Sulla questione elettorale e sul parlamentarismo
I comunisti rivoluzionari non si astengono dalla politica, ma dai mezzi che possono nuocere alla preparazione rivoluzionaria sia del proletariato che del partito di classe

(«il comunista»; N° 92; Ottobre 2004)

 

Fin troppo spesso i comunisti di sinistra, i «bordighisti» come venivano e veniamo ancora chiamati, sono accusati di non saper «fare politica», di limitarsi alla teoria senza riuscire a tradurre i principi teorici in pratica, nella realtà delle situazioni e, per questo motivo, di cadere in posizioni settarie, dogmatiche. Uno dei terreni su cui l’attività politica (il “saper fare politica”) del partito di classe è stata e dovrebbe ancora essere misurata è quello dell’elezionismo, del parlamentarismo. Da questo punto di vista, è sempre oltremodo valida l’alternativa che la corrente di sinistra del comunismo, in Italia, lanciò nell’immediato primo dopoguerra: o preparazione rivoluzionaria, o preparazione elettorale.

Per i partiti borghesi, per i partiti riformisti, socialdemocratici e per tutte le varie forme di degenerazione opportunista del partito di classe fino al nazionalcomunismo tipico dello stalinismo e del maoismo, il terreno politico principale per il partito comunista è quello democratico e parlamentare.

E’ logico che la borghesia faccia di tutto per mantenere l’attività politica del partito proletario di classe solo sul terreno della democrazia rappresentativa, sul terreno dell’intermedismo, del collaborazionismo tra le classi: questo è terreno squisitamente borghese, sul quale la borghesia sa preventivamente di vincere. E non vince solo perché ha in mano il potere economico, politico e militare; vince perché, trascinando il proletariato nel campo democratico esso si illude di poter difendere i propri interessi in modo “civile”, “pacifico”, “negoziale” sottomettendosi alle regole dettate dalla classe dominante borghese; vince perché i partiti che dovrebbero guidare il proletariato nella lotta senza quartiere contro la borghesia si trasformano in veicoli del rafforzamento delle istituzioni borghesi e della influenza ideologica e pratica della classe dominante borghese; vince perché abitua il proletariato a non lottare per sé e per i suoi interessi di classe, ma a sacrificare i propri interessi a favore degli interessi “generali” della società borghese che non sono altro che gli interessi della classe dominante borghese; vince perché intossica a tal punto il proletariato di democratismo, di legalitarismo, di pacifismo, di collaborazionismo interclassista che, anche quando esso si scuote dal rincretinimento democratico e parlamentarista ed esplode nella rabbia e nella collera sociale, si ritrova quasi sempre senza forze, senza orientamento, senza guida. La borghesia, d’altra parte, non si affida mai al solo metodo di governo democratico e parlamentare; ha sempre pronta la soluzione militare, la soluzione reazionaria, la soluzione fascista. Se il proletariato osa alzare troppo la testa, minacciando con la sua lotta antidemocratica e anticapitalistica il potere borghese, la classe dominante fino ad allora «democratic» cede il passo al potere reazionario. Esempi storici ce ne sono fin troppi.

Il potere borghese ha sviluppato finora una notevole forza di resistenza alle crisi economiche della società capitalistica e alle crisi sociali scaturite da quelle crisi economiche. Ed anche nello svolto storico degli anni Venti del secolo scorso, quando il proletariato rivoluzionario abbatté in Russia sia il potere zarista che il successivo potere borghese, quando il proletariato rivoluzionario in Europa occidentale mise in serio pericolo il potere borghese in Ungheria, in Polonia, in Germania, in Italia, la classe borghese riuscì a resistere, a recuperare forza e a contrattaccare con le guardie bianche, e con le camice nere e brune. La vittoria arrise, infine, al campo borghese non perché i suoi eserciti fossero “invincibili”, ma a causa soprattutto della debolezza teorica e politica dei vecchi partiti socialisti che avrebbero dovuto guidare alla rivoluzione la potente massa proletaria in Europa e nel mondo, e che invece furono sopraffatti dalla prassi e dai principi della democrazia borghese. Ed anche i giovani partiti comunisti, per la quasi totalità costituitisi dopo la vittoria bolscevica dell’Ottobre, e molti dopo la costituzione dell’Internazionale Comunista, per la maggior parte non riuscirono a rompere definitivamente, in modo netto e profondo, con la socialdemocrazia. Questo vero e proprio veleno politico continuò a lavorare nel corpo e nelle menti dei giovani partiti comunisti e del proletariato europeo, tanto da aggredire anche il formidabile bastione bolscevico, avendone alla fine ragione.

Oggi, più di ieri, il potere borghese appare invincibile, capace di resistere a qualsiasi contraddizione, a qualsiasi crisi; di risollevarsi da qualsiasi guerra, uscendone anzi rafforzato. Perciò i principi, le regole, le abitudini, i metodi che presiedono la vita sociale in questa società appaiono i soli possibili, “naturali”, al massimo da correggere laddove siano riconosciute delle esagerazioni. La democrazia appare non solo come un “bene comune” da salvaguardare e da difendere, ma come l’unico metodo politico per vivere, per progredire o per sopravvivere. L’illusione che sia la “maggioranza” degli elettori, o dei voti, a decidere quale governo deve governare e quale politica deve applicare, è davvero dura a morire.

Andare contro corrente, rifarsi alla teoria marxista in modo coerente, profondere energie per la formazione di un partito di classe che sia appunto coerente con il marxismo e capace di agire sulla base delle esperienze vissute dal movimento proletario e dal movimento comunista del passato, esperienze passate al vaglio di intransigenti bilanci storici e politici, appare a molti come una fatica sprecata, una perdita di tempo, un sogno irrealizzabile.

La sconfitta del proletariato rivoluzionario russo, la sconfitta del partito bolscevico che ne capeggiò la preparazione rivoluzionaria, il movimento insurrezionale, la conquista del potere e l’instaurazione della dittatura di classe, è stata una sconfitta del proletariato internazionale. Debole non fu il proletariato russo, che a dispetto della sua giovanissima costituzione in classe, quindi in partito, e – con la vittoria dell’Ottobre 1917 – in classe dominante alla guida della rivoluzione proletaria mondiale, ma il proletariato europeo e il proletariato americano, ossia il proletariato meno arretrato dal punto di vista dell’istruzione, ed erede comunque di tradizioni di lotta e di tentativi rivoluzionari storicamente importantissimi. Debole non fu il partito bolscevico russo, ma deboli furono i partiti comunisti europei, in particolare in Germania e in Francia, per non parlare della Gran Bretagna o degli Stati Uniti d’America. E la loro debolezza va rintracciata nell’incoerenza col marxismo, nel cedimento alle lusinghe della democrazia borghese, nell’illusione di poter vincere la rivoluzione proletaria con mezzi e metodi non rivoluzionari o per obiettivi cosiddetti “transitori” ma in realtà figli dell’intermedismo, dell’interclassismo.

L’intransigenza teorica e politica e l’eccezionale acume tattico che il partito bolscevico al tempo di Lenin aveva praticato, non erano figli delle tradizioni dispotiche asiatiche, né tanto meno di settarismi facilitati nel loro successo dal disorientamento delle masse prostrate da una guerra che per la prima volta nella storia aveva come teatro il mondo intero. Erano figli di una preparazione rivoluzionaria, nella coerente assimilazione delle lezioni della storia attraverso il marxismo non revisionato alla Bernstein o alla Kautsky, ma difeso nei suoi fondamenti originali su tutti i campi, quello teorico e dottrinario come quello programmatico e politico, come quello tattico e organizzativo. Il partito bolscevico di Lenin, formatosi non nei confini della Russia ma nel teatro europeo (che allora era come dire il mondo) della lotta fra le classi, ha rappresentato l’apice del movimento comunista internazionale, tanto più nella costituzione dell’Internazionale Comunista che avrebbe dovuto diventare il Partito comunista mondiale. Il formidabile contributo al movimento proletario e comunista internazionale dato dal proletariato russo e dal partito bolscevico di Lenin in tutti i campi della lotta politica non si saldò in Occidente se non con alcune correnti di sinistra dei partiti socialisti riformisti: e la corrente della Sinistra “italiana”, nota più per il suo astensionismo elettorale e parlamentare che per la sua coerente difesa del marxismo e della necessaria intransigenza teorica, fu una delle rare correnti politiche del marxismo in Occidente perfettamente in linea con le prospettive e gli orientamenti che il bolscevismo ha rappresentato all’epoca per tutto il movimento proletario internazionale.

I tempi della storia non sono dettati dai congressi dei partiti, tantomeno dalla “volontà” di grandi o piccoli uomini. La storia della lotta fra le classi crea situazioni, in determinati periodi, che possono caratterizzare la trasformazione rivoluzionaria della società, o il suo arretramento. Le forze sociali rappresentate dal modo di produzione esistente, dai rapporti di forza delle classi esistenti e dalla lotta che queste classi si fanno per imporre i propri interessi generali, portano a maturazione i fattori di stabilità e di sviluppo della società esistente e, nello stesso tempo, i fattori di contraddizione, di instabilità e di rottura sociale aprendo la strada – in determinati svolti storici – a soluzioni rivoluzionarie o a soluzioni controrivoluzionarie. Da questo punto di vista Marx, rispetto al 1848 europeo e ai primi tentativi rivoluzionari del proletariato, griderà alto: il terreno controrivoluzionario è terreno anche rivoluzionario. I fattori sociali e storici che stavano alla base della controrivoluzione borghese e aristocratica era gli stessi che stavano alla base della rivoluzione proletaria; solo che il proletariato non aveva ancora sviluppato in modo adeguato la sua intransigenza di classe, la sua rottura con le abitudini, le illusioni, i pregiudizi dell’ideologia democratica borghese. E il proletariato, sconfitto nel suo «assalto al cielo», non solo veniva rigettato nelle condizioni di oppressione salariale e sociale da cui tentava di uscire, ma cedeva al nemico di classe qualche decennio di dominio sulla società in più di quello che le condizioni di sviluppo economico e materiale avrebbero obiettivamente dettato. Dai primi tentativi rivoluzionari del proletariato in Europa nel 1848 al 1871 della Comune di Parigi, primo esempio di dittatura proletaria, passano 23 anni; dal 1871 parigino al 1917 russo passano 46 anni (per combinazione è il doppio); dal 1917 russo al prossimo appuntamento con la rivoluzione proletaria sono già passati 87 anni e altri ne passeranno ancora (il 2009 segnerà il doppio del periodo precedente). Ad ogni bruciante sconfitta proletaria nel suo cammino rivoluzionario internazionale corrisponde un rafforzamento del potere borghese e del suo dominio sociale; il che significa che la borghesia tira le sue lezioni dalla lotta di classe e dalla lotta rivoluzionaria del proletariato, ne fa tesoro e tende ad agire cercando di prepararsi meglio per l’appuntamento storico successivo. E in questa sua preparazione, in questa sua “guerra preventiva” contro la risorgente lotta di classe e rivoluzionaria del proletariato, utilizza ogni possibile arma fra le quali la democrazia è la preferita in quanto la storia stessa le ha dimostrato che corrompendo il proletariato, le organizzazioni immediate proletarie, i partiti proletari, sul terreno dell’interclassismo essa ha già virtualmente la vittoria in mano; il resto lo fa la repressione e il regolare bagno di sangue delle sue guerre.

Il proletariato, a dispetto della sua posizione di schiavitù salariale e di classe sottomessa all’incontrastato dominio borghese, e nonostante le cocenti sconfitte accumulate nella sua storia di classe, rappresenta in ogni caso l’unica via d’uscita dalle contraddizioni del capitalismo, dalle infinite oppressioni, dalle crisi e dalle guerre che diventano sempre più frequenti, dalla miseria e dalla fame che attanagliano molto più della metà della popolazione del mondo.

Il proletariato, ormai, non è soltanto la classe sociale più numerosa, ma è la fonte vitale del profitto capitalistico: se la sua forza lavoro non viene sfruttata costantemente e in modo sempre più intenso, il capitale non ha alcuna possibilità di valorizzarsi, di diventare più capitale. Lo sfruttamento del lavoro salariato da parte del capitale, quindi da parte dei capitalisti, è la base vitale di questa società; essa non può esistere senza lo sfruttamento del lavoro salariato, senza schiavizzare la stragrande maggioranza delle popolazioni del mondo sotto il tallone del profitto capitalistico. La democrazia, la cosiddetta uguaglianza, non sono che feticci: finché servono ad ingannare le masse proletarie del mondo ( e purtroppo servono ancora) i principi della democrazia vengono declamati, scritti, celebrati, richiamati e difesi; ma quando la situazione sociale si rende particolarmente difficile per la classe dominante che teme di perderne il controllo, allora i principi democratici, i sacri diritti della persona e della proprietà privata, vengono semplicemente calpestati e sostituiti con l’aperta dittatura di classe, tanto che anche il mitizzato parlamento ne fa le spese. Questo “cambio” è previsto, la classe dominante borghese l’ha usato più e più volte e sa che quando cambia metodo di governo, da democratico ad autoritario e fascista, lo deve fare rapidamente, magari con un golpe o magari approfittando di una situazione di caos post-crisi economica o post-guerra per uscire dal quale la centralizzazione del potere politico appare a tutti come l’unica via da scegliere per “rimettere ordine nella società”.

Il proletariato, in questo modo, abituato per molto tempo ai metodi, ai mezzi e ai tempi della democrazia borghese, in caso di cambio di metodo di governo da parte borghese si presenta inevitabilmente impreparato, inerme, disorganizzato. Che il metodo di governo cambi, ad un certo punto, è sicuro poiché la lotta di concorrenza a livello mondiale è inesorabilmente tesa ad acutizzarsi, a trasformarsi in contrasti non più secondari, in urti fra Stati, in conflitti armati; e la classe dominante borghese ha bisogno che il proprio proletariato si unisca a lei, sia pronto – con le buone, o con le cattive – a difendere gli interessi borghesi come se fossero i propri. La corruzione democratica, il collaborazionismo a livello sindacale e politico in tempo di “pace” servono doppiamente: a sfruttare per bene il proletariato carpendone il consenso, o in ogni caso con un livello di reazione sociale controllabile, e a preparare il proletariato a sacrificarsi completamente in caso di guerra. La pace sociale capitalistica serve per preparare la guerra capitalistica, anche se la guerra viene fatta a migliaia di chilometri di distanza dalle proprie case; ma prima o poi, le proprie case entrano nel teatro di guerra.

L’intransigenza antidemocratica che ha sempre caratterizzato la corrente di sinistra del marxismo, risponde ad una necessità pratica della lotta proletaria: difendere con efficacia i propri interessi, sul terreno immediato, e gli interessi di classe sul terreno più generale e politico.

Il proletariato deve perciò riconoscere le altre classi sociali, in primis la borghesia, come classi nemiche, come coloro che vivono esclusivamente sul suo sfruttamento; deve riconoscere se stesso come classe che ha in comune un interesse immediato generale, quello di farsi sfruttare a condizioni di vita e di lavoro migliori senza che questo vada a colpire altri gruppi di proletari (di altre categorie, di altre zone, di altri paesi o di altre nazionalità); deve organizzarsi per lottare in modo adeguato e coerente con la difesa esclusiva dei suoi interessi di classe, e quindi deve rompere con il collaborazionismo, con la pratica delle “compatibilità innanzitutto”, con la difesa dell’ ”azienda” in cui si viene quotidianamente e bestialmente sfruttati, adottando mezzi e metodi di lotta che incidano effettivamente sulle “controparti”. Imboccare la strada della lotta di classe significa imboccare la strada della lotta anticapitalistica, e quindi della lotta antidemocratica.

Nei paesi a lunga tradizione democratica, dove da più lungo tempo il proletariato e i suoi partiti politici sono ingannati e avvelenati dalla prassi elettorale e parlamentarista, e dove il collaborazionismo interclassista ha prodotto il più devastante arretramento del proletariato sul fronte della lotta in difesa delle sue condizioni di vita e di lavoro, il problema immediato per il proletariato è: riorganizzazione in associazioni a carattere sindacale sul terreno immediato fuori dalle logiche e dalle pratiche dell’interclassismo, su obiettivi che considerino esclusivamente la difesa delle condizioni di vita e di lavoro dei proletari. Sul piano politico più generale il problema è: ricostituzione del partito comunista, del partito proletario di classe, nel solco del marxismo non revisionato, aggiornato o “rivisitato”, riconquistando il patrimonio di esperienze vissute e di bilanci del movimento comunista internazionale negli apici della sua storica lotta contro la società borghese e il suo modo di produzione capitalistico.

Il partito di classe, alla luce delle vicende storiche e delle sconfitte del proletariato e della rivoluzione proletaria, non può non tirare una lezione definitiva sul terreno della lotta contro la democrazia borghese: questa lotta non deve svolgersi separando il piano teorico e programmatico da quello politico e tattico. Il principio democratico va combattuto non solo in teoria, non solo sul piano del pronunciamento filosofico o ideologico, ma anche sul piano della prassi sia all’interno dell’organizzazione di partito che al suo esterno, nella società. L’astensionismo propagandato dalla nostra corrente negli anni Venti del secolo scorso, e poi ribadito costantemente, non risponde ad un principio morale, tantomeno ad una posizione dogmatica. E’ l’espressione pratica di un’attitudine a negare all’elettoralismo e al parlamentarismo una funzione sociale favorevole alla lotta del proletariato, ed è nello stesso tempo una scelta tattica rispetto alle energie e alle risorse del partito proletario di classe che intende svolgere in modo coerente e adeguato il suo compito di preparazione rivoluzionaria sia nei propri confronti che nei confronti del proletariato nel suo insieme.

Nella consapevolezza che la preparazione rivoluzionaria del partito comunista non può essere rimandata al momento in cui il proletariato si muoverà finalmente sul terreno della lotta di classe e rivoluzionaria, ma deve svolgersi di lunga mano, e nella certezza che la preparazione elettorale – che già all’epoca in cui il “parlamentarismo rivoluzionario” proposto da Lenin e da Bucharin veniva ridotta all’essenziale sia in termini di risorse che di energie da dedicare – comprometterebbe ancor più che non negli anni Venti la preparazione rivoluzionaria, ribadiamo che il nostro astensionismo può chiamarsi rivoluzionario solo alla condizione di non diventare una posizione morale o un alibi sul piano dell’impegno politico, e alla condizione di impegnare energie e risorse alla ricostituzione del partito comunista internazionale, quindi della guida della lotta di classe e rivoluzionaria del proletariato, anche se – come è il caso ancor oggi – né il proletariato dei paesi capitalistici avanzati, né il proletariato dei paesi capitalistici arretrati calcano il terreno della effettiva ripresa della lotta di classe. La “tribuna” parlamentare non è migliorata da quando veniva chiamata da Trotsky: mulino di parole; è d’altra parte sempre più evidente che nelle aule del parlamento si svolge un teatrino che non ha alcuna incidenza vera sul governo e sulla sua politica: le decisioni che la classe dominante borghese deve prendere per difendere al meglio i suoi interessi non se le fa indicare dal parlamento, le prende in riunioni private nelle quali le varie fazioni borghesi – al governo o all’opposizione che siano – cercano di far pesare i propri interessi di parte. Dopo di che il parlamento viene chiamato a votare, per la grandissima parte, decisioni già discusse e prese in altra sede! Il parlamento è sempre più simile all’assemblea di una Società per Azioni in cui gli azionisti più importanti hanno già preso, in separata sede, le loro decisioni e hanno solo il problema di farle passare sulla testa dei piccoli azionisti.

Che ci farebbero i comunisti rivoluzionari fra quei piccoli azionisti del parlamento? Contribuirebbero a portare forze fresche al tempio del dio capitale senza avere alcuna possibilità di gestire nemmeno una parte infinitesima di quel capitale. E che cosa dimostrerebbero: che la Società per Azioni è in mano ai grandi azionisti? Ma questo lo sanno anche i bambini, non c’è bisogno di andare all’assemblea degli azionisti…

Riteniamo utile, allo scopo di dare ai più giovani la possibilità di rifarsi direttamente alle posizioni che i comunisti negli anni Venti dibatterono sulla questione del parlamentarismo e della preparazione elettorale, ripubblicare dei materiali che il partito ha utilizzato in un opuscolo del 1976. A quel tempo molti gruppi extra-parlamentari stavano diventando, o erano già diventati, parlamentari (Avanguardia Operaia, Lotta Continua, Servire il popolo, ecc.); era d’altra parte necessario, come lo è ancor oggi, distinguersi dagli anarchici, anche loro astensionisti, ma che della questione del parlamentarismo ne fanno una questione essenzialmente morale in quanto per loro ogni forma di potere va rifiutata. Iniziamo con l’articolo del maggio 1976 intitolato: Le ragioni del nostro astensionismo, titolo anche dell’opuscolo citato.

 

 

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LE RAGIONI DEL NOSTRO ASTENSIONISMO

 

Quando il problema dell’utilizzazione o meno del parlamento per la lotta senza quartiere contro il parlamentarismo fu sollevata in senso all’Internazionale Comunista, e la nostra corrente si batté per l’esclusione, nei paesi a lunga tradizione democratica, della tattica del «parlamentarismo rivoluzionario», una comune solidissima piattaforma di partenza univa i portavoce delle due soluzioni.
Aveva scritto Zinoviev nel suggerire la formula leniniana:

«La nostra parola d’ordine per ogni e qualunque paese borghese è: Abbasso il parlamento! Viva il potere dei Soviet!» (settembre 1919).
Aveva aggiunto Trotsky tre mesi dopo:

«Via da noi i logori scenari del parlamentarismo, i suoi chiaroscuri, le sue illusioni ottiche. Il proletariato ha bisogno dell’aria schietta e pura della sua strada, di un’idea precisa in testa, di un buon fucile in mano».

Le tesi dell’agosto 1920, dovute alla penna di Lenin e Bucharin, avevano proclamato:

«I parlamenti borghesi, che costituiscono i più importanti ingranaggi della macchina statale della borghesia, non possono essere conquistati, così come non può essere conquistato dal proletariato lo Stato borghese in generale. Il compito del proletariato consiste nel far saltare la macchina statale della borghesia, nel distruggerla, e, insieme con essa, distruggere gli istituti parlamentari, poco importa se repubblicani o monarchico-costituzionali».

La discussione non verteva dunque su uno dei principi cardinali della dottrina marxista: l’antiparlamentarismo. Verteva sulla questione eminentemente pratica se convenisse o no, al fine permanente della nostra lotta antiparlamentare ed antidemocratica, servirsi della «tribuna» (e non altro che tribuna) del parlamento per mobilitare le masse contro il parlamento, almeno «finché non si aveva la forza di abbatterlo».

I nostri argomenti non avevano nulla in comune con quelli dettati agli anarchici dalla loro «indifferenza in materia politica», dal loro «orrore per lo Stato»: essi partivano dalla considerazione che, nel difficile e tormentoso processo di formazione del partito comunista nell’Europa occidentale, dopo decenni e decenni di sbornie elettorali e parlamentari, una selezione rigorosa dei nuclei rivoluzionari dal corpo del movimento socialista era impossibile senza una rottura netta ed inequivocabile con le abitudini, le inerzie, le suggestioni della democrazia e, in specie, del parlamentarismo; che, ove si fossero costituite delle sezioni dell’Internazionale Comunista, la loro preparazione ai compiti di direzione rivoluzionaria del proletariato si sarebbe inevitabilmente scontrata con le ferree esigenze della preparazione elettorale; e che, infine, proprio la necessità di rendere palese agli occhi dei proletari l’impossibilità teorica e pratica di arrivare alla loro emancipazione, ala socialismo, per altre vie che per la dittatura del proletariato, quindi dell’abbattimento dello Stato borghese e delle sue istituzioni, e della creazione di un altro Stato e di altre istituzioni come ponte di passaggio obbligatorio ad una società senza classi e senza Stato – tale necessità imponeva ai partiti chiamati ad indicare loro quell’unica strada di concentrare tutti i loro sforzi di propaganda e di agitazione, tutte le loro risorse, in questo compito e di manifestarne anche «fisicamente» l’urgenza esortandoli a disertare l’immondo sfiatatoio aperto alla loro collera, l’urna – anche a prescindere dalle influenze corruttrici che l’ambiente parlamentare, specie nei paesi a sviluppo capitalistico avanzato, esercita su chiunque vi acceda.

Non era, il nostro astensionismo, né poteva o può essere, un atteggiamento negativo, di schifo morale; era dettato da esigenze pratiche e positive: anche accettando le mille riserve con le quali Lenin e i bolscevichi circondavano la direttiva (d’altronde proclamata valida solo in date situazioni) del «parlamentarismo rivoluzionario» in funzione antiparlamentare, era per noi chiaro che essa avrebbe non solo ritardato ma pregiudicato il taglio netto con «vecchio Adamo» legalitario e riformista e, di conseguenza, lo schieramento dei giovani partiti e – al loro seguito – delle avanguardie proletarie sul fronte dell’unica via alla rivoluzione.

Non vogliamo certo sostenere che l’essere andati alle elezioni e al parlamento sia stato di per sé la causa della degenerazione dei partiti comunisti. Se però l’augurio di Amadeo Bordiga, per la Frazione comunista astensionista in Italia, a Nicola Bucharin «che potesse presentare al prossimo congresso un bilancio meno triste del parlamentarismo di quello col quale ha dovuto oggi cominciare il suo rapporto», non si è – come temevamo fortemente – realizzato, e se dal parlamentarismo rivoluzionario per far saltare il parlamento si è precipitati via via fino al parlamentarismo legalitario per mantenere, rafforzare, «valorizzare» il parlamento, gli è che il processo di formazione di partiti comunisti attraverso la selezione inesorabile che si auguravano Lenin e Trotsky si compì nel modo peggiore, e a ciò contribuì fra l’altro la mancata applicazione di quel «reagente» contro la recidiva socialdemocratica che era per noi l’astensionismo. Il bilancio c’è stato; ed è devastatore. Se ieri avevamo buone ragioni pratiche, di esperienza vissuta, per prevederlo, oggi abbiamo mille volte più ragioni pratiche e di esperienza vissuta per constatarlo. Qui è la radice inestirpabile del nostro astensionismo.

Non si obietti: la situazione è diversa da allora. Certo che lo è. Ma la diversità consiste nel fatto che l’Internazionale antidemocratica ed antiparlamentare non c’è più; che il principio della rivoluzione violenta e della dittatura proletaria è stato messo sotto chiave, e poche e deboli voci osano agitarlo; che il movimento operaio è impestato da capo a piedi di democratismo e legalitarismo; che la selezione anche solo di un piccolo nucleo rivoluzionario marxista è tremendamente difficoltosa; che la stessa lotta rivendicativa e immediata, la stessa guerriglia proletaria in difesa dagli effetti della sopravvivenza del modo di produzione capitalistico, trova sul suo cammino l’ostacolo perenne del richiamo al «dialogo», al «civile confronto», alla «pacifica consultazione». La situazione è diversa perché rende ancora più imperativa la rottura con le vie, i mezzi, i costumi, le risorse, della «democrazia rappresentativa».

L’esigenza di questa rottura è per noi inseparabile dalla denunzia di ogni tregua di classe, di ogni pace del lavoro, di ogni solidarietà nazionale. Coloro che, come gli ex-extraparlamentari, pretendono di chiamare i proletari alla lotta di classe e, nello stesso tempo, alla sarabanda schedaiola, e di prepararli alla rivoluzione cullandoli nel mito di un «governo operaio» uscito dalle urne, minano alla base quello stesso movimento che si vantano di promuovere.

La vostra voce – ci si obietta – non ha eco. Rispondiamo: E’ l’obiezione sia dei traditori, sia dei candidati a divenirlo. Lenin vinse nell’Ottobre per aver osato proclamare in aprile, a coronamento dell’aspra battaglia contro corrente in quattro anni di guerra imperialistica:

«Meglio restare soli come Liebknecht – perché questo significa restare con il proletariato rivoluzionario».
Il nostro Aprile è, lo sappiamo, molto lontano da un nuovo Ottobre. Ma questo non si preparerà mai rinunciando alla posizione scomoda, ma necessaria soprattutto nei periodi di riflusso, di «andare contro corrente». Il dilemma, qualunque sia il rapporto di forze, è ancora una volta: O preparazione rivoluzionaria o preparazione elettorale. Una via di mezzo non esiste!
 

Partito comunista internazionale

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