La lotta per l'aumento del salario, perché abbia efficacia, non può essere disgiunta dalla lotta per la riduzione della giornata di lavoro

(«il proletario»; N° 15; Supplemento a «il comunista» N. 181 -  Marzo-Aprile 2024)

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Il guadagno dei capitalisti normalmente si chiama profitto. Ma il profitto da dove nasce ? Normalmente si risponde : dal lavoro. Nella società capitalistica il lavoro è un’attività che produce valore. Nella società capitalistica vige la legge del valore di scambio. Capitale e lavoro salariato sono i due perni della produzione di valori di scambio ; la produzione capitalistica è caratterizzata dalla produzione di merci. Il mercato è il luogo in cui si scambiano tutte le merci prodotte nella società capitalistica. Quindi ogni merce ha un prezzo e viene scambiata nel mercato con denaro. Non solo i mezzi di produzione, le materie prime, i mezzi di trasporto, i più diversi oggetti d’uso sono merci ; lo è anche la forza lavoro operaia. Infatti, il valore della forza lavoro (detto impropriamente valore del lavoro) è rappresentato da una somma di denaro, chiamata salario. Per determinare il prezzo della forza lavoro, il capitalismo adotta lo stesso metodo adottato per qualsiasi merce : ne calcola il costo di produzione e il guadagno da ricavare dalla sua vendita. Ogni merce esistente, dunque anche la forza lavoro, viene venduta e comprata. A che prezzo ? Il suo valore, ossia il suo costo di produzione, viene calcolato sui valori degli oggetti d’uso necessari alla sua riproduzione, cioè i costi necessari per conservare l’operaio come operaio e per formarlo come operaio. I costi di produzione della semplice forza lavoro – come scritto in Lavoro salariato e capitale – ammontano quindi ai costi di esistenza e di riproduzione dell’operaio. Il prezzo di questi costi di esistenza e di riproduzione costituisce il salario. Il salario così determinato si chiama salario minimo, che corrisponde al prezzo dei puri mezzi di sussistenza necessari alla sola esistenza. Ma il salario, soprattutto nei paesi capitalistici sviluppati, corrisponde anche ad altri mezzi di esistenza dell’operaio, come il vestiario, l’istruzione, l’abitazione ecc. Perciò il salario che Marx qui chiama « minimo » è di fatto il salario nominale. L’accumulazione di capitale produttivo, insieme allo sviluppo industriale e tecnico del lavoro, quindi alla maggiore divisione del lavoro, si accompagna, in genere, con l’aumento della massa di lavoratori salariati, dunque la domanda di forza lavoro istruita, qualificata e specializzata aumenta e il suo impiego aumenta la produttività del lavoro, spingendo in alto i salari. Ma questa tendenza non risolve il problema del totale impiego della massa di forza lavoro creata, poiché l’estorsione di plusvalore dal lavoro salariato riguarda fisicamente e direttamente solo la massa operaia effettivamente impiegata nei cicli produttivi e non la massa operaia disoccupata. Quest’ultima interviene sul salario effettivamente pagato agli operai occupati in modo indiretto, ossia attraverso la concorrenza tra operai grazie alla quale il livello dei salari resta sempre contenuto anche quando, per ragioni economiche e di rapporti di forza tra proletariato e borghesia, tende a salire. Il salario nominale, dicevamo, è la somma di denaro in cambio della quale l’operaio si vende al capitalista. Il salario reale, invece, corrisponde a quello che viene chiamato il suo « potere d’acquisto », cioè la quantità di merci che l’operaio può comprare con quel denaro. Ma il salario, oltre ad avere un rapporto con il denaro di cui è costituito, e con la quantità di merci che con quel denaro si può acquistare, ha anche un altro rapporto : quello con il profitto del capitalista, che Marx chiama salario proporzionale, salario relativo, cioè la parte del valore nuovamente creato che spetta al lavoro immediato in confronto con la parte che spetta al lavoro accumulato, quindi al capitale (sempre da Lavoro salariato e capitale). Come si vede, il salario corrisponde ad un valore complesso, non è semplicemente una quantità di denaro messa in busta paga o inviata elettronicamente al conto corrente bancario dell’operaio.

Nella società capitalista tutto è merce, tutto è valore di scambio, che sia un prodotto utile alla vita umana oppure inutile, superfluo o dannoso. Anche la forza lavoro è una merce, e lo è dal primo istante in cui esiste come forza lavoro potenzialmente sfruttabile dai capitalisti ; ma è completamente diversa da tutte le altre : il suo uso, il suo sfruttamento, indispensabile per la produzione di tutte le altre merci, produce non solo il valore di ogni prodotto che i capitalisti portano al mercato, ma anche un valore suppletivo che Marx ha chiamato plusvalore.

La misura del valore della forza lavoro, in sostanza il salario, è data dal tempo di lavoro richiesto al proletario perché svolga il suo lavoro produttivo, perché rimanga operaio e perché si formi come operaio. Il salario, che corrisponde al costo di produzione della forza lavoro, è la quantità di denaro che i capitalisti pagano al lavoratore salariato per l’intera giornata di lavoro. Ma il tempo di lavoro necessario alla riproduzione della forza lavoro – cioè per acquistare nel mercato tutti i beni necessari alla vita del lavoratore salariato – è normalmente inferiore al totale delle ore di lavoro giornaliere a cui è obbligato il proletario. Questo vuol dire che al tempo di lavoro necessario per sé stessa, la forza lavoro operaia regala al capitalista un tempo di lavoro suppletivo, non pagato, dunque un pluslavoro, da cui il plusvalore. Al tempo di Marx si faceva l’ipotesi che delle dieci, dodici o sedici ore giornaliere di lavoro la metà era coperta dal valore dei beni necessari alla vita del proletario e il valore dell’altra la metà se lo intascava il capitalista. Il plusvalore non è altro che capitale aumentato che viene poi ripartito tra le diverse funzioni capitalistiche, profitto, rendita, utili di borsa ecc.

Con l’ammodernamento delle operazioni lavorative, con l’introduzione di nuovi macchinari e nuovi strumenti di lavoro, con le innovazioni tecniche e tecnologiche immesse in ogni settore produttivo e la maggiore divisione del lavoro, nello stesso numero di ore giornaliere lavorate ieri, oggi si produce una quantità enormemente superiore di oggetti rispetto a trenta, cinquanta o cent’anni fa. Ciò significa due cose : che lo sfruttamento della forza lavoro è aumentato a dismisura e che il tempo di lavoro non pagato ai proletari è aumentato anch’esso in progressione geometrica. Ciò significa che la riproduzione di capitale tende ad aumentare, aumentando nello stesso tempo l’oppressione esercitata sulle masse proletarie che costituiscono la forza lavoro. Un’oppressione esercitata sull’intera massa di forza lavoro, sia su quella effettivamente impiegata nelle più diverse attività, sia su quella disoccupata. E qui si apre un altro corno del sistema economico e sociale capitalistico.

Il capitale, nella sua accumulazione e nella sua riproduzione allargata, non ha bisogno di impiegare l’intera massa di forza lavoro che il suo stesso sviluppo e progresso crea, e non solo in un paese ma in tutto il mondo. Perciò, dalla prima fase storica « rivoluzionaria » in cui il modo di produzione capitalistico si è imposto con estrema violenza sui modi di produzione precedenti, espropriando e rapinando territori economici a man bassa, e in cui è stata creata una massa di proletari liberi – liberi dal servaggio, dalla schiavitù, dalla dipendenza personale del signore feudale – alle fasi successive di progresso industriale, la massa di proletari si è suddivisa in due grandi parti : la parte occupata, gli operai, i proletari occupati nelle più diverse attività economiche nelle città e nelle campagne, e la parte disoccupata, quell’esercito industriale di riserva che ha assunto sempre più importanza per la borghesia perché costituisce una massa considerevole di pressione, e quindi di concorrenza, sui proletari occupati, contribuendo oggettivamente a tenere bassi i salari e a consentire ai capitalisti di non diminuire le ore di lavoro giornaliere, aumentando nello stesso tempo i ritmi e intensificando il lavoro dei proletari occupati.

Come ricordano Marx ed Engels nel Manifesto del partito comunista, il lavoro salariato poggia sulla concorrenza degli operai tra di loro. E questa è un’ulteriore dimostrazione che la forza lavoro salariata è una merce che subisce le stesse leggi che regolano la produzione, la distribuzione, l’acquisto, la vendita e lo smaltimento o la distruzione di ogni altra merce. Ma lo sviluppo del capitalismo comporta un aumento della concorrenza fra capitalisti che essi combattono con lo sviluppo della grande industria, della concentrazione di capitali e, nello stesso tempo, con l’aumento dello sfruttamento della forza lavoro grazie al quale si attua la riproduzione allargata del capitale, aumentandone il dominio economico e sociale, e quindi politico, sull’intera società. Di fronte alle forze produttive rappresentate dalla massa proletaria mondiale si erge il capitale della grande industria, del grade commercio, della grande finanza, esercitando un’oppressione economica, sociale e politica sempre più dura sull’intera società. Il grande capitale manda in rovina i piccoli imprenditori, i piccoli commercianti e i piccoli agricoltori, e gli strati sociali rappresentati da costoro subiscono così quello che abbiamo sempre chiamato proletarizzazione, perdono i loro piccoli privilegi e precipitano nelle condizioni dei proletari, dei lavoratori salariati, dei senza riserve, gonfiando quantitativamente la massa proletaria a disposizione dei capitalisti e aumentando, nello stesso tempo, la concorrenza con gli altri proletari.

Questa massa di piccoloborghesi, rovinata dallo stesso sviluppo del capitalismo da cui traeva i suoi piccoli privilegi economici e sociali, e dalle crisi cicliche cui il capitalismo inesorabilmente va incontro, porta con sé le abitudini mentali, le idee, le aspirazioni che l’hanno sempre caratterizzata come forza sociale conservatrice. In genere più istruiti, più intraprendenti e, soprattutto, desiderosi di riconquistare prima o poi la posizione sociale precedente, questi piccoloborghesi costituiscono un vettore importante dell’influenza ideologica e politica della borghesia nei confronti della massa proletaria. Non per nulla costituiscono, in genere, le forze dell’opportunismo e della collaborazione interclassista, andando a formare la schiera dell’aristocrazia operaia, dei sindacalisti collaborazionisti, dei politicanti riformisti e reazionari, veri e propri aziendalisti e nazionalisti. Naturalmente l’aristocrazia operaia non è formata soltanto da parte dei piccoloborghesi rovinati e proletarizzati. Anche una parte dei proletari che la maggiore divisione del lavoro ha spinto a specializzarsi e che, per questa sua qualità, viene pagata di più della massa dei proletari, è andata formando questo strato differente di proletari, legato al buon andamento economico aziendale e disponibile al dialogo e alla collaborazione con le direzioni aziendali e con le istituzioni. Questo fenomeno, già conosciuto in Inghilterra da Engels e Marx a metà dell’Ottocento, con lo sviluppo capitalistico in Europa e nell’America del Nord si è sviluppato notevolmente. Perciò la gran parte dei proletari si trova, sul fronte avverso, sia i capitalisti e i ceti politici che ne amministrano gli interessi e il potere, sia le forze variegate dell’opportunismo e del collaborazionismo di classe.

La lotta di difesa degli interessi proletari sul terreno economico immediato è diventata, quindi, molto più difficile e complicata, soprattutto nei paesi capitalisti avanzati, perché in prima battuta i proletari si trovano di fronte i « compagni di lavoro » che, in realtà, sono al servizio degli interessi dell’azienda, sebbene siano certamente interessati a lottare contro il peggioramento delle condizioni di lavoro, contro l’intensificazione dei ritmi di lavoro, contro la nocività e la mancanza di misure di sicurezza nei posti di lavoro e, certamente per l’aumento dei salari. Sono anch’essi proletari, fanno parte della forza lavoro salariata, perciò sfruttata dai capitalisti, ma godono di piccoli privilegi che li differenziano da tutti gli altri : sono pagati di più, e, quando le lotte sindacali ottengono un aumento di salario, i loro salari aumentano in proporzione di più ; ambiscono a fare carriera, a dimostrare alle direzioni aziendali che possono comandare squadre di operai affinché siano più produttive ; fanno lavori in genere meno pesanti e meno rischiosi e, se le aziende in cui lavorano entrano in crisi, il loro posto di lavoro, di solito, è messo molto meno a rischio di quello degli altri proletari. Ecco dunque che i proletari, spinti a lottare contro la pressione e l’oppressione salariale sul terreno immediato, devono raccogliere più forza per resistere a quella pressione e a quell’oppressione, devono riconoscersi come antagonisti agli interessi, non solo generali ma anche immediati dei capitalisti, a livello aziendale o a livello più generale. Devono combattere contro la rassegnazione che le forze opportuniste alimentano e diffondono da sempre rispetto alla forza dei capitalisti e dello Stato che ne difende gli interessi ; devono riconoscere nella propria condizione di lavoratori salariati non solo il fatto di essere schiavi salariati, il cui salario per vivere dipende solo dall’avere o no un posto di lavoro, ma anche la forza potenziale che sta proprio nel loro sfruttamento, senza il quale il capitale non guadagna, non vive, e naturalmente nemmeno i capitalisti.

Per opporsi in modo efficace a condizioni di esistenza e di lavoro sempre peggiori, i proletari devono lottare per obiettivi che li uniscano al di là delle differenze di età, di genere, di categoria, di nazionalità e che esprimano effettivamente l’antagonismo di classe contro i capitalisti e la classe borghese di cui fanno parte. Il terreno più diretto, riconoscibile, e su cui tutti i proletari possono mobilitarsi unendo le proprie forze, è il terreno del salario e della giornata lavorativa, perché su questi obiettivi il contrasto di interessi tra borghesia e proletariato è immediato, diretto, inconfutabile : i capitalisti hanno interesse a pagare meno possibile la merce forza lavoro e a sfruttarla il più possibile ; i proletari hanno interesse che la loro forza lavoro sia pagata di più e sfruttata di meno. 

Dunque la lotta per gli aumenti salariali e per la diminuzione della giornata lavorativa è la base della lotta su cui tutti i proletari possono unirsi. Ma la vera differenza tra i proletari che vogliono perseguire questi obiettivi con decisione aumentando la loro forza d’urto la fanno i mezzi e i metodi di lotta.

I mezzi e metodi di lotta non sono neutri. O vanno contro gli interessi dei capitalisti, o vanno contro gli interessi dei proletari. Tutti i mezzi e i metodi di lotta che sono compatibili con gli interessi aziendali perdono, fin dall’inizio, la loro efficacia ; quindi, i mezzi e i metodi della lotta che devono utilizzare i proletari devono essere classisti, cioè devono rispondere al danno che i capitalisti fanno ai proletari, alle loro condizioni di esistenza e di lavoro, con un danno agli interessi del capitale. Uno dei danni principali che si possono arrecare al fronte capitalistico, e nello stesso tempo agli opportunisti che lo difendono, è di combattere contro la concorrenza tra proletari, unendo proletari occupati e disoccupati nella stessa lotta, rivendicando aumenti di salario, ma più alti per le categorie peggio pagate, combattendo contro gli straordinari, il cottimo, il lavoro nero e contro la discriminazione tra autoctoni e immigrati.

La lotta, perciò, perché abbia un effetto visibile e replicabile, non deve sottostare ad una regolamentazione che la costringa ad essere annunciata con settimane o mesi di anticipo e che assicuri il « normale svolgimento delle attività ». La lotta operaia sul terreno economico è rottura della pace aziendale ; mira ad imporre ai capitalisti concessioni che non farebbero mai e, coinvolgendo interi reparti e intere categorie di lavoratori, funziona come base per l’organizzazione proletaria indipendente da qualsiasi apparato della conservazione sociale o legato ad essa.

Questa lotta è la lotta che caratterizzava il proletariato dei primi anni del Novecento e che fece da base alla lotta politica rivoluzionaria. Fra la rottura della pace aziendale e la rottura della pace sociale c’è uno stretto legame oggettivo che può essere messo a frutto nella lotta generale per l’emancipazione del proletariato grazie all’intervento del partito di classe del proletariato, cioè dell’organismo politico che nelle lotte dell’oggi rappresenta gli obiettivi proletari storici di domani.

La lotta per gli aumenti di salario e per la riduzione della giornata lavorativa, di per sé, non esce dal quadro del sistema capitalistico di produzione. Ci sono stati e ci sono schiere di antimarxisti che la considerano ormai del tutto inefficace, anzi dannosa per il proletariato, perché ribadirebbe l’oppressione salariale tipica del capitalismo che, al contrario, si vuole abbattere, indicando al proletariato, se vuole emanciparsi, di scendere direttamente sul terreno della lotta politica per la rivoluzione. Ma la dialettica marxista non viaggia nel mondo della metafisica ; tiene conto della realtà materiale e della necessità che il proletariato, per giungere al salto di qualità contenuto nella lotta politica rivoluzionaria, faccia esperienza diretta sia delle sue capacità di procedere e unificarsi sullo stesso terreno di classe della lotta immediata, sia della sua capacità di conoscere concretamente le reazioni dei capitalisti e del loro Stato alla sua lotta e alle sue rivendicazioni e tirarne le conseguenze. Sono troppi gli ostacoli economici, sociali, politici che i proletari devono riconoscere e superare. La storia stessa della lotta fra le classi ha dimostrato che i risultati della lotta economica del proletariato sono effimeri e vengono prima o poi rimangiati dalla borghesia grazie al fatto che detiene sia il potere economico (è l’unica che può dare un lavoro e quindi un salario ai proletari) che politico (è la classe dominante che usa lo Stato e la forza militare per conservare il suo potere) ; ma ha anche dimostrato che è nella lotta sul terreno economico che i proletari possono superare la concorrenza tra di loro e unirsi in una lotta che non potrà porre, ad un certo punto del suo sviluppo, gli obiettivi politici che il partito di classe, fin dal Manifesto del partito comunista di Marx-Engels ha definito : abbattimento del potere politico della borghesia, distruzione dello Stato e della dittatura della borghesia, instaurazione del potere proletario e della sua dittatura di classe per intervenire poi nell’economia e trasformarla, in un lungo processo storico, in economia comunista, in economia di specie che soltanto una società senza classi, senza mercato, senza denaro, senza oppressione dell’uomo sull’uomo può far nascere.

Il quadro internazionale di oggi è desolante : i proletari, in generale, sono letteralmente intossicati dalle droghe che la borghesia spaccia a piena mani : democrazia, elevazione dell’individualismo a denominatore comune di tutta l’umanità, illusoria libertà individuale ed eguaglianza delle nazioni, illusoria pace capitalistica tra le nazioni come tra proletari e borghesi e superamento delle diseguaglianze sociali grazie alla collaborazione fra le classi. Ci penseranno le crisi economiche, sociali, politiche e di guerra che si stanno facendo sempre più acute e sempre più vicine nel tempo, a dare una potente scossa ai proletari, gettandoli forzatamente sul terreno di una lotta per la vita o per la morte, per i propri interessi di classe o per gli interessi della classe dominante e sfruttatrice.

 

 

Partito Comunista Internazionale

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