Parmalat, Cirio …

La crisi del capitale finanziario, che domina sulla società

in epoca imperialista, è crisi del capitalismo.

La soluzione non sta in controlli di borsa più stretti, ma nel farla finita col capitalismo in tutti i suoi campi di sviluppo!

(«il comunista»; N° 89; Febbraio 2004)

 

Nel capitalismo avanzato la caratteristica di fondo è la sovraproduzione: sovraproduzione di beni prodotti, sovraproduzione di servizi per la loro distribuzione, sovraproduzione di capitale, sovraproduzione di manodopera.

La sovraproduzione è termine che nel capitalismo ha una sola accezione, visto che è relativa al mercato, cioè a quel luogo in cui la produzione capitalistica trasforma la merce in denaro, e il denaro in altra merce o in altro denaro. Il profitto capitalistico non si produce se le merci prodotte non vengono vendute al mercato, dunque se il capitale impiegato nella produzione non si valorizza, se non aumenta di valore rispetto al valore che aveva prima di essere impiegato nella produzione e nella distribuzione (o commercializzazione, come si dice oggi).

Sovraproduzione di merci: al mercato arrivano molte più merci di quelle che possono essere vendute al prezzo stabilito (quello che permette di incamerare un tasso di profitto ritenuto conveniente); di conseguenza si abbattono i prezzi delle merci invendute, o si distrugge una determinata quantità di merci per mantenere nel mercato un prezzo redditizio, e in ogni caso le aziende che producono merci invendute sul mercato entrano in crisi. Ma la produzione capitalistica tende ad aumentare sempre più, in una iperfollia produttiva caratterizzata dall’anarchia della produzione aziendale: ogni azienda è libera di produrre qualsiasi merce finalizzandola al mercato, ed è sul mercato che ogni singola azienda, ogni singolo gruppo o ogni singolo trust incontra, e si scontra, le altre aziende, gli altri gruppi, gli altri trust concorrenti. E’ così che la crisi di un’azienda facilmente si trasferisce ad altre aziende, la crisi di un gruppo o di un trust ad altri gruppi e ad altri trust. L’universalizzazione del mercato non mette al riparo alcuna azienda, alcun capitale: li pone soltanto ad un livello di concorrenza superiore, e a rischi di crisi superiori.

Sovraproduzione di capitali: nel mercato della produzione di beni, del commercio, dei servizi, e in quello finanziario, vi è una disponibilità di capitali più alta della possibilità di una loro valorizzazione nei tempi e nelle quantità necessarie perché quei capitali possano “produrre” velocemente utili, profitti, guadagni di varia natura. Il capitale bancario (vero tempio dell’usura legalizzata e globalizzata), deve circolare a velocità sempre più grande e in quantità sempre più mastodontiche, poiché la velocità di circolazione e la quantità di capitale che circola velocemente sono i due fattori che permettono al capitale di valorizzarsi sempre più, senza attendere i tempi delle stagioni agricole o i tempi di produzione dei beni materiali. La finanza capitalistica rappresenta il livello più alto dello sviluppo del capitale bancario, ossia la possibilità di circolazione internazionale ad altissima velocità attraverso una serie teoricamente infinita di operazioni slegate dal vincolo immediato della produzione effettiva di beni materiali.

Ma il capitale finanziario è capitale fittizio, è una “promessa” di utili che verranno, è un “credito” sul credito, perché il suo “valore” è determinato dalla potenzialità speculativa che quel determinato capitale può costituire. Si acquistano in Borsa azioni Parmalat perché si attende da questa semplice operazione un guadagno futuro, in denaro non in taniche di latte. La Parmalat sollecita il mercato finanziario ad acquistare suoi titoli (azioni, obbligazioni, bond, ecc., a seconda del livello di rischio che i compratori intendono correre) con un unico problema: dimostrare di essere un’azienda economicamente e finanziariamente sana, capace di fare profitti, e quindi in grado di permettere – a chi vuol rischiare di più sui propri capitali personali – speculazioni anche di vaste proporzioni. Tale “immagine” è determinante per la speculazione borsistica, perché si gioca tutto sulla “fiducia” che quel titolo – quindi quell’azienda – sia effettivamente in grado di produrre utili. Gli è che quando le speculazioni di questo tipo si fondano su bilanci aziendali manipolati appositamente per far apparire una “buona salute” aziendale che in realtà non c’è, arriva prima o poi il momento della resa dei conti: il crac è assicurato, e i risparmiatori che hanno acquistato titoli con denaro vero e non fittizio restano col classico pugno di mosche in mano, andando in rovina.

Già con il crac Cirio era venuto alla luce il coinvolgimento diretto di alcune banche nelle operazioni truffaldine con cui la ex multinazionale agroalimentare italiana si era dilettata per anni. Ora, con il crac Parmalat, e con il buco da 14 miliardi di euro, viene alla luce qualcosa di più: sono coinvolte le stesse banche italiane (Capitalia, Banca Intesa) e le operazioni truffaldine vanno avanti da 15 anni. Società di revisione dei conti (quelle che dovrebbero accertare la veridicità dei bilanci aziendali), banche italiane e filiere estere che dirigono acquisti e vendite di aziende, conti bancari a scatole cinesi, paradisi fiscali come le isole Cayman nei quali confluiscono e transitano capitali di ogni provenienza, controllori della Borsa che non controllano: è bastato leggere i giornali di questo periodo perché anche il famoso “uomo della strada” abbia capito che l’architettura della grande truffa – Parmalat o Cirio, poco importa – è stata nelle mani dei grandi della finanza, non solo a livello nazionale, ma internazionale.

Già con i casi americani del tipo Enron si era resa evidente la caratteristica fondamentale del capitalismo finanziario: la spasmodica spinta alla valorizzazione del capitale sposta il peso sociale dal capitale produttivo al capitale finanziario, dal credito legato alla produzione di beni al credito legato alla speculazione finanziaria. La truffa – che poggia sui bilanci falsati, sulle informazioni tendenziose, sul ricatto finanziario – costituisce il meccanismo naturale e logico della finanza internazionale. Se uno dei problemi da risolvere, per il capitale, è quello di trovare le vie più veloci per la propria valorizzazione, allora le scorciatoie rappresentate dalle truffe sono più che logiche; e non è un caso che più si sviluppa il capitalismo finanziario più aumentano e si diffondono le truffe finanziarie. Non ci sono regolamenti, restrizioni, controlli che tengano: la spinta al guadagno facile, e alla speculazione, è insita nel sistema stesso di sviluppo del capitalismo. I capitali, se restano “inoperosi” anche un solo minuto, costano e perdono di valore; perciò sono obbligati a circolare continuamente, e a velocità sempre più alta, col rischio ovvio di poter finire male, svalorizzarsi del tutto. Ma a capitale che si svalorizza c’è sempre un capitale che si valorizza e che riempie il “vuoto”.

In un moto perpetuo, il capitale – mentre divora quantità sempre crescenti di lavoro vivo, di lavoro salariato, dal quale estorce il suo guadagno, che il marxismo chiama plusvalore – accresce sempre più il peso sociale del lavoro morto che, nella composizione organica del capitale, è rappresentato da impianti, materie prime, edifici, macchinari ai quali sottomettere il lavoro salariato vivo. E’ in questa predominanza del lavoro morto sul lavoro vivo che il capitalismo fonda la schiavitù salariale: solo a queste condizioni, il modo di produzione capitalistico permette alla borghesia di estorcere, dal lavoro salariato impieg2to nella produzione, il plusvalore, ossia una quota di tempo di lavoro giornaliero non pagato al proletario.

Se l’eccedenza di prodotti sul mercato tende ad abbattere il prezzo di quei prodotti, l’eccedenza di capitali spinge ad allargare i settori produttivi in cui sia possibile ottenere dei risultati di produzione industriali molto più vasti che in precedenza grazie soprattutto alle applicazioni tecniche e tecnologiche nei diversi comparti produttivi. I capitali liberi, non impiegati direttamente nella produzione, formano il credito, che è la base di ogni operazione finanziaria, piccola o grande che sia. Crescendo la disponibilità di capitali liberi, cresce e si allarga la tendenza alla speculazione, ossia all’acquisto e alla vendita di beni che costituiscono in questi casi soltanto l’oggetto delle speculazioni. E chi possiede quantità di capitali disponibili per il credito, e per la Borsa se non le banche? E’ per questo che le banche, nel capitalismo moderno, hanno sostituito la vecchia pratica dell’usura, anche se questa pratica non è in realtà mai scomparsa. Le quantità di denaro che le banche possono fornire ai più diversi imprenditori sono enormemente più grandi di qualsiasi grande usuraio del precapitalismo. Ed è per questo che tutta l’economia moderna gira intorno alle banche, e al credito.

La società capitalistica è la società del credito, delle rate, dei “pagherò”, delle cambiali, dei titoli: la società in cui non solo il lavoro vivo esistente è sottomesso al lavoro morto accumulato, ma vi è sottomesso anche il lavoro vivo delle future generazioni. Comprate oggi, pagherete tra un anno, tra cinque, dieci, venticinque anni!, è ormai un ritornello micidiale col quale le società che propongono finanziamenti (per qualsiasi tipo di acquisto, dalla casa alla vacanza, dal frigorifero alle spese sanitarie, al …debito da saldare) portano casa per casa la corruzione mercantile riempiendo ogni poro della vita quotidiana di milioni di proletari.

Che la grande borghesia, di fronte a fatti come i crac borsistici, i fallimenti a catena delle famose internet company, i crac alla Enron o alla Parmalat, sia convinta di poter rimediare ridandosi delle regole più rigide nel campo della finanza, è ovvio. I «riformisti» per antonomasia sono prima di tutto i borghesi. Solo dopo vennero i socialisti che credevano di poter riformare la società capitalistica senza mettere mano al modo di produzione e, quindi, ai rapporti sociali che ne derivano. Il fatto è che l’intelligenza di classe della borghesia si evidenzia soltanto in determinate situazioni storiche, in quelle in cui il suo dominio di classe è messo in serio pericolo dal movimento rivoluzionario del proletariato, o in quelle in cui la catastrofe che segue la guerra mondiale può rimettere in moto il proletariato sul proprio terreno di classe. Quell’intelligenza di classe dominante è stata applicata effettivamente in seguito alla seconda guerra imperialista mondiale, dando vita ad un nuovo metodo di condurre l’economia.

Si può leggere nel testo di partito del 1946-48 intitolato «Forza violenza dittatura nella lotta di classe» (1) questo passo chiarificatore:

«Il nuovo metodo pianificatore di condurre l’economia capitalistica, costituendo, rispetto all’illimitato liberismo classico del passato ormai tramontato, una forma di autolimitazione del capitalismo, conduce a livellare intorno ad una media l’estorsione di plusvalore. Vengono adottati i temperamenti riformistici propugnati dai socialisti di destra per tanti decenni, e vengono così ridotte le punte massime e acute dello sfruttamento padronale, mentre le forme di materiale assistenza sociale vanno sviluppandosi. Tutto ciò tende al fine di ritardare la crisi di urto tra le classi e le contraddizioni del metodo capitalistico di produzione, ma indubbiamente sarebbe impossibile pervenirvi senza riuscire a conciliare, in una certa misura, l’aperta repressione delle avanguardie rivoluzionarie, e un tacitamento dei bisogni economici più impellenti delle grandi masse. Questi due aspetti del dramma storico che viviamo sono condizione l’uno dell’altro: il vecchio Churchill ha detto con ragione ai laburisti: non potrete fondare una economia di stato senza uno stato di polizia. Più interventi, più regole, più controlli, più sbirri».

Ebbene, l’autolimitazione da parte borghese nell’estorcere il plusvalore non metteva la borghesia al riparo da crisi e da urti sociali; rimandava, però, queste crisi e questi urti, a tempi più lontani. Dopo la fine della guerra si deve arrivare al 1975 perché una crisi economica a livello mondiale colpisca duro; e da allora la società borghese, chiuso il lungo periodo di espansione successivo alle distruzioni immani di guerra, ha iniziato un lento ma inesorabile declino. Declino provocato non da mancanza di produzione, ma da eccesso di produzione, da saturazione dei mercati, e da una folle corsa di concorrenza fra le grandi multinazionali, fra i grandi trust, in tutti i campi, da quello delle auto a quello dell’aviazione, da quello della tecnologia digitale a quello agroalimentare.

Se l’intelligenza di classe della borghesia la porta a contenere la voracità che la caratterizza, non è detto che tutti i capitalisti siano animati dallo stesso spirito di autolimitazione, anzi. E così si ripropongono gli eccessi di truffa, gli eccessi finanziari fino a far scoppiare i bubboni che nel frattempo di sono gonfiati. La borghesia in quanto classe si è data una regola, ma la borghesia in quanto capitalisti fra di loro concorrenti acerrimi di regole non ne accetta. Che cosa è riformabile? Il sistema bancario? Il sistema borsistico? Fondamentalmente no, perché tutto ciò che serve al mercato esiste già ed è perfezionatissimo; il problema caso mai è che il mercato è diventato piccolo rispetto alla disponibilità di capitali e di merci. Ma il mercato non è riformabile, è lui che detta le regole ai capitalisti. E una delle regole del mercato, non scritte ma ampiamente praticate, è che non si deve lasciar perdere alcuna occasione per fare affari, a qualunque costo e con qualunque mezzo! I risparmiatori che avevano acquistato titoli Enron, o argentini, o Parmalat sono stati truffati? Sì, è certo. Ma non è stata una truffa anche la guerra contro l’Iraq che, oltretutto, nei suoi “titoli” non possedeva le famose armi di distruzione di massa che dovevano “giustificare” la guerra di Stati Uniti e Gran Bretagna? Che differenza passa tra il falso in bilancio di una società quotata in Borsa, e il falso in documenti su cui il governo poggia la decisione di scatenare la guerra contro un altro paese? La vera differenza è che in guerra è certo che vi saranno molti morti, mentre tra i risparmiatori andati in rovina è probabile che non ve ne siano, almeno all’immediato. La guerra borghese è generata dalla concorrenza: più si acuisce la concorrenza e più la guerra guerreggiata diventa realtà; l’una alimenta l’altra.

Il capitalismo non uscirà mai dai suoi gironi: è prigioniero del proprio meccanismo produttivo e dei rapporti sociali che ne derivano. E dato che non ha alcuna possibilità di cambiare il proprio modo di produzione, ha la sorte segnata. Le riforme che il capitalismo è in grado di sfornare e di sopportare sono funzionali alla sua conservazione, non al suo superamento, che si tratti di riforme istituzionali, sociali o economiche. L’unica strada è quella del suo abbattimento che le sue stesse contraddizioni chiedono, per far posto ad una società che non sarà più prigioniera del mercato, del denaro, delle merci, del profitto, del lavoro salariato.

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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