Iraq: guerra di rapina e di spartizione

(«il comunista»; N° 95; Maggio 2005)

 

 

«Guerra preventiva», ossia destabilizzare per spartirsi il mondo diversamente

 

Col marzo 2005 sono due anni che Stati Uniti e Gran Bretagna conducono una guerra di rapina e di occupazione in Iraq col pretesto delle “armi di distruzione di massa” (chimiche e biologiche) che il regime di Saddam Hussein avrebbe posseduto in grandi quantità, e di cui, sebbene a denti stretti, tutti i governi guerrafondai hanno dovuto ammettere l’inesistenza. La grande causa per cui fare la guerra è stata identificata nella «Lotta contro il terrorismo internazionale», «lotta contro gli Stati-canaglia», come li ha definiti l’Amministrazione americana (e in questo elenco, di volta in volta, entrano ed escono Stati diventati, o che stanno per diventare, “amici” o “nemici” degli USA); insomma una specie di battaglia “di civiltà” per diffondere la democrazia nel mondo, a suon di bombe naturalmente.

L’opposizione iniziale di Francia, Germania, Russia e dei movimenti cosiddetti no-global alla teoria della guerra preventiva con la quale Bush e Blair hanno giustificato la loro guerra all’Iraq, è un’opposizione borghese, dettata per gli uni da interessi economici e politici legati alla rivalità e alla concorrenza con gli USA e il Regno Unito, e per gli altri a posizioni pacifiste più o meno radicali che si mescolano, spesso, con posizioni da antimperialismo borghese in virtù del quale ci si oppone al “padrone del mondo” perché è lui a “dettare le regole delle alleanze” mentre non vi sarebbe opposizione, o sarebbe molto blanda, se le guerre di rapina e di spartizione del mondo si svolgessero sotto l’egida, ad esempio, delle Nazioni Unite, o comunque con l’accordo di tutti i governi “che contano”.

Nei diversi annunci che Bush e Blair hanno fatto iniziando la guerra contro l’Iraq, vi è anche quello che avrebbero usato qualsiasi mezzo – compresa la menzogna – pur di vincere “il terrorismo internazionale”, e nella fattispecie il “terrorista di turno” Saddam Hussein. Da questo punto di vista, come ormai succede da molti decenni, ma non era mai stato dichiarato così apertamente, la democrazia americana, la democrazia inglese, insomma la democrazia imperialista giustifica la soppressione di qualsiasi libertà se quest’ultima può in qualche modo nuocere alle finalità dell’iniziativa militare presa; che si tratti di libertà di espressione, di riunione, di circolazione, di stampa, di diffusione di notizie; non parliamo poi della libertà di difendersi dalle azioni armate dei «portatori di guerra preventiva», che poi sono a rigor di logica veri e propri aggressori.

Per esigenze di propaganda, e per giustificare al meglio l’aggressione guerresca all’Iraq, Washington e Londra hanno fatto di tutto perché le vere ragioni della loro guerra non fossero svelate e non trovassero conferme obiettive. Il fatto di aver raggiunto Bagdad in meno di un mese dall’inizio delle operazioni militari ha dato la stura ai canti di vittoria da parte di Washington e di Londra; ma, non aver trovato nemmeno l’ombra delle temutissime armi di distruzione di massa, e non aver trovato un briciolo di prova dei presunti collegamenti tra Saddam Hussein e Bin Laden, ha rotto velocemente quel canto. Bush e Blair avevano bisogno di sostituire gli iniziali “motivi” della guerra con altri motivi sufficientemente validi per non perdere del tutto la credibilità con gli alleati. E così il cartello con su scritto: “terrorismo internazionale” veniva spostato dietro le quinte, e sul proscenio veniva portato un altro cartello con su scritto: “orribile dittatura di Saddam”: il dittatore che affama il suo popolo, il dittatore che stermina i suoi oppositori, il dittatore che accumula ricchezze gettando nella miseria e nella morte milioni di iracheni. Washington naturalmente si scorda di dire che quel “dittatore” è stato per decenni un suo stretto alleato (alla pari dei Pinochet, dei Videla, dei Somoza, dei Bin Laden ecc.), foraggiato, sostenuto e giustificato fino a tutto il periodo della guerra contro l’Iran, guerra fortemente voluta da Washington e da Londra. La dittatura di Saddam “doveva cadere”, doveva essere “distrutta” non importa con quante tonnellate di bombe, con quanti morti civili iracheni e con quanti soldati americani, inglesi, italiani, portoghesi, bulgari o polacchi caduti ; Saddam doveva cadere ed essere sostituito con un governo “democratico”, ossia con un governo molto meno indipendente, e meno intraprendente, più servile e con un enorme “debito di riconoscenza” verso Washington e Londra, pronto a fare tutto quello che risponde agli interessi dei due rispettivi imperialismi “vittoriosi” su Saddam. La guerra comporta orribili stragi, angherie di ogni genere, torture, case e interi quartieri distrutti? E’ la guerra!!!, ma meno se ne sa e meglio è per il prestigio di Bush, di Blair e dei loro alleati.

Il fatto è che la guerra non è stata vinta, né alla fine di marzo del 2003, né alla fine di marzo del 2005. La “destabilizzazione” dell’Iraq è stata tale che ha fatto emergere una serie di contraddizioni e di contrasti che Washington con ogni probabilità non si aspettava. E così, la realtà che viene alla luce è che il problema non erano i sunniti (che sono la minoranza in Iraq, e che erano la base del potere di Saddam), e non erano i curdi (ai quali d’altra parte gli americani hanno dovuto concedere molta autonomia nei loro territori per tenerseli alleati), e non erano nemmeno gli sciiti (la maggioranza della popolazione irachena, così dicono le cronache, è islamica sciita); il problema non era nemmeno il fondamentalismo islamico, “nemico” dell’Occidente, visto che il regime di Saddam era il più laico in assoluto che esistesse in tutto il mondo musulmano. Il problema, in Iraq, sono le truppe d’occupazione, sono gli americani, gli inglesi, i polacchi, gli italiani, insomma tutti gli occidentali che in divisa o in abiti civili sono piombati in Iraq a fare i loro affari sulla pelle degli iracheni che siano arabi sunniti o arabi sciiti, curdi o azeri.

Il “terrorismo” alla Bin Laden non esisteva in Iraq prima dell’invasione degli americani. Per gli interessi del capitalismo iracheno, e per quelli del capitalismo internazionale – almeno fino ad un certo punto – bastava il terrorismo di Saddam Hussein, evidentemente. In realtà, le conseguenze immediate di questa guerra hanno favorito l’arrivo in Iraq dei terroristi di Al Qaeda; non solo, esse hanno provocato rabbia e intolleranza che hanno fatto da componente “ideologica” nella formazione di gruppi armati di ogni genere: gruppi che resistono all’occupazione, gruppi che ne approfittano per arricchirsi rubando, uccidendo, sequestrando, gruppi che si ritagliano zone e pezzi di territorio o strade in cui agire e imporre un “potere” più o meno temporaneo per sopravvivere o per arraffare quanto più possibile. Non c’è giorno che passi senza che vi sia un attentato, un’autobomba, un colpo di mortaio, un razzo diretto contro le truppe d’occupazione e tutti coloro che con le truppe d’occupazione hanno a che fare, poliziotti, semplici camionisti o giornalisti che siano. Spesso i giornali hanno parlato di un “dopoguerra” più difficile della guerra; in verità un dopoguerra in Iraq non c’è proprio mai stato. I bombardamenti a Bagdad, a Bassora, a Falluja, a Ramadi, hanno lasciato un segno profondo non solo sul terreno ma nel cuore delle popolazioni civili. I “liberatori” – d’altronde non voluti – non hanno potuto contare sulla ribellione e sull’insurrezione popolare “contro Saddam” semplicemente perché non ci sono state. Quel popolo, e soprattutto il suo proletariato, tutte le volte che ha avuto la forza di ribellarsi al regime di Saddam (un regime borghese e capitalistico, ripetiamolo) è stato represso con violenza inaudita, e ha dovuto subire torture e stragi senza che nessuno al mondo muovesse un dito.

Allora, la “sovranità nazionale” irachena aveva “diritto” di essere rispettata: il boia Saddam faceva un buon lavoro non solo per conto della borghesia irachena al potere ma anche per la borghesia internazionale. Nella suddivisione dei compiti, ad esempio nei confronti dei curdi, mentre la Turchia pensava a tener sotto il proprio tallone i “suoi” curdi, e l’Iran di Komeini teneva a bada i “suoi” di curdi, Saddam non poteva certo stare indietro, tanto più che nei territori del Kurdistan iracheno ci sono importantissimi giacimenti di petrolio; e allora per vincere la loro resistenza via col gas (ma chi glielo ha fornito: Londra, Berlino, Washington?). Agli sciiti del sud, che si ribellarono a Saddam, dopo la guerra contro l’Iran, stessa sorte; di più, gli sciiti furono indotti ad illudersi che gli angloamericani li avrebbero aiutati nella loro “insurrezione”, ma non li conoscevano bene: gli sciiti si ribellarono, gli angloamericani non mossero un dito, le truppe di Saddam li massacrarono. Perché mai gli iracheni avrebbero dovuto accogliere gli angloamericani come “liberatori”? Infatti non avvenne.

Interessi economici, politici e militari hanno mosso le potenze imperialistiche prima della guerra angloamericana in Iraq e nella stessa guerra. Su questo non c’è dubbio alcuno. Il petrolio iracheno rappresenta un bottino di grande valore, e anche questo non è messo in dubbio da nessuno. Ma la guerra in Iraq risponde a qualcosa di più che il mettere le mani sul petrolio e sulla ricostruzione. La inevitabile destabilizzazione, che la guerra angloamericana ha provocato nell’intera area mediorientale, a ragione ritenuta strategica da tutte le potenze imperialistiche del mondo, sia per il petrolio sia per il fatto di essere una vitale cerniera fra Occidente e Oriente, fa da sfondo, in una prospettiva di periodo più lungo, a movimenti che tendono ad una spartizione del mondo diversa da quella ereditata dalla fine della seconda guerra mondiale in avanti.

L’implosione dell’URSS, e del suo campo d’influenza nel 1989-1991, ha dato l’avvio di una nuova spartizione del mondo più ancora della crisi simultanea del capitalismo mondiale del 1974-75. La “guerra preventiva” contro il “terrorismo internazionale” in realtà nasconde, non dal punto di vista immediato ma dal punto di vista più generale, la spinta dei più aggressivi Stati imperialisti (in primis gli USA, ma non solo) a muoversi prima dei concorrenti nel controllo – o nel tentativo di controllo – delle zone strategiche del mondo che, a causa dell’implosione dell’URSS e della fine del condominio russo-americano sul mondo, si sono “liberate”. Lo sviluppo dei contrasti interimperialistici porta inesorabilmente verso la guerra mondiale, la terza guerra mondiale; lo scoppio di questa terza guerra non appare così vicino, ma l’accelerazione delle crisi capitalistiche provocate da una lotta di concorrenza sempre più accanita e da una sovrapproduzione crescente che i mercati non riescono ad assorbire, accumula i fattori di crisi di guerra generale. Scoppierà fra 15, 20 anni? Non lo possiamo dire, oggi, ma una cosa è certa: le classi dominanti borghesi sanno che prima o poi saranno costrette o a dichiarare guerra ai concorrenti più pericolosi o a subirla. E a questo orrendo “appuntamento” ogni borghesia tenta di prepararsi al meglio, e di preparare ideologicamente e praticamente l’unità nazionale, la solidarietà interclassista così vitali per la difesa più efficace degli interessi capitalistici di ciascuno Stato borghese. E per questa propaganda dell’unità nazionale, di un nuovo patriottismo, non c’è di meglio che la teoria dell’aggressione esterna, del nemico annidato nelle pieghe della democrazia occidentale quanto nei paesi “incivili” che non hanno mai assaggiato le delizie della democrazia occidentale! Nel frattempo, non passo giorno che da qualche parte nel mondo non si svolga una guerra: guerra di confine, guerra per dei pozzi di petrolio o per sorgenti d’acqua, per un pezzo di territorio o uno sbocco al mare, per una rotta commerciale o per un passo di montagna strategico, per risorse minerarie importanti o per reprimere ribellioni nazionalistiche. E’ sempre più vero che nella società borghese la pace è quel periodo di tempo che intercorre fra una guerra e l’altra (Lenin).

 

Impotente gioco delle ombre

 

Come già in altri interventi militari da parte degli imperialismi più forti e in altre guerre, anche nella guerra in Iraq l’interesse dei comandi militari è di non far sapere al mondo quel che sta veramente accadendo. Scrivere e documentare di fatti che con le operazioni militari intese in senso stretto non hanno nulla a che vedere (prigionieri torturati, stupri, edifici civili e moschee bombardati, gente inerme colpita dalle mitragliatrici, ecc.) non è vantaggioso per gli eserciti che si vantano di portare civiltà e democrazia nel mondo. Ma la “libertà di informazione” è una di quelle libertà alle quali la “democrazia” è particolarmente legata; perciò è concesso ai giornalisti di seguire le vicende delle guerre, naturalmente a loro rischio e pericolo. Se i giornalisti non sorpassano certi limiti, e non fanno fare agli eserciti delle potenze “democratiche” la parte dei barbari assetati di sangue, svolgono un ruolo perfino “utile” al buon nome degli eserciti al cui seguito sono agganciati: possono alimentare così l’idea che la civiltà occidentale è talmente superiore a tutte le altre che, pur usando il ferro e il fuoco della guerra, è in grado di non “esagerare”, di mantenere gli ammazzamenti nei limiti dell’indispensabile difesa, di saper praticare “atti di umanità” nel bel mezzo di feroci scontri a fuoco. A questo scopo cooperano tutte le organizzazioni cosiddette “umanitarie”, a partire dalla Croce Rossa ovviamente, che negli ultimi decenni sono cresciute molto di numero. Certo che, se i giornalisti, o altri testimoni non direttamente disciplinati ai comandi militari, mettono troppo in risalto i lati più sporchi della guerra, allora non fanno un buon servizio al prestigio degli eserciti dei paesi imperialisti che distribuiscono «civiltà e democrazia» nel mondo; mettere questi giornalisti, queste persone, nelle condizioni di “non nuocere” diventa una logica esigenza dei poteri politici e dei comandi militari interessati.

Ad ogni governo borghese quel che sta a cuore non è la verità dei fatti, indipendentemente se quella verità fa bene o male al loro prestigio. Quel che interessa è che cosa, come, in che contesto, in che misura, con quali limiti e con quali conseguenze, di quei fatti è conveniente o meno rendere di pubblico dominio, mettere in evidenza. La manipolazione delle informazioni non è cosa nuova, esiste da quando esistono le società divise in classi, poiché chi ha il potere in mano ha non solo il potere degli eserciti ma anche il potere dell’informazione, della cultura, della scienza, che usa normalmente e costantemente anche quando si passa all’azione di forza, all’azione militare. Sotto il capitalismo, dato lo straordinario progresso tecnico raggiunto, l’informazione, la cultura, la propaganda, la scienza diventano vere e proprie armi a disposizione dei grandi poteri economici e politici, utilissime nella guerra permanente di concorrenza. E più lo stadio imperialistico del capitalismo si espande e si prolunga nel tempo, più la centralizzazione e la concentrazione dei poteri dell’informazione crescono, concentrando in poche mani i grandi media mondiali, dai giornali alle tv Non è a caso che un antico proverbio latino recitasse: «uccide più la lingua che la spada». Fino a che esisterà il dominio del capitale sulla società, la verità dei fatti non sarà mai del tutto detta o scoperta, per quanto si possano dar da fare coraggiosi giornalisti-detectives. L’unico potere politico che non ha nulla da temere dalla verità dei fatti, è il potere del proletariato, la dittatura di classe che il proletariato vittorioso sulla classe borghese instaura al fine di rivoluzionare completamente la società esistente. Anzi, dalla verità ne ricava il massimo di forza e di vantaggio, a partire dalla realtà del rapporto economico e sociale esistente tra lavoro salariato e capitale, dalla realtà dello scontro obiettivo e materiale fra gli interessi di classe del proletariato con quelli delle classi borghesi, dalla realtà dell’antagonismo di classe che oppone storicamente le classi dominate alle classi dominanti in tutte le società divise in classi, dalla realtà della assoluta dipendenza dal mercato, e quindi dalla produzione e riproduzione del capitale e dalla sua continua valorizzazione, dei bisogni della specie umana trasformata invece, sotto il capitalismo, in produttrice e consumatrice di merci, e merce essa stessa.

Va da sé che i governi di Washington, di Londra e di tutte le capitali dei paesi alleati, da Roma a Varsavia, ecc., in guerra, hanno fatto di tutto per scoraggiare chiunque non si sottoponesse ai dettami dei comandi militari (e quindi censurato a dovere) di andare in Iraq e raccontare quel che vedeva coi propri occhi e sentiva con le proprie orecchie, riguardo non solo a quel che succedeva ai soldati delle forze d’occupazione ma anche alla popolazione irachena. Ma il business dell’informazione è anch’esso un grande business, e non di poco conto; i media grandi e piccoli, per essere venduti o per avere audience, devono fornire notizie, informazioni, foto, interviste che altri non hanno o possono avere solo “dopo”: sono tutti alla ricerca dell’esclusiva, della notizia data per primi, dello scoop. A questo servono gli inviati di guerra, free lance o stipendiati che siano; e magari per qualche giornalista o qualche fotoreporter ci scappa poi il libro, il premio, l’onorificenza, il premio Pulitzer o l’insegna di “cavaliere” come è avvenuto ad un certo numero di giornaliste italiane inviate dai loro editori in Iraq, nel marzo di due anni fa, a documentare la guerra angloamericana.

E’ stato fatto sempre molto chiasso intorno ai giornalisti di guerra sequestrati o uccisi, come fossero eroi da onorare per la vita per il solo fatto di “rischiare” o aver rischiato – armati solo di taccuino, registratore, macchina fotografica o cinepresa – la propria vita per inviare i loro “pezzi di verità” a un giornale o a una televisione. I minatori che rischiano la vita tutti i giorni a causa di un sistema che risparmia su tutto, anche sulla vita degli uomini, pur di accumulare profitti, e che a decine o a centinaia muoiono nelle viscere della terra, al massimo sono oggetto di notizia che qualche giornalista scrive o documenta; non sono per questo né onorati né tantomeno “risarciti”. E come i minatori, milioni di lavoratori salariati, bambini, adulti, donne, anziani, schiavizzati dall’obbligo del lavoro per sopravvivere, rischiano la vita ogni giorno da quando nascono, magari costretti a vivere fra l’immondizia e le fogne a cielo aperto, in ambienti malsani e a rischio di frane, alluvioni, smottamenti, crolli. Qual è l’atto eroico? Per milioni di esseri umani l’atto eroico è il sopravvivere un giorno dopo l’altro! Dove starebbe la nobiltà del “mestiere”? Nel fare il giornalista piuttosto che il minatore?

In un periodo in cui la degenerazione sociale attraversa tutti gli strati sociali e la stessa classe proletaria, il lavoro del giornalista – alla pari di ogni altro lavoro intellettuale – non può che rappresentare quella degenerazione, l’orrido consumo quotidiano di violenza, il vigliacco cinismo di un sistema che tritura ogni vita, ogni aspirazione, ogni sogno, ogni ideale, nella mastodontica e cinica macina dei profitti. E non è detto che quella rappresentazione sia sempre evidente, che sia sempre un atto d’accusa verso la società; spesso invece si tratta di manipolazione (voluta o involontaria, poco importa) dei fatti e della realtà capitalistica. La società attuale gronda sempre più di sangue, di vessazioni, di soprusi, di ruberie, di assassinii, di fatiche inenarrabili solo per sopravvivere, e talvolta, qualche intellettuale che fa il giornalista si sente spinto a gridare il ribrezzo e la disperazione per le vite umane torturate dalla fatica del lavoro, dalla repressione poliziesca o dalla guerra. Rari sono gli esempi storici in cui l’intellettuale giornalista, di schiatta borghese, come fu per John Reed, viene catturato dal calore della lotta di classe e della rivoluzione e si trasforma in strumento di propaganda della rivoluzione classista, mettendosi anima e corpo al completo servizio della rivoluzione. In tempi in cui la stessa lotta di classe è per i proletari un traguardo sconosciuto e lontano, è straordinariamente difficile che si producano le condizioni perché elementi della classe borghese, e in particolare intellettuali, si trasformino in durevoli “transfughi” della propria classe per abbracciare, anima e corpo, la causa dell’emancipazione storica del proletariato e della rivoluzione proletaria. Perciò, rimanendo sempre nel contesto dell’intellighentsja, potranno anche esserci giornalisti che dedicano le loro energie e la loro preparazione culturale per portare alla luce le contraddizioni della società borghese, e le contraddizioni più atroci e impressionanti, ma di fondo, il quadro delle loro investigazioni, l’ambito della loro documentazione, rimane inesorabilmente la società attuale con le sue regole di mercato, con i suoi valori di scambio, con i suoi miti ideologici, con i suoi rapporti sociali, con i suoi antagonismi di classe tendenzialmente nascosti se non negati. E su tutto impera la grande illusione della democrazia, del potere delle “coscienze individuali”, quella specie di religione dell’individuo abbracciata sia dagli sfruttatori che dagli sfruttati.

Secondo le fredde statistiche borghesi, nel mondo ogni 6 secondi muore un bimbo, di malattia, di fame, di freddo o in seguito ad atti di violenza (TG3, 21.1.05). Una società segnata da questa tremenda e sistematica strage di vite umane, che futuro può consegnare alle generazioni esistenti e prossime? Un senso di enorme impotenza aggredisce qualsiasi persona che si fermi a pensare alle tragedie quotidiane che funestano la vita in questa società, e il peso di questa impotenza lo si sopporta di più rifugiandosi nelle superstizioni che la stessa società somministra a piene mani, dalla religione al gioco, dal pacifismo al fatalismo, o nelle reazioni autodistruttive come l’ipercinetica frenesia del divertimento, l’abbandono all’alcool o alla droga, lo sport della violenza fra le mura domestiche, o semplicemente adeguando la propria vita alla meschinità dello scambio mercantile riproducendo più o meno coscientemente nei rapporti familiari e interpersonali la legge del profitto: se faccio questo, cosa rischio e cosa ci guadagno?

Con le denunce che i borghesi “illuminati” fanno relativamente alle contraddizioni della propria società, del proprio sistema sociale e di vita, i proletari che cosa ricavano per la propria lotta di sopravvivenza, per la propria lotta di classe contro il sopruso quotidiano esercitato attraverso il mercato, attraverso il dominio del capitale sul lavoro salariato?

Essi ricavano – ma esclusivamente grazie al marxismo, all’interpretazione della realtà storica e sociale che dà il marxismo – la conferma che la società capitalistica, la società dominata dalla classe borghese, non ha da offrire all’umanità che il disprezzo per la vita degli uomini (e di ogni organismo vivente) in favore del capitale, del profitto, dell’appropriazione privata delle ricchezze sociali. Essi ricavano la conferma che è l’impiego della loro forza lavoro che produce ricchezza sociale, ed è l’appropriazione privata capitalistica che produce la miseria crescente per la stragrande maggioranza degli uomini su questa terra. Essi ricavano la conferma che non è dalle classi che da questa società ottengono la loro parassitaria sopravvivenza, i loro guadagni, il loro benessere, la loro vita – ossia dalle classi borghesi e piccoloborghesi – che ci si può aspettare un capovolgimento della situazione, un cambiamento radicale della società, e nemmeno la «comprensione» che l’enorme divario fra capitalisti e proletari non è colmabile perché è la stessa base economica della società capitalistica che lo riproduce in permanenza e in modo sempre crescente. Essi ricavano la conferma che tutte le forze che si dedicano a riformare questa società conservando stabile e intoccabile la struttura economica del capitalismo, sprecano una montagna di energie senza cambiare sostanzialmente nulla; anzi, riproducono una devastante illusione di cambiamento senza cambiare nulla. Ma, in virtù dell’andamento dei rapporti di forza fra le classi e della maturazione dell’antagonismo di classe sprigionato dallo stesso sviluppo capitalistico della società, essi possono capire che solo quando, in quanto proletari, in quanto lavoratori salariati che uniscono le loro forze, scendono sul terreno dell’aperta lotta di classe a difesa delle condizioni di vita e di lavoro proprie, solo allora i grandi poteri economici e politici borghesi sono obbligati ad ascoltare le esigenze di vita delle masse; e nella misura in cui i proletari agiscono con forza ed estendono la loro azione, le classi dominanti borghesi sono costrette a cedere qualcosa sulle loro rivendicazioni. I marxisti però sanno che, perché il mondo borghese sia finalmente sradicato e superato, ci vuole che il proletariato prenda su di sé, in quanto classe, il compito di lottare fino in fondo contro questa società e i suoi poteri centrali per rivoluzionarla da cima a fondo, per eliminare dalla faccia della terra il mercantilismo, la legge del profitto, la guerra permanente, insomma il capitalismo che è il vero ostacolo storico all’emancipazione dell’intera società umana.

Il borghese “illuminato”, che faccia il giornalista, l’avvocato, il prete, l’imprenditore, il sindaco o il deputato, il poliziotto o l’agente segreto, non si staccherà mai dall’illusione secondo la quale i rapporti fra gli uomini dipendono dagli uomini stessi, dalla “coscienza” che ogni singolo uomo ha e con la quale “agisce”; l’ideologia borghese dell’individualismo non scompare in virtù dell’illuminazione delle “coscienze”, ma ribadisce la mistificazione dei rapporti sociali la cui realtà va cercata in tutt’altra direzione, nel modo di produzione che sta alla base della società, nel determinismo economico che muove i gruppi umani, e quindi nei rapporti fra le classi e nel loro antagonismo. Senza l’interpretazione della realtà sociale da parte del marxismo, qualsiasi denuncia delle contraddizioni del capitalismo resta un semplice esercizio intellettuale, un impotente gioco delle ombre.

 

Pezzi di verità che alimentano l’inganno della democrazia

 

Nella situazione irachena sono presenti tutti gli elementi del caos capitalistico e della violenza che il capitalismo esprime attraverso i contrasti economici, sociali, politici, militari. Truppe d’invasione di eserciti super organizzati (come quelle degli USA e dell’UK), truppe d’invasione alleate più o meno d’appoggio (come quelle italiane, arroccate nei loro fortini a Nassiriya, quelle polacche, ucraine, ecc. e spagnole che, in seguito agli attentati dell’11 marzo dello scorso anno e al cambio di governo coi socialisti di Zapatero vittoriosi alle elezioni, sono state ritirate), gruppi armati di ogni tipo, dalla cosiddetta resistenza irachena ai terroristi delle diverse bande ai delinquenti comuni, forze di polizia e militari del nuovo governo iracheno in formazione, il tutto in una situazione di distruzione generale, di carestia, di disoccupazione, di incertezza della vita ai massimi livelli vista la facilità con la quale colpi di mitraglia e bombe, soprattutto americane, falcidiano la popolazione civile.

Nell’Iraq sconvolto dalla guerra, e da un «dopoguerra» che non è altro che una militarizzazione di tutto il paese in cui imporre un regime gradito all’Occidente, e soprattutto agli Stati Uniti, alle truppe militari si sono aggiunti uomini d’affari (c’è di mezzo il business della ricostruzione!) con il loro personale e i loro contractors, faccendieri, operatori “umanitari”, semplici lavoratori, e naturalmente, giornalisti da tutto il mondo.

Fra la massa di giornalisti presenti, vi sono alcuni inviati di guerra con quel senso dell’avventura e del rischio mescolato al senso dell’informazione sulle “verità nascoste”, come Ilaria Alpi in Somalia, Maria Grazia Cutuli in Afghanistan o Enzo Baldoni in Iraq, per citarne alcuni di italiani, tra l’altro ammazzati, di cui i nostri media hanno parlato di più, che rappresentano una piccolissima minoranza, ma che fanno essi stessi “notizia” – come per Giuliana Sgrena – se succede loro qualche cosa, in particolare se lavorano per media noti. Non allineati alla politica di guerra dei governi che in Iraq hanno inviato le proprie truppe, sono da questi mal tollerati ma possono contare – soprattutto perché occidentali – su sostegni economici e logistici che la popolazione civile irachena non si può nemmeno sognare. Sono andati laggiù per raccontare ai propri lettori occidentali “le verità nascoste” di una guerra che ha lacerato le coscienze di molti borghesi “illuminati”, e di molti pacifisti, e perché le reazioni a questa guerra hanno provocato e provocano continuamente morti sia fra le truppe d’invasione che tra la popolazione civile. Si sentono investiti di una missione, raccontare la verità, anche se solo in piccola parte, missione che li motiva e li spinge ad affrontare rischi anche per la loro vita. Convinti di rappresentare il lato più etico, più nobile, e più romantico della civiltà democratica occidentale, usano i mezzi della modernità e dell’opulenza occidentale per dimostrare che la democrazia per la quale loro si battono non è monopolio delle truppe d’invasione, non è monopolio di governi guerrafondai, ma è anche umanitarismo, «confronto tra civiltà diverse», «comprensione l’uno dell’altro», tensione alla pace fra i popoli. Scrivendo e fotografando gli orrori di una guerra d’invasione, essi pensano di scuotere le coscienze dei popoli ricchi dell’Occidente per indurli a premere sui propri governi al fine di terminare con quegli orrori e lasciare che il popolo che subisce la guerra faccia il suo cammino. Fossero al parlamento farebbero discorsi indirizzati nella stessa maniera, e non rischierebbero la vita se non alla pari di tanti altri per qualche incidente. Ma sono in zona di guerra, e questo rischio nobilita il loro mestiere, li avvolge in un alone di eroismo, li eleva al disopra della gente comune; il loro prestigio personale si avvantaggia.

Una cosa va loro riconosciuta: i pezzi di verità che scoprono, e diffondono nei media, di solito non fanno parte di una informazione piegata alle esigenze dei governi, e tantomeno dei comandi militari. Ma, alla pari di pur veementi discorsi parlamentari che denunciano conflitti di interessi, manovre piduiste, pestaggi gratuiti da parte delle forze dell’ordine, torture in carcere o truffe di ogni genere, l’invio di pezzi di verità sugli orrori in Somalia, in Kossovo, in Afghanistan o in Iraq non vanno oltre all’emozione, e al disagio, dei singoli individui che con la loro «presa di coscienza» non sono mai riusciti a modificare in modo radicale, e mai saranno in grado di farlo, gli indirizzi politici di una società che si muove intorno esclusivamente alle leggi del mercato, e quindi alle leggi del profitto capitalistico, perseguito con ogni mezzo pacifico e violento.

La democrazia per la quale si batte il parlamentare che proviene dalle file proletarie e per la quale si batte il giornalista pacifista, esiste solo nel mondo delle illusioni. La realtà contro la quale si vanno a schiantare tutte le illusioni legate alla libera circolazione delle idee e delle informazioni, e al diritto di vivere in modo decoroso e in pace, è la realtà degli interessi capitalistici in lotta di concorrenza permanente nel mondo, mondo che è diventato un unico grande, caotico, contraddittorio mercato. La spietatezza delle azioni di guerra è il prolungamento della spietatezza delle speculazioni in Borsa, della spietatezza dell’intervento finanziario in ogni attività umana, della spietatezza dei rapporti fra capitale e lavoro salariato per cui il costo della forza lavoro deve essere sistematicamente abbattuto affinché i profitti capitalistici siano salvaguardati, e semmai accresciuti; della spietatezza di una pensione inesistente, di una disoccupazione cronica, di una vita la cui precarietà è sempre più …garantita.

La verità della vita sociale, in tempo di pace come in tempo di guerra, non è alla portata degli operatori della democrazia, siano coraggiosi o meno. Non è un problema di volontà personale, o di coraggio personale; il democratico convinto, che è logicamente anche un pacifista convinto, e che ammette l’uso della violenza – e quindi anche della guerra – solo in funzione di difesa della democrazia o del suo ripristino in caso di “dittatura”, crede che la vita sociale possa veramente cambiare se tutti gli «uomini di buona volontà», o almeno la loro grande maggioranza, si convincono del fatto che i valori della libertà, della solidarietà, dell’umanità devono prevalere sui valori del denaro, del profitto, dell’accumulo di ricchezza, dell’interesse personale. L’illusione è proprio questa: credere di poter vincere le contraddizioni più acute della società capitalistica senza toccare il capitale, senza modificare la struttura economica della società, il suo modo di produzione capitalistico che è la base su cui si erge l’intera società, dal potere economico a quello politico, dal potere religioso, culturale a quello militare. Il democratico è quindi allineato al discorso della chiesa di Giovanni Paolo II quando questi, rivolgendosi alla classe degli imprenditori capitalisti, chiedeva loro di non esagerare nella ricerca del profitto, di pensare ai poveri del mondo rinunciando a qualche piccola percentuale di ricchezza per distribuirla ai nullatenenti. Concetti e discorsi che non scalfiscono la pellaccia dura dei capitalisti, i quali in genere non rinunciano proprio a niente o se proprio devono – per convenienza o per rapporti di forza sfavorevoli – rinunciano a ben poco. Concetti e discorsi che invece alimentano nelle classi proletarie e negli strati più poveri della popolazione la rinuncia alla lotta di classe, alla lotta che sola ha la possibilità di opporsi efficacemente allo strapotere dei capitalisti, alla pressione economica e alla repressione sociale degli apparati economici e politici della classe borghese dominante, e alla stessa guerra borghese.

 

Terrorismo nazionalista, malavitoso o confessionale contro terrorismo imperialista e democratico

 

Il sistema dei sequestri di occidentali da parte di ogni genere di gruppo armato (fondamentalisti, resistenti o delinquenti) non è nuovo. Il rischio di essere sequestrati e uccisi è equivalente al rischio di essere ammazzati mentre si seguono operazioni di guerra o di guerriglia; questo lo sanno perfettamente i giornalisti come qualsiasi contractor o mercenario che dir si voglia. Che lo scopo vero sia il solo riscatto in denaro o un atto specificamente politico od entrambi, con il sequestro di persone direttamente o indirettamente collegate alle truppe d’invasione si intende assestare un colpo nelle file del “nemico” col minimo immediato spargimento di sangue. E trattandosi di “civili” e non di militari, l’effetto sui paesi di provenienza dei sequestrati è amplificato a mille: comunque vada, che l’ostaggio venga rilasciato vivo contro pagamento di riscatto o in seguito ad un blitz fortunato, o venga ucciso, l’effetto negativo sullo schieramento militare delle truppe d’invasione è sicuro, come è sicuro l’effetto di rafforzato prestigio presso i gruppi che hanno attuato il sequestro. Il terrorismo dei sequestri punta esattamente su questi due effetti; avviene in tempo di pace nelle nostre città rispetto ad un facoltoso imprenditore, tanto più avviene in un paese in guerra. Quando però i bersagli sono semplici proletari – come nel caso di lavoratori filippini alcuni mesi fa, o di qualche conducente di camion – allora le luci su questi casi si spengono velocemente: la notizia «non tiene» più di un giorno o due; e della loro sorte non si interessa più nessuno. Diventano così, per gli stessi sequestratori, merce poco pregiata, non scambiabile con qualcosa che abbia un minimo di valore, da eliminare in fretta perché risulterebbe solo un costo. Anche in questo, la differenza di classe appare evidente.

Succede che una giornalista come Giuliana Sgrena, del «manifesto», di un giornale che si è sempre schierato conto la guerra in generale e contro l’attacco angloamericano all’Iraq in particolare, (o come Florence Aubenas del francese «Libération», altrettanto schierato contro la guerra in Iraq), ed esperta inviata di guerra, cada anch’essa vittima di sequestro, nonostante la sua “fama” di giornalista occidentale che “sta dalla parte” del popolo iracheno come dimostrano i suoi servizi dall’Iraq nel 2003. Utilizzata non come oggetto di scambio, ma come “arma politica” da un gruppo che evidentemente ha mire politiche; come arma politica per “destabilizzare” la compattezza dello schieramento militare invasore, per aprire contraddizioni fra i governi occidentali e all’interno degli stessi paesi occidentali, e per lanciare l’ennesima richiesta di ritiro delle truppe d’invasione dall’Iraq. Il fatto che questo sequestro sia avvenuto dopo che in Iraq sono state tenute le elezioni, tanto volute da Bush per dimostrare che grazie alla guerra preventiva contro il regime di Saddam il popolo iracheno poteva finalmente esprimere la sua “volontà” con un voto, va messo in conto. Non si conoscono le caratteristiche politiche del gruppo dei sequestratori, ma è molto probabile che non facesse parte di organizzazioni fondamentaliste islamiche; dal comportamento dei sequestratori – per quel che ha raccontato poi la Sgrena a rilascio avvenuto – risultava abbastanza evidente che lo scopo era di rilanciare per l’ennesima volta la richiesta di ritiro di tutte le truppe d’invasione. Quanto alle elezioni, va ricordato che i sunniti non sono andati a votare, sia perché con ogni probabilità più degli sciiti sottoposti al controllo dei diversi gruppi di terroristi, primo fra tutti Al Qaeda, sia perché la “resistenza irachena” considera, con ragione sicuramente, il governo iracheno attuale di Allawui come un governo fantoccio in mano agli americani, al quale non dare alcuna legittimità, tanto meno con l’adesione alle elezioni. Il fatto poi che il sequestro sia avvenuto dopo che la Sgrena era stata per lungo tempo a parlare e intervistare i profughi di Falluja riparati a Bagdad, dopo essere scampati ai massicci bombardamenti americani, può avvalorare la tesi di un sequestro essenzialmente politico, come lo è stato alcuni mesi prima quello delle due Simone (Simona Torretta e Simona Pari), membri dell’ong «Un ponte per», prelevate direttamente dall’edificio in cui operavano da mesi.

Questi sequestri hanno un’immediata risonanza mediatica, più o meno vasta e duratura a seconda dell’importanza del giornalista o del sequestrato e dei media che se ne occupano. Perno di tutta l’operazione di sequestro è la trattativa attesa e sollecitata per il rilascio della persona sequestrata. Ed è proprio la trattativa con quelli che gli americani, e gli inglesi, considerano genericamente terroristi, a diventare un aspetto cruciale nei rapporti fra gli stessi alleati occidentali. I comandi militari americani e inglesi sono contrari a trattare con i «terroristi», e al fatto che si paghi un riscatto i cui soldi sarebbero destinati solo a finanziare i «gruppi terroristi». I comandi italiani, invece, rispondono a governi che hanno attitudini molto diverse: mediano, le tentano tutte, e pagano. E anche per questo atteggiamento, che viene considerato come mancanza di tempra e di fermezza, i comandi americani e inglesi non hanno una gran considerazione dei militari italiani che, pur costituendo un’importante presenza militare sul terreno a Nassiriya (più di 3000 uomini), sono stati collocati fin dall’inizio dell’occupazione sotto il comando militare polacco, ossia sotto il comando di un paese che solo da poco più di un decennio si è offerto come fedele (ed evidentemente più fidato) alleato di Washington e di Londra. In ogni caso, i sequestratori contavano sull’effetto politico della loro azione, e ci hanno azzeccato. Giornali e televisione, soprattutto italiani, hanno dato notevole risalto al sequestro di Giuliana Sgrena; vi sono state mobilitazioni di piazza organizzate dalle diverse organizzazioni pacifiste che chiedevano il suo rilascio mettendo in risalto che il suo operato non andava contro il popolo iracheno ma a favore; è diventato poi un caso politico nazionale di fronte al quale il governo di centrodestra veniva spinto a dimostrare di voler e saper intervenire per salvarla come era riuscito nel caso dei body guard (o mercenari che dir si voglia, di cui tra l’altro il governo italiano aveva dichiarato di non conoscerne l’esistenza e di non sapere della loro presenza in Iraq), salvandone tre su quattro, come era riuscito nel caso delle due operatrici “umanitarie” sopra citate.

Per quanto il sequestro di «connazionali», e ancor più l’eventuale uccisione del sequestrato, sia meno probabile dell’uccisione di soldati che sono lì a far la guerra, ha comunque un peso politico di una certa rilevanza per il governo interessato. Quest’ultimo, nel non accettare la “trattativa” con i “sequestratori terroristi”, come ad esempio il governo Blair, ribadisce la fermezza con la quale ha iniziato e continua la guerra agitando una “compattezza” non solo governativa ma anche “popolare” rispetto alle ragioni che lo hanno spinto a far la guerra e a continuarla; e la ribadisce anche a sequestrato ucciso, come è successo: la ragion di Stato è più forte della vita umana. Se invece il governo interessato, ad esempio quello italiano, accetta la “trattativa” con i “sequestratori terroristi” nel tentativo di salvare la vita all’ostaggio e riportarlo “in patria”, lo fa con l’obiettivo di dimostrare che le “ragioni” che lo hanno spinto a partecipare alla guerra contro l’Iraq sono ragioni umanitarie, che la spedizione militare non è una spedizione di guerra e di occupazione militare del paese ma una «missione di pace»: “siamo in Iraq per aiutare il popolo iracheno ad uscire dalla situazione di terrore di Stato imposta da Saddam, e metterlo nelle condizioni di decidere il proprio destino in libertà”, questi, in sintesi, gli argomenti di propaganda usati per giustificare la spedizione militare in Iraq sotto le bandiere americana e inglese. Perciò, la trattativa coi terroristi diventa un passaggio necessario per ragioni di politica interna, mentre diventa un ostacolo e un elemento di attrito con gli alleati nella politica estera. Agli italiani, il governo deve dimostrare di fare tutto quel che è necessario fare per salvare la vita dei “nostri” ostaggi; ne va della credibilità delle parole spese per giustificare l’invio di più di 3000 soldati in Iraq, e quindi della credibilità del governo stesso. Agli alleati, il governo italiano deve dimostrare di non intralciare in nessun modo le operazioni di controllo del territorio e di repressione dei gruppi “terroristi” che agiscono in Iraq, ne va della credibilità e della affidabilità nei rapporti tra alleati, e ne va del buon esito degli affari che “a guerra finita” verranno ripartiti fra i componenti dell’alleanza di guerra. In questa aggrovigliata matassa si sono trovati ad operare i servizi segreti italiani e tutte quelle forze che sono state messe in movimento per “liberare” gli ostaggi italiani senza danneggiare le operazioni di guerra e di polizia proprie e degli alleati. Qualcosa è andato molto storto nel caso della giornalista Sgrena, perché l’operazione del suo salvataggio non è filata liscia fino in fondo. A settecento metri dall’aeroporto – saldamente in mano americana e supercontrollato – una pattuglia “volante” americana blocca la corsa dell’auto, con dentro ostaggio (Sgrena) e “liberatori” dei servizi segreti italiani, sparando per uccidere: conclusione, ostaggio e autista (un maggiore dei servizi segreti italiani) feriti, capo dei servizi segreti (Nicola Calipari) ucciso.

Le cronache giornalistiche diranno che si è trattato di un ennesimo morto a causa del «fuoco amico».

Ulteriore motivo perché si incrinassero i rapporti fra l’Italia e l’America (come volevano i “terroristi iracheni”), e in una certa misura questo poteva anche succedere. Ma la borghesia italiana, se è pronta a “trattare” con i sequestratori per liberare gli ostaggi, è altrettanto pronta a “trattare” con l’alleato per ottenere qualche favore in più: sulla bilancia ci sono già i soldati italiani morti a Nassiriya – a causa di un camion-bomba nemico – e ora si aggiunge un elemento di punta dei servizi segreti uccisi dal fuoco americano su un tratto di strada completamente controllato dagli americani. Mentre l’«orgoglio nazionale» viene speso sulla bara del fidato servitore della patria che rientra a Roma da Bagdad, con il contorno di elogi al patriottismo e allo sprezzo del pericolo, dietro le quinte si gioca la vera partita dei rapporti fra gli alleati: gli americani non ammetteranno mai di avere sbagliato, e tanto meno sottometteranno i propri soldati al giudizio dei tribunali italiani (non l’hanno fatto per i morti del Cermis, figuriamoci se lo fanno per coloro che viaggiavano su un’auto senza segni di riconoscimento); gli italiani dovranno accettare la versione secondo la quale la colpa della morte del Calipari è da addebitare alla conduzione dell’operazione di salvataggio della Sgrena, una conduzione di cui gli americani non sapevano praticamente nulla e di cui non sono stati avvisati nei tempi e nei modi utili. Il governo italiano, il vero responsabile della conduzione di tutta l’operazione e della decisione di tenerla nascosta a tutti, americani compresi, non subirà alcuna conseguenza; funerali di stato per il morto, ovvia inchiesta giudiziaria per capire che cosa è successo e perché c’è scappato il morto, e …una pietra sopra l’accaduto. Di questa vicenda si continuerà a decantare il coraggio e l’altruismo del patriota Calipari, e si passerà oltre: la verità dei fatti sarà la “verità americana”…Il risultato immediato è stato che Berlusconi ha dichiarato di non assicurare più l’intervento del governo a favore di alcun giornalista in Iraq, vista la pericolosità della situazione: tutti a casa! D’ora in poi l’informazione su quel che succede in Iraq la daranno i comandi militari anglo-americani, come volevano fin dal primo momento.

 

Colonizzare, decolonizzare, dividere il mondo in zone di influenza: l’imperialismo è sempre in guerra

 

Da sempre la borghesia ha bisogno di giustificare le sue guerre con motivazioni “nobili”, “etiche”, sulle quali convogliare il consenso del proletariato e del “popolo” (almeno il “proprio” popolo). Da sempre, le motivazioni borghesi sono legate all’ideologia nazionale, nella sua accezione più larga, quindi non solo in un nazionalismo stretto (che rimanda alla teoria dell’aggressore e dell’aggredito), ma nel senso che il “modello di civiltà” presupposto come il più alto, il “migliore”, il più moderno e il più “equo”, è considerato come un bene universale per il quale vale la pena – e “bisogna” – fare di tutto perché prevalga dappertutto, usando qualsiasi mezzo, fino alla guerra guerreggiata.

La società borghese è una società di classe, e come in tutte le società divise in classi, la classe dominante sviluppa una cultura, una propaganda, un mito intorno al proprio dominio coi quali intende influenzare e dominare anche ideologicamente le grandi masse.

Il mito moderno è quello della democrazia, ma tutte le volte che nei rapporti e nei contrasti fra Stati emergono seri problemi di supremazia, questo mito viene piegato alle esigenze delle diverse borghesie dominanti. Come dire che la democrazia non è la stessa in (o per) tutti i paesi e in tutte le epoche. Nell’epoca della democrazia liberale – che corrisponde grossomodo all’epoca dell’espansione del capitalismo nei continenti più lontani dalle metropoli europee dominati e della relativa stabilizzazione delle potenze capitalistiche emerse dalle rivoluzioni antifeudali – il contrasto ideologico principale riguardo i rapporti fra gli Stati era inerente all’aggressione militare: ogni borghesia dominante giustificava il ricorso alla guerra guerreggiata nel momento in cui veniva aggredita da altri. Ovviamente la “forma” dell’aggressione poteva variare moltissimo; l’importante era che il militarismo e il bellicismo borghesi potessero giustificare le proprie iniziative in virtù di “azioni esterne” che potessero essere considerate aggressioni alla sovranità nazionale, aggressioni allo Stato nazionale. Di fronte all’aggressione armata, la risposta armata dell’aggredito acquistava non solo una giustificazione logica, ma un motivo di rivalsa particolarmente acuto col quale si giustificava non solo la “risposta” perché l’aggredito si ritirasse, ma la contro-aggressione affinché il “nemico” fosse sconfitto in modo tale che per lungo tempo non osasse più riprovarci, e che tale sconfitta fosse poi il passaporto per la dominazione economica e politica sul paese sconfitto.

Con lo sviluppo del capitalismo nella fase imperialistica, ossia con l’imporsi a livello mondiale di alcuni grandi Stati potenti e in grado di dominare il mondo, la democrazia liberale degenera insieme al concetto di “sovranità nazionale”. Per le grandi potenze imperialistiche, i confini del proprio Stato non corrispondono più con i confini della propria nazione, del proprio mercato interno. E’ lo stesso sviluppo del capitalismo che allarga i confini del mercato e quindi degli interessi che i vari gruppi economici tendono ad imporre nella lotta di concorrenza. La sovranità “nazionale” diventa una parola senza senso di fronte a potenze capitalistiche che usano qualsiasi mezzo (economico, politico, diplomatico, militare) per allargare il raggio d’azione dei propri interessi: non solo le colonie intese come paesi arretrati (ma zeppi di materie prime) tutto sommato facilmente conquistati e sottomessi, ma anche paesi già diventati capitalisti ma più deboli, perdono via via la loro piena sovranità “nazionale”. L’imperialismo capitalista cambia le regole del gioco: la concorrenza, ormai travalicati i confini statali e diffusasi in tutto il mondo, non è più soltanto fra merci (prodotti che costano meno invadono i vari mercati e scalzano i prodotti dell’artigianato, delle prime manifatture e dell’agricoltura tradizionali),ma è concorrenza fra società capitalistiche, fra trust e fra Stati.

La democrazia, che per il suo effetto ancora molto efficace nell’influenzare il proletariato dei paesi capitalisti avanzati dimostra di avere “sette vite”, e sebbene abbia costi di gestione e di mantenimento molto alti, non viene abbandonata fra le cose vecchie e oramai inservibili: vivrà una nuova vita, e lo deve al fascismo, ossia al metodo di governo più coerente e appropriato all’imperialismo, alla dittatura aperta della borghesia e dei grandi gruppi di interesse capitalistico. Il fascismo ridarà candore e verginità alla democrazia, anche se le borghesie dominanti non potranno più tornare alle forme della democrazia liberale dell’Ottocento perché gli interessi economici e finanziari sviluppatisi con lo sviluppo del capitalismo imporranno, nei fatti, nuovi “equilibri” fra gli Stati, sia sul piano ovviamente economico e finanziario, sia su quello politico e militare. Già prima della prima guerra mondiale, ma soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, la spartizione del mondo fra le grandi potenze è ancora più evidente, come è ancora più evidente che la cerchia di paesi che si può permettere di pagare i costi delle democrazia (parlamento, deputati, tempi lunghi per legiferare, burocrazia crescente, ecc.) è sempre molto ristretta e corrisponde, in generale, ai paesi capitalistici avanzati dell’Occidente. Nel resto del mondo, il capitalismo si sviluppa – nei limiti in cui i rapporti di forza fra gli Stati lo permettono – sotto regimi apertamente dittatoriali (militari o meno), regimi che in genere sono stati e sono costruiti e/o appoggiati dalle stesse potenze imperialistiche.

Le zone del mondo che corrispondono ad interessi vitali per gli Stati capitalistici più potenti, come il Medio Oriente, l’Estremo Oriente, il Corno d’Africa, l’Africa australe, il Magreb, il Caucaso, il Centro e il Sud America, sono state per lunghissimo tempo, e lo sono ancora, zone di grande instabilità. E questo non solo e non tanto perché le popolazioni autoctone fossero irrequiete e bellicose, ma perché del capitalismo queste zone e questi paesi non hanno avuto lo sviluppo produttivo ed economico come avvenne ad esempio in Europa, stravolgendo sì le economie precapitalistiche ma superandole e sostituendole con un’altra economia in grado di sviluppare economicamente i paesi nei suoi diversi comparti. Del capitalismo, queste zone e questi paesi hanno subito soprattutto gli effetti più parassitari, di dominio “straniero” che aveva, ed in genere ha ancora, come scopo principale di sottrarre ricchezze naturali utili, o indispensabili, alla produzione capitalistica (dai neri agli indios schiavizzati, dalle miniere d‘oro, d’argento, di rame e di ogni altro minerale e metallo al petrolio o all’agricoltura “industrializzata” nelle piantagioni di caffè, di tè o di frutta, dalle risorse idriche al legname e agli animali esotici) e quindi rivestono insieme carattere di necessità e carattere strategico; è in questo che sta anche lo sviluppo ineguale del capitalismo nel mondo.

D’altra parte, è la colonizzazione capitalistica ed imperialistica, prima, e la “decolonizzazione” successiva a produrre situazioni del tutto artificiali (come disegnare stati non giustificati dalla storia delle popolazioni ma giustificati dallo scontro di interessi fra potenze coloniali e imperialistiche) come è il caso degli Stati del Medio Oriente (tolti l’Egitto e l’Iran, gli unici che possono contare su radici storiche profonde, la Siria e la Turchia). L’Iraq è uno degli Stati artificialmente disegnati concordemente fra Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti all’epoca della sua colonizzazione dell’area (caduto l’impero Ottomano), i cui “confini” disegnati su carte geografiche seguivano gli interessi delle potenze coloniali (così per il Libano, la Palestina , la regione della Penisola arabica, il Sud Africa, l’Afghanistan, ecc.). In quei “nuovi confini” venivano inglobate popolazioni tra di loro anche molto diverse e non sempre amiche; e in ogni caso, i nuovi paesi erano in realtà formati da un coacervo di clan e tribù e non da popolazioni omogenee per storia, lingua, costumi, civiltà ecc.

L’Iraq è uno di questi paesi. Con la fine della seconda guerra mondiale, e col declino dell’imperialismo britannico al quale corrispose l’avanzata dell’imperialismo americano, la tendenza delle diverse potenze imperialiste era di far in modo che nei paesi strategicamente importanti (per via, ad esempio, delle riserve di petrolio) il passaggio dalla situazione precedente, e di gran disordine provocato sia dal crollo dei vecchi imperi (ottomano, asburgico, prussiano, zarista) che dai movimenti anticoloniali in aree sempre più vaste in particolare dell’Asia (spinti dal movimento rivoluzionario proletario che in Russia aveva vittoriosamente conquistato il potere nel 1917, e che per una decina d’anni continuò a rappresentare un vero e proprio faro per tutte le lotte anticoloniali ed antimperialistiche), alla situazione successiva, avvenisse con governi “amici” se non addirittura “sul libro paga” delle grandi metropoli occidentali. Spesso, in questo tipo di paesi, era la casta militare a rappresentare la forza più omogenea e in grado di “gestire per conto della potenza imperialistica amica” il paese: la dittatura militare era quindi una “opzione” molto usata; sarà poi anche la volta delle caste religiose, armate ad hoc, a sbrigare compiti borghesi. Saddam Hussein rientrava perfettamente in questo quadro, sia nella fase della sua ascesa al potere a Bagdad sia nella fase del suo declino Ma gli interessi imperialistici degli Stati più forti, nella misura in cui la lotta di concorrenza nel mondo si fa più acuta e spietata, vengono imposti sempre più frequentemente con i mezzi militari; perciò, se un “alleato” mostra di avere ambizioni più ampie di quelle che lo Stato imperialista più forte, e più interessato all’area in cui agisce quell’alleato, gli permette, viene inserito nella lista dei paesi “inaffidabili” e quindi, prima o poi, aggredibili. Le ragioni morali e politiche a giustificazione dell’aggressione (la famosa guerra preventiva) possono essere la presenza di armi di “distruzione di massa”, di armi atomiche, o il sostegno al “terrorismo internazionale”, o essere un regime “dittatoriale” e “totalitario”, non importa quanto rispondenti alla realtà. La forza, intesa nel senso più ampio, muove la politica imperialistica. Non ci sono «pezzi di verità» sugli orrori delle guerre e delle occupazioni militari che possano far desistere l’uso sempre più crudele della forza da parte dell’imperialismo; non ci sono campagne pacifiste, no-war o di disarmo che possano influenzare le decisioni dei governi borghesi spinti a difendere con le armi gli interessi della propria classe dominante in ogni angolo del mondo. La corsa ad una nuova ripartizione del mondo è cominciata da anni, e ora sta prendendo una certa accelerazione. Il terrorismo dei grandi trust, dei grandi poli finanziari internazionali, non si attua soltanto attraverso l’organizzazione di squadroni della morte (come nella foresta amazzonica, in Brasile o in Indonesia), ma anche attraverso direttamente gli Stati imperialisti. La «guerra preventiva» di Bush è la teorizzazione del terrorismo di Stato, è la teorizzazione del monopolio della forza militare da parte degli Stati più forti e in grado di trasportare le proprie truppe nelle diverse «zone delle tempeste» del mondo.

Questa corsa non la fermerà che la rivoluzione proletaria, quel movimento delle masse proletarie che lottano sul terreno della scontro aperto con le classi borghesi, organizzate in funzione della rivoluzione e della conquista del potere politico e guidate dal partito rivoluzionario per eccellenza, il partito comunista, per instaurare non poteri falsamente democratici ma la dittatura di classe del proletariato esercitata dal solo partito comunista. Dittatura proletaria contro dittatura imperialista, questo è il bivio storico inevitabile e per il quale, anche se oggi ridotte a pochi elementi, lottano le forze militanti comuniste e internazionaliste. La dittatura dell’imperialismo non potrà essere vinta se non da una forza altrettanto imponente, determinata, organizzata, che solo il proletariato internazionale può rappresentare. La strada per arrivarci è lunga, e oggi addirittura invisibile? Ogni marxista coerente lo sa, ma non per questo cede alle lusinghe della via democratica con la quale ci si illude di poter fare dei passi avanti, magari piccoli passi, ma verso lo sbocco rivoluzionario. In realtà, si tratta solo di passi indietro, di fiancheggiamento dell’imperialismo, di sottomissione agli interessi borghesi dominanti.

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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