Una sola via d’uscita al calvario delle masse  palestinesi:  la lotta proletaria di classe !

(«il comunista»; N° 105-106; Luglio / Ottobre 2007)

 

 

Negli ultimi mesi la situazione dei proletari e delle masse palestinesi si è ulteriormente aggravata, soprattutto nella fascia di Gaza, che è sottoposta a un vero e proprio blocco da parte di Israele che, da quando ha preso il potere Hamas, ha chiuso i principali punti di passaggio sia per le merci e le materie prime che per le persone. Lo scorso 9 agosto un responsabile dell’ufficio ONU per i rifugiati ha affermato che, qualora il blocco fosse continuato, l’economia della regione avrebbe rischiato il crollo.

Per quanto riguarda l’industria, l’80% delle imprese di Gaza è stato costretto a chiudere, lasciando sul lastrico più di 30.000 operai (il cui salario permetteva la sopravvivenza di una parte tutt’altro che trascurabile di una popolazione di circa 1.400.000 abitanti, dato che un solo salario dava da vivere a dieci persone); in particolare è stato colpito il settore tessile che vende più del 90% della sua produzione sul mercato israeliano. La quasi totalità degli operai giornalieri è stata licenziata, mentre sarebbero ancora al lavoro 5.000 operai (1). Le organizzazioni padronali hanno annunciato che se il blocco non fosse cessato sarebbero stati in  pericolo altri 120.000 posti di lavoro (2). Prima di questi ultimi avvenimenti, a Gaza il tasso di disoccupazione era già stimato intorno al 40% e quello di povertà a più del 70% della popolazione, mentre in condizioni di “estrema povertà” vive già il 42% degli abitanti (3).

Il soffocamento dell’economia palestinese trae origine dallo scontento dell’imperialismo americano e del suo procuratore regionale – Israele – nei confronti dell’Autorità Palestinese (AP) diretta da Al Fatah, il principale partito del fronte nazionalista OLP a capo del quale c’era Arafat. Insediata dall’imperialismo per porre fine alla lotta anticoloniale dei palestinesi, l’AP si è rivelata incapace di impedire gli atti di violenza della seconda Intifada (insurrezione).

Per impedire che la collera, la frustrazione e l’esasperazione di fronte a una situazione disperata sfociassero in movimenti incontrollati, Al Fatah e il suo rivale Hamas (e altre organizzazioni di minore importanza) hanno infatti assunto il controllo di questa Intifada orientando le energie combattive verso il micidiale vicolo cieco degli attentati suicidi contro i civili israeliani. Fondamentalmente si trattava di evitare quanto era accaduto in occasione della prima Intifada che, sorta in modo spontaneo, aveva poi assunto un carattere di massa; gli israeliani allora avevano faticato non poco a soffocarla, mentre gli islamisti, gli unici presenti sul luogo, si sforzavano per attrarre i giovani insorti. Ma per spingere i dirigenti palestinesi ad andare oltre e a far cessare gli attentati e ogni atto di guerriglia, gli imperialisti e gli israeliani, dopo aver aumentato le pressioni di tutti i generi, economiche e militari, i raid e gli assassini, hanno stabilito che erano necessarie le elezioni per rinnovare l’Autorità Palestinese.

Ma, al contrario di quanto sperato, a vincere le elezioni nel gennaio 2006 non sono state le correnti più «moderate»” – leggi: le più collaborazioniste – di Al Fatah, bensì Hamas! Le organizzazioni di sinistra e di «estrema sinistra» sono state anch’esse battute. Secondo un rappresentante del PPP (Partito del Popolo Palestinese, derivazione dal Partito comunista) il motivo di questa sconfitta risiede nel fatto che «la sinistra ha pagato i debiti di Al Fatah» (4). Rifiutando di votare i politici borghesi corrotti e incapaci di Al Fatah, gli elettori hanno anche respinto le organizzazioni di sinistra, membri dell’OLP, a differenza di Hamas, che venivano percepite come semplici appendici di Al Fatah. Nonostante il suo carattere politicamente reazionario, il suo programma di legalità e ordine (anche morale) rivolto agli strati borghesi, Hamas è riuscito a ottenere un seguito fra le masse venendo in aiuto ai diseredati e proclamando le sue intenzioni di lotta contro i corrotti e di resistenza nei confronti di Israele.

       Dal momento della vittoria elettorale di Hamas, i democratici americani e israeliani hanno apertamente dichiarato che avrebbero fatto di tutto per strangolare il nuovo governo. I democratici europei, così come gli alleati arabi degli Stati Uniti, hanno accettato senza batter ciglio di sospendere le loro sovvenzioni ai palestinesi (5), mentre lo Stato israeliano si appropriava delle somme dovute all’Autorità Palestinese, sequestrava dei ministri palestinesi e moltiplicava i micidiali raid militari: il Diritto internazionale, esattamente come la Democrazia, non è altro che polvere negli occhi nella giungla capitalistica mondiale, nella quale l’unico diritto che vale è il diritto del più forte.

In diverse dichiarazioni Hamas aveva lasciato intendere che avrebbe rinunciato al suo programma di distruzione dello Stato ebreo, di essere pronto a riconoscerlo e a cessare la lotta; ma, anche lasciando da parte i legami di Hamas con l’Iran, questo genere di dichiarazioni è del tutto insufficiente per Israele e i suoi compari imperialisti (e anche per Stati arabi come l’Egitto). A causa della minaccia potenziale della combattività espressa nei decenni passati dalle masse palestinesi, essi non intendono accettare alla testa dell’AP che una forza che abbia sicuramente la volontà e soprattutto la capacità di mantenere, anche con l’uso della forza, l’ordine imperialista a Gaza e in Cisgiordania. E’ per questo che hanno fatto deragliare i vari tentativi verso un governo di unione nazionale (6) e hanno spinto i loro uomini di fiducia all’interno di Al Fatah, a partire da Dahlan (capo delle forze di sicurezza dell’AP) a scontrarsi con Hamas, arrivando a fornire loro le armi.

Questo Dahlan, che ha una lunga storia di collaborazione con i servizi di sicurezza israeliani, è senza dubbio «l’uomo più odiato di Gaza»: è considerato responsabile di aver torturato e ucciso degli oppositori e di essersi arricchito attraverso loschi traffici. Per sfortuna sua e dei suoi mandanti, gli scontri armati si sono presto volti a suo svantaggio, in quanto una parte dei suoi uomini è passata ad Hamas, altri si sono dileguati mentre gli abitanti si rintanavano senza prendere parte per nessuno dei due campi; per simboleggiare la propria vittoria e accrescere la sua popolarità, Hamas ha abbandonato al saccheggio l’abitazione di Dahlan, la più ricca villa di Gaza! 

La vittoria militare di Hamas e il suo conseguente controllo di tutta la fascia di Gaza hanno avuto come conseguenza immediata la chiusura da parte del governo israeliano dei punti di passaggio verso questo territorio e il versamento di una parte degli stanziamenti a un nuovo governo anti-Hamas formato in fretta dal presidente palestinese Abbas. Questo gli ha permesso di versare per la prima volta un salario completo ai 150.000 funzionari palestinesi – tranne a quelli che erano stati assunti dal governo uscito dalle elezioni del 2006 (Hamas ha ribattuto con la promessa di garantire il salario a queste 10.000 persone).

Dal canto loro, l’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno dichiarato di voler porre fine alle sanzioni finanziarie imposte all’AP, per sostenere Abbas e i suoi seguaci di Fatah. Questi ultimi hanno chiesto a Israele l’autorizzazione ad importare in Cisgiordania del «materiale da combattimento» proveniente dalla Giordania e dall’Egitto: mitragliatrici, fucili d’assalto, jeep, veicoli blindati ecc. «per difendere Fatah da Hamas» (gli americani si incaricano della ristrutturazione delle forze di sicurezza palestinesi «affiliate a Fatah in Cisgiordania») (7). Il governo di Abbas ha anche chiesto a tutte le fazioni palestinesi di consegnare le armi. Inoltre il governo americano decideva alla fine di giugno di aumentare del 25% i suoi aiuti militari a Israele fino a raggiungere i 3 miliardi di dollari all’anno per dieci anni; avrebbe anche accettato di vendergli modernissimi aerei da combattimento e altre armi sofisticate.

Negli ultimi mesi Israele ha proseguito senza sosta la sua insidiosa politica di colonizzazione della Cisgiordania, mediante l’insediamento di colonie «illegali» ma con l’appoggio del governo, composte da migliaia di persone, mediante la costruzione del famoso «muro» che racchiude terre palestinesi, mediante la costruzione di «strade strategiche» che frammentano sempre più il territorio e il rosicchiamento continuo di Gerusalemme per scacciare gli abitanti arabi. Attualmente le colonie israeliane in cui vivono 240.000 coloni e le loro infrastrutture occupano il 40% del territorio della Cisgiordania, mentre i 2.400.000 di palestinesi sono pigiati nel restante 60%! Nello stesso tempo raid e attacchi di ogni tipo sono così continui, da non suscitare più alcuna eco sulla stampa internazionale, e ovviamente la benché minima protesta anche solo platonica da parte degli Stati imperialisti che dicono di lavorare per la «pace» in questa regione.

Nonostante ciò, l’appoggio a Israele, implicito o esplicito, si è rafforzato non solo da parte dei suoi tradizionali compari imperialisti, ma anche della maggioranza degli Stati arabi. L’Egitto aveva chiuso i suoi punti di passaggio verso la striscia di Gaza, bloccando alla frontiera più di 5.000 palestinesi. C’è voluto uno sciopero della fame di un centinaio di loro perché alla fine, dopo due mesi, venissero autorizzati a rientrare a casa. Nel frattempo una quarantina di loro, anziani o malati, sono morti…

In marzo l’Arabia Saudita aveva organizzato un vertice della Lega Araba che ha proposto un accordo di pace globale con Israele, in cui il diritto di rientro dei rifugiati palestinesi per la prima volta veniva abbandonato. I vertici israeliani hanno risposto con tante belle parole, affermando che la pace con i «nemici di Israele» non era possibile prima di 3-5 anni: l’importante per loro era che gli Stati arabi si preoccupassero sempre meno di appoggiare i palestinesi. Voci, ovviamente smentite da Ryad, parlavano di negoziati segreti fra Israele e Arabia Saudita, con i quali gli americani avrebbero stipulato grossi contratti riguardanti armamenti.

Il 2 agosto, durante una visita in Israele, Condoleezza Rice ha dichiarato che «nei Territori palestinesi c’è un governo devoto ai principi di base della pace e questa è un’occasione da non perdere» (essere devoti alla pace vuol dire non opporsi agli interessi e agli obiettivi imperialisti) e ha promesso 80 milioni di dollari ai «servizi di sicurezza palestinesi» di questo governo. La ministra degli Affari esteri israeliana, rispondendo che da parte sua «Israele non perderà questa occasione», spiegava di voler approfittare della situazione nei Territori per giungere «a un accordo con il governo moderato di Abbas» (essere moderati vuol dire sempre rinunciare alle proprie rivendicazioni). Americani e israeliani contano infatti sull’indebolimento di ciò che resta delle autorità palestinesi per fare accettare loro nuove concessioni nel quadro di un nuovo orientamento detto «Cisgiordania innanzitutto»: «rafforzare il potere di M. Abbas normalizzando le condizioni di vita in Cisgiordania lasciando che la situazione si degradi nella striscia di Gaza alle prese con Hamas» (8), fornendo a questo territorio solo un minimo di aiuti umanitari per diminuire i rischi di esplosione sociale.

 

Ne'  abbas  ne'  hamas  ne'  la  sinistra  nazionalista  sono  dalla  parte  dei  proletari !

 

Di fronte agli scontri tra Fatah e Hamas le cosiddette organizzazioni di sinistra sono state capaci di rispondere solo con appelli impotenti per la fine dei combattimenti e per il ritorno alla ragione (manifestazione del 14 giugno a Gaza organizzata da FPLP e FDLP). Queste organizzazioni, non essendo altro che la coda del nazionalismo, non possono andare al di là dell’«unità nazionale» in nome della… lotta contro il nemico israeliano (9).

L’unità nazionale non è altro che l’unità con le forze borghesi che hanno il dominio politico nell’Autorità Palestinese in quanto hanno il dominio economico.

Quello che conta per la borghesia palestinese è vedersi riconoscere l’amministrazione di un piccolo pezzo di terra dove poter sviluppare i propri affari, sfruttare i suoi proletari e accumulare tranquillamente i suoi profitti. Avendo ormai abbandonato il sogno di una grande Palestina, in realtà si è rassegnata da molto tempo ad accettare quanto proposto dagli israeliani e dai loro protettori imperialisti anche se la resistenza delle masse all’oppressione la costringe a recitare ancora la commedia della lotta nazionale. L’unità nazionale, aspirazione classica del piccolo borghese che teme gli scontri fra le classi, è per i proletari e per le masse oppresse la formula dell’impotenza a difendersi sia contro l’oppressore israeliano sia contro lo sfruttatore palestinese.

Questi appelli all’unità nazionale lanciati dalle organizzazioni nazionaliste «di sinistra» si sono prosaicamente trasformati in unità con… Fatah e il governo di Abbas. E così il 13 agosto, rispondendo a un appello di quest’ultimo, FPLP, FDLP e PPP hanno organizzato a Gaza insieme a Fatah una manifestazione di alcune centinaia di persone contro Hamas al grido di «Vogliamo l’unità del popolo!». Qualche giorno prima Nayef Hawatmeh, il vecchio capo storico del FDLP, un tempo denunciato e braccato dagli israeliani in quanto «pericoloso terrorista», era stato da loro autorizzato, per la prima volta, a recarsi in Cisgiordania: questo perché veniva in sostegno al presidente Abbas. Gli hanno anche permesso di rilasciare dichiarazioni alla televisione pubblica israeliana, nelle quali egli ha elogiato il collaborazionista Abbas e ha in definitiva legittimato la politica del governo israeliano criticandone solo l’incapacità ad «agire concretamente» per la pace… (11).

Le organizzazioni nazionaliste palestinesi, politicamente tutte borghesi, comprese le loro frange «di sinistra» completano così la propria traiettoria politica con la loro resa vergognosa, ma inevitabile, di fronte all’oppressione colonial-imperialista.

E’ sbagliato concludere da ciò, come fanno molti filopalestinesi, che oggi Hamas è un’organizzazione che incarna la lotta delle masse o che a queste si appoggia. Hamas è un’organizzazione tanto borghese quanto le differenti fazioni nazionaliste, solo più reazionaria. Nonostante i suoi discorsi, le sue affermazioni che non abbandonerà «la resistenza contro l’occupazione», Hamas aspira anch’esso a essere riconosciuto dall’imperialismo e da Israele. Dopo la sua vittoria a Gaza si è dichiarato più volte favorevole a un accordo con Abbas e al mantenimento del governo di unione nazionale, col programma dei più moderati. Si è ben guardato dall’estendere gli scontri alla Cisgiordania dov’era tuttavia, dal punto di vista sia elettorale che politico, il più forte. Ha dichiarato di essere pronto a riconoscere Israele in cambio del riconoscimento dei diritti dei palestinesi sui Territori occupati dopo la guerra del 1967 e della cessazione della colonizzazione. Ha proibito qualunque manifestazione. Come dimostrazione della sua capacità di mantenere l’ordine a Gaza, Hamas è riuscito a far liberare ai primi di luglio un giornalista inglese che da mesi era nelle mani di un clan mafioso che i servizi di sicurezza dell’AP non osavano affrontare (10).

Questo stato di servizio ha spinto alcuni personaggi politici di prestigio, come l’ex segretario di Stato americano Colin Powell, a perorare la causa del riconoscimento di Hamas e della fine del blocco per evitare che Gaza si trasformi in un focolaio di instabilità: essi non temono affatto che questa organizzazione sia la rappresentante della lotta delle masse, ma, al contrario, sono perfettamente coscienti che è forse la sola in grado di controllarle e di imporre loro il rispetto dell’ordine imperialista. Questa posizione è tuttavia minoritaria nell’ambiente dirigente americano a causa dei legami che Hamas ha ancora con l’Iran. D’altro canto la sua reale capacità di controllo sulla fascia di Gaza è ritenuta incerta.

Comunque sia, i proletari non possono accordare alcuna fiducia a un’ organizzazione che ha già mostrato il suo vero volto in occasione dello sciopero generale dei dipendenti  del pubblico impiego dello scorso autunno: per far fallire lo sciopero iniziato all’inizio di settembre, a cui ha aderito la maggior parte dei 150.000 lavoratori del settore pubblico, per esigere il pagamento dei salari, Hamas ha fatto ricorso non solo alla classica propaganda dell’unità nazionale di fronte al sionismo, ma all’intimidazione e alla repressione (licenziamento dei presunti «sobillatori»). Ciò nonostante lo sciopero ha resistito, punteggiato da manifestazioni e incendi delle sedi di Hamas. Il 14 gennaio è stato concluso un accordo: pagamento immediato di un mese di salario, pagamento scaglionato degli arretrati, pagamento delle spese di trasporto dei lavoratori durante lo sciopero, ritiro dei licenziamenti ecc. (12). In definitiva è stata una vittoria dei lavoratori contro un governo considerato inflessibile.

Il governo di Hamas ha adottato anche misure antisociali (tagli consistenti al budget della Sanità), mentre sulla questione dei diritti delle donne non aveva applicato il suo programma reazionario.

Oggi la situazione dei proletari e delle masse sfruttate precipitati in una crescente miseria, aggravata dalla crisi economica provocata dal blocco israeliano, è terribile. Sono stretti in una morsa fra la pressione imperialista esercitata dalle soldatesche israeliane e gli scontri fra organizzazioni borghesi rivali. Il loro alleato potenziale, il proletariato internazionale, paralizzato dalla collaborazione di classe, non è ancora in grado di fornire loro aiuto. La sola via d’uscita è tuttavia quella della lotta proletaria, della lotta di classe, anche a livello economico elementare di cui essi hanno già dato prova.

Spetta ai proletari degli altri paesi, a cominciare dai proletari delle grandi potenze imperialiste, di non lasciare i loro fratelli di classe palestinesi isolati e schiacciati. Essi hanno la possibilità di offrire loro non la carità, ma il solo aiuto realmente efficace: impegnandosi nella ripresa della lotta di classe, essi possono infatti indebolire il proprio imperialismo e far saltare la morsa che serra i proletari dei paesi dominati. Sarebbe un primo passo verso l’unificazione della lotta dei proletari di tutti i paesi per rovesciare il capitalismo mondiale.

Purtroppo questa prospettiva non è immediata; tuttavia è infinitamente più realista di tutte le prospettive presentate ai proletari e alle masse palestinesi da decenni e che sono riuscite solo ad aggravare sempre più la loro situazione. Finché essi non avranno la forza di rompere con queste prospettive borghesi per trovare la via della lotta e dell’organizzazione di classe le cose non cambieranno e il loro sangue scorrerà a esclusivo vantaggio delle classi nemiche.

Solidarietà di classe con i proletari e gli oppressi palestinesi!

Per la ripresa della lotta di classe e la rivoluzione comunista internazionale!

 


 

(1)   Cfr. “Financial Times”, 4-5 agosto 2007.

(2)   Secondo l’Association of Palestinian Businessmen. Cfr. “International Herald Tribune”, 10/8/2007.

(3)   Rapporto del PNUD (Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo), 17/7/2007. Si tratta di un’inchiesta svolta su circa 5.000 nuclei familiari palestinesi realizzata fra il 3 aprile e l’8 maggio 2007, quindi prima del blocco di Gaza e del suo crollo economico. (www.undp.ps).

(4)   Cfr. “L’Humanité”, 1/2/2007.

(5)   In effetti gli imperialisti europei, ben coscienti della necessità che le strutture statali rimangano in piedi per evitare l’esplosione dei Territori palestinesi, hanno in parte continuato a effettuare i loro versamenti, che normalmente servono a pagare i salari dei funzionari, e più precisamente dei poliziotti, mandando in cortocircuito il governo di Hamas.

(6)   Mustafa Barghuti, l’ex portavoce di questo governo che, secondo lui, comprendeva “i migliori leader democratici palestinesi, pacifisti e moderati”, constatava con amarezza: “Il governo  palestinese che Israele vuole è un governo di collaborazionisti che agiscano come suoi sicari”, e aggiungeva: ”Non l’otterranno mai”. Beh!, è da vedere… Cfr. « International Herald Tribune », 7-8 luglio 2007.

(7)   Gli israeliani sono reticenti alla loro consegna perché una parte dei 5.000 fucili d’assalto che dovevano giungere a Fatah per combattere Hamas sono finiti nelle mani di quest’ultimo! Cfr. “Haaretz”, 9/8/2007, tradotto in francese da ISM-France.

(8)   Cfr. “le Monde” , 20/6/2007.

(9)   Vedi il comunicato del FPLP del 25/6/2007, firmato da una sfilza di organizzazioni  neostaliniane arabe: «Il popolo palestinese ha bisogno oggi più che mai di rafforzare l’unità nazionale, di respingere la divisione e le lotte fratricide, per unire la patria e il popolo, legarsi ai suoi obiettivi nazionali e ai suoi diritti storici a uno Stato palestinese democratico», o quello del FPLP del 29/6/2007: «Chiamiamo l’insieme del nostro popolo, Fatah e Hamas, a un ritorno alla ragione e alla coscienza degli interessi nazionali. Chiamiamo il nostro popolo all’unità, alla coesione, al superamento delle ferite e delle sofferenze, attraverso la condanna delle soluzioni sanguinose e la riprovazione della logica insurrezionale da qualunque parte venga». Amen.

(10) Il portavoce di Hamas dichiarava di sperare che il messaggio della liberazione del giornalista «avrebbe raggiunto tutta l’Europa e i paesi arabi e islamici e avrebbe convinto i loro governi a trattare con Hamas». Cfr. “Financial Times”, 5/7/2007.

(11) Cfr. “El Moudjahid”, 10/8/2007.

(12) www.imemc.org, 14/1/2007.

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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