Il muro israeliano: un affare d’oro per i borghesi palestinesi

(«il comunista»; N° 93-94; Febbraio 2004)

 

La morte di Yasser Arafat ha aperto un periodo di incertezze sulla configurazione della direzione palestinese, o meglio, ha messo in luce la crisi di sfiducia di cui soffrono i dirigenti palestinesi agli occhi della loro popolazione. Completamente coscienti del loro discredito e della loro impotenza di impedire allo Stato ebraico di dettare la sua ferrea legge, non hanno altra scelta che tentare di serrare le file e fare appello all’unione nazionale (islamici compresi) per realizzare una successione dolce che abbia il consenso dei padroni della regione: Stati Uniti e Israele. A costo di urtare alcuni Stati arabi, come la Giordania, il cui re, benché indefettibile alleato degli Stati Uniti, ha pubblicamente criticato le continue capitolazioni dei dirigenti palestinesi! (1)

La questione del muro che qui affrontiamo è una buona dimostrazione del fatto che, alla pari di tutti i borghesi, i dirigenti palestinesi sono interessati soprattutto alla ricerca… del profitto.

 

Il muro, strumento di annessione

 

Il muro, che ha cominciato ad essere costruito dal governo Sharon riprendendo un’idea del Partito laburista, ufficialmente per proteggere la popolazione israeliana dagli attacchi suicidi, si inserisce in realtà nella continuità degli intenti colonizzatori dello Stato ebraico: costruito sui territori occupati, questo muro comporta in realtà una vera e propria annessione di fatto dei territori, espropriando numerosi contadini e condannando a morte la vita economica di numerosi villaggi palestinesi, in evidente contraddizione con le promesse israeliane di porre fine al processo di colonizzazione (mentre annunciava lo smantellamento della maggior parte delle colonie della fascia di Gaza, il governo israeliano ha annunciato anche la realizzazione di colonie in Cisgiordania e a Gerusalemme.

La costruzione di questo muro è stata quindi denunciata dall’Autorità Palestinese e condannata da varie istanze internazionali (come la Corte internazionale dell’Aia) e dalla maggior parte dei governi, ad eccezione degli Stati Uniti che hanno addirittura posto il loro veto alla condanna da parte dell’ONU. Vedremo come abbia ricevuto un consistente aiuto da parte degli stessi dirigenti palestinesi!

Chiamato, per evidenti ragioni di propaganda, “barriera di sicurezza” dal governo israeliano, il muro, ancor oggi largamente composto da filo spinato, è destinato a diventare una costruzione in muratura lunga centinaia di chilometri. Questo significa enormi quantità di materiali da costruzione, a cominciare dal cemento, e dunque un gigantesco mercato per le imprese edili israeliane, a tal punto che le capacità produttive del paese sono diventate insufficienti.

Un imprenditore israeliano di Haifa impegnato in questa costruzione, un certo Pelsinsky, che ha la fortuna di possedere un passaporto tedesco, si rivolse quindi ai cementifici egiziani. Ma il contratto, riguardante la fornitura di 120.000 tonnellate di cemento, pronto per essere firmato andò all’aria nella primavera del 2003 quando la stampa egiziana, avuto sentore dell’affare, s’indignò facendo molto rumore sul fatto che l’Egitto partecipasse in tal modo alla costruzione del muro maledetto.

Per nulla scoraggiato, Pelsinsky ebbe l’idea di far passare il cemento destinatola muro attraverso i Territori palestinesi. E per far ciò si rivolse a dei dirigenti dell’Autorità Palestinese. Così nel settembre 2003 fu firmato al Cairo un primo contratto di 20.000 tonnellate di cemento con Jamal Tarifi, ministro palestinese degli Affari pubblici (e proprietario di cementifici) che attestava che il cemento serviva per uso esclusivo dei palestinesi.

Ai primi di novembre del 2003 il capo dell’ufficio di controllo del governo palestinese inviava ad Arafat un rapporto che rivelava la concessione da parte del ministro del Commercio di licenze di importazione e la scoperta che questo cemento era destinato in realtà alla costruzione del muro. La sola reazione di Arafat fu di chiedere al Primo ministro Qorei di indagare. Risultato: le importazioni continuarono per cinque mesi senza interruzioni in quanto il ministro dell’Economia aveva concesso senza esitare altri permessi per l’importazione del cemento.

In totale sono state importate 420.000 tonnellate di cemento egiziano per essere rivendute a Israele (ad eccezione di 33.000 tonnellate utilizzate in Palestina) dalle imprese Qandelle Tarifi Company for Cement (di proprietà del ministro), Tarifi Company (di proprietà del fratello del ministro), un’impresa di un grande borghese di Gaza e la Société Générale des Services Commerciaux Palestiniens, organismo parastatale diretto da Mohammed Rashid, proprio il “tesoriere” del defunto Arafat, il solo ad avere accesso ai suoi conti attraverso i quali transitava buona parte delle finanze palestinesi. Non occorre andar lontano per capire l’assenza di reazioni di Arafat a queste importazioni…

Poiché questo cemento era destinato ufficialmente alla ricostruzione di edifici distrutti dagli israeliani (e ne era la prova il certificato del ministro dell’Economia) veniva venduto dagli egiziani al prezzo di favore di 22 dollari la tonnellata. Gli intermediari nel rivenderlo agli israeliani prendevano da 12 a 15 dollari per tonnellata. Si stima che circa 6 milioni di dollari (più o meno la stessa cifra in euro) siano stati così guadagnati in sei mesi da questi borghesi palestinesi contribuendo alla costruzione del muro israeliano! Inoltre gli importatori si sono esentati dal pagare all’amministrazione palestinese le spese doganali (che sarebbero ammontate a 1,7 milioni di dollari).

Poiché questa faccenda incominciava a trapelare, all’inizio di quest’anno fu istituita una commissione parlamentare d’inchiesta. I risultati di sette mesi di inchiesta dovevano probabilmente rimanere segreti, ma Hassan Kreishe, vicepresidente del parlamento palestinese, nel giugno scorso ne ha resi pubblici alcuni – che abbiamo sopra riportato – nonostante le minacce di cui sostiene di essere stato fatto oggetto da parte di alcune delle persone tirate in causa.

Pensate, - concludeva – che mentre nessuno ha mosso un dito contro i capitalisti palestinesi, abbiamo arrestato qualche disgraziato che lavorava come muratore a questo muro. E l’abbiamo anche trattato da collaborazionista!” (2).

Hassan Kreishe fa parte dei politici ostili al clan di Arafat, che operano per una riforma delle istituzioni: “Con una giustizia efficace sapremo liberarci della corruzione” (3). Pur affermando che alcune delle prove che aveva fornito al Primo ministro Qorei sono sparite, solleva quest’ultimo da qualunque coinvolgimento nella vicenda.

Ahmed Qorei è stato nominato Primo ministro palestinese sotto la pressione degli Stati Uniti (ed è per via di questa stessa pressione internazionale, compresa quella europea, che è rimasto in campo dopo la crisi politica che l’ha contrapposto ad Arafat) per limitare il potere di Arafat e dei suoi seguaci in nome della “riforma” delle istituzioni palestinesi verso la trasparenza e la lotta contro la corruzione. Delle voci sostengono da tempo che l’impresa Al-Quds Cement Company di cui è proprietario lavori per dei coloni israeliani. In febbraio, dopo che un servizio della televisione israeliana aveva mostrato dei camion di cemento della sua azienda che entravano in Israele per consegnare del cemento destinato con ogni probabilità al muro, Qorei indignato aveva smentito queste accuse.

Questa smentita non ha impedito che, al momento della crisi politica aperta tra Arafat e Qorei, un deputato palestinese confermasse che l’azienda di quest’ultimo era fortemente sospettata di fornire anch’essa cemento per la costruzione del muro e di diverse colonie israeliane e un gruppo minoritario di Fatah ha perfino chiesto che venisse giudicato per alto tradimento (insieme ai ministri coinvolti nel traffico di cemento).

La “trasparenza” di Qorei e del suo governo ha dunque limiti molto stretti, come testimonia il fatto che la questione del cemento sembra che non sia mai stata citata dai mezzi di informazione palestinesi (4).

Nonostante la censura dei media, la popolazione non si fa tuttavia alcuna illusione nei confronti dei propri dirigenti e, secondo il sondaggio di un istituto di Ramallah, il 90% delle persone interrogate riconosce l’esistenza della corruzione in seno all’Autorità Palestinese e il 65% la ritiene “ampiamente diffusa” (5).

Mentre a causa delle misure coercitive, delle distruzioni di ogni genere e dei massacri perpetrati dallo Stato israeliano, che in questi ultimi mesi ha intensificato gli interventi militari omicidi nella fascia di Gaza, la miseria fra la popolazione cresce drammaticamente, il fatto che alti dignitari e borghesi palestinesi si arricchiscano trafficando con i responsabili di questa miseria non può che accrescere parallelamente lo scontento nei confronti dell’Autorità Palestinese.

 

Lotta contro i “corrotti” o contro i capitalisti e il capitalismo?

 

E’ in questo scenario che si spiega la rivolta, la scorsa estate, di alcune fazioni di Fatah contro i dirigenti corrotti – in particolare dopo la nomina, il 17 luglio, di Moussa Arafat (cugino di Yasser Arafat) al posto di ministro della sicurezza in sostituzione di Mohammed Dahlan. E’ bene sapere che il ministero della sicurezza è particolarmente remunerativo perché comprende anche il controllo delle dogane.

In quell’occasione si sono svolte numerose manifestazioni, anche armate, e Dahlan, che si era fatto portabandiera della denuncia della corruzione, minacciava di fare scendere 30.000 manifestanti nelle strade di Gaza se non fossero state messe in atto vere riforme dell’Autorità Palestinese. “Yasser Arafat resta seduto sui cadaveri e sulle rovine dei palestinesi in un momento in cui abbiamo disperatamente bisogno di una nuova mentalità” dichiara a un giornale del Kuwait, aggiungendo che “5 miliardi di aiuti esteri dati all’Autorità Palestinese sono finiti non si sa dove” e accusando gli ufficiali corrotti” che circondano Arafat.

Gli oppositori chiedono più precisamente che Arafat lasci maggior potere al Primo ministro, in particolare sulle nomine ai posti di responsabilità, la revoca del nuovo ministro della sicurezza e che i personaggi coinvolti nel traffico vengano sottoposti a giudizio.

Alla metà di agosto Arafat ammetteva che “errori inaccettabili” erano stati commessi da alcuni responsabili e prometteva di sostenere a fondo il Primo ministro, ma senza prendere alcuna misura concreta: niente destituzione del cugino né sanzioni contro i corrotti. Nella settimana successiva si aprivano dei negoziati con Dahlan nella prospettiva di un futuro rimpasto ministeriale in cui egli avrebbe avuto il suo posto.

In passato Arafat era stato costretto a compiere qualche atto: l’anno prima era stato, per esempio, costretto a silurare il famoso Tarifi dal proprio posto di ministro degli affari civili che occupava da ben 8 anni e a rimuovere il capo della polizia di Gaza (a quanto sembra “l’uomo più odiato del territorio”); ma alcuni mesi più tardi i due riebbero i loro posti. In realtà contemporaneamente all’instaurarsi dell’Autorità Palestinese si è instaurato un clima di totale impunità per i borghesi: nessun uomo d’affari e nessun politico è mai stato processato per gli scandali che si sono susseguiti nel corso degli ultimi dieci anni.

In settembre le “Brigate dei martiri di Al-Aqsa”, un gruppo armato legato a Fatah (il principale partito nazionalista palestinese, guidato da Arafat) responsabile di numerosi attentati in Israele, occupavano il quartier generale della sicurezza palestinese e alcune caserme per manifestare la loro opposizione al cugino di Arafat. In una recente intervista, un responsabile di questo gruppo afferma che quest’ultimo ha dei “comportamenti mafiosi. Noi l’accusiamo di essere all’origine di assassini, di corruzione” (6). Criticando aspramente i dirigenti palestinesi, il responsabile delle Brigate dichiara: “Noi dobbiamo lottare contro i corrotti dell’Autorità Palestinese. (…) L’Autorità Palestinese è carente anche nel campo dell’educazione, della sanità, della giustizia e della sicurezza, del sociale”, senza contare il suo rifiuto ad appoggiare la resistenza contro Israele. Nella loro lotta proclamata contro i “rappresentanti della corruzione”, le Brigate intendono appoggiarsi sui “leader storici della rivoluzione palestinese”; secondo loro colui che dovrebbe rimpiazzare Yasser Arafat dovrebbe essere Mohammed Dahlan.

Per giudicare la capacità di questo Dahlan di combattere la corruzione, bisogna sapere che, a detta di tutti, prima di suonare le trombe della lotta contro i corrotti, egli aveva ampiamente approfittato del controllo di cui disponeva sulle dogane per accaparrarsi succulente commissioni (7).

Secondo Markus Bouillon, un esperto dell’economia israelo-palestinese “i ‘Tunisini’ [i capi nazionalisti esiliati a Tunisi rientrati da eroi nei Territori occupati dopo gli accordi di Oslo] non costituiscono solo l’élite politica. Tornati a Ramallah, hanno fondato le loro compagnie che hanno monopolizzato gli scambi con Israele, proprio grazie alle relazioni instaurate durante il processo di pace” (8): i “leader storici della rivoluzione” borghese si sono inevitabilmente trasformati in uomini d’affari, più o meno corrotti!

I problemi della popolazione palestinese, compresi quelli determinati dalla bestiale repressione israeliana, non sono dovuti alla corruzione di qualche ufficiale; un rapporto del 2002 della Banca mondiale indicava d’altronde che la pratica delle bustarelle era solo di poco più frequente che nei paesi occidentali, mentre un altro rapporto del settembre 2003 del FMI sosteneva che “il livello di trasparenza del bilancio dell’Autorità Palestinese è fra i migliori della regione”.

Corruzione e legge del profitto vanno di pari passo: sono caratteristiche tipiche del capitalismo. Nella situazione attuale in Palestina, la denuncia di scandali e corruzione è utilizzata dalle varie fazioni borghesi in lotta per garantirsi il rimpiazzo. Tutti promettono di riformare e fare pulizia nell’Autorità, ma tutti non sognano altro che di sostituirsi al concorrente o di mantenere il proprio posto.

I proletari e le masse oppresse devono ricordare le parole del vicepresidente del parlamento palestinese, Hassan Kreishe, che tiravano in ballo i capitalisti palestinesi: è contro i capitalisti che bisogna lottare e contro l’Autorità Palestinese che ne è lo strumento.

Gli oppressi scopriranno che, per difendersi dai borghesi palestinesi e israeliani uniti dai mille legami del commercio e dell’affarismo, la lotta proletaria è l’unica soluzione: spezzando le fatali catene dell’unione nazionale, quella lotta rappresenta la sola alternativa possibile per raccogliere in un unico campo, dotato quindi di una forza invincibile, i proletari di tutti i paesi.

Insieme a Yasser Arafat è stata seppellita una parte del poco prestigio che ancora restava al nazionalismo (prestigio restituito dall’atteggiamento di Israele nei suoi confronti), che serviva a camuffare il fatto che è ormai sprofondato fino al collo nell’affarismo. L’Autorità Palestinese e i “capi storici della rivoluzione” non possono più nascondere ormai la loro natura di classe e il loro abbandono di qualunque velleità di rimettere in discussione l’ordine imperialistico. Da quando Sharon ha annunciato il ritiro da Gaza, il governo palestinese non pensa che a negoziare con gli israeliani di poter armare altri poliziotti per “fare rispettare la legge e l’ordine” nei territori dopo il loro ritiro (9). Il cambio della guardia (intesa proprio come poliziotto) è all’ordine del giorno

Contro tutti i difensori dell’ordine borghese, per la solidarietà nella lotta contro il capitalismo e l’oppressione nazionale, l’avvenire di ogni proletariato è nella lotta di classe!

 

 


 

(1) In una dichiarazione alla catena televisiva Al Arabia l’estate scorsa, il re Abdallah ha dichiarato che l’Autorità Palestinese faceva troppe concessioni a sorpresa agli israeliani per ottenere un chiaro appoggio dagli Stati arabi: “Noi vorremmo che la direzione palestinese precisasse in modo chiaro che cosa vuole e cosa non vuole e che non ci sorprendesse con le sue decisioni e l’accettazione di ciò che in passato rifiutava. All’inizio le discussioni vertevano sulla restituzione del 98% del territorio palestinese. Oggi si parla di meno del 50% e non sappiamo dove si arriverà fra un anno o due. La stessa cosa per i rifugiati: le discussioni vertevano inizialmente sul loro rientro e sulle indennità e oggi riguardano solo una piccola parte. E’ un peccato che ciò che veniva respinto come un tradimento sia ora divenuto per alcuni una rivendicazione di grande portata”. Dépeche Reuters, citato da UNISPAL (servizio d’informazione dell’ONU sulla Palestina), settembre 2004. Secondo il ministro degli Affari esteri giordano, le autorità temono un afflusso di rifugiati palestinesi nel loro paese in conseguenza delle azioni israeliane.

(2) Cfr. “Il Corriere della Sera”, 29/7/2004

(3) Cfr. “Le Monde”, 18/8/2004.

(4) Altro esempio di questa opaca “trasparenza”: il 20 luglio, dopo le manifestazioni provocate dalla nomina di Moussa Arafat al ministero della sicurezza, il Sindacato dei giornalisti palestinesi (che sarebbe più esatto chiamare Polizia dei giornalisti) vietava ai giornalisti, sotto pena di sanzioni, “di trattare qualunque tipo di argomento e di utilizzare dichiarazioni o pubblicazioni relative agli avvenimenti interni e suscettibili di diffamare, calunniare o danneggiare altri”; in particolare intimava loro “di non occuparsi dei mercati delle armi, di non fotografarli o filmarli” e insisteva invece “sulla necessità di rendere pubblica e di occuparsi di ogni attività che sostiene l’unità nazionale e protegge il fronte interno”!

(5) Secondo il Jerusalem Media and Communication Center di Ramallah, da “Le Monde”, 18/8/2004.

(6) Cfr. «Le Monde», 11/11/2004.

(7) Cfr. «Le Monde», 18/8/2004.

(8) Cfr. “Il Corriere della Sera”, cit.

(9) “Abbiamo chiesto ai nostri fratelli del ministero degli Affari civili, del Dipartimento dei negoziati e al Quartet di informare gli Israeliani che l’Autorità Palestinese ha intrapreso dei passi seri per ripristinare la legge e l’ordine. Noi chiediamo [alle forze israeliane] di facilitare questa azione e di non opporsi alla polizia palestinese”.

In risposta a questa dichiarazione di Qorei, “fonti militari israeliane” hanno affermato che la “procedura standard” dell’esercito è quella di informare in anticipo la polizia palestinese dei propri interventi in modo che i poliziotti possano rifugiarsi nelle proprie caserme evitando così che vi siano “scontri” con i soldati. E, in realtà, fra loro non vi sono mai stati scontri. Avete detto complicità?

Il ministro israeliano della difesa ha dichiarato di sostenere la presenza di poliziotti palestinesi armati nelle zone in cui la situazione rischiasse di degenerare in una “incontrollabile anarchia”; ma gli israeliani non sembrano aver fretta di arrivare ad accordi concreti, con grande rabbia dei borghesi palestinesi: sono proprio loro ad avere interesse nella questione! A questo proposito si possono consultare le informazioni diffuse dall’UNISPAL.

Occorre segnalare che gli Islamici, che sono stati i grandi assenti nella crisi politica della scorsa estate, dopo la morte di Arafat hanno dichiarato il loro appoggio all’unione nazionale e all’Autorità Palestinese. In occasione dei negoziati svoltisi sotto il patrocinio dell’Egitto in previsione del ritiro israeliano da Gaza, essi avrebbero accettato di cessare i loro attacchi contro Israele a partire da questo territorio dopo il ritiro (cosa che corrisponde a quanto avevano già affermato in passato) anche prima che lo facciano le altre organizzazioni palestinesi.

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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