A proposito dei moti d’Ungheria e di Polonia del 1956

(«il comunista»; N° 102; Dicembre 2006)

 

I cani rinnegati, come venivano chiamati all’epoca, nell’articolo sui moti d’Ungheria del 1956 che ripubblichiamo più sotto (1), gli opportunisti al soldo del capitalismo occidentale come di quello russo, hanno avuto un’altra occasione per dimostrare la loro congenita sudditanza alla democrazia borghese. Il presidente della repubblica, Giorgio Napolitano, da molto tempo pentito del suo passato staliniano, ha colto l’occasione dell’invito a Budapest da parte dell’attuale presidente ungherese per ufficializzare dal suo scranno istituzionale che «la “linfa della libertà”, l’autonomismo della società civile e la resistenza della sfera individuale, anche religiosa, di certo intellettuale, rispetto alla pressione della macchina totalitaria» (2) sono stati gli elementi nobili alla base dei moti ungheresi dell’ottobre-novembre 1956. Nel richiamarsi a questi nobili elementi egli giustifica non solo il proprio pentimento, ma inserisce il moto ungherese antisovietico come «precursore della storica riunificazione del nostro continente nello spazio unitario di civiltà dell’Unione Europea».

Bella civiltà davvero: aggressione e invasione della ex Yugoslavia, guerra in Afghanistan, in Iraq, spedizione militare in Libano...

Nel 1956 quasi tutti i quadri del Pci, allineati a partire da Togliatti sulle posizioni «destalinizzate» di Krusciov, Napolitano compreso, sostennero l’intervento militare di Mosca in Ungheria, appoggiando la tesi dell’imperialismo russo sulle presunte manovre reazionarie occidentali che avrebbero strumentalizzato il moto ungherese. Perciò, il sacro suolo di una democrazia popolare satellite di Mosca e partecipe di un falsissimo «campo socialista», doveva essere difeso contro ogni tentativo di farlo diventare satellite degli imperialismi concorrenti, europei o americano.

Solo pochi mesi prima, in Polonia, contro i duri scioperi insurrezionali dei metallurgici a Poznan contro salari da fame e condizioni di lavoro bestiali, il governo sedicente «comunista» usò senza scrupoli la repressione più dura, sparando e ammazzando senza pietà. Il pretesto era lo stesso che venne usato successivamente in Ungheria: complotto delle potenze occidentali contro il potere sovietico... Naturalmente, da parte occidentale, si alzarono urla di gioia per la «lotta per la democrazia e la libertà» che stava bucando la «cortina di ferro», ma si taceva sulla repressione e sugli operai morti per le violenze poliziesche nei propri democraticissimi paesi occidentali.

Oggi, come allora, è in realtà la democrazia borghese a vincere a tutto campo. Tutti, pentiti e non, si genuflettono all’altare di una civiltà democratica di cui riempiono a dismisura la propaganda della conservazione sociale, la propaganda del capitalismo come unico modo di produzione, la propaganda di un «mercato unico» che è il loro vero orizzonte, aldilà del quale vedono solo l’abisso, il nulla, le tenebre.

I moti ungheresi, che fecero allora più di 25mila morti, soprattutto proletari, furono già nel 1956 convogliati sul terreno della democrazia borghese, e questo fatto i comunisti marxisti l’hanno sempre letto come una vera tragedia. La commemorazione odierna, con la sublimazione delle aspirazioni democratiche di masse che furono spinte ad imbracciare le armi da condizioni di vita materiali intollerabili, aggiunge elementi di tragedia alla tragedia consumata allora. Il capitalismo, il mercato, la lotta di concorrenza fra capitali e fra Stati sono la sostanza dell’economia in Ungheria e nel mondo, nel 1956 come nel 2006; e finché vigono regimi politici che si fondano sulle leggi del capitale, si chiamino democrazia popolare, o democrazia tout court, repubblica socialista o addirittura comunista, monarchia costituzionale o fascismo, i proletari di tutti i paesi avranno di fronte sempre la stessa potente alternativa storica: lottare, armi alla mano, per la propria emancipazione di classe, quindi per la rivoluzione proletaria, antiborghese e antidemocratica, sotto la guida del partito comunista rivoluzionario, o consegnarsi alle forze del nazionalismo, del patriottismo, della conservazione borghese, versando il proprio sangue a favore del mantenimento della propria schiavitù salariale.

In perfetta continuità con quanto scrivevamo nel 1956, continuiamo la nostra critica teorica e politica a difesa del marxismo contro ogni deviazione, ogni cedimento opportunista, nella consapevolezza che il proletariato tornerà sul proprio terreno di classe riconoscendo se stesso, finalmente, come l’unica forza sociale capace di cambiare il mondo. Noi lavoriamo per il partito che dovrà guidare le masse proletarie nel loro movimento di emancipazione, certi che, rinnovando la memoria del glorioso passato rivoluzionario del proletariato, soprattutto europeo, teniamo in vita quel filo storico, oggi quasi invisibile, che lega le lotte di ieri con le lotte di domani.

 


 

(1) Con la tresca immonda fra comunismo e democrazia tutto hanno sfasciato i cani rinnegati, pubblicato nell’allora giornale di partito «il programma comunista», n.22 del 1956.

(1)Vedi G. Napolitano, su l’Unità, 27 settembre 2006.

 

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Con la tresca immonda fra comunismo e democrazia tutto hanno sfasciato, i cani rinnegati

 

 

Mentre poltrisce nell’euforia del riconquistato regime parlamentare la sfera americana di vittoria sull’Europa, nella sfera russa ha preso a scuotersi paurosamente il sottosuolo sociale, mettendo a nudo la stoltezza della costruzione bastarda della storia, detta delle democrazie popolari.

Quelli che plaudono ai coraggiosi ribelli ungheresi lo fanno in nome degli stessi valori ideologici: popolo, libertà, indipendenza nazionale, democrazia. Quelli che plaudono alla spietata repressione del moto lo fanno in nome della esaltata forma delle democrazie popolari, in seno alle quali si costruisce, a dir loro, il socialismo.

Gli opportunisti classici occidentali, legittimi discendenti dei socialtraditori del 1914, gridano a tutti i venti che il socialismo può sorgere solo in atmosfera di democrazia; come si è gridato nel parlamento italiano. Ma è proprio sotto questa formula e questa bandiera che sono stati vantati, dai loro smarriti silenti e sbigottiti avversari, i «comunisti» indigeni, i magnificati regimi di Polonia, Ungheria e degli altri «satelliti». Nei quali, a loro dire, non vi è potere sovietico, non vi è dittatura proletaria, ma con una originalità che si schiera la primo posto tra le riblaterate «vie nazionali» al socialismo, è stata impiantata la «edificazione» del socialismo nel terreno e nel concime demopopolare.

Il sangue vivo corre dunque a fiotti; e a fiotti le squallide apostrofi oratorie e giornalistiche, tra fautori della stessa idealità storica, della stessa forma sociale di domani?

Quando nella lotta politica va in grande stile la parola alle armi, di norma si illuminano alla umanità le vie della storia, e le forze umane si schierano con decisa sicurezza per la forma nuova che sorge all’orizzonte, o contro di essa.

Sgorgano oggi verbosi dalle più varie e strane parti l’osanna o l’anatema; ma tra i fumi della lotta incendiaria torbide e dubbie sono le prospettive di domani. Il vivido movimento ungherese, mentre si svolge, ed è di qui concitatamente attribuito ad una congiura reazionaria, e santalleanzista, feudale addirittura, di là inserito tra le più alte epopee liberatrici dell’umanità da esecrate oppressioni, non si lascia docilmente classificare.

 

Le armi e gli scopi

 

La valutazione marxista di quanto accade in questi tragici giorni non si può ridurre ad una «presa di posizione» tra le due forze armate che si scontrano, non si riduce ad una opzione, che indiscutibilmente va pronunciata in favore dei ribelli e contro le «forze dell’ordine» ungheresi e russe, che in una lotta senza quartiere, in cui dalle due parti si abbraccia senza riserve il metodo del terrore, si ripromettono di arrivare a schiacciarli. Augurare ai rivoltosi il successo finale, difficile e sanguinoso, non basta per spingere la solidarietà entusiasta a magnificare il movimento come un pieno ritorno alla via rivoluzionaria comunista, ad una totale riscossa contro la nefanda ondata dell’opportunismo traditore, impersonata nello stalinismo e non meno nell’antistalinismo del ventesimo congresso russo (1).

Si ha il dovere di andare più a fondo e dire che una tale riscossa è ancora, comunque si conchiuda la tremenda crisi che sconvolgerà tutte le instabili «democrazie popolari» dell’Europa, storicamente assai lontana. La rivoluzione non vive di illusioni e di sentimentali vuoti estremismi.

Non siamo al ritorno ad un moto autonomo della classe operaia, ma ad un moto interclassista di lavoratori e classi semiborghesi, che non esce dalla ipocrita formula su cui si schierano i sabotatori del comunismo rivoluzionario, della Internazionale di Lenin. Non si può negarlo. La verità va guardata in faccia. Ma con tanta forza di dialettica, da saper capire ed accettare il fatto storico che solo da questa via può passare la ripresa rivoluzionaria. E’ per ora un ritorno indietro, a uno stadio di lotta che già oltre trent’anni fa appariva sorpassato, e che in fondo rialza schemi e schieramenti quarantotteschi. Ma non si può esitare nella scelta tra l’adozione di questi schemi nella corruttrice manovra politicante e parlamentare, e il loro ricomparire sul terreno della coraggiosa, eroica lotta con le armi in pugno.

Il dovere di ricondurre i moventi che spingono anche al sacrificio più disperato gli insorti di oggi, alle loro basi di classe e di sociali interessi, non toglie che sia una lieta novella che viene dalla insanguinata Ungheria: le grandi capitali sanno ancora divenire vulcani di lotta come nelle situazioni di un secolo addietro, e le tecniche modernissime di polizie di Stato e di eserciti possono essere affrontate da quasi inermi civili i quali, sia pure per ragioni classiste non del tutto chiare, come le attendevamo e volevamo, spostano armi ed armati dalle file delle milizie di repressione: e non solo per il risorgere pieno di motivi nazionali e patriottici, se è vero il fatto glorioso, e pieno di speranze internazionaliste nel vero senso che reparti di soldati russi hanno invertito il loro tiro, passando ai rivoluzionari. Le possibilità tecniche di spezzare la forza immobilizzatrice delle macchine di Stato odierne, partendo dal di fuori - su cui dal 1890 il revisionismo antimarxista cominciò a dubitare, vantando falsamente il consenso del vecchio ma sempre fieramente insurrezionista Federico Engels - sono in piedi tuttora, al tempo dei carri armati, dell’aviazione e delle armi automatiche, come se ne ebbero prove luminose, anche se ancora sfortunate, a Varsavia, a Berlino Est, a Poznan (2).

Per la prima volta si vede in un quadro narzionale sorgere dalla terra l’esercito irregolare di una insurrezione: se esso non prenderà il potere sarà per difetto di organizzazione politica più che militare, e proprio per una base di classe che ragioni superiori ad ogni volontà rendono incerta, e vulnerabile dalle speculazioni basse e vergognose dei poteri dell’Est, e dell’Ovest.

 

Specchio deformante

 

Non è purtroppoo possibile fermarsi a questo, e poiché la drammaticità delle ore che passano non è adatta a lunghe disquisizioni, il lampeggiare della dialettica, che sembrerà forse fredda operazione agli stessi pochi nostri compagni internazionalisti rivoluzionari, applichiamolo al processo concreto in un confronto tra Polonia ed Ungheria, e al modo più risibile che turpe con cui lo accolgono i rinnegati italiani che torcono la loro grinta di camorristi della politica alle smorfie di piagnucolanti e balbuzienti scuse da picciotti sculacciati.

L’Unità dichiara ripetutamente in questi giorni, che il moto ungherese ha un’origine provocatoria e tende alla restaurazione di un regime non solo borghese parlamentare e capitalistico liberale (di cui giusta le loro urinarie tesi per il Congresso imminente - o da disdire, messeri? - sono aperti fautori nella teoria e nella manovra) ma a quella del fascismo di Horty o del feudalismo di Estherazy. Naturalmente simile gente non può capire che nella stessa guerra civile russa Lenin denunziò il pericolo del ritorno al potere dei capitalisti e dei proprietari terrieri borghesi, e il babau del feudalismo è sepolto da quando non ci lasciammo imbonire dai socialpatrioti antitedeschi - o antirussi - dello scoopio della prima guerra europea. Né può capire, questo pennivendulume educato da trent’anni di corsi universitari, in cui, come si vede, non si è insegnata solo l’arte del tradimento ai principi ma quella nobilissima di andare a farsi coprire dal nemico nel più stolto dei modi, che la scoperta dei provocatori come pretesto di strage non vi è repressione che non l’abbia usata nella storia, da Diocleziano a Nerone, da Torquemada a Radetsky, o a Stolypin o a mille altri.

Ancora il 28 ottobre quel foglio si fa telefonare da Budapest e Varsavia, da un corrispondente tanto insensato da firmare la lieta notizia che gli ultimi gruppi barricadieri di Budapest si spera di farli fuori nella notte. Se tale è la sorte di chi si batte col fucile, quale sarà la futura di chi con questi mezzi si batte con la penna?!

Ma nel numero del 27 ottobre, su due paginone, lo stesso giornale riportava il discorso di Gomulka, che è davvero notevole e che contiene un tono di indipendenza a cui non eravamo in verità più abituati.

In Polonia la evoluzione è diversa: siamo ai discorsi, non alle fucilate e alle bombe come in Ungheria. Se Gomulka fosse dietro ad una barricata e non ad una tribuna, non ci sarebbe lecito dimostrare, come faremo subito ma sommariamente, che davanti a lui prendiamo posizione come davanti ad aperto nemico. Il marxismo distingue tra la polemica fatta con le parole e quella fatta con le armi: in dati svolti conclude in modi diametralmente opposti nei due casi, come nel 1863 per gli insorti polacchi con cui illimitatamente solidarizza nei loro stessi obiettivi solo patriottici e borghesi - e per i loro ideologhi democratici che a Londra copre di disprezzo e di scherno (3). Ma tra Polonia e Ungheria vi è un’altra differenza: il gerarca qui deposto dalle «maniere» staliniane (la più idiota delle spiegazioni di tanto dramma storico) non va al governo per formulare un programma tanto nettamente antirusso - e per noi nettamente contrario al vero comunismo - ma ci va per assumersi la repressione della rivolta, come quello sporco e vile Nagy, coi suoi cagnotti e compari. Non ci importa di stabilire differenza tra i due tipi, e dire banalità sulla cupidigia di «risalire» nei poteri, ma di confrontare due fasi così diverse di uno sviluppo strettamente analogo.

 

Pochezza polacca

 

Di quanto di Gomulka riporta, facendolo proprio, il foglio italiano (4), rileviamo anzitutto il lungo passo che riguarda il moto di Poznan e dimostra ostinatamente, diremmo, come in esso non agirono quegli agenti dell’imperialismo straniero, su cui l’Unità invitava i lettori italiani a giurare, per dimostrare giusto e lodevole il massacro degli operai di fabbrica. Questi erano scesi in piazza per un movente strettamente economico di classe.

La conclusione di Gomulka, certo efficiente oratore e polemista, è ineccepibile: «Gli agenti imperialisti e provocatori possono esistere ed esplicare la loro attività sempre e dovunque, ma non possono mai e in nessun luogo decidere dell’atteggiamento della classse operaia. Se lo potessero... i nemici della Polonia e del socialismo avrebbero un compito ben più facile...». Di più, non-compagno Gomulka, anche se non ancora birrro di professione: il socialismo come dottrina ed azione sarebbe una vuota balla.

Poznan, coma ha dimostrato lo stesso processo, fu un moto classista puro e gli operai furono autonomi protagonisti. Ma fu un moto locale, si pose rivendicazioni di classe, ma che non avevano sfondo territoriale nazionale e non giungevano al problema del potere politico. Il movimento ungherese, se vincesse, avrebbe su Poznan il vantaggio di trascendere i limiti locali ed economici, ma lo svantaggio di essere ibrido come base di classe.

Il moto che rappresenta Gomulka ha l’altro svantaggio di essere pacifico e non insurrezionale, e la sua vittoria, se non susseguono altre fasi che rompano la sorda via pacifica, abbiamo il diritto di criticarla e di svalutarla.

Politicamente le rivendicazioni di un tale programma sono di aperta democrazia parlamentaristica, ed è superfluo fare citazioni. Il governo polacco odierno è un governo borghese.

Socialmente è sul serio un governo demopopolare, come il precedente era demopopolare programmaticamente. Il moto in Polonia, dice Gomulka, poggia su tre strati sociali: operai, contadini e studenti. Gli studenti non sono una classe, e non lo sono gli intellettuali, ma il terzo termine significa media borghesia e borghesia. Un tale governo non è più socialista di quello che sarebbe un governo Mollet o Saragat.

Economicamente le posizioni polacche sono disastrose, in linea marxista. In agricoltura, e solo questo senso può avere il leit-motiv della destalinizzazione, si rincula ulteriormente da Stalin. Si preconizza lo scioglimento delle cooperative (analoghe ai colcos russi) se piace ai contadini di spartirsi la terra, il che, armi alla mano, starebbero oggi facendo nella provincia ungherese.

Si ammettono nel nuovo ordine agrario tre forme: piccola azienda contadina, cooperativa volontaria e azienda di tipo capitalista, che si scagiona dall’accusa di azienda di kulak. Ecco quali errori correggono i rinnegatori di Stalin: le ultime pallide vestigia di un mezzo socialismo tendenziale. Ma per lo meno ci si vede chiaro: lo sfondo storico di democrazia popolare non vale ad edificare socialismo, ma solo a riedificare capitalismo aperto.

Nel tema industriale si è in pieno negli errori autentici, nelle bestemmie marxiste di Stalin 1952.  Avemmo il merito di inchiodarle nel Dialogato con Stalin, e stabilimmo in anticipo le basi dottrinali, che nel 1956 ci hanno consentito nel Dialogato coi Morti (5) di provare come il XX congresso anziché condannarle per il ritorno al marxismo, aveva ulteriormente rinculato su posizioni antisocialiste.

Per Gomulka si tratta di far risorgere un’economia industriale basata sulla legge del valore e sulla discesa dei «costi di produzione» perché le aziende siano redditizie. Abbiamo provato ad abundantiam che ciò è il rovescio del «costruendo» socialismo. Qui notiamo solo quanto sia demagogico scusarsi con gli operai dell’industria che non si possono elevare i salari, quando si ha il programma di diminuire i costi di produzione. E’ lo stesso programma delle tesi per lo VIII congresso del partito italiano: Tesi della botte piena e della moglie ubriaca.

Conclusione. Nemico Gomulka. Provata la tesi storica che chi va verso la democrazia liberale va verso il capitalismo e contro la direzione del socialismo.

 

Tempo storico magiaro

 

In Ungheria si battono anche studenti borghesi, contadini, operai. E’ chiaro che questi ultimi sono nella lotta in prima fila e reggono il peso maggiore, che la insurrezione ha per maggiore baluardo lo sciopero generale delle fabbriche e dei pubblici servizsi, e la sua forza militare, quale che sia il finale esito della lotta, si basa su energie della classe lavoratrice.

Il programma non è, e non vi è da dubitare malgrado l’insufficienza delle notizie, comparabile a quello che vinse nel 1919: dittatura del proletariato, terrore sociale contro i  proprietari borghesi delle fabbriche e della terra.

Al centro del programma è l’indipendenza nazionale, la liberazione dell’Ungheria da truppe di Stati stranieri, la istituzione di un goverrno a base parlamentare con libertà di agitazione a tutti i partiti. La solita bubbola del socialismo che è in edificazione - la peggiore insidia controrivoluzionaria del mondo contemporaneo - non è nel programma degli insorti, e malgrado che la maggiore forza tra loro sia quella operaia. Essa non sarebbe nemmeno nel programma del ristabilitore di ordine Nagy, se questo come pare ha già formato un governo di fronte nazionale, con partiti antisocialisti. Del resto anche in Polonia il programma Gomulka - che forse non arriverebbe a condurre una repressione su ordine di Mosca - contiene inviti ai popolari e ai contadini.

Non ci dobbiamo illudere: la magnifica insurrezione ungherese lotta per un’Ungheria liberale parlamentare e borghese.

I pochi operai del 1848 lottarono sulle barricate per lo stesso risultato, tardi e dopo ben lunghe battaglie raggiunto. Per Marx e per noi fu santa lotta e rivoluzionario risultato, via storica da cui il socialismo doveva passare.

Oggi gli operai ungheresi sono numerosi, hanno ben altro peso nella nazione. Ma la vicenda storica li ha costretti a scegliere gli stessi alleati. La loro è lotta patriottica e nazionale; e noi non abbiamo il diritto di chiamarla lotta per fini di classe e socialisti.

Tuttavia la distinzione essenziale tra i fronti unici di manovra politica e quelli che sorgono nel campo dell’azione armata di combattimento non può venire dimenticata. Anche in queste condizioni l’interesse generale della classe lavoratrice e del comunismo internazionale sta dalla parte delle armi insorte.

L’enorme spostamento all’indietro dei fini per cui la classe operaia è costretta a versare il suo sangue sta in relazione alla spaventosa epidemia sterminatrice della forza rivoluzionaria mondiale, tra le cui tappe secolari si schierano quelle che si chiamano coi nomi, tra mille altri meno noti, di Stalin, di Tito, di Krusciov, di Gomulka, di Rakosy, di Geröe, di Nagy e via via, senza abbassarci ai cognomi latini.

La formula di collaborazione tra operai e piccoli borghesi è retriva, ma ha ancora una storica decenza se ha per oggetto una sistemazione nazionale borghese, e se per questo passo della storia paga un prezzo di sangue.

E’ nulla, vile, ignobile e traditrice quando si presenta, in paesi ampiamente sviluppati, come mezzo per passare dal capitalismo al socialismo, quando annienta la visione di Marx e di Lenin della dittatura rivoluzionaria nella bassa manovra dei blocchi elettorali e parlamentari. Né può il fragore di mitra dare migliore valutazione alle resistenze del tempo di guerra civile che non furono esplosioni di guerra civile ma manutengolismo ad eserciti statali in guerra, e segnarono altro bestiale passo del degenerare della preparazione di classe del proletariato di tutti i paesi.

 

I comunisti  non hanno stranieri

 

Tra i penosi tentativi di parlare e di scrivere dei più pervicaci giannizzeri della grande banda devastatrice della rivoluzione classista, si iscrive - tralasciando di dire del basso episodio dell’associarsi dei Nenni pappatori di premi in dittatoriale e partitesca pecunia con i multicolori ingiuriatori della dittatura di classe e i suoi diffamatori in nome dei valori eterni del ciarlatanismo liberale - la dichiarazione della Confederazione del Lavoro contro l’impiego di truppe straniere, ossia sovietiche, ossia del governo che ha pagato i premi della pace, e l’ammissione che sono adoperate contro i lavoratori.

Non si saprebbe a chi dare la palma della incommensurabile ipocrisia tra gli apologisti della ribellione e quelli della sua repressione bestiale, iscritti, ahi loro, allo stesso partito.

Nella situazione della guerra russo-polacca del 1920 i comunisti nel giusto senso del termine fecero assegnamento sull’azione del glorioso esercito russo per intervenire in Polonia, e sostenere il moto di quei compagni bolscevichi tra i più valorosi,  contro l’oppressione mantenuta dagli agenti (allora ben detti) delle adoratrici dei valori eterni di libertà, Francia e Inghilterra.

Se davvero in Ungheria lavorassero ad una controrivoluzione borghese agenti del capitalismo mondiale, e se davvero la Russia avesse ancora un esercito rosso e classista, si dovrebbe vedere con gioia l’azione di questo.

E’ giusto deprecarne la violenza solo per chi - come noi - lo considera esercito statale imperiale quanto gli altri, e maneggiato ovunque a fini opposti a quelli proletari e socialisti.

Il principio del non intervento negli affari interni di altri paesi è il più insano di quelli in cui si assomma la menzogna del democratismo borghese, e solo calpestandolo finalmente col coraggio che romperà tutte le superstizioni liberali e libertarie, passerà sicuramente un giorno sul mondo la rivoluzione comunista.

 

cALMA, IL FUTURO è GIALLO

 

Se sono vere le notizie che davanti all’accanimento dei rivoltosi le forze sovietiche hanno dovuto rinculare e sgombrare, il compiacimento per questa prova storica che le più possenti macchine di potere possono essere controminate, e che l’audace assalto allo scoperto passa epidemico da una capitale all’altra, come appunto nel lontano 1848, non basta ai marxisti rivoluzionari per condividere il compiacimento di tutte le borghesie mondiali, felicissime che all’avanguardia del plauso ci siano tutte le bande dei socialisti opportunisti, e prestino alla vile bisogna un lembo di quella bandiera di socialismo che dall’Est e dall’Ovest è servita ad imbastardire le masse da molti anni.

La gioia del maggiore baluardo capitalista, l’America, che sollevata da preoccupazioni di complicanze in serie a suo solo danno, trarrà il respiro per darsi al rock and roll politico delle sue superciarlatanesche elezioni presidenziali, con la prospettiva di risorse maggiori nell’investire capitale strozzino in quanto regalato nei paesi che si strappano dalla cortina, è un successo per la peggiore forza della controrivoluzione.

Per basse vie se ne accorgono i comunisti russofili, che non batterono ciglio quando Mosca li saldò alle sorti dell’America, e questa fece la fortuna delle loro bande europee.

Né essi possono più  confessare l’errore degli errori: aver creduto di conservare la forza materiale, lasciando svaporare l’energia vitale della fedeltà ai principi della dottrina. Una fase di smarrita impotente mortificazione sta davanti a loro. Ma quanto tempo metteranno i proletari a comprendere che quel baratto di principi si veste delle stesse forme del programma della nuova, ammirabile per battagliero coraggio, ma deteriore in dottrina sociale, «libera» Ungheria, e borghese pertanto?

I disgraziati rinnegati del marxismo e del leninismo anche in Italia hanno avuta la stessa parola dell’Ungheria ribelle ai loro padroni: indipendenza nazionale! Ma non hanno mai acquisita la dottrina dialettica di Lenin: noi comunisti togliamo le catene alle nazioni, perché solo così muore il nazionalismo, forma storica utile solo per esaurire arretrati di rivoluzioni borghesi.

Hanno forse i rinnegati avuto il coraggio di gridare dopo Budapest che anche in Italia e in Occidente ci sono truppe di occupazione e forme di colonialismo? Non lo potevano: sono quelle forze che li portarono ai ministeri romani, ed essi hanno versato tra le masse operaie troppo oppio stupefacente del culto della democrazia che intossica Ungheria ed Italia, benché solo quest’ultima sia oggi di pecorile viltà.

Il moto ungherese, ammirevole fin che si voglia, non è il nostro. E non apre nuove ere, quali noi attendiamo.

 

 


 

 

(1) Nel 1956 il Pcus tenne il suo XX congresso, nel quale Krusciov avviò il cosiddetto «nuovo corso» in chiave antistaliniana dell’economia russa, e al quale il partito dedicò uno studio specifico intitolato Dialogato coi Morti. In queste pagine la nostra corrente - la sinistra comunista «italiana», opposizione tattica fino al 1926 nell’Internazionale di Mosca, poi in rottura totale sia con lo stalinismo alleato degli imperialismi internazionali, sia con la sua filiazione italiana demopopolare e ciellenista - dà del cosiddetto nuovo corso russo questa valutazione: ben più, ben peggio di Stalin, volge le terga al marxismo e alla rivoluzione di Lenin - collaborazione effettiva con l’Occidente nella conservazione della comune struttura capitalistica.

(2) Varsavia: ci si riferisce alla «comune di Varsavia», ossia alla lotta di resistenza che il proletariato di Varsavia aveva fatto nel 1944 contro le truppe naziste;  Berlino Est: ci si riferisce al moto proletario del giugno 1953 che scosse gli equilibri interimperialistici  sull’Europa appena disegnati tra Russia, Stati Uniti, Francia e Inghilterra, e che fu schiacciato in una brutale repressione da parte delle truppe sovietiche; Poznan: ci si riferisce agli scioperi del giugno dello stesso 1956, in cui gli operai chiedevano pane e condizioni di lavoro meno bestiali.

(3) Cfr. il carteggio Marx-Engels del 1863-64 sull’insurrezione polacca per l’indipendenza nazionale; va ricordato che le azioni di protesta operaia contro la repressione in Polonia ebbero una parte importante nella fondazione dell’Associazione internazionale degli operai (Prima Internazionale).

(4) si tratta sempre dell’Unità, organo del PCI. Gomulka era all’epoca a capo del partito comunista polacco.

(5) Dialogato con Stalin e Dialogato coi Morti, sono due studi pubblicati nell’allora giornale di partito «il programma comunista» e poi raccolti in opuscoli a se stanti. Il primo, del 1953, prende di petto i grandi temi dell’economia marxista; lo spunto lo diede quanto aveva scritto Stalin nel 1952 a proposito del nuovo Manuale di economia politica che il Pcus si apprestava a pubblicare. Il proposito di questo scritto era di stabilire quali leggi economiche andassero applicate alla struttura della società russa dell’epoca, e di sostenere che tali leggi fossero quelle proprie di un’economia socialista. Ovvio che l’obiettivo del nostro testo era invece quello di dimostrare che le tesi e le teorizzazioni contenute negli scritti di Stalin erano falsamente «marxiste», e di dimostrare che le leggi che presiedevano alla struttura economica e sociale della Russia erano esattamente le leggi dell’economia capitalistica. Il secondo testo, Dialogato coi Morti, del 1956, che si ricollega strettamente al primo, prende di petto i temi del XX congresso del Pcus, ossia il cosiddetto «nuovo corso» antistaliniano,  temi che possiamo riassumere molto sinteticamente in questo modo: - La condanna dei «crimini» di Stalin pronunciata al XX congresso non investe, anzi riconferma, la teoria staliniana antimarxista secondo la quale nella società socialista si producono merci. Il regime sociale russo si regge sulle medesime leggi economiche del mondo occidentale, di conseguenza il «socialismo russo» non è che pura menzogna.  La crisi economica e la guerra imperialista, finché perdura il capitalismo, sono inevitabili; il movimento politico di classe potrà scongiurarle se imboccherà risolutamente la via della rivoluzione. Al proletariato di tutti i paesi spetterà il duro ma esaltante compito di abbattere i mostri statali di Oriente e di Occidente ed imporre la propria dittatura. Solo dopo, scomparso il regno dello scambio mercantile, sarà il socialismo.

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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