidenti nelle fabbriche di abbigliamento”; o come la Li&Fung di Hong Kong che ha dichiarato di voler condurre una propria indagine per chiarire le cause dell’incendio e ha promesso di dare 100mila taka (950 euro circa) alle famiglie di ogni vittima. Naturalmente, come succede da anni, passato il momento di alta attenzione per tragedie di questo genere, rimarranno le promesse e si continuerà a fare la conta dei morti! (www. asianews.it/ notizie.it/ Bangladesh-in-fiamme.-nuove-esplosioni-in-una-fabbrica-di-abbigliamento.-Salgono-a-124-le-vittime-26449.html) e (www. asianews.it/ notizie.it/ Rogo-in-Bangladesh:-le-ditte-%28e-la-Disney%29-negano-ogni-responsabilit%C3%A0-26480.html).

 

Germania. Nella ricca, civile e moderna Germania, esempio di ordine e di efficacia nelle misure di sicurezza, 14 morti e 7 feriti nella cittadina Titisee-Neustadt, non lontano da Friburgo, per incendio in un laboratorio per disabili, scoppiato in una struttura della Caritas, in cui lavoravano 120 disabili producendo manufatti di legno e apparati elettrici. Lo stabilimento, sorto una trentina di anni fa, era appena stato restaurato e rimodernato (www.repubblica.it , 26/11/2012); quanti morti ci sarebbero stati se non fosse stato “appena restaurato e rimodernato”?.

 

Italia. Le stime dei morti sul lavoro sono sempre da considerare per difetto poiché la macchina burocratica dello Stato italiano, quando si tratta di dar conto degli infortuni mortali e delle morti per malattie professionali, non dà mai le cifre reali. In ogni caso, la quantità di morti sul lavoro ogni anno è impressionante. Per il 2012, l’Osservatorio indipendente di Bologna, stima che i morti sul lavoro sono stati 1.180, cifra che si supera “se si aggiungono i lavoratori deceduti in itinere e sulle strade” (cadutisullavoro. blogspot.com/). Nonostante la crisi e la chiusura di molte fabbriche, le morti sul lavoro non diminuiscono ma aumentano. Per il 2011, l’Osservatorio di Bologna dava la cifra di 1.170, e per il 2010 la cifra di 1.080. Ciò significa che i lavoratori, per non venire licenziati o per non perdere il posto di lavoro sotto il solito ricatto dei padroni (“bisogna battere la concorrenza e tutti devono fare la loro parte”), vengono sottoposti a condizioni di maggior rischio sia dal punto di vista di turnazioni più vicine e lunghe, sia dal punto di vista dell’intensità lavorativa; naturalmente i padroni intanto risparmiano sui materiali e sulle misure di sicurezza, anche le più elementari, come succede regolarmente nell’edilizia, nell’agricoltura e nella metalmeccanica.

 

Cina. 8 gennaio 2013. Centro commerciale in fiamme nella città di Harbin, nel nord est della Cina, al centro della Manciuria, di recente industrializzazione. Non si hanno notizie sulle vittime. 20 gennaio  2013. Palazzo inghiottito da una voragine. Nella città di Guangzhou un intero edificio è stato inghiottito da una voragine apertasi nelle vicinanze di un cantiere per la costruzione della metropolitana. Come succede quasi sempre per notizie di questo genere provenienti dalla Cina, non si hanno notizie sulle vittime. (www.asianews.it/notizie.it/)

 

Svizzera. A Bellinzona, il 19 gennaio 2013, un operaio italiano di 30 anni viene travolto da detriti staccatisi dallo scavo nel quale stava lavorando, e muore. (cadutisullavoro.blogspot.com/).

 

Italia. 21 gennaio 2013. A Lozza, in privincia di Varese, un operaio di 55 anni muore colpito in testa da materiali mentre era al lavioro nella costruzione dell’autostrada Pedemontana. Sempre il 21 gennaio, sulla nave da crociera Costa Serena che faceva rotta per Buenos Aires e Angra Dos Ries, un meccanico indonesiano di 48 cade nel condotto di ventilazione della nave e muore. (cadutisullavoro.blogspot.com/).

 

Bangladesh. 26 gennaio 2013. Nuovo rogo nella fabbrica Smart Exports Garments di Dhaka, in cui sono morte 7 operaie, ferite 15 di cui alcune molto gravi. Questa fabbrica produceva capi d’abbigliamento per il gruppo spagnolo Inditex SA (Itx), tra i più grandi del mondo e che possiede oltre 100 firme di cui le più note sono Bershka, Massimo Dutti, Pulland Bear, Oysho, Leftie’s. Vi lavoravano circa 300 operai, perlopiù donne. Nè uscite di sicurezza, né attrezzature antincendio. Sotto la pressione degli operai continuamente colpiti da tragedie di questo genere ed esposti quotidianamente al pericolo di morte, tre sindacati del settore hanno chiesto al governo “l’arresto dei proprietari della Smart Exports Garments e della Tazreen Fashion, minacciando di assediare il Labour Director’s Office”, ma non sappiamo che risultato abbiano avuto queste minacce e in che modo il governo sia intervenuto. (www. asianews.it/ notizie.it/ Bangladesh.-nuovo-rogo-in-fabbrica:-colosso-europeo-rescinde-i-contratti-26994.html). Quel che si sa è che la strage di operai e operaie è continuata!

 

Brasile. A Santa Marta, importante polo univesitario, a 300 km a ovest di Porto Alegre, il 27 gennaio 2013, un bengala sparato durante un concerto ha dato fuoco al soffitto di una discoteca. Sono almeno 245 le vittime dell’incendio, morti per asfissia o perché calpestati nella ressa. Uscite di sicurezza e misure di prevenzione praticamente inesistenti! (http://it.euronews.com/2013/01/28/incendio-discoteca-il-brasile-piange-le-vittime-fermate-quattro-persone/). Non si muore solo al lavoro, ma anche quando si cerca di compensare le fatiche e le frustrazioni quotidiane sui posti di lavoro con qualche ora di divertimento.

 

Messico. Incendio nella Torre Pemex a Città del Messico. 31 gennaio 2013. La compagnia petrolifera messicana, Pemex, ha sede in un grattacielo di 54 piani a Città del Messico. La Torre Pemex, situata sulla Avenida Marina Nacional in pieno centro, è il secondo grattacielo più alto della capitale messicana; può ospitare fino a 11 mila persone, è alta 214 metri e, oltre ai 54 piani dalla superficie con sul tetto un eliporto, ha 8 piani nel sottosuolo. Un’esplosione, sembra provocata da problemi di natura elettrica all’edificio, ha fatto non meno di 25 morti e più di 100 feriti, danneggiando seriamente lo stesso grattacielo. http://www.iljournal.it/2013/lincendio-nella-torre-pemex-a-citta-del-messico/434720 e http://www. informador.com.mx/mexico/2013/434154/6/ordenan-desalojar-zona-de-rescate-en-complejo-de-pemex.html 

 

Italia. 6 febbraio 2013. Un operaio di 50anni, mentre è alla guida di un mezzo meccanico, viene travolto e sepolto da detriti in una cava di inerti a Villafranca Sicula in provincia di Agrigento. Lo stesso giorno, a Cavezzale in provincia di Vicenza, un tecnico di 37 anni, mentre stava colaudando un magazzino automatico a scorrimento resta impigliato negli ingranaggi e muore. (cadutisullavoro. blogspot.com/).

 

Bangladesh. Dhaka, febbraio 2013. Un violento incendio distrugge un centinaio di baracche di una bidonville alla periferia di Dhaka dove vivono ammassati migliaia di operai che lavorano nelle fabbriche vicine. Un anno prima, ci sono state drammatiche proteste contro i bassi salari e le tremende condizioni di lavoro in oltre 300 delle 4500 fabbriche di abbigliamento del paese. A dimostrazione che delle condizioni di bestiale schiavitù in cui sono costretti gli operai bangladeshi non sono responsabili soltanto gli avidi capitalisti e governanti locali, e che le mani sporche di sangue ce l’hanno anche i capitalisti in giacca e cravatta delle metropoli occidentali, basta leggere qui di seguito: “Gli scioperi finirono dopo la minaccia dei rappresentanti di 19 marchi del mercato mondiale tra cui la Wall-Mart, H&M, Gap, Carrefour e Marks & Spencer, di spostare le produzioni altrove. I continui disordini – scrissero in una nota al governo – ostacolano la produzione e questo causa ritardi nella consegna degli ordini”! (www.repubblica.it, 24/4/2013).

 

Italia. Ad Anagni, in provincia di Frosinone, il 19 febbraio 2013, un operaio di 43 anni muore cadendo da un’impalcatura dall’altezza di 20 metri mentre era impeganto in operazioni di manutenzione in uno stabilimento di distillazione. Secondo il “Rapporto del Ministero del Lavoro sull’attività ispettiva 2012", nel settore edile la maggioranza degli incidenti mortali è dovuta alle cadute dall’alto e, in genere, dalla “scarsa attenzione alle problematiche attimenti agli scavi e fondazioni e alla viabilità interna ai cantieri”, oltre alla scarsa attenzione al “rischio elettrico, l’utilizzo di attrezzature di lavoro e dei dispositivi di protezione collettivi ed individuali”.

Sempre il 19 febbraio, nell’astigiano in una azienda vinicola di Canelli un operasio di 33 anni muore per esalazioni da fermentazione in una vasca per le uve. (cadutisullavoro.blogspot.com/).

 

Italia. Il 20 febbraio 2013, a Novi Ligure in provincia di Alessandria un operaio di 58 anni è rimasto schiacciato da un semovente a cingoli, tra il mezzo e il guard-rail, mentre esguiva operazioni di manutenzione delle barriere di protezione sull’autostrada A7 Milano-Genova. Tre giorni dopo, il 23 febbraio, due operai di 56 e 53 anni, vengono travolti dall’acqua per il cedimento della porta vinciana mentre lavoravano in una paratia in una conca di Valle Lepri, a San Giovanni di Ostellato, nel ferrarese.

 

Italia. Ilva di Taranto. Il 28 febbraio 2013, alle 4 e trenta del mattino, per il crollo di alcune passerelle di sicurezza alla batteria 9 delle cokerie, un operaio è morto e un altro è rimasto ferito. Gli operai erano stati chiamati d’urgenza per un pronto intervento alla colata, in un impianto del tutto fermo perché in rifacimento. E’ il quarto operaio morto in pochi mesi all’Ilva. E’ scattato immediatamente uno sciopero di 24 ore e un presidio ad oltranza. “Il ripetersi di eventi luttuosi ci costringe a riflettere sulla urgenza di iniziative di contrasto a comportamenti non sempre in linea con quanto la legge e il rispetto per la vita umana nei luoghi di lavoro richiedono”: queste le parole del ministro del Lavoro,  Elsa Fornero, dopo l’incidente mortale. E mentre il ministro “riflette”, e il direttore dello stabilimento ricorda che l’operaio morto era un “operaio modello”, gli operai continuano ad essere assassinati sui luoghi di lavoro!

 

Italia. 25 marzo 2013. incidente mortale sul lavoro in un’azienda tessile del biellese. Un’operaia è stata ghermita da una macchina mentre stava lavorando e ha perso la vita. L’intervento dei soccorsi non ha fatto altro che constatarne la morte. (http://www. controlacrisi.org/ notizia/ Sicurezza +sul+lavoro/ 2013/3/25/32166-morta-unoperaia-sul-lavoro/)

 

Italia. La prima decade di aprile è drammatica per i lavoratori. Il 9 aprile, a Valmadrera, in provincia di Lecco, un lavoratore di 57 anni muore all’ospesdale per le lesioni riportate in un incidente sul lavoro del giorno prima, mentre scaricava da un autotreno della rete metallica. A Pelermo un operaio di 41 anni muore dopo essere stato travolto da un camion in retromarcia mentre stava lavorando per la realizzazione della linea tranviaria in via Leonardo da Vinci. A Bologna, un autista di un carro attrezzi di 51 anni muore schiacciato contro un muro dal cavo del mezzo su cui stava lavorando per rimuovere un’automobile. A Canosa Sannita, in provincia di Chieti, un pensionato di 71 anni, alla guida della propria pala meccanica, mentre stava sistemando un suo terreno, è rimasto schiacciato sotto il pesante mezzo. A Fabriano, in provincia di Ancona, un agricoltore di 66 anni è morto schiacciato da proprio trattore che si è ribaltato e lo ha travolto. A Valtina, in provincia di Bolzano, un boscaiolo di 51 anni muore travolto da un albero appena abbattuto. A Foggia, nel villaggio degli artigiani, un tappezziere di 52 anni muore cadendo da un balcone. Il 10 aprile 2013, a Marghera, in provincia di Venezia, un operaio albanese di 33 anni muore folgorato in una cabina elettrica a media tensione, mentre un suo compagno di lavoro rimane ferito. A Marcianise, in provincia di Caserta, un operaio pakistano di 37 anni muore precipitando dal tetto di un capannone industriale. (cadutisullavoro. blogspot.com/) e (http:/ /www. contropiano.org/ sicurezza-lavoro/item/ 15750-ieri-strage-sul-lavoro-6-morti).

A Roma, un operaio di 32 anni della Mautencoop, un’azienda che si occupa delle pulizie all’interno dei nuovi treni Italo di alta velocità, viene investito da un treno d’alta velocità Frecciarossa in transito alla Stazione Tiburtina. Proprio lo stesso giorno, a Roma, in piazza del Popolo, era prevista una cerimonia delle Ferrovie per presentare al pubblico il nuovo Frecciarossa 1000, alla presenza del presidente della repubblica Napolitano. La cerimonia c’è stata, alla presenza degli operai della Bombadier di Vado Ligure e dell’Ansaldo Breda di Pistoia che hanno lavorato alla realizzazione di questa modernissima saetta delle rotaie, ma “in considerazione dell’investimento mortale avvenuto nella stazione di Roma Tiburtina”, dichiara una nota delle FS, “tutti i festeggiamenti sono stati cancellati a cominciare da quello programmato nella serata”. (http://www.dirittiglobali.it/home/categorie/40-salute-a-sicurezza-sul-lavoro/44167-operaio-travolto-dal-frecciarossa-nel-giorno-della-festa-per-il-nuovo-treno-.html). I  familiari dell’operaio travolto dal Frecciarossa devono essere rimasti davvero impressionati da tanta sensibilità... Non si hanno notizie, però, di alcuna manifestazione di protesta da parte degli operai della Bombardier e dell’Ansaldo Breda, convenuti a quella cerimonia, per il fratello di classe ucciso sui binari della Tiburtina!

Il 12 aprile, un agricoltore di 65 anni muore schiacciato dal suo trattore a Piandimeleto nella  provincia di Pesaro Urbino. Sempre nelle campagne di Urbino, il 14 aprile, muore un altro agricoltore travolto da un mezzo agricolo. Il 17 aprile, a Modica, in Sicilia, un altro agricoltore, di 65 anni, muore schiacciato dal suo trattore. Lo stesso giorno, a Revigliasco, in provincia di Torino, un uomo di 56 anni muore schiacciato da un bobcat (www.cadutisullavoro.it).

 

Stati Uniti d’America. Texas. Una fabbrica di fertilizzanti va a fuoco. 18 aprile 2013. Una vera e propria strage provocata dallo scoppio di una fabbrica di fertilizzanti, la West Fertilizer Co., nei pressi di West, un piccolo centro a 30 km da Waco, in Texas. “Decine se non centinaia di morti, centinaia di feriti, edifici in fiamme, una sessantina di case rase al suolo nel raggio di 5 km”; “per dare un ordine di grandezza della potenza dell’esplosione, basta ricordare che nella strage di Oklahoma City, il 19 aprile 1995, che provocò il crollo di decine di palazzi, vennero utilizzate due tonnellate di fertilizzanti chiuse in un furgone. Stavolta invece è salata in aria un’intera fabbrica”. (http://www.iljournal.it/2013/immagini-dal-disastro-del-texas/458811). Due morti e 200 feriti, di cui 40 in gravi condizioni, finora le vittime accertate. L’esplosione è stata così potente da provocare un sisma di magnitudo 2.1; lo ha rilevato l’Usgs, l’istituto geofisico americano (http://www. lettera43.it/ cronaca/texas-esplosione-in-fabbrica-di-fertilizzanti_4367591920.htm).

 

Bangladesh. Dhaka, distretto industriale di Savar a 24 km a nord-ovest dalla capitale. Il 24 aprile scorso crolla un palazzo di 8 piani, chiamato Rana Plaza, dove erano concentrate ben cinque fabbriche tessili nelle quali lavoravano oltre 3000 operaie e operai, e vi era anche una banca e un mercato; dopo alcune settimane il conto dei morti è di più di 1.100, più di 1000 i feriti! Il moderno palazzo, costruito evidentemente con le tecniche più “moderne” per risparmiare sui materiali, si è piegato su se stesso, ha cominciato a cedere dall’alto e poi si è afflosciato al centro: non c’è stato scampo per nessuno. Un crollo inatteso? No!, da tempo gli operai denunciavano, allarmati, crepe nei muri, ma i padroni hanno continuato a fare orecchie da mercante minacciando di non pagare gli arretrati agli operai che, per paura, non sarebbero andati a lavorare! (http://www.asianews.it/notizie-it/I-morti-del-Rana-Plaza-erano-ricattati-dai-datori-di-lavoro-27769.html). Dopo la tragedia  emergono alcune notizie sulle cause del crollo. Il palazzo poggiava sull’area di uno stagno, prosciugata in fretta e furia, riempita con terreno friabile e – secondo le stesse autorità! – era privo di permessi regolari. Originariamente l’edificio avrebbe dovuto avere 5 piani, ma il proprietario aveva fatto aggiungere 3 piani e, ultimamente, aveva fatto aggiungere un nono piano per poter contenere ancor più operai!

Il proprietario, Mohammed Sohel Rana, legato a doppio filo con il partito al potere (l’Awami League, AL), qualche giorno dopo la strage cercava di scappare all’estero, ma è stato fermato e arrestato. Le fabbriche tessili che avevano sede in questo palazzo producevano capi di abbigliamento per molte società occidentali, tra cui le italiane Icd, Essenza Spa e Benetton (la Benetton, subito dopola tragedia, aveva negato di avere rapporti con queste fabbriche, ma poi è stata smentita dalle foto delle macerie da cui emergevano capi d’abbigliamento con le etichette United Colors of Benetton!), l’inglese Primark, le spagnole Mango e El Corte Ingles, le canadesi Joe Fresh e Loblaw, la svedese H&M, le statunitensi Wall-Mart e Gap, l’olandese C&A, la cinese Li&Fung, le tedesche Kik e Adidas.

Dopo la tragedia, la britannica Primark e la canadese Loblaw hanno dichiarato di voler “dare il proprio sostegno nel miglior modo possibile” alle famiglie delle vittime “che riceveranno aiuti adesso e in futuro”. Dichiarazioni che dimostrano come ai capitalisti non interessa che siano assicurate efficaci misure di sicurezza sui posti di lavoro, ma che siano assicurate le condizioni più favorevoli perché il flusso dei loro profitti non si fermi e che il “buon nome” dei loro marchi abbia la “credibilità” necessaria nei mercati mondiali. La “credibilità” della merce sul mercato, si sa, è un valore psicologico perché si basa sulla “fiducia” che il consumatore pone sul prodottto che acquista: più alta è la fiducia, più facilmente quel prodotto si vende e, viceversa, se cade la fiducia, cadono di conseguenza le vendite. E poi, chi mai controllerà se questi “aiuti” arriveranno e a chi effettivamente andranno? Col sistema di corruzione che permea l’intero comparto industriale bangladeshi e le stesse istituzioni, che fiducia potranno mai avere le famiglie degli operai assassinati? Per il capitalismo prima di tutto viene il profitto, al costo più basso possibile, e poi la vita dei lavoratori salariati che, in ogni caso, da vivi valgono qualche spicciolo e da morti ancor meno!.

Il 25 aprile, una folla oceanica di lavoratori bengalesi è scesa in strada a Dhaka per protestare con tutta la rabbia che avevano in corpo contro i padroni del tessile. Se crolla un palazzo o si incendia una fabbrica, per lo Stato borghese si tratta di “incuria e inosservanza delle leggi”: istruisce un’inchiesta, si cercano i “responsabili” che saranno perseguiti secondo le leggi vigenti e nei tempi decisi dai tribunali borghesi e dai cavilli burocratici e prima o poi, magari dopo anni, arriverà una sentenza di condanna, ma nel frattempo altre fabbriche crolleranno, si incendieranno ed altri operai continueranno a morire “per incuria e inosservanza delle leggi” da parte dei padroni. Se si tratta invece di lavoratori che si ribellano di fronte alla strage continua, con le sole armi che dispongono al momento e cioè manifestando violentemente per le strade la propria rabbia, allora intervengono immediatamente i reparti antisommossa della polizia per sedare una violenza che lo Stato borghese non tollera. La violenza continua, quotidiana, che i capitalisti esercitano sistematicamente contro i proletari nelle proprie fabbriche è considerata dal potere borghese più che legittima, fino a quando ci scappano i morti... e allora si istruiscono le inchieste per stabilire “di chi è stata la colpa”, ...come sono andati effettivamente i fatti, ...quanta colpa andrà attribuita al costruttore, al manutentore, al controllore, al capo, al padrone o all’operaio stesso! Lo Stato borghese fa le leggi per la sicurezza sul lavoro ma non ne controlla mai preventivamente  l’attuazione affinché incidenti o tragedie sul lavoro non succedano, ed è lo stesso Stato che pretende di “fare giustizia” quando gli incidenti e le tragedie sul lavoro avvengono, trattando la questione come una qualsiasi pratica burocratica. Al contrario, la reazione violenta degli operai, stanchi di essere sfruttati come veri e propri schiavi di un sistema che li spreme fino all’ultima goccia di sudore e li uccide, è invece considerata dallo Stato borghese eversiva, illegittima e, quindi, da reprimere. Che “giustizia” possono mai attendersi i proletari dallo Stato borghese? Il loro diritto alla vita, i diritti relativi al salario, alla salute e alla sicurezza sul posto di lavoro o vengono imposti allo Stato borghese con la forza o i proletari continueranno a subire angherie, vessazioni, soprusi, assassinii da parte di padroni votati esclusivamente al profitto capitalistico e di uno Stato che ne difende gli interessi.

Qual è la differenza tra gli operai che muoiono sotto le macerie di un palazzo che crolla o a causa di un incendio, nella fabbrica Tazreen Fashion o al Rana Plaza in Bagladesh, nella fabbrica Wing Star Shoes in Cambogia o alla Thyssen di Torino, o dopo anni avendo respirato per lungo tempo fibra di amianto come nelle fabbriche della Eternit di Casale Monferrato, o in tutti i cantieri edili e navali in cui l’amianto si è usato normalmente? I luoghi sono diversi e lontanissimi uno dall’altro, il tenore di vita degli operai di un paese capitalisticamente sviluppato come l’Italia è certamente diverso da quello degli operai del Bangladesh e della Cambogia, ma le cause della loro morte vanno cercate nello stesso modo di produzione, nelle stesse leggi del valore e di mercato che governano il mondo borghese: le leggi del capitalismo. Ed è col capitalismo che bisogna finirla se si vuole che il lavoro umano non sia più tormento e morte!

 

Italia. 26 aprile 2013. A Guardia Piemontese, in provincia di Cosenza, un operaio di 40 muore folgorato in una cabina di un depuratore. Il 2 maggio, a Limatola, in provincia di Benevento, un operaio di 26 anni muore in un’officina meccanica colpito da una barra di ferro. Il 3 maggio ad Albaredo per San Marco, in provincia di Sondrio, un boscaiolo di origini marocchine muore schiacciato da un tronco. (www.cadutisullavoro.it). 30 aprile a Velletri, in provincia di Roma, un operaio rumeno di 46 anni che lavorarfva in nero con altri tre operai, stava eseguendo dei lavori di ristrutturazione al pianterreno di un edificio nel quale il proprietario voleva ricavare un pub, quando un solaio gli è crollato addosso, uccidendolo. Inutile dire che, oltre al tipico sfruttamento da lavoro in nero, era assente qualsiasi protezione. (http://www.controlacrisi.org/notizia/Lavoro/2013/5/1/33202-velletri-rm-morire-di-lavoro-alla -vigilia-della-festa-del/).

 

Sudan. Darfur. Un crollo in una miniera d’oro provoca la morte di oltre 60 minatori. La tragedia avviene il 29 aprile, ma se ne ha notizia solo il 2 di maggio. La conta dei morti potrebbe non essere terminata, perché, come dichiara il commissario locale di Jebel Amir, “le operazioni sono molto lente perché bisogna scavare a mano. Il terreno rischia di crollare”.  (http://www. controlacrisi.org/ notizia/ Sicurezza+sul+lavoro/2013/5/2/33247-darfur-crolla-miniera-doro-più-di-60-morti/)

 

Italia. Alle 23.30 del 7 maggio 2013 la portacontainer Jolly Nero, della compagnia Messina, lunga 239 metri e con 40.600 t di stazza, in condizioni meteo perfette, durante la manovra di uscita dal porto di Genova con rotta Napoli e poi vari porti del Mediterraneo, del Mar Rosso e Abu Dhabi, mentre procedeva accompagnata da due rimorchiatori, il Genua e lo Spagna con la poppa avanti in attesa di ruotare nel bacino di evoluzione ed uscire dal porto di prua, ha urtato e abbattuto la Torre di controllo del Porto. Questa torre, detta “Torre piloti” (alta 54 metri), era una struttura in cemento situata al molo Giano; al momento dell’impatto vi lavoravano 13 persone: 9 sono morte, 4 i feriti. Le cause dell’incidente sono molteplici, come molteplici sono le polemiche intorno ad esse. La compagnia navale Messina, una delle più grandi compagnie mercantili, la fa da padrona in diversi porti italiani, e in particolare a Genova, dove ha avuto il permesso di far attraccare le sue mastodontiche portacontainer a moli inadatti, perché la loro struttura e posizione non permettono manovre regolari e in piena sicurezza a naviglio di quel tonnellaggio. Sta di fatto che, sia per risparmio di tempo – in quel periodo il molo su cui avrebbe dovuto attraccare era sottoposto a lavori di manutenzione e quindi non si poteva utilizzare, ma gli affari non potevano attendere – che per risparmi nel servizio di supporto, ad esempio dei rimorchiatori (dato il tonnellaggio sarebbero stati necessari ben più di due rimorchiatori) per le manovre all’interno del porto, una nave di quelle dimensioni era collocata in una parte del porto nella quale, stretta com’è, per poter riprendere il mare, doveva per forza fare una manovra di retromarcia, ruotare di centottanta gradi, e dirigersi verso il mare aperto con l’aiuto dei rimorchiatori. Inoltre, va detto che la “Torre piloti” è stata innalzata – a detta di molti esperti, più per estetica avveniristica e vanto architettonico che per reale utilità – proprio ai bordi del molo, filobanchina, senza alcuna reale protezione. Così, la prima volta che una nave, sbagliando manovra, finisce contro il molo dove si trova la Torre, la colpisce inevitabilmente. Hanno continuato a parlare di possibile avaria ai motori della Jolly Nero, per cui quando dovevano fermarsi per permettere la virata dello scafo non hanno risposto al comando; la forza stessa di una nave di quel tonnellaggio, non più governata dai motori, non poteva essere governata dai rimorchiatori i quali attraverso i cavi d’acciaio che li collegavano alla nave hanno tentato di frenare la corsa della Jolly Nero verso il molo, ma i cavi si sono spezzati. Naturalmente la nave è finita sotto sequestro e vi sarà un processo per “omicidio colposo contro ignoti”. I profitti che la compagnia Messina perde per il fermo della Jolly Nero cercherà ovviamente di recuperarli con le altre “Jolly” in servizio, e per i trasporti più disparati, ma è certo, come già è successo altre volte, che incidenti come quello della Jolly Nero possono ancora avvenire. Nell’ottobre del 2002, la Jolly Verde, una portacontainer da 30mila tonnellate, lunga circa 200 metri, sperona il Ponte Libia, sempre nel porto di Genova, e abbatte una grossa gru “Pacheco” (sono le enormi gru a ponte che servono per il carico e lo scarico dei container); tutto succede di notte e sulla banchina e sulla gru non c’è nessuno; fosse successo di giorno sarebbe stata una tragedia. Il 2 maggio 1998, sempre nel porto di Genova, è la Jolly Rosso (la numero 2, perché la numero 1, detta anche la “nave dei veleni” per via di trasporti di rifiuti tossici illegali, fu demolita nel 1991) a provocare un incidente in cui morirono due marittimi: il cavo d’ormeggio della nave si staccò di colpo e colpì i due marittimi per i quali non c’è stato nulla da fare. Più recentemente, nell’agosto 2011, la Jolly Grigio sperona davanti a Ischia il peschereccio “Giovanni Padre”: muoiono due marinai rimasti intrappolati nell’imbarcazione; ma già 8 anni prima, nel 2003, un’altra Jolly, la Blu, sperona al largo di Piombino un peschereccio: muore un marinaio. Non c’è che dire: con le Jolly della compagnia Messina gli incidenti e i morti sono assicurati, ma il business non si ferma!

 

Bangladesh. Dhaka. Alla Tung Hai Sweater Ltd, situata nel quartiere di Mirpur, verso le 23 dell’8 maggio 2013, quando il ciclo produttivo si era appena concluso, scoppia unn incendio nella fabbrica tessile. All’interno dell’edificio i vigili del fuoco trovano 7 cadaveri fra cui il direttore della fabbrica e l’ispettore generale della polizia, il che fa dichiarare agli inquirenti che la fabbrica era chiusa e che “l’incendio ha qualcosa di misterioso”. (www. ansa.it /web/ notizie/ rubriche/mondo/ 2013/05/09/ Rogo-fabbrica-tessile-Dacca-7-morti_8676063.html)

 

Italia. 9 maggio 2013. A Monfalcone, in provincia di Gorizia, un operaio manovratore del porto di 52 anni è morto investito da un vagone. A Tessarolo, in provincia di Alessandria, un operaio albanese di 45 anni muore folgorato da una linea elettrica. A Venezia, un conduttore di taxi acqueo è morto urtando con la propria imbarcazione contro la parete di un canale. (http://www. quotidiano sicurezza.it/sicurezza-sul-lavoro/caduti-sul-lavoro/sei-morti-lavoro.html) .

 

Cina. Miniera di carbone di Dashan, nella contea di Pingba, nella provincia del Guizhou. Uno scoppio nella miniera provoca una fuga di gas che si infiamma. 12 operai muoiono, due sono in ospedale con ferite gravi. (http://www. ansa.it/ web/ notizie/ rubriche/ topnews/2013/05/11/Cina-scoppio-miniera-12-morti_868704.html)

      

Cambogia. Crolla una fabbrica di scarpe, la Wing Star Shoes di proprietà taiwanese, che produceva scarpe per la giapponese Asics. La fabbrica è situata a Maha Russei, nella provincia di Kampong Spen, a 40 km a sud della capitale Phnom Penh. Sono le prime ore del mattino del 15 maggio 2013, inizio turno, vi sono un centinaio di operai: non meno di 6 morti e 11 feriti, ma il bilancio è destinato a salire. Il soffitto della fabbrica è crollato perché “realizzato in modo inadatto e con materiali scadenti” perciò non poteva sostenere il peso dei macchinari al piano superiore, come scrive il Corriere della Sera del 16 maggio (www.corriere.it/esteri/13-maggio-16/cambogia-crolla-fabbrica_df8e548a-bde3-11e2-9b45-0f06f9d2f77b.shtml); vedi anche www. huffingtonpost.it/ 2013/05/16/ cambogia-crolla-fabbrica-_n_ 3283943.html

 

Cina. 18 maggio 2013. Notizia riportata dall’AGI. Nelle ultime tre settimane si sono suicidati tre operai della Foxconn, l’azienda che assembla tra gli altri i prodotti di Apple, Sony e Nokia in Cina. Questi tre operai si sono gettati da una finestra dello stabilimento di Zhengzhou. Non sono i primi operai che si suicidano; nel 2010 non meno di 13 operai della Foxconn fecero la stessa fine. Alla base di questi tragici gesti le durissime e mal pagate condizioni di lavoro divenute intollerabili a tal punto da spingere operai resi “individui soli contro il mondo” a togliersi la vita piuttosto che continuare ad essere costretti in quelle condizioni.

La Foxconn, il produttore più grande al mondo di componenti per computer, impiega più di 1 milione e 100mila operai negli stabilimenti in Cina, ma è diventato famoso per le condizioni bestiali in cui fa lavorare i suoi operai. (http://www. agi.it/ estero/ notizie/201305180855-est-rt10009-cina_ tre_ nuovi_ suici_a_f oxconn_ la_ fabbrica_ dei_prodotti_apple).

 

Italia. 27 maggio 2013. Cernusco sul Naviglio, in provincia di Milano. Un operaio edile, per il crollo di un’impalcatura, precipita al suolo e muore. Dall’inizio dell’anno i morti sul lavoro sono 204! Una vera guerra borghese contro i proletari! (http://www.dirittidistorti.it/articoli/12-lavoro/1342-lavo-crolla-impalcatura-muore-operaio.html). Sempre nel milanese, un operaio cinese di 47 anni, dipendnete regolarmente assunto da una ditta di manutenzione delle linee elettriche, mentre stava lavorando in cima ad un traliccio della Terna alto circa 30 metri è caduto nel vuoto, morendo all’istante. (http://operaicontro.it/?p=9755711129).

 

Cina.3 giugno 2013. Sono non meno di 93 le vittime, e molti i dispersi, a causa di un incendio che ha devastato un’azienda in cui si macellano i polli, situata nei sobborghi di Dehui, nella provincia nord-orientale di Jilin, già tristemente nota per tragedie simili. Questa volta, a finire arrostiti non sono stati i polli ma gli operai! La fabbrica è di proprietà della Jilin Baoyuanfeng Poultry Company, e come moltissime altre fabbriche e miniere, le misure di sicurezza sul lavoro sono scarsissime se non inesistenti. L’azienda, fondata nel 2009, impiega circa 1200 dipendenti e produce agni anno 67mila tonnellate di prodotti a base di pollame. In questo caso, inoltre, i cancelli della fabbrica, quando è scoppiato l’incendio, erano chiusi e ciò ha ritardato notevolmente l’opera dei soccorritori. Resta il fatto che, pur esistendo leggi molto severe sulle misure di sicurezza, la corruzione è talmente diffusa che molti imprenditori le evadano senza tanti scrupoli. Secondo le dichiarazioni del direttore tecnico del Grains Council americano, riferite al Washington Post, “le condizioni di sicurezza di solito vengono ultime nella progettazione di tali edifici, che hanno come priorità le caratteristiche per massimizzare la produzione e l’efficienza energetica” (il manifesto, 4/6/13). Ma la massimizzazione della produzione e quella dell’efficienza energetica stanno alla base della produzione capitalistica e della lotta di concorrenza a livello mondiale: può essere al limite contenuta un po’, ma non eliminata, perciò i proletari continueranno a morire per massimizzare la produzione caspitalistica!  Secondo le statistiche ufficiali, che in Cina come in qualsiasi altro paese non rappresentano se non parzialmente la realtà, gli incidenti sul lavoro sono costati la vita a 79.552 cinesi, 218 al giorno! Il tributo di sangue proletario allo sviluppo frenetico del capitalismo cinese è altissimo e solo la lotta proletaria spietatamente anticapitalistica potrà riscattarlo! (http://www.misna.or/altro/oltre-90-morti-in-incendio-in-impianto-per-macellazione-03-06-2013-813.html). Qualche giorno dopo, la conta degli operai morti bruciati nell’incendio era già salita a 119. (kaosenlared, 5/6/2013).

 

Cambogia. 5 giugno 2013. Phnom Penh. Migliaia di operai tessili in piazza a manifestare per la liberazione dei propri compagni arrestati due guiorni prima durante le manifestazioni di piazza rivendicando aumenti salariali e migliori e più sicure condizioni di lavoro. Questa volta in sindacati nazionali, in genere molto accondiscendenti con il padronato e il governo, non hanno potuto fare altro che “guidare” le manifestazioni di protesta di migliaia di operai tessili alla cui testa si erano messi gli operai della taiwanese Sabrina (Cambodia) Garment Manifacturing che produce vestiti e calzature per l’americana Nike. L’industria tessile cambogiana, come quella del Bangladesh, del Pakistan e cinese, è vitale per l’economia del paese e, come le altre, lavora per le grandi marche occidentali. Ma le condizioni di lavoro non sono solo schiavistiche, sono in permanenza altamente rischiose per la vita degli operai i quali, oltre a morire per colpa dei padroni e dei governanti, se protestano vengono repressi violentemente dalla polizia che dimostra, in questo modo, di svolgere il suo vero compito che non è quello di difendere i cittadini dai soprusi, dalle intimidazioni, dagli omicidi perpetrati nelle fabbriche, ma di difendere gli affari dei capitalisti e la legge che ne tutela i privilegi. (vedi, www. asianews.it/ notizie-it/Migliaia-di-operai-del-tessile-in-piazza-per-la-liberazione-di-colleghi-arrestati-28116.html).

 

Bangladesh. 6 giugno 2013. Dhaka, centinaia di operai di un’azienda tessile avvelenati dall’acqua. Le notizie riportano la denuncia del fatto che molte operaie e operai sono stati ricoverati al Tongi Government Hospital di Gazipur, divisione amministrativa di Dhaka, con fortissimi dolori all’addome, manifestando nausee e conati di vomito prolungati. E’ quasi certo che si tratta dell’acqua distribuita all’interno della fabbrica Starlight Sweaters, azienda del gruppo Labib, i cui responsabili non si sono nemmeno sognati di interessarsi della salute dei loro operai colpit a decine da questa “epidemia” da acqua contaminata. Sono settimane che gli operai e le operaie, dopo i gravissimi incidenti mortali di questi ultimi mesi, continuano a manifestare rivendicando aumenti salariali e condizioni di lavoro migliori. L’ultima manifestazione che ha visto i familiari delle vittime del Rana Plaza che chiedevano il risarcimento promesso e mai dato per la morte dei loro congiunti, è stata repressa con la forza dalla polizia.

 

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La lista delle stragi sarebbe davvero interminabile, ma basta rintracciare le notizie che hanno fatto clamore negli ultimi mesi per rendersi conto che la borghesia, soprattutto in situazione di profonda crisi economica nella quale il tasso medio di profitto è caduto vertiginosamente, pur di ripristinare i livelli di profitto precedenti alla crisi che ha sconquassato l’economia mondiale, ha sferrato un attacco concentrico contro il proletariato in una guerra di vera e propria rapina. Mentre nei paesi capitalistici avanzati i colpi di maglio si abbattono direttamente sui salari, sui posti di lavoro – abbassando il tenore di vita proletaria rispetto agli anni addietro e aumentando notevolmente la disoccupazione soprattutto giovanile – e sugli ammortizzatori sociali, diminuendo drasticamente i livelli di “protezione” sul terreno della sanità, della disoccupazione, della previdenza sociale, nei paesi capitalisticamente meno sviluppati ma gonfi di manodopera a bassissimo costo, la guerra del capitale contro il lavoro si svolge in modo molto più feroce e cinico, aumentando a dismisura le vessazioni e i soprusi nei confronti di masse proletarizzate a forza nei decenni scorsi e costrette in condizioni di disperata sopravvivenza. Qui i proletari non trovano lavoro, laggiù lo trovano solo per salari da fame e rischiando quotidianamente la vita!

  Il quadro che i tragici fatti degli ultimi mesi svelano è significativo: le condizioni di sfruttamento contro cui nell’Ottocento il proletariato inglese, francese, tedesco, italiano, russo si è ribellato lottando strenuamente per imporre con la forza della sua lotta classista alle borghesie dei propri paesi la legge delle 8 ore e condizioni di lavoro meno nocive per la salute, sono condizioni di lavoro in cui sono immersi oggi i proletari del Bangladesh, del Pakistan, della Cambogia, del Vietnam, della Cina come quelli dell’India e del Messico, o del Sudafrica e del Brasile. E sono condizioni di lavoro disumane che stanno tornando anche nella ricca e civilissima Europa. I proletari europei di oggi devono guardare alle lotte delle generazioni proletarie del passato non come a qualcosa di vecchio e ormai superato: non c’è nulla di nuovo da inventarsi, non ci sono da scoprire forme di opposizione e di lotta sostanzialmente diverse da quelle dei proletari parigini della Comune del 1871, o dei proletari tedeschi contro la guerra del 1914, o dei proletari russi del 1905 e del 1917, o dei proletari italiani del 1919-1920.

Lo sfruttamento bestiale e assassino con cui i capitalisti dei paesi ricchi schiacciano le masse proletarie dei paesi economicamente arretrati anche per mano dei capitalisti locali, non è diverso da quello dei capitalisti inglesi o tedeschi, francesi o italiani o russi di un secolo fa. Ma i proletari dei paesi ricchi non possono star tranquilli: la crisi che ha azzannato i conti in banca e i profitti dei capitalisti è, per loro, motivo più che sufficiente per riportare le condizioni di bestiale sfruttamento dell’Ottocento anche nelle civilissime Europa e America. I capitalisti occidentali hanno oggi un punto di forza in più che non avevano negli anni Venti del secolo scorso o negli anni Settanta-Ottanta dell’Ottocento: il collaborazionismo sindacale e politico delle organizzazioni economiche e dei partiti che si definiscono operai: oggi, questo collaborare col nemico di classe, è molto più pesante di allora, e perciò ci vorrà molta più energia e forza di classe da parte del proletariato per scrollarselo di dosso.

Il riformismo socialdemocratico alla Turati-Treves e alla Noske-Sheidmann è stato l’aguzzino del proletariato negli anni della prima guerra imperialista, indebolendone enormemente la forza di resistenza e reazione alla pressione bellica borghese e portandolo alla sconfitta nei confronti del fascismo e della democrazia borghese; il collaborazionismo politico e sindacale, vestito da un rivoluzionarismo parolaio ma di fatto complice e alleato della borghesia dominante, attraverso lo stalinismo e le sue successive varianti, ha prolungato l’azione opportunista del vecchio riformismo e ne ha potenziato gli effetti negativi sulla ripresa della lotta di classe. Oggi, il proletariato occidentale che indicò al mondo la strada dell’emancipazione dal capitalismo, è precipitato in un vero e proprio abisso dal quale non riesce ancora a risalire per riconquistare il terreno della elementare lotta proletaria in difesa dei propri esclusivi interessi di classe, base necessaria per qualsiasi lotta per obiettivi politici più ampi e storici. E mentre i capitalisti massacrano di lavoro e di fatica milioni di proletari in tutti i paesi della periferia dell’imperialismo, mentre i proletari bangladeshi, cinesi, pakistani, cambogiani, vietnamiti, africani o sudamericani muoiono assassinati da un sistema di vero e proprio cannibalismo imperialista e nel silenzio più totale, i proletari dell’opulento occidente guardano il proprio futuro paralizzati dal panico e dallo stupore: il benessere tanto decantato dalle democrazie occidentali, il futuro più sereno e sicuro per i propri figli e i propri nipoti promesso dal progresso industriale e dalle nuove tecnologie, sono stati drammaticamente cancellati dall’orizzonte visibile. La crisi prolungata che il mondo sta attraversando dal 2008 viene indicata come la colpa di tutti i mali attuali, di tutte le attuali difficoltà, della chiusura di centinaia di migliaia di aziende e dei milioni di licenziamenti, della impossibilità per i giovani di trovare lavoro. E’ ben vero che questa crisi ha colpito in profondità, anche per la sua durata molto più lunga di quelle precedenti, il sistema economico capitalista: questa crisi di sovrapproduzione è certamente più devastante di quelle precedenti. Ma la causa vera di questa crisi, come delle crisi precedenti, è la stessa causa dello sfruttamento sempre crescente e feroce delle masse proletarie del mondo intero: il modo di produzione capitalistico.

La borghesia dominante affronta le crisi del suo sistema economico e sociale con mezzi e metodi che non hanno altro risultato che quello di generare fattori di crisi ancora più potenti e devastanti, fino a farli sfociare in una ulteriore guerra imperialista mondiale in cui distruggere la massa enorme di merci e di capitali che il tanto adorato mercato non assorbe più; e, insieme all’enorme quantità di merci e di capitali che hanno perso valore perché il mercato non li trasforma più in capitali valorizzati, distruggere anche la massa enorme di braccia da lavoro non più assorbite da quel particolare “mercato del lavoro” che si occupa di piazzare i lavoratori nelle attività capitalistiche che li richiedono e che li “valorizza” ad un prezzo tendenzialmente sempre più basso!

I proletari, alla pari di qualsiasi altra merce, sono prigionieri di un mercato che li mette costantemente in concorrenza gli uni con gli altri, sia per professionalità che per età, per sesso e per nazionalità, e per disponibilità ad accettare condizioni di lavoro e di vita sempre più precarie e intollerabili. Contro questa vera e propria cancrena che si mangia inesorabilmente il corpo proletario, i lavoratori salariati devono combattere con tutte le loro forze perché è l’unica vera via d’uscita che possono imboccare per riconquistare dignità umana e per dirigersi verso la completa emancipazione dalla schiavitù salariale. Solidarietà di classe, per i proletari, significa che il proletario che sta meglio e non è precipitato nella miseria, usa la sua forza per combattere per i proletari che sono schiacciati nella fame e nella disperazione, perchè prima o poi potrà essere lui il proletario espulso dalla produzione e gettato nella più nera emarginazione. L’interesse di classe non è un concetto morale, è un fattore economico che accomuna i proletari di tutto il mondo perché costretti nelle stesse condizioni di schiavi salariati ed è un fattore di sopravvivenza perché i proletari in questa società non posseggono nulla se non la propria forza numerica che può diventare una potente leva rivoluzionaria se organizzata e indirizzata verso obiettivi di classe, dunque anticapitalistici, antiborghesi e, quindi, comunisti.

 

 

Partito comunista internazionale (il comunista)

www.pcint.org

 

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