Coerente lotta politica e teorica della Sinistra comunista, dalla fondazione del partito comunista d’Italia nel 1921, ad oggi

(«il comunista»; N° 99; Febbraio 2006)

 

 

85 anni fa, 21 gennaio 1921, a Livorno si costituì il Partito comunista d’Italia, sezione dell’Internazionale Comunista.

Noi non abbiamo mai amato le celebrazioni, né la ridondanza che sempre i rinnegati di ogni risma hanno usato nell’anniversario di Livorno allo scopo di svuotare, svilire, stravolgere le origini del movimento comunista rivoluzionario.

Noi ci rifacciamo a «Livorno 1921» con la stesa convinzione e determinazione con le quali ci rifacciamo alla nascita della Terza Internazionale, con le quali ci rifacciamo alla restaurazione del marxismo rivoluzionario operata da Lenin contro la socialdemocrazia e i rinnegati alla Kautsky, e a quella successivamente operata dalla Sinistra comunista d’Italia, e in particolare da Amadeo Bordiga contro la terza ondata opportunista e controrivoluzionaria e i rinnegati alla Stalin.

Nell’arco storico in cui il movimento comunista rivoluzionario ha segnato indelebilmente i punti cardinali della teoria e del programma del comunismo, «Livorno 1921» si colloca come punto di riferimento imprescindibile al quale ogni comunista rivoluzionario è obbligato a rifarsi per ritrovare la sicura, intransigente, invariante rotta rivoluzionaria. «Livorno 1921» è a sua volta derivato direttamente dal movimento rivoluzionario internazionale che con Lenin e il partito bolscevico da lui guidato toccò, negli anni che vanno dallo scoppio della prima guerra imperialista – quando i partiti «operai» d’Europa si dimostrarono corrotti al punto da votare, ciascuno nel «proprio» paese, i crediti di guerra – alla completa vittoria nella guerra civile in Russia (1921-22), l’apice della propria ascesa.

E’ indiscutibile, per noi, l’apporto formidabile del bolscevismo – non a caso, a quel tempo, definito «pianta di ogni clima» – al movimento comunista rivoluzionario internazionale, come il nostro partito, di ieri e di oggi, non ha mai smesso di sottolineare e dimostrare. Ma, alla luce della controrivoluzione staliniana e dei suoi effetti a lungo termine di cui soffre ancor oggi il proletariato internazionale, non meno formidabile e prezioso è stato, ed è, l’apporto della Sinistra comunista «italiana».

Radicatasi nel movimento proletario rivoluzionario europeo occidentale, la Sinistra comunista «italiana» si fece le ossa in lunghe e decisive battaglie teoriche, politiche, e pratiche, contro i frutti più velenosi della società borghese e della sua ideologia: il clericalismo, la democrazia, il fascismo. L’Italia, pur non rappresentando in economia la punta avanzata dell’imperialismo capitalista alla stregua, ad esempio, della Germania o dell’Inghilterra, si trovò però nelle condizioni storiche di rappresentare dal punto di vista politico una specie di laboratorio borghese avanzato, in grado di anticipare, e «insegnare» alle altre borghesie occidentali, atteggiamenti, metodi e politiche di segno antiproletario, e quindi anticomunista, contro i quali il movimento comunista italiano dovette lottare strenuamente, accumulando una certa esperienza e una sensibilità teorica equiparabile a quella del miglior Lenin.

E’ in forza di queste basi materiali e storiche che la Sinistra comunista «italiana» ha avuto la possibilità di antevedere, anche rispetto al grande Lenin, i probabili effetti di tattiche e di posizioni indulgenti verso la democrazia e gli istituti della democrazia borghese, di tattiche non rigorose e di una centralizzazione troppo formalistica. Il caso delle tesi sul «parlamentarismo rivoluzionario», fortemente sostenute da Lenin e Bucharin, e da Trotsky, è emblematico, non solo per la questione tattica in esse contenute, ma per la contraddizione – evidente per la sinistra «italiana», necessaria per i bolscevichi data la forte e perdurante presa del parlamentarismo sul proletariato occidentale – emersa fra le posizioni di principio che accomunavano strettamente bolscevichi e sinistra «italiana» (decisa critica della democrazia borghese e dei suoi istituti a partire dal parlamento, entrare nel parlamento borghese per distruggerlo «da dentro», senza attenuare la preparazione delle masse proletarie all’insurrezione e alla rivoluzione) e l’atteggiamento pratico di partecipazione alle elezioni e al parlamento.

La storia successiva ha dato ragione alla Sinistra «italiana»: l’applicazione della tattica di partecipazione alle elezioni e al parlamento assorbì la gran parte delle risorse e delle energie dei partiti comunisti, distogliendole di fatto dalla preparazione rivoluzionaria del partito e delle masse proletarie, e a lungo andare la recidiva socialdemocratica tornò a dominare l’attività del partito comunista, all’interno del parlamento ma anche al di fuori di esso. Il «parlamentarismo rivoluzionario» perse la sua caratteristica di «rivoluzionario» (solo tribuna dalla quale denunciare la democrazia borghese come l’inganno più efficace nei confronti del proletariato e delle masse popolari in generale) e rimase semplicemente «parlamentarismo» alle cui regole i deputati comunisti si adattarono alla stessa stregua dei riformisti socialdemocratici. Di più; quando la reazione fascista – dunque, la reazione della borghesia dominante tornata ad avere fiducia nelle proprie forze e nella possibilità di stroncare le forze proletarie che minacciavano il suo potere – impose la dispersione del parlamento e della finzione democratica, dichiarando apertamente la dittatura di classe della borghesia in funzione soprattutto antiproletaria, i comunisti di un partito ormai stalinizzato e controrivoluzionario abbracciarono la causa della democrazia come fosse il cuore della causa proletaria, preparando, di fatto, in questo modo – per l’ennesima volta – il proletariato ad ulteriori sacrifici di guerra a beneficio del capitalismo nazionale, dalla «conquista coloniale» in Africa alla seconda guerra imperialista.

Certo, la storia non si fa con i se: se non solo il partito comunista d’Italia sotto la direzione della sinistra, ma anche tutti gli altri partiti comunisti europei avessero applicato disciplinatamente e con coerenza la tattica del parlamentarismo rivoluzionario votata al II congresso dell’IC, probabilmente la verifica dell’errore insito in questa tattica sarebbe stata molto più netta e immediata dando al III congresso dell’IC sufficienti elementi per cambiare tattica; se non solo il partito comunista d’Italia sotto la direzione della sinistra, ma anche la maggior parte degli altri partiti comunisti europei, a partire da quello tedesco, fossero stati caratterizzati dalla stessa intransigenza dottrinaria e coerenza politica, probabilmente la stessa direzione bolscevica dell’Internazionale sarebbe stata molto meno oscillante e molto più rigorosa nelle sue risoluzioni tattiche e nelle sua analisi della situazione. Ma l’utilità di questi «se» è importante perché ripropongono il problema dell’atteggiamento tattico del partito di classe, problema centrale per i comunisti in quanto la stretta coerenza fra programma rivoluzionario e linee tattiche da applicare nelle diverse fasi dello sviluppo della lotta di classe e rivoluzionaria risulta essere l’unica garanzia contro deviazioni e derive opportuniste.

Nei fatti, la recidiva socialdemocratica si dimostrò molto più resistente di quanto i bolscevichi avessero mai supposto. La democrazia, come ricorda Lenin nel suo «Stato e rivoluzione», continuò a dimostrare di essere il miglior involucro politico della società borghese per ingannare e deviare il proletariato dal suo cammino rivoluzionario. Ed è perciò che nell’opera di restaurazione della teoria marxista e di riorganizzazione del partito rivoluzionario, un posto determinante fu preso dalla lotta incessante contro non solo il principio democratico, ma la stessa prassi democratica.

L’astensionismo rivoluzionario che caratterizzò l’attitudine tattica nei confronti delle elezioni e del parlamentarismo della Sinistra «italiana», del tutto opposto all’astensionismo attuato dagli anarchici che nella attività politica in quanto tale ci vedono solo corruzione e che non partecipano alle elezioni per il fatto di rifiutare qualsiasi potere organizzato, in particolare lo Stato, si dimostrò in ultima analisi come la miglior tattica da applicare nei paesi occidentali a democrazia di lunga durata. Non voleva dire, come per gli anarchici, disinteressarsi della politica, voleva invece essere la tattica che liberava tutte le energie e tutte le risorse del partito comunista, e del proletariato rivoluzionario, alla sola preparazione rivoluzionaria, all’inquadramento delle armate proletarie per la rivoluzione anticapitalistica e antiborghese. All’epoca, la questione della partecipazione alle elezioni e al parlamento borghese, come recitavano le tesi dell’Internazionale, era una questione essenzialmente tattica, per la quale giustamente la sinistra «italiana» decise di non dover fare una battaglia di ostruzione o, addirittura, di separazione tra gli «astensionisti» e i «partecipazionisti». Presentò le proprie tesi, le argomentò e le sostenne sia dal punto di vista teorico che da quello tattico; passarono invece le tesi di Lenin e Bucharin sul «parlamentarismo rivoluzionario», e queste tesi, disciplinatamente, la Sinistra comunista «italiana» accettò impegnandosi ad applicarle col massimo rigore. Né cercò scorciatoie, o cavilli formali per contrastare una disciplina centralista per la quale invece la Sinistra si era battuta fin dall’inizio. Molto responsabilmente rimise all’esperienza pratica la verifica di questa tattica, con l’augurio che il III congresso avrebbe potuto tirare tutte le lezioni necessarie.

Le lezioni non furono tirate, in verità, né al III né al IV congresso dell’Internazionale. La deriva socialdemocratica cominciava a far capolino all’interno dell’Internazionale, in particolare attraverso cedimenti in materia tattica e organizzativa. E, mentre in Europa la spinta rivoluzionaria delle masse andava esaurendosi e i partiti comunisti europei dimostravano di non essere all’altezza della situazione storica come lo fu invece in Russia il partito bolscevico, la gigantesca pressione di fattori materiali sfavorevoli allo sbocco rivoluzionario poneva sempre di più sulle spalle del solo partito bolscevico l’enorme responsabilità della direzione del movimento proletario mondiale. Il partito tedesco, e quello francese, che in Europa avevano obiettivamente un peso rilevante per il fatto di rappresentare proletariati numerosi e di paesi capitalisticamente molto avanzati, invece di contribuire al movimento comunista internazionale portando saldezza teorica e pratica preparazione rivoluzionaria, portarono incertezze, oscillazioni, tendenze al compromesso e alle scorciatoie caratteristiche del riformismo e dell’opportunismo dai quali si era fatta tanta fatica per separarsi solo poco tempo prima. Il partito italiano, a differenza di quelli tedesco e francese, aveva un peso inferiore, rappresentando un proletariato meno numeroso e una situazione capitalistica in parte ancora arretrata; ciononostante, esprimeva saldezza teorica, coerenza e intransigenza dottrinaria, e attitudine alla preparazione rivoluzionaria equiparabili al partito bolscevico. Ma ciò non bastò ad influenzare positivamente l’Internazionale. Le debolezze dei partiti comunisti europei ebbero il sopravvento, e influenzarono in modo negativo, e purtroppo determinante, lo stesso roccioso partito bolscevico. La democrazia cacciata dalla porta rientrò mano a mano dalla finestra, e con essa i formalismi organizzativi e disciplinari.

La Sinistra che aveva preparato, fondato e guidato il partito comunista in Italia nei primi anni, nel 1923 venne esautorata dall’Internazionale e sostituita con una guida meno intransigente dal punto di vista teorico, più morbida e accondiscendete dal punto di vista pratico. Iniziò così un lento ma inesorabile processo di degenerazione che culminerà, nel 1926, nell’accettazione della più grande bestemmia che si potesse teorizzare: il socialismo in un paese solo. La Sinistra «italiana» continuò a battersi sul piano teorico come su quello tattico e organizzativo, ma nella consapevolezza che, per superare la tremenda fase di degenerazione e di controrivoluzione, rappresentata per la maggior parte dallo stalinismo, ci sarebbero voluti decenni, ossia si sarebbe dovuto attendere che il corso storico della controrivoluzione facesse il suo corso. Ghettizzata dai dirigenti stalinisti dell’Internazionale, dispersa dal fascismo, perseguitata dagli stalinisti in Italia e fuori di essa, la corrente di sinistra del partito comunista d’Italia dovette ripiegare, all’estero in particolare, tentando di mantenere una continuità organizzativa (come la Frazione del pcd’I all’estero) sulla base della quale continuare la battaglia teorica e politica collegata con le origini stesse del partito. L’acuto disorientamento che le oscillazioni, prima, e la degenerazione, poi, dell’Internazionale e del partito bolscevico provocarono in tutti i ranghi dei militanti comunisti e nel proletariato mondiale, non poteva non avere effetti negativi anche sulla piccola pattuglia di militanti della Sinistra «italiana»; i quali ebbero la forza di rappresentare, almeno dal punto di vista organizzativo, il filo continuo delle battaglie politiche della Sinistra, anche se, oggettivamente, non ebbero la forza di rappresentare la massima coerenza teorica e politica con il marxismo rivoluzionario. E’ per questa ragione, del tutto materiale e storica, che nella ricostituzione del partito di classe dopo la fine della seconda guerra imperialista, si precisò chiaramente che il nuovo partito non doveva essere considerato la filiazione diretta della Frazione di sinistra del pcd’I, ma tale filiazione doveva essere cercata direttamente nella fondazione del partito comunista d’Italia e dell’Internazionale Comunista.

Con la fine della seconda guerra mondiale, e le sue conseguenze, si riaprì la possibilità per i militanti comunisti rimasti fedeli alle origini del partito comunista d’Italia, al suo programma e alle sue tesi fondanti, di ritessere un minimo di organizzazione politica in grado di tornare alla luce e ripresentarsi al proletariato con la vecchia caratteristica rivoluzionaria. Da questo punto di vista, dopo alcuni tentativi di organizzazione e di rimessa a punto delle questioni più immediate e importanti – come le questione della guerra, del fascismo, della democrazia, del socialismo in un solo paese, delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni, ecc – dopo quasi un decennio, dal 1943 al 1952, in cui si decantarono i migliori elementi comunisti rivoluzionari, si costituisce il «partito comunista internazionalista-programma comunista», che riprende decisamente in mano sia l’opera di restaurazione teorica del marxismo e quella della ricostituzione del partito di classe a livello mondiale, superando così la fase della formazione di partiti «nazionali» per poi – confrontatisi nei rispettivi programmi e nelle rispettive posizioni – eventualmente unirsi in una nuova Internazionale. Una primissima lezione, tratta proprio dalla storia del movimento comunista precedente, fu quella di ribadire che le basi teoriche, dottrinarie, politiche, tattiche e organizzative del nuovo movimento comunista internazionale dovevano essere le stesse in ciascun paese, uniche per tutti, appunto fin dall’inizio internazionali. Ed è per questo che, nel successivo decennio, il partito deciderà di denominarsi «internazionale» piuttosto che «internazionalista», mettendo in questo modo l’accento non più solo sulla volontà di essere un domani «internazionale», ma sulla rivendicazione diretta di un programma rivoluzionario che nasce già internazionale.

Senza la restaurazione teorica prodotta dalla Sinistra comunista «italiana» dalla seconda guerra mondiale in poi, non è possibile per nessun elemento rivoluzionario che voglia definirsi comunista e marxista, ricollegarsi coerentemente al marxismo autentico. Il bilancio delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni fatto dalla nostra corrente non è un optional: è l’indispensabile strumento politico in grado di orientare le forze del proletariato avanzato e cosciente – oggi rappresentate da pochi elementi, domani da forze molto numerose – verso lo zenit della rivoluzione comunista. Questa rivendicazione è parte integrante del nostro operare, è la difesa del marxismo contro ogni attacco, ogni deviazione, ogni revisione. Potremmo apparire come dei fondamentalisti, vista la nostra strenua difesa dei principi marxisti, e non temiamo di essere definiti dogmatici. A tutti i rivoluzionari è capitato di essere scambiati per degli idealisti, o degli invasati.

Il fatto è che il nostro giudice non è il nemico di classe, la borghesia, né tantomeno i suoi lacché, specie di rinnegati che scomparirà insieme alla borghesia e a tutte le classi sociali. Il nostro giudice è la Storia: siamo materialisti, non moralisti. L’individuo-borghese ha per noi lo stesso valore dell’individuo-rivoluzionario: semplice molecola di organismi sociali che storicamente si producono e agiscono in ambienti socialmente dati. E visto il corso storico delle società divise in classi, sappiamo che la società capitalistica – ultima società di classe – terminerà la sua sopravvivenza non in virtù di superuomini, di geni o di grandi condottieri che, nella mitologia individualista, dovrebbero prendere per mano l’intera umanità e portarla verso fasi di civilizzazione sempre superiori, o, al contrario, verso fasi di imbarbarimento sempre più acute. La società capitalistica terminerà la sua sopravvivenza grazie alle forze sociali che la compongono e che ne costituiscono i contrasti più acuti, gli antagonismi più forti; forze sociali che lottano le une contro le altre, forze impersonali e, di per sé, inconsapevoli del percorso storico che stanno facendo. Sappiamo, d’altra parte, perché non siamo materialisti volgari, ma storici e dialettici, che le forze sociali nel loro movimento e nei loro contrasti esprimono organismi, essi stessi sociali, con caratteristiche particolari, ossia con la caratteristica di rappresentare, e in un certo senso fondere in un tutt’uno, gli interessi storici che quelle classi, quelle forze sociali, hanno. Tali organismi sono i partiti, la cui caratteristica peculiare è di rappresentare nell’oggi gli interessi futuri della classe di cui sono espressione.

Ma non tutti i partiti sono equiparabili. I partiti rivoluzionari sono evidentemente molto diversi dai partiti conservatori o da quelli reazionari; vale per la borghesia come per il proletariato. Il partito rivoluzionario esprime l’ascesa della nuova classe rivoluzionaria che lotta per l’egemonia sulla società, allo scopo di battere le vecchie classi conservatrici e reazionarie. E’ classe rivoluzionaria quella classe che è portatrice di una nuova società, di un nuovo modo di produzione, di un nuovo sistema sociale. Lo è stata la borghesia nei confronti della società feudale, come a sua volta l’aristocrazia nei confronti della società schiavistica. Lo è la classe proletaria nei confronti della borghesia e della sua società capitalistica.

Ma il partito che esprime gli interessi futuri del proletariato è completamente diverso da quello che esprimeva gli interessi futuri della borghesia all’epoca della rivoluzione borghese. La differenza sta tutta nella formula dell’emancipazione del proletariato dal lavoro salariato. Il proletariato è storicamente l’ultima classe rivoluzionaria che si affaccia nella storia delle società divise in classi. E la sua emancipazione dal lavoro salariato è in realtà l’emancipazione dal capitalismo che fonda il suo modo di produzione sul lavoro salariato. Tale emancipazione non potrà che produrre un beneficio all’intero genere umano, in quanto, morto e sepolto il modo di produzione capitalistico non vi sarà più un sistema economico e sociale basato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, del denaro, della merce, del profitto, della proprietà privata, del lavoro salariato e del capitale. Il proletariato, emancipando se stesso nella rivoluzione anticapitalistica e antiborghese emancipa l’intera umanità (Marx). Quindi, il partito che esprime questi interessi storici è un partito speciale, è un partito che dialetticamente – nell’oggi – rappresenta la lotta per l’emancipazione del proletariato, e nello stesso tempo, rappresenta il fine ultimo di questa lotta, l’emancipazione del proletariato e di tutto il genere umano, ossia la società superiore, il comunismo, nella quale il sistema economico e sociale non risponderà più alla legge del valore e dello scambio capitalistico, ma alla legge del bene comune e della collettività in cui si applicherà la nota formula: da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni.

E’ questo il partito per il quale hanno lottato Marx, Engels, Lenin e tutti i rivoluzionari comunisti; è questo il fine per il quale i rivoluzionari comunisti lottano sapendo che non si arriverà mai alla società superiore, al comunismo, se non passando obbligatoriamente per la via della lotta fra le classi, della lotta rivoluzionaria per la conquista del potere politico e l’instaurazione della dittatura proletaria, unico mezzo efficace per iniziare la trasformazione della società e per intervenire sul sistema economico al fine di far saltare le leggi del valore e del mercato sostituendole con meccanismi di produzione atti a soddisfare le esigenze degli uomini e non quelle del mercato.

Tra i tanti articoli e testi che abbiamo nel tempo utilizzato e riprodotto, a documentazione delle coerenti posizioni della Sinistra comunista, oggi ne scegliamo uno, poco noto, ma egualmente importante. A un anno dalla fondazione del partito comunista d’Italia, nel partito stesso è ancora vivissima la discussione sull’atteggiamento tattico e pratico, come dimostra l’articolo che riproduciamo. Si lotta ancora contro quegli elementi che, pur avendo aderito al partito comunista, insistono nel portare avanti concetti, argomenti, posizioni del tutto incoerenti con le tesi fondanti del partito, come nel caso dell’accettazione della tesi secondo la quale il trapasso dalla società capitalistica al socialismo e al comunismo debba o possa avvenire senza l’abbattimento violento, e rivoluzionario, della macchina statale borghese. E, legata a questa posizione, quella secondo la quale si sarebbe dovuto facilitare la formazione di un governo socialdemocratico nell’illusione che questo governo avrebbe «facilitato» la preparazione rivoluzionaria del proletariato.

Non era ancora, a quel tempo, lotta politica acuta e decisa contro posizioni opportuniste; l’ambito era ancora quella della discussione, ma non per questo meno netta e chiara. Nel quadro delle «discussioni sulla tattica del Partito comunista d’Italia» è stato pubblicato, appunto, nell’organo del partito «Il Comunista», il 21 marzo 1922, poco prima del secondo congresso di partito, questo articolo di Amadeo Bordiga, dal titolo «Il compito del nostro partito»; basta leggerlo con attenzione per ritrovarvi la linea ferma e coerente sulla quale la Sinistra comunista non ha mai flettuto

 

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Il compito del nostro partito

 

 

Alla vigilia ormai del Congresso nazionale non vorremmo ancora trattare troppo lungamente della questione della tattica, che, connessa a quella dell’opera passata del Partito, il Congresso appunto esaminerà a fondo.

Gli articoli dei compagni Presutti e Mersù che rispecchiano l’opinione di qualche altro compagno nostro, ci inducono a tentare ancora di tracciare le ragioni del nostro atteggiamento. Più che partire da elucubrazioni teoriche, a cui se mai proprio i dirigenti del Partito non hanno il tempo di dedicarsi, vogliamo connettere le conclusioni tattiche di ordine generale che sono riassunte nelle nostre tesi con la nozione del compito del Partito comunista in Italia, derivante da quello che è per noi stato il punto concreto di partenza: la esperienza pratica della crisi del Partito socialista e di questo primo anno di lotte del Partito comunista.

Le ben note internazionali esperienze della lotta proletaria nel dopoguerra condussero a stabilire una tesi vitale, a cui si vorrà perdonare di essere contenuta nella dottrina; quella che la via per la quale la classe proletaria giungerà a far trionfare la propria causa dovrà passare per la distruzione violenta dell’attuale macchina statale. Che il Partito possegga una tal tesi non vuol dire che si stia pago di considerare la verità, ma vuol dire di meglio. Vuol dire che per la vittoria del proletariato è necessario che anche nei periodi che precedono la fase della lotta suprema in cui quella necessità diventerà tangibile materialmente, esista appunto un partito che su di essa fondi il suo programma e la sua organizzazione, divenendo la principale forza che integrando lo sviluppo degli avvenimenti verso quella ultima soluzione sviluppi la preparazione del proletariato alle esigenze di essa.

Questa affermazione si ripete molte volte nelle tesi come si riflette in molti atteggiamenti tattici presi dal Partito, non perché rappresenti un dogma indiscutibile e una categoria sacra, ma perché, a nostro modesto avviso, la esperienza pratica della lotta proletaria la sorregge ad ogni momento.

Il fallimento del Partito socialista si ricollega alla illusione di una tattica «ad uso universale» nella quale ancora oggi ci pare che da molte parti si corra serio pericolo di ricadere. Il Partito avrebbe potuto comprendere forze anche non volte all’obbiettivo massimalista e indirizzate su vie opposte come la utilizzazione e la conservazione della macchina statale borghese, perché queste forze facevano capo a parti del proletariato e occorreva tenersi uniti ad esse per portare tutta la massa sul terreno dell’azione rivoluzionaria appena la situazione lo avrebbe permesso. E’ notissimo come l’essere inquadrate nello stesso organismo di dirigenza delle masse con queste forze di destra, impedì alle correnti massimaliste di assolvere il loro compito di preparazione e sviluppo di condizioni rivoluzionarie, finché non divenne evidentissimo che in qualunque momento ed anche in situazioni maturate verso lo sbocco rivoluzionario, ne avrebbe parimenti silurata ogni azione: da qui la scissione.

Se precedentemente la maggioranza del Partito non aveva inteso che vi era inconciliabilità tra i propositi massimalisti e la tolleranza nelle file della organizzazione di partito di chi era per principio contro la lotta rivoluzionaria e la dittatura, questo si è dimostrato come sintomo sicuro della impotenza rivoluzionaria del Partito nelle ulteriori situazioni «pratiche». Perché tante volte il proletariato italiano è stato fermato sulla via di azioni rivoluzionarie? Perché i rivoluzionari non avevano preventivamente stabilita una piattaforma di azione politica che denunziando apertamente l’antirivoluzionarismo della destra avesse ottenuto di sottrarre ad essa il diritto di inquadrare l’azione parlamentare e sindacale delle masse, o almeno avesse evitato di impostare dei movimenti di massa in cui la manovra era in mano ai controrivoluzionari, ma questi apparivano garantiti dalla comune responsabilità dei rivoluzionari negli ordini di movimento e nei risultati. Si tenga ben chiaro questo gioco pratico delle forze, e se ne riconsiderino le tristi esperienze.

Dopo la scissione del Partito socialista ci siamo trovati innanzi a dati obbiettivi della situazione alquanto mutati, e nessuno lo contesta. Molto meno facile (almeno per i molti che nel 1919 e 1920 si erano creduti alla vigilia della rivoluzione italiana) si presentava una grande insurrezione di masse con direzione aggressiva contro il potere borghese. In un certo senso la impostazione della lotta per la dittatura si è allontanata.

Noi osserviamo che internazionalmente e nazionalmente, con maggiore evidenza anzi nel secondo caso, la mutata e peggiorata situazione non è tale da aprire alle masse altre vie da quella dell’assalto allo Stato, bensì sottolinea enormemente l’antitesi tra la legale costituzione vigente e gli interessi proletari: ieri non si potevano inserire nelle istituzioni vigenti le massime conquiste, ma si poteva ottenere da esse la soddisfazione di limitati e parziali interessi proletari, oggi nemmeno questo è possibile e la sopravvivenza del regime significa schiacciamento anche economico e sindacale del proletariato. La lezione che ci dà la realtà è in questo, e giova insistervi molto.

In tale situazione la massa è ancora in gran parte dominata dai partiti opportunisti poiché non sa che essi non possono mantenere le loro promesse minimaliste. Che da queste difficoltà non si uscirà con la propaganda teorica, ma solo con la partecipazione all’azione e ai movimenti delle grandi masse, è affermazione che tutti ci ha concordi. Ma mentre noi la traduciamo in una soluzione concreta e pratica, ci pare che proprio i nostri critici facciano di questa asserzione, capovolgendone la impostazione, un sofisma. La mentalità dei Presutti e dei Mersù, è che la partecipazione a iniziative di grandi movimenti di masse da qualunque parte vengano contenga una via sicura per giungere ai fini rivoluzionari. Presutti lo dice chiaramente quando stabilisce che per garantirsi che lo svolgimento dell’azione delle masse si diriga verso lo sbocco rivoluzionario basta al Partito comunista la condizione di esistere come partito a sé. Mersù pensa analogamente quando afferma che la opposizione del Partito comunista alla costituzione di un governo socialdemocratico non può concretarsi in una attitudine reale se non dopo che tal governo sia divenuto un fatto, e che sia buona tattica anche partecipare alla lotta generale per il governo socialdemocratico, agli effetti della ulteriore preparazione rivoluzionaria.

Quello che è indubitatamente esatto nel considerare la situazione attuale è che la grande nassa è disposta a muoversi per obbiettivi immediati, e non sente quegli obbiettivi rivoluzionari più lontani di cui possiede invece la coscienza il Partito comunista. Bisogna utilizzare per fini rivoluzionari quella disposizione delle masse, partecipando allo slancio che le porta verso gli obbiettivi che loro pone la situazione. E’ vero questo al di fuori di ogni limite? No. Quando noi poniamo alla nostra tattica il limite di non smarrire mai l’attitudine pratica di opposizione al governo borghese e ai partiti legali del Partito comunista, facciamo noi della teoria, o lavoriamo rettamente sulla esperienza! Ecco il punto.

Per noi la esistenza indipendente del Partito comunista è ancora una formula vaga, se non si precisa il valore di quella indipendenza in base alle ragioni che ci hanno imposto di costruirla attraverso la scissione, e che la identificano con la coscienza programmatica e la disciplina organizzativa del gruppo. Il contenuto e l’indirizzo programmatico del Partito, che nella sua milizia e in quella più vasta che inquadra sindacalmente e in altri campi non è una macchina bruta, ma appunto è un prodotto e un fattore al tempo stesso del processo storico, possono essere influenzati sfavorevolmente da atteggiamenti erronei della tattica. La sicurezza della organizzazione dipende dalla possibilità di controllare i movimenti delle forze che al Partito fanno capo.

L’azione che Mersù propone per facilitare direttamente l’avvento di un governo socialdemocratico, equivalendosi a quella che svolgerebbe un partito che abbia riconosciuto di dover sostituire alla lotta per la dittatura un surrogato conciliabile con la situazione mutata, comprometterebbe la impostazione programmatica del Partito e la sua indipendente esistenza. L’azione che Presutti sostiene nel seno degli arditi del popolo vorrebbe dire affidare il controllo e la direzione dei movimenti di forze tra cui vi sarebbero quelle del Partito ad una centrale politica mista; stessa situazione di quella derivante dai movimenti passati diretti dal Partito socialista, Confederazione e Gruppo parlamentare in cui il disfattismo riformista comprometteva il metodo rivoluzionario in insuccessi immancabili, demoralizzando la massa.

Una coalizione politica crea gli stessi rapporti che creava col noto e disastroso effetto la convivenza nel Partito socialista di opposte tendenze. Certo, la unità del Partito socialista permetteva di affermare che si partecipava ad azioni inquadranti grandissima parte del proletariato italiano, ma ciò non tolse che si finì nell’opportunismo. Oggi, si dice, c’è il Partito comunista organizzato a parte, e questo basterebbe ad evitare analoghe conseguenze. Come e perché? Qui proprio vi è dottrinarismo e meccanicismo, e uso sbilenco di dialettica.

Il Partito socialista non era che una coalizioni di partiti, un vero partito del lavoro. Esso immobilizzava la sinistra non per il fatto che fosse comune la organizzazione, ma per quello che era comune la Direzione dei movimenti. Quel dirigente di partito che in omaggio all’andare alle masse concedesse quanto noi negammo, cioè che una centrale politica anonima e incontrollabile come quella degli arditi del popolo diramasse ordini diretti alle sezioni comuniste senza nemmeno aver proposto un accordo al Partito, mostrerebbe di fare di quella formula una applicazione dogmatica e cieca, e rovinerebbe per sempre la organizzazione e l’indipendenza del Partito: questa non è nulla se non è la norma di dare le disposizioni di movimento per le vie di una gerarchia unitaria e accentrata. E trattandosi di una centrale militare più che politica la cosa si aggrava, se per poco si pensi che diritto di dirigenza militare significa conoscenza, non diremo nemmeno di supreme responsabilità affrontate da tutti coloro che si pongono a disposizione, ma di mezzi di preparazione e di armamento, controllo e disposizione su questi.

Perciò noi restiamo fermi su queste basi della tattica del Partito, in cui si riassumono le più utili esperienze del movimento italiano: fare propri gli obbiettivi immediati delle masse e provocare il movimento di insieme di queste verso di essi, ma conciliando (e lo si può brillantemente) tutta la utilizzazione di questo potente slancio proletario con la garanzia che non venga intaccato quel tanto di preparazione rivoluzionaria già raggiunto nella organizzazione indipendente del Partito e nel suo indipendente controllo di parti delle masse. Quindi, lavoro per l’Alleanza sindacale e per la difesa degli interessi immediati minacciati dalla offensiva borghese non solo di ordine economico ma anche di ordine politico, bensì unicamente attraverso una pressione dall’esterno e a mezzo della lotta delle masse sulla borghesia e sullo Stato.

In nessun caso dunque dovrà il Partito dichiarare di aver fatti propri postulati e vie di azione politica che avvalorino la preparazione a svolgimenti contrastanti con il contenuto programmatico del Partito, come sarebbe se si proponesse la diretta utilizzazione della macchina borghese da parte del proletariato per uscire dalla situazione attuale. E neppure esso dovrà accettare la corresponsabilità di azioni che possano domani essere dirette da altri elementi politici prevalenti. In una condizione la cui disciplina si sia preventivamente riconosciuta senza di che non vi sarebbe coalizione.

Dinanzi al problema del governo socialdemocratico l’attitudine di mostrare che esso non può contenere una soluzione dei problemi proletari è necessaria anche prima che esso si costituisca, per evitare che il proletariato non sia tutto aggiogato al fallimento di tale esperienza. Che tanto non ritardi il reale sviluppo che a questa esperienza conduce, è detto anche nelle tesi, ed è curioso come lo ammetta, nettamente contraddicendosi, il Mersù stesso, quando afferma che questo sviluppo è accelerato dalla pressione rivoluzionaria delle masse. Il Partito comunista non fa che divenire il protagonista, nelle sue attitudini e nella sua opera e nella sua lotta, di questa pressione della parte più rivoluzionaria delle masse rifiutando di schierarsi tra le forze che invocano il governo socialdemocratico. Ecco come l’antitesi diviene non solo teorica ma anche pratica, contraddicendo la dialettica di Mersù che corrisponderebbe alla mutevolezza di atteggiamenti. La dialettica dirittamente intesa spiega invece proprio come la esposizione comunista all’esperimento socialdemocratico, prima e dopo, sia un coefficiente del precipitare degli sviluppi tra cui quell’esperimento è compreso.

Quella stessa contraddittoria ammissione contiene il germe della risposta ad un’altra obiezione che noi ci permettiamo di trovare quanto mai vaga ed astratta: quella che costruisce sul vento il dilemma: o agire col movimento che tende al governo socialdemocratico, o restare inattivi e fermi alla critica, intento che anche l’amico Presutti ci attribuisce, immaginandoci dediti unicamente alla travagliosa emissione di teorici pensamenti.

Nella stessa opera del nostro Partito è la risposta. Si tratta di tenersi sul terreno di attori e fattori della pressione rivoluzionaria delle masse, volgendo in questa le lotte per gli obiettivi immediati. La attitudine e il lavoro intenso del nostro Partito, di fronte alla offensiva padronale, ci hanno consentito e ci consentono senza il bisogno di impegnarci in movimenti che contengano la negazione del nostro programma e gravi insidie per il proletariato, di edificare ed esplicare un formidabile piano di azione delle masse in cui tutti i problemi anche concreti che le interessano si vengono ad inquadrare. Quando si dimostrerà che anche l’esperienza di un governo di sinistra della macchina statale borghese non fa fare un passo alla soluzione di quei problemi vitali per i lavoratori, allora l’azione di grandi masse sulla rete di lavoro e di organizzazione da noi tracciata, si volgerà efficacemente sulle vie rivoluzionarie trovando un punto di appoggio che altrimenti le mancherebbe affatto come le mancò in tutte le classiche occasioni che posero in evidenza la impotenza del vecchio Partito socialista, perché allora si potrà trasformare in un concreto rapporto di fatti quello che è ora solo una cosciente previsione dei comunisti, ossia la parte controrivoluzionaria che rappresentano i propagandisti odierni delle vie legali e democratiche di emancipazione proletaria.

Sono limiti tattici che non traccia la teoria, ma la realtà, e questo è tanto vero che, senza fare gli uccelli del malaugurio, noi prevediamo che se si continuerà ad esagerare in questo metodo delle illimitate oscillazione tattiche e delle coincidenze contingenti tra opposte parti politiche si demolirà a poco a poco il risultato di sanguinose esperienze della lotta di classe, per arrivare non a geniali successi, ma allo svuotamento delle energie rivoluzionarie del proletariato, correndo il rischio che ancora una volta l’opportunismo celebri i suoi saturnali sulla sconfitta della rivoluzione, le cui forze già esso dipinge come incerte e esitanti e avviate sulla via di Damasco.

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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