Kabul, imperialisti vecchi e nuovi  all’opera

(«il comunista»; N° 103; Marzo 2007)

 

 

In Afghanistan, da cinque anni, l’Occidente civile, democratico, diffusore di pace in tutto il mondo, capitanato dagli Stati Uniti d’America, ha scatenato la sua ennesima guerra contro i talebani, protettori di Bin Laden e quindi rei di «terrorismo». L’obiettivo dichiarato era di vincere i talebani, non tanto per il loro fondamentalismo islamico, quanto per la copertura politica, logistica e militare offerta ad Al Qaeda che rivendicò il più famoso attacco all’impenetrabilità dei confini americani distruggendo le Torri Gemelle a New York.

Dal 2001, con l’invasione dell’Afghanistan, le truppe statunitensi sostenute da truppe di molti paesi affiliati alla Nato, Italia compresa con ben 2000 soldati, occupano il paese; ma, nostante i massicci bombardamenti, i rastrellamenti quotidiani, gli scontri a fuoco con i talebani che si sono asserragliati in quelle montagne che già diedero parecchio filo da torcere ai primi invasori britannici nell’Ottocento, le truppe Nato non hanno ottenuto alcun successo decisivo. La popolazione vive in condizioni peggiori che non sotto i talebani; per non parlare dei contadini che coltivano il papavero  per l’oppio, le cui colture sono protette e, in un certo senso, “garantite”dai talebani che ne controllano produzione e commercio. Il governo di Karzai, uno degli “eroi” della resistenza afghana all’occupazione sovietica, in realtà non controlla il paese - che è invece spartito tra i vari “signori della guerra” - e nemmeno riesce a controllare interamente la capitale Kabul. Ma è sostenuto da Washington e dai governi occidentali, perciò finchè dura questo sostegno resta in piedi.

Negli anni ’80, all’epoca dell’invasione del paese da parte dell’armata sovietica, i “comunisti” europei andavano cianciando sulla bontà delle operazioni militari di Mosca in Afghanistan in funzione della liberazione delle donne afghane. Gli stessi trotskisti, messo da parte il loro fastidio per i successori di Stalin, utilizzarono quel motivo per inneggiare alla spedizione militare russa. I “kabulisti” nostrani, come vennero chiamati i “comunisti” dei vari pc europei, gridarono alto il loro sostegno a quel che facevano passare per un’azione di alto profilo culturale: con i cannoni russi si sarebbe finalmente seppellito il medio evo asiatico e si sarebbero aperte le porte alla civiltà dei diritti umani e della parità fra donne e uomini. Inutile dire che tanto i “diritti umani” quanto la “liberazione della donna” sono rimasti lettera morta, vocaboli in un dizionario gettato alle ortiche.

L’imperialismo - ossia la politica di oppressione sistematica e di rapina applicata dal moderno capitalismo sotto ogni cielo - non si è mai fatto condizionare dagli orrori della guerra e dell’oppressione in qualsiasi forma, sia la più raffinata che solitamente è vestita di democrazia, sia la più brutale. La nuova costituzione afghana del 2004 emanata dal governo fantoccio di Karzai, se da un lato fa riferimento ai “pari doveri e diritti di uomini e donne”, dall’altro sostiene che sono tali “di fronte alla legge”; in realtà, in Afghanistan vige ancora la legge tradizionale che è derivata per lo più dalla sharia (la legge islamica) con la quale, a proposito della donna, si stabilisce che la donna è  proprietà dell’uomo sottoponendola ad un codice d’onore che la rende schiava a tutti gli effetti.

Dal punto di vista politico, e civile, la situazione del paese non è cambiata sostanzialmente in nulla, anzi  è grandemente peggiorata. Al parlamento, con le elezioni-farsa del 2005, non siedono uomini di partito, ma eletti cosiddetti “indipendenti”, ossia i vari rappresentanti delle tribu e dei diversi “signori della guerra” che si spartiscono il paese. Dal punto di vista economico, tanto meno, vista la dipendenza di gran parte della popolazione rurale dalla coltivazione del papavero da oppio e dal suo commercio. Dal punto di vista politico, paradossalmente erano i talebani a garantire una specie di unità del paese sebbene in forza del loro islamismo che, però, funzionava come collante nazionale. Disarcionati i talebani dal potere, gli afghani non hanno espresso alcuna forza politica in grado di rappresentarli come un’unica popolazione; restano suddivisi in tribù in concorrenza e in contrasto l’una con le altre. La società tribale e medioevale (l’analfabetismo riguarda il 70-75% di una popolazione che per il 70% è dedita all’agricoltura e alla pastorizia)  è immersa, con tutta la sua arretratezza, in un’economia appena al di sopra della sopravvivenza trasferendone una quota nel commercio dei tappeti artigianali e nei traffici legati alla droga. La presenza delle truppe Nato non solo non “garantisce” il “percorso di modernizzazione del paese” per il quale Washington, Londra, Berlino, Roma e Madrid danno a credere che sia  vitale importare nel paese la democrazia occidentale, ma acutizza tutti i fattori di contrasto e di crisi già presenti nel paese.

Che ci sono andati a fare, allora, i soldati della Nato in Afghanistan? L’uscita dall’arretratezza economica e sociale del paese non vi è stata nè con l’invasione dell’armata sovietica (ben 250.000 uomini), nè con l’andata al potere dei talebani, nè se ne vede l’avvìo con la spedizione militare della Nato che, con i suoi 35.000 uomini, che si aggiungono ai 35.000 soldati dell’esercito afghano più o meno sotto il comando del governo Karzai, non si dedica certo ad impiantare fabbriche, scuole o aziende agricole. Decenni di guerra borghese  e di guerriglia altrettanto borghese, milioni di mine antiuomo sparse in tutto il paese, uniti all’asprezza del territorio e alla divisione tribale del suo controllo, se da un lato non fanno che peggiorare la situazione economica e di semplice sopravvivenza delle popolazioni afghane, dall’altro alimenta costantemente un regime di corruzione che si è diffuso a tutti i livelli e in tutti i rapporti sociali, a partire dalle tangenti pagate ai fedelissimi del governo per ottenere un qualsiasi permesso o licenza (Cfr. L’espresso, 22.3.07).

Se si dà un’occhiata alla carta geografica si nota che il territorio che corrisponde all’Afghanistan - con una popolazione stimata in 27 milioni di abitanti, nomadi compresi - confina ad occidente con l’Iran, a sud e ad est con il Pakistan e a nord con le ex repubbliche sovietiche Turkmenistan, Uzbekistan e Tagikistan. Non ha alcuno sbocco al mare, ma è incastonato in una posizione strategica davvero particolare perché può chiudere o aprire le vie di comunicazione montagnose tra Cina e Medio Oriente; ma soprattutto, nell’epoca in cui il controllo dei territori e delle vie di comunicazione si effettua per via aerea oltre che per via terrestre e marina, l’Afghanistan - ospitando basi aeree - potrebbe assolvere molto bene al compito di controllo militare di una vasta area che comprende Siria, Iraq e Iran a occidente, Pakistan e in parte la Cina occidentale a oriente, l’Oceano Indiano a sud e la Russia oltre i territori delle ex repubbliche sovietiche d’Asia. Se a questo si aggiungono le basi militari americane in Arabia Saudita, in Iraq e nell’Oceano Indiano, si ha un quadro molto grezzo ma sufficiente per capire che le guerre che l’imperialismo più forte del mondo va a fare in territori così lontani da casa sua hanno sempre più di un obiettivo da raggiungere, obiettivi solitamente non dichiarati. D’altra parte, non essendo l’Afghanistan un importante prodottore di materie prime (ci sono smeraldi, ma c’è ben poco gas naturale e petrolio) e non possedendo una produzione agricola industrializzata sì da consentirne l’espostazione (a parte la produzione di oppio di cui è primo produttore mondiale), l’interesse per questo paese non può che essere di tipo politico-militare.

Un altro punto di interesse, e di crisi, nell’area è rappresentato dal Pakistan.

Ufficialmente il Pakistan - paese da 150 milioni di abitanti, e unico paese musulmano ad avere la bomba atomica - è alleato degli Stati Uniti nella «lotta al terrorismo», e si è impegnato a facilitare la cattura di Bin Laden, diventato per Washington dopo l’attacco alle Torri Gemelle di New York il nemico numero 1. Ma la storica ambiguità dei governi pakistani, confermata anche dal governo Musharraf, se da un lato ogni tanto dà qualche dimostrazione di combattere i guerriglieri di Al Qaeda, dall’altro chiude gli occhi sulla tolleranza e sulla protezione che le tribu pashtun del Beluchistan e del Waziristan - confinanti con l’Afghanistam - offrono ad Al Qaeda.

D’altra parte, i tentativi di Washington di arginare le mire continentali del giovane imperialismo cinese, se lo hanno spinto a stringere accordi stretti con l’India (alla produzione nucleare della quale ha dato il benestare), lo hanno in qualche modo costretto a premere sul Pakistan per una pacificazione indo-pakistana grazie alla quale fregiarsi di un risultato politico importante; in contropartita il Pakistan ottiene che gli Usa non mettano il naso più di tanto negli “affari interni” di Islamabad.

Come si confà ad ogni stato borghese, anche lo Stato pakistano ha le sue mire sub-imperialistiche: per non cadere sotto il peso di un eventuale alleanza cino-indiana, e quindi subire un’altissima pressione non solo politica ma anche territoriale, Islamabad ha tutto l’interesse che l’Afghanistan continui nella sua instabilità sì da poter svolgere nell’area un ruolo mediatore di primaria importanza. Perciò l’ambiguità nei confronti di Stati Uniti e di Al Qaeda, se viene giustificata con la difficoltà materiale di controllo di tutte le tribu del Beluchistane e del Waziristan, ha una spiegazione nell’esercizio di quel ruolo di mediazione che, in tutta l’area, è l’unica paese a poter effettuare non tanto e non solo per il fatto di essere confinante, ma per il fatto soprattutto - visto il peso che assume l’appartenenza religiosa in tutto il mondo musulmano - di essere accomunati nella fede sunnita.

Violenza di Stato e violenza di guerriglia vanno a braccetto,  come l’oppio e la religione. In un mondo dove ciò che importa è il potere economico capitalistico, e quindi il controllo politico e militaredi questo potere, non importa se l’economia è arretrata, tribale o sfrenatamente capitalistica: l’importante è che i profitti che girano vorticosamente nelle Borse di Wall Street o di Londra, di Parigi o di Berlino, di Zurigo o di Milano, siano costantemente alimentati da affari giganteschi che possono essere il risultato o di movimenti di concentrazione di capitali o di guerre, di rapina o meno a seconda delle congiunture.

Come diceva Lenin nel suo Imperialismo del 1916, « in regime capitalista non si può pensare a nessun’altra base per la ripartizione delle sfere d’interessi e d’ influenza, delle colonie, ecc. che non sia la valutazione della potenza dei partecipanti alla spartizione, della loro generale potenza economica, finanziaria, militare ecc. Ma i rapporti di potenza si modificano, nei partecipanti alla spartizione, difformemente, giacché in regime capitalista non può darsi sviluppo uniforme di tutte le singole imprese,  trust, rami d’industria, paesi, ecc. Mezzo secolo fa la Germania avrebbe fatto pietà se si fosse confrontata la sua potenza capitalista con quella dell’Inghilterra d’allora; e così  il Giappone rispetto alla Russia. Si può “immaginare” che nel corso di dieci o vent’anni i rapporti di forza tra le potenze imperialiste rimangano immutati? Assolutamente no» (1). 

In Afghanistan, come d’altra parte in Iraq, le potenze imperialistiche che stanno facendo la guerra contro i talebani, in realtà stanno saggiando le proprie differenze di forza in vista di guerre ben più impegnative per la nuova spartizione del mondo.

Oggi vediamo all’opera una coalizione imperialistica guidata dagli Usa che, sotto il vessillo della «lotta contro il terrorismo», si getta in avventure militari nei diversi continenti. E l’obiettivo vero è la conquista di sfere di influenza diverse da quelle precedenti: modificare gli equilibri precedenti per affermare, confermare e allargare il proprio dominio politico ed economico sulle diverse aree del mondo. Dunque la guerra è lo sbocco delle alleanze pacifiche, è lo sbocco necessario per modificare gli equilibri precedenti. E se la guerra è intesa come azione preventiva, lo è nella prospettive di ulteriori azioni, di dimensioni più estese, che  sono e saranno proiettate a cambiare profondamente gli equilibri imperialistici ereditati non solo dalla seconda guerra  mondiale ma anche dall’implosione dell’imperialismo russo.

In Afghanistan la coalizione americano-anglo-italo-spagnola non è andata per emancipare quel popolo dalla sua arretratezza economica e sociale, ma per impiantare dei fortini a difesa di interessi d’influenza politica ed economica relativi a tutta l’area dell’Asia centrale; e per contrastare altrettanti interessi da parte di paesi, come Russia, Cina e India, che in quell’area storicamente insistono e nella quale l’ingombrante presenza degli imperialismi anglosassoni ed europei prima o poi diventerà per loro intollerabile.

Nell’esempio citato Lenin parla della Germania e del Giappone che dal punto di vista capitalistico erano forze indignificanti solo cinquant’anni prima. Della Cina e dell’India di oggi possiamo dire la stessa cosa: cinquant’anni fa erano forze capitalisticamente insignificanti, oggi invece stanno diventando potenze che cominciano a far paura ai vecchi capitalismi occidentali proprio per il loro sviluppo che inevitabilmente vaa sempre più a scontrarsi con gli interessi imperialistici di Washington, di Londra, di Berlino, di Roma, di Parigi, di Madrid.

Gli interessi proletari sono non solo distanti, ma del tutto contrapposti a quelli che ogni borghesia imperialista nel proprio paese proclama  e diffonde a giustificazione delle sue avventure militari.

I governi formati da borghesi dichiarati, da socialdemocratici, e da falsi comunisti affittati da tempo alla politica di grande potenza del proprio paese, come in Italia, non possono che ribadire la politica estera imperialista che prevede azioni militari a supporto di movimenti diplomatici, economici e politici funzionali all’obiettivo di partecipare con altre potenze imperialiste, alla spartizione di zone di influenza in un modo che, dal punto di vista della concorrenza capitalistica, ormai è sempre più stretto.

L’uscita dell’Italia dall’Iraq ed invece la sua permanenza in Afghanistan non deve confondere. L’imperialismo italiano si è ritirato anzitempo dall’Iraq per una combinazione di fattori; per la potenzialità attuale di ritorsioni terroristiche in territorio italiano da parte delle organizzazioni della guerriglia irachena, per la difficile gestione del consenso interno di fronte ad ulteriori morti dopo Nassyiria, per la svelata falsità delle accuse di possesso di armamento di distruzione di massa da parte di Saddam Hussein e di suoi legami con Al Qaeda, per gli equilibri delicati con l’Iran sia dal punto di vista economico che politico (l’Italia è per l’Iran al quarto posto per le importazioni), per la stessa forza economica a diposizione (i costi della guerra in Iraq sono altissimi) che non consente all’imperialismo italiano di sostenere spedizioni militari all’estero oltre un certo limite di spesa.

Certo l’uscita dell’Italia dall’Iraq non è stato un voltare le spalle dell’imperialismo italiano a quello americano; è stata logicamente concordata, a fronte di altri favori (fra questi, ad esempio, l’allargamento della base di Vicenza?) e dell’assicurazione di non ritiraris dall’Afghanistan dove i 35.000 soldati Nato presenti si stanno dimostrando ben poca cosa per un controllo militare del territorio. Le manifestazioni dei pacifisti per l’uscita dell’Italia dall’Iraq hanno in realtà ottenuto un risultato che era già scritto nell’agenda dei governanti sotto Berlusconi prima, e sotto Prodi dopo; forse hanno contribuito ad accelerare i tempi del ritiro di qualche settimana.

La politica estera dell’imperialismo italiano è sottoposta in quest’ultimo periodo a pressioni di ogni tipo; dopo l’Iraq si è aperto il capitolo Afghanistan, e potrebbero aprirsi altri capitoli (di nuovo il Kossovo, il Libano, la Somalia). Il sequestro del giornalista italiano di “Repubblica”, Mastrogiacomo, nella zona di Kandahar ha in qualche misura riaperto le contraddizioni che la borghesia sta attraversando e che convergono tutte  verso una determinata “scelta”: stare nella coalizione imperialista anglo-americana secondo gli interessi della coalizione (e quindi secondo gli interessi dei più potenti Usa e Gran Bretagna), o secondo gli interessi nazionali? Gli interessi della coalizione sono collocati su di una prospettiva di lungo respiro, mentre quelli  strettamente nazionali sono collocati sulla contingenza,  più immediati che però possono mettere a rischio vantaggi futuri. E’ una questione di convenienza, ed è più in mano agli imperialismi più forti che non all’imperialismo italiano.

I proletari assistono impotenti, provenienti come sono da decenni di intossicazione nazionalpopolare. Il prestigio internazionale del Paese (con la P maiuscola, appunto) corrisponde al prestigio internazionale dell’imperialismo di casa; i benefici che ne possono derivare vanno tutti in tasca ai capitalisti che non si scompongono minimamente di fronte a centinaia e migliaia di morti civili provocati dai bombardamenti, ma che sono pronti a dimostrare sensibilità e a “fare di tutto” per “liberare” un sequestrato con passaporto italiano.

La disintossicazione dei proletari non sta nel pacifismo, e meno che mai nel parteggiare per uno dei due fronti borghesi che si combattono con mezzi e metodi ugualmente terroristici. Sta nel porsi sull’unico terreno che non sottomette gli interessi proletari agli interessi borghesi (e che i collaborazionisti di ogni colore propagandano come terreno “comune” a tutti i “cittadini” senza distinzione di classe): il terreno della lotta di classe, dove l’antagonismo che oppone materialmente e socialmente il proletariato alla borghesia è scoperto, dichiarato, riconosciuto, e sul quale il proletariato ha la possibilità reale di rafforzare le proprie fila, organizzarsi, difendersi dai costanti attacchi alle condizioni di vita e di lavoro.

La guerra che i borghesi imperialisti sono andati a fare in Iraq, in Afghanistan, e in tante altre parti del mondo, mandandoci truppe pagate per fare la guerra, è una guerra che pur nella sua forma locale ha le caratteristiche della guerra imperialistica mondiale: in ballo, come ricorda Lenin, sono le zone d’influenza, di interessi, di colonizzazione; sono fonti di materie prime, vie di comunicazione, nodi strategici di controllo, mercati di sbocco per merci e capitali. Guerre locali che coinvolgono sempre i proletari dei paesi attaccati o invasi, la cui sorte precede temporalmente quel che succederà anche ai proletari delle potenze imperialiste in una guerra mondiale. Ecco perché la miglior solidarietà da dare ai proletari di quei paesi è obbligare la “propria” borghesia imperialista a vedersela con i “propri”proletari nella lotta di classe. Lotta di classe che tende, nello stesso tempo, ad impegnare la propria borghesia in casa, allentando così la pressione imperialistica sui paesi più deboli, e a dimostrare con i fatti (dunque con la lotta) che i proletari del paese imperialista non condividono i benefici della propria borghesia imperialista - e quindi non partecipano allo sfruttamento dei proletari dei paesi più deboli - ma ne osteggiano le azioni e la politica.

La borghesia imperialista non può che avere una politica imperialista; ma questa politica, proprio perché la fanno le potenze che dominano il mercato mondiale, influenza inevitabilmente tutte le borghesie, anche quelle più deboli che, pur nei limiti in cui sono costrette a sopravvivere come classi sfruttatrici di lavoro salariato, adottano politiche, azioni, sistemi di potere legati più alla violenza brutale e al dispotismo che alla democrazia di cui si fregiano le borghesie imperialiste maggiori. Perciò i proletari dei paesi capitalisticamente più arretrati e deboli soffrono maggiormente la brutalità sia dei borghesi locali che delle borghesie imperialiste delle quali, talvolta, i borghesi locali, i “signori della guerra”, sono gli emissari pronti a “pacificare” le zone contese dalle diverse potenze anche con stragi immani, come in Congo, nel Darfur o nel Ruanda. E questi proletari non possono contare che sui proletari dei paesi imperialisti, dei paesi colonizzatori, gli unici che possono fermare la spirale mortale del cannibalismo capitalistico.

 


 

(1) Cfr Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, 1916, in Opere, Editori Riuniti, Roma, vol. 22, pagg. 294-295.

 

Partito comunista internazionale

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