Sulla «questione nazionale palestinese»: sfumature che nascondono abissi

(«il comunista»; N° 107; Dicembre 2007 / Gennaio 2008)

 

La «questione palestinese», in generale, e la «questione nazionale palestinese», in particolare, sono sempre state intrecciate strettamente, tanto da apparire come una sola questione.  Dal punto di vista borghese sono, di fatto, una sola questione, anche se articolata in diverse «sotto-questioni»; dal punto di vista proletario, ossia dal punto di vista degli interessi di classe, e quindi, storici del proletariato, la questione si pone su piani diversi: della lotta della propria borghesia per l’indipendenza nazionale e dei rapporti con questa lotta; della propria lotta contro la borghesia sul piano immediato ed economico; della propria lotta di classe e dei rapporti col proletariato delle  nazionalità dalle quali i palestinesi subiscono l’oppressione salariale e l’oppressione nazionale – israeliana in particolare -; del legame con la lotta proletaria dei paesi capitalistici più avanzati al cui imperialismo sono vincolate, a vario titolo, tutte le classi borghesi della regione; della prospettiva rivoluzionaria e comunista nella quale il proletariato palestinese è storicamente inserito. La «questione» è, dunque, molto più complicata di quel che la visione borghese tende a far credere. Ed è questa complicatezza che arrovella da sempre i rivoluzionari e che trova risposte adeguate solo nel maneggio della dialettica marxista, come Lenin ci ha insegnato.

 

Torniamo a Lenin

 

Lenin, in uno dei suoi molteplici scritti sulla questione dell’«autodecisione dei popoli» (1), precisa quanto segue, a proposito della lotta di liberazione delle piccole nazioni: «L’importante non consiste nel sapere se prima della rivoluzione socialista si libererà un cinquantesimo o un centesimo delle piccole nazioni, ma ciò che importa è che il proletariato, nell’epoca imperialista, per ragioni obiettive, si è diviso in due campi internazionali, dei quali l’uno è corrotto dalle briciole che cadono dalla tavola della borghesia delle grandi potenze – tra l’altro, anche come risultato del duplice o triplice sfruttamento delle piccole nazioni – e l’altro non può non può liberare se stesso senza liberare le piccole nazioni, senza educare le masse nello spirito antisciovinista, cioè antiannessionista, cioè nello spirito dell’”autodecisione”». I comunisti perciò devono tener conto di questa divisione del proletariato, del proletariato delle grandi potenze e delle nazioni che opprimono altri popoli, e del proletariato delle nazioni oppresse (colonie, semicolonie o semplicemente nazioni oppresse all’interno dello stesso territorio della nazione opprimente).

Una posizione che spesso caratterizza gruppi che si definiscono rivoluzionari e comunisti sostiene che in epoca imperialista le rivendicazioni della democrazia politica sono ormai irrealizzabili, e che perciò, le rivendicazioni dell’autodecisione dei popoli, della loro autodeterminazione, della loro separazione politica, non hanno più alcun senso, non sono più attuali, perché l’imperialismo è talmente forte da non permettere tale realizzazione oppure da condizionarla a tal punto da renderla del tutto incompleta e monca; questi gruppi di solito concludono il ragionamento sostenendo che i comunisti non devono più perdere tempo ed energie nel sostenere ad esempio la rivendicazione democratica del diritto alla separazione politica delle piccole nazioni, ma convogliarle nella propaganda della sola rivoluzione proletaria e nella dittatura di classe che, ovviamente, non possono essere che mondiali. E se si imbattono nelle tesi sostenute da Lenin su questa questione non hanno altra via che quella di confinarle in una situazione storica ormai «superata», trattandole da tesi non più valide in quanto lo sviluppo generale dell’imperialismo avrebbe cambiato completamente il quadro storico che abbiamo di fronte e che Lenin non aveva «previsto». Confermando in questo modo che gli aggiornatori del marxismo non muoiono mai e che i marxisti non possono mai smettere di combattere contro il loro opportunismo, mascherato spesso da purismo e da rivoluzionarismo della frase.

Ma Lenin, da marxista conseguente com’era, maneggia la dialettica come pochi altri. Leggiamo ancora qualche suo brano: «La rivoluzione socialista non è un atto isolato, una battaglia isolata su un solo fronte, ma tutta un’epoca di acuti conflitti di classe, una lunga serie di battaglie su tutti i fronti, cioè su tutte le questioni dell’economia e della politica, battaglie che possono terminare soltanto con l’espropriazione della borghesia. Sarebbe radicalmente errato pensare che la lotta per la democrazia possa distogliere il proletariato dalla rivoluzione socialista, oppure farla dimenticare, oscurarla, ecc. Al contrario, come il socialismo non può essere vittorioso senza attuare una piena democrazia, così il proletariato non può prepararsi alla vittoria sulla borghesia senza condurre in tutti i modi una lotta conseguente e rivoluzionaria per la democrazia». Noi sappiamo bene che nei novant’anni passati dal 1916, da quando cioè Lenin scriveva questo, il termine democrazia ha assunto un significato particolarmente odioso per tutti i comunisti rivoluzionari, visto che in suo nome si è svolta la controrivoluzione più bestiale che il movimento proletario e comunista internazionale abbia mai conosciuto. Ma qui dobbiamo essere capaci di interpretare lo spirito di quel che scrive Lenin, e non fermarci alla lettera. La sua visione è sempre mondiale, comprende i paesi capitalistici avanzati ed imperialisti e i paesi capitalisticamente arretrati, le colonie, le semicolonie e le nazioni oppresse; comprende perciò il proletariato mondiale suddiviso nei due campi ricordati sopra, il proletariato dei paesi capitalisti avanzati ed oppressori ed il proletariato dei paesi oppressi, campi nei quali – per ragioni storiche determinate – il compito del proletariato, pur rimanendo storicamente lo stesso (abbattimento rivoluzionario della borghesia e del suo potere, instaurazione della dittatura proletaria, rivoluzione internazionale, trasformazione della società da capitalista a socialista aprendole così la via verso il comunismo integrale), deve esser perseguito con tattiche differenziate ma convergenti, tattiche che tengano conto degli esistenti rapporti di forza fra le classi, dell’evoluzione economica e politica dei diversi paesi, degli ostacoli costituiti da tradizioni, pregiudizi, abitudini persistenti, dello sviluppo della lotta di classe e della rivoluzione proletaria, ecc. Dunque, tattiche che tengano conto non solo dell’obiettivo finale ma anche dei passaggi obbligati nelle differenti aree geostoriche in cui la lotta proletaria necessariamente è inserita, come ad esempio il problema dell’oppressione nazionale da parte di alcune nazioni sulle altre. La storia dello sviluppo del capitalismo nel mondo ci dice che questo sviluppo ha proceduto per stadi ineguali, attraverso i quali se da un lato esso ha soppiantato completamente i modi di produzione precapitalistici, ha però da un altro lato mantenuto nell’arretratezza sociale e politica la più grande maggioranza dei popoli del mondo, arretratezza che ha permesso – e permette - alle grandi potenze capitalistiche lo sfruttamento più bestiale di quei popoli. Tutto questo non è terminato con gli anni Venti del secolo scorso, e tanto meno è terminato con la fine della seconda guerra imperialista, anche se alcuni dei grandi paesi semicoloniali di allora (Cina, India, Persia, Turchia ecc.) si sono resi politicamente indipendenti dalle potenze imperialiste che li dominavano. Ma Lenin, nella polemica con i contraddittori di allora sulle parole d’ordine del diritto alla separazione politica delle nazioni oppresse, leggeva anche gli argomenti dei contraddittori di oggi. Infatti più volte Lenin deve riprendere l’esempio della Norvegia e della Svezia – due paesi capitalistici non arretrati – per spiegare la tattica comunista rivoluzionaria sulla questione «nazionale», come d’altra parte aveva già usato l’esempio dell’Irlanda e dell’Inghilterra. La Svezia era il paese oppressore, la Norvegia il paese oppresso; i proletari svedesi nella loro lotta di classe contro la propria borghesia dovevano lottare anche perché questa concedesse la libertà di separazione ai norvegesi; i proletari norvegesi, da parte loro, dovevano lottare non solo contro l’oppressione salariale ma anche contro l’oppressione nazionale, e su questo piano lottavano per una rivendicazione condivisa dalla borghesia e dalla piccola borghesia norvegese, in pratica su questo piano lottavano insieme, ma il loro partito proletario doveva mantenere – e qui Lenin è chiarissimo – l’indipendenza politica e organizzativa in quanto la lotta proletaria non si esauriva una volta che la Norvegia avesse ottenuta la separazione dalla Svezia, ma avrebbe continuato contro la borghesia norvegese per gli obiettivi ormai esclusivamente proletari. D’altronde, l’esempio della Norvegia e Svezia mette in evidenza che la questione nazionale, la questione dell’autodecisione, del diritto alla separazione politica delle nazioni oppresse dalle nazioni opprimenti, si pone anche se all’ordine del giorno non vi è più il rivoluzionamento del modo di produzione dal vecchio al nuovo e capitalistico, ma si pone solo sul terreno, appunto politico, dunque a modo di produzione già capitalistico.

All’epoca si era già in fase imperialista dello sviluppo del capitalismo, e si trattava di due nazioni civili, sviluppate, ma il problema della democrazia politica era ancora irrisolto. Questo fa dire a Lenin, da un lato, che «nessuna riforma nel campo della democrazia politica può eliminare il dominio del capitale finanziario, come del capitale in generale, e l’autodecisione si riferisce completamente ed esclusivamente a questo campo», e che «questo dominio del capitale finanziario non distrugge affatto l’importanza della democrazia politica come forma più libera, più ampia e più chiara dell’oppressione di classe e della lotta di classe» (le sottolineature sono di Lenin) (2). Il solo esempio della separazione della Norvegia dalla Svezia nel 1905 basta per confutare l’irrealizzabilità del diritto di autodecisione, e Lenin precisa: nel senso politico, relativo. Dall’altro lato, fa dire a Lenin, sempre a proposito dell’irrealizzabilità di una rivendicazione della democrazia politica come quella dell’autodecisione, che «non soltanto il diritto delle nazioni all’autodecisione, ma tutte le rivendicazioni essenziali della democrazia politica sono “realizzabili” nell’epoca imperialista soltanto in modo incompleto, deformato e in via di rara eccezione (per esempio: la separazione della Norvegia dalla Svezia nel 1905)» (sottolineatura sempre di Lenin). A che conclusione giungere, dunque? Da questo non deriva affatto che il partito comunista rivoluzionario (nel 1916 si usava ancora il termine socialdemocrazia per indicare il partito comunista rivoluzionario) «dovrebbe rinunciare alla lotta immediata e decisa per tutte queste rivendicazioni (facendolo, farebbe soltanto il giuoco della borghesia e della reazione); deriva appunto, invece, che essa deve formulare e porre tutte queste rivendicazioni in modo rivoluzionario e non riformista, non limitandosi al quadro della legalità borghese, ma spezzandolo; non accontentandosi dei discorsi parlamentari e delle proteste verbali, ma attirando le masse alla lotta attiva, allargando e rinfocolando la lotta per ogni rivendicazione democratica fondamentale sino all’attacco diretto del proletariato contro la borghesia, cioè sino alla rivoluzione socialista che espropria la borghesia».

Forse che con questa tattica, dando questa importanza alle rivendicazioni fondamentali della democrazia politica, ci si allontana dalla lotta per il fine del socialismo? Per nulla. Facendo un parallelo, nella visione tattica generale del partito proletario, tra la questione «nazionale» e la questione «sindacale» (sapendo bene che sono due questioni molto diverse dato che nell’una sono coinvolte tutte le classi di una nazione, mentre nell’altra ci si riferisce esclusivamente alla classe dei proletari), come nel caso della lotta economica immediata i comunisti sostengono la  lotta proletaria più dura e allargata possibile per aumentare il salario, ma il fine del socialismo è l’abolizione del lavoro salariato, così nel caso della lotta immediata e decisa per l’autodecisione delle nazioni oppresse i comunisti sostengono questa lotta sapendo che il fine del socialismo è la fusione di tutte le nazioni del mondo. Riprendiamo Lenin: «Come l’umanità non può giungere all’abolizione delle classi se non attraverso un periodo transitorio di dittatura della classe oppressa, così non può giungere all’inevitabile fusione delle nazioni se non attraverso un periodo transitorio di completa liberazione di tutte le nazioni oppresse, cioè di libertà di separazione» (3). L’importante, per i comunisti rivoluzionari, non è soltanto il tipo di rivendicazione per la quale il proletariato lotta e deve lottare, ma è il tipo di lotta che i proletari fanno per ottenere quelle rivendicazioni: lotta decisa, dura, il più allargata possibile, svolta con metodi e mezzi classisti e rivoluzionari; appunto, lotta non riformista, non pacifica, non limitata nel quadro della legalità borghese!

 

La   rivoluzione   borghese mancata

 

La vicenda storica che ha posto, durante la prima guerra imperialista mondiale, nel 1917 – ossia con il crollo dell’impero ottomano – il potenziale svolgimento della rivoluzione nazionale borghese in Palestina, come in tutti i territori del Medio Oriente sottoposti un tempo all’impero ottomano, e la sua potenziale soluzione, non è stata colta dalla borghesia palestinese, né dalle borghesie arabe dei territori mediorientali. Il potenziale collegamento con la rivoluzione russa – quella borghese, prima,  quella bolscevica, dopo – che avrebbe potuto innestare un movimento rivoluzionario anche nel Medio Oriente mettendo ancor più in difficoltà il controllo mondiale delle potenze imperialiste, non avvenne; e, quindi, lo Stato nazionale borghese e indipendente, in Palestina, non vide la luce. A quel tempo, in Palestina, gli ebrei erano un’infima minoranza, non superavano le 60.000 unità, e non costituivano un «problema» per i palestinesi; il vero problema era costituito dall’Inghilterra, potenza imperialista di prima grandezza contro la quale la borghesia palestinese,  e le borghesie arabe in genere, avrebbero dovuto scatenare la propria rivoluzione nazionale; ma non ne ebbero la forza e nemmeno la volontà. Lo Stato nazionale borghese di Palestina non vide la luce nemmeno in successive occasioni storiche, come ad esempio nel 1948-49, in seguito alla seconda guerra imperialista mondiale, quando la borghesia palestinese avrebbe avuto l’occasione di guidare il suo popolo contro l’imperialismo anglo-francese – all’epoca padrone della regione mediorientale – conducendo la propria rivoluzione alla cinese; o,  successivamente, in concomitanza della crisi di Suez, nel 1956, o della prima guerra arabo-israeliana nel 1967. Nulla di fatto. La potenzialità nazionalrivoluzionaria della borghesia palestinese non si espresse mai, in nessuna delle molteplici occasioni storiche che si presentarono, nemmeno nell’ultimissima occasione determinata dalla crisi petrolifera del 1973 con la quale le maggiori potenze imperialistiche subirono una fortissima scossa che portò alla prima grande crisi capitalistica internazionale, quella del 1975, di cui invece ne approfittò la borghesia, pur debole economicamente e politicamente, in Angola e in Mozambico. Per questa ragione noi qualificammo la nazione palestinese come nazione fottuta: fottuta dalla sua classe borghese, innanzitutto, dimostratasi del tutto incapace di un movimento nazionale indipendente, e dalla storia, consegnando così il problema «nazionale» irrisolto alla classe del proletariato, l’unica classe che con la propria lotta antiborghese ed anticapitalistica aveva, ed avrà, la possibilità di risolverlo. Date le vicende storiche, infatti, la soluzione di questo problema non può che corrispondere ad una lotta rivoluzionaria che non avrà alcuna caratteristica storicamente ibrida – nazionalrivoluzionaria borghese e, al contempo, rivoluzionariaproletaria, come avvenne in Russia nel 1917 – ma sarà semplicemente, dichiaratamente e nettamente proletaria e comunista: perciò solo e soltanto antiborghese e antinazionale.

La dialettica storica pone il proletariato, in quanto unica classe rivoluzionaria, nelle condizioni di ereditare – fra i vari problemi sociali e politici irrisolti dalle classi borghesi – anche la questione nazionale in tutti i paesi in cui permane come questione critica, come espressione del raddoppio d’oppressione che la classe borghese esercita in particolare sul proletariato, ma non solo, dato che l’oppressione nazionale da parte di una borghesia più forte riguarda anche gli strati borghesi e piccolo-borghesi delle popolazioni sottomesse, e ciò riguarda anche la popolazione palestinese.

Dal punto di vista del proletariato palestinese è evidente che esso subisce, insieme all’oppressione salariale anche l’oppressione nazionale, da parte della borghesia israeliana, innanzitutto, e da parte delle borghesie degli altri paesi – arabe, ma anche non arabe, a seconda di dove i proletari palestinesi si sono rifugiati o sono emigrati per sopravvivere. La lotta che il proletariato palestinese fa per la pura sopravvivenza quotidiana si intreccia inevitabilmente con la lotta contro l’oppressione nazionale di cui subisce le più dure conseguenze. Il fatto che il problema nazionale sia stato del tutto disatteso dalla borghesia palestinese non cancella le sue conseguenze sulla vita delle masse proletarie e diseredate palestinesi; dal punto di vista della vita quotidiana, invece, le aggrava. D’altra parte, le vicende storiche non hanno favorito uno sbocco rivoluzionario di segno proletario nel tormentatissimo Medio Oriente, e quindi nemmeno in Palestina, come non lo hanno favorito in nessuna parte del mondo. La distruzione dell’Internazionale Comunista, la deviazione opportunista di tutti i partiti che vi aderivano, la vittoria internazionale della controrivoluzione staliniana, l’eliminazione e la dispersione delle poche forze rivoluzionarie comuniste conseguenti, hanno segnato un micidiale indietreggiamento del proletariato mondiale addirittura dalla sua elementare lotta immediata di difesa delle condizioni di vita e di lavoro. Dal proletariato palestinese non ci si poteva certo attendere quello che neanche i proletariati con una lunga tradizione di lotta classista e rivoluzionaria – come quello tedesco o italiano – sono stati in grado di fare nel corso di sviluppo del loro movimento: l’assalto al cielo, la conquista del potere politico abbattendo la borghesia e dando così l’avvio ad una nuova epoca rivoluzionaria mondiale. Questo, in verità, se lo attendevano anche compagni del nostro partito di ieri, sbagliando platealmente la valutazione storica delle forze in campo, quando contavano sui gruppi politici della sinistra dell’Olp per l’innesto della rivoluzione proletaria nel Medio Oriente sul movimento nazionalrivoluzionario dei combattenti palestinesi. La tremenda sbandata presa dal nostro partito di ieri prese sulla questione “palestinese”, che portò alla crisi generale del partito nel 1982-84, chiedeva di essere analizzata, compresa e superata grazie ad un profondo lavoro di bilancio della crisi e di riconquista del patrimonio di battaglie di classe che il partito aveva costruito nei decenni precedenti. Lavoro di bilancio che, al di fuori della nostra componente, le altre componenti in cui il partito si è allora frazionato non hanno mai fatto o voluto fare, come ad esempio il nuovo «programma comunista».

 

Proletariato   e   problema «nazionale»

 

Dire – come fa l’attuale «programma comunista» (n.4 del 2007) in un articolo intitolato: Esiste ancora una “questione nazionale palestinese”? – che per il proletariato palestinese «non si pone più oggi alcun “problema nazionale”, di sistemazione nazionale o di autodeterminazione nazionale» è come dire che contro l’oppressione nazionale che il proletariato palestinese subisce quotidianamente, esso non deve opporre alcuna resistenza, non deve combatterla, deve subire in silenzio, …porre l’altra guancia! Ed è pura demagogia porre la questione, subito dopo, in questi termini: «ovvero, se ancora si pone, non lo riguarda e non è risolvibile dal solo proletariato palestinese, ma è un problema di tutto il proletariato arabo e mondiale», come dire che se mai il proletariato si dovesse porre il problema «nazionale palestinese» dovrebbe porselo solo come proletariato di tutti i paesi arabi, non solo, di più, di tutto il mondo! Insomma, si chiede al proletariato palestinese, che è direttamente colpito dall’oppressione nazionale, di stare fermo, di non lottare per l’autodeterminazione nazionale, perché lotterebbe per una rivendicazione borghese che è data comunque per irrealizzabile; mentre si chiede a tutto il proletariato arabo, anzi a tutto il proletariato mondiale, di occuparsi e risolvere il «problema nazionale palestinese»!  Che fine ha fatto la fondamentale posizione marxista che dice: Sostegno incondizionato nei confronti della lotta contro ogni oppressione? Dire che il problema dell’autodecisione è un problema che riguarda il «proletariato mondiale», e negare nello stesso tempo che sia un problema per il proletariato della nazione oppressa, corrisponde a negare che il proletariato abbia il compito storico di lottare contro ogni oppressione di classe, e ad indicare al proletariato della nazione oppressa che la sua condanna all’oppressione potrà essere sospesa soltanto se la nazione opprimente deciderà di condonarla, o se, e quando, il proletariato della nazione opprimente, rompendo con la propria borghesia, lotterà perché alla nazione oppressa sia concessa la libertà della separazione politica. E’, questa, una posizione che assomiglia molto a quella che Plekhanov prese verso il proletariato nei riguardi della rivoluzione russa: egli sosteneva che, essendo all’ordine del giorno della Russia compiti borghesi di abbattimento dello zarismo e di sviluppo del modo di produzione capitalistico, doveva essere la borghesia a prendersi a carico questi compiti, mentre il proletariato avrebbe dovuto pensare esclusivamente ai propri fini socialisti; e siccome il socialismo si può realizzare solo in una società a capitalismo sviluppato, la rivoluzione nazionale borghese in Russia non doveva interessare al proletariato. Lenin dimostrò che il proletariato russo poteva e doveva prendersi a carico non solo i compiti della propria rivoluzione di classe, ma anche quelli della rivoluzione borghese che la borghesia russa era incapace di condurre in modo deciso mentre continuava a gettarlo nel massacro dei fronti di guerra.                

Il problema della «sistemazione nazionale», con tanto di Stato nazionale palestinese indipendente, non è il problema del proletariato nel senso che non è l’obiettivo principale della sua lotta; non lo era nel lontano 1917 e non lo era, tantomeno, nei decenni successivi. Di fatto, nei novant’anni passati dal 1917, la stessa borghesia palestinese ha dimostrato sistematicamente che non è mai stato nemmeno per lei, anche se storicamente era la più interessata, il problema principale, nonostante declamasse nei suoi programmi addiruttura «la distruzione di Israele». Essa ha ottenuto comunque privilegi e salvaguardia dei propri interessi, ora per una sua frazione ora per un’altra, affittandosi di volta in volta a poteri più forti regionalmente e internazionalmente, cooperando con le altre borghesie non palestinesi all’oppressione del proprio proletariato, massacrandolo di lavoro e reprimendolo nel groviglio di faide che ha caratterizzato per molti decenni – e ancora oggi caratterizza, come negli scontri armati fra Al Fatah e Hamas – la lenta agonia della «nazione palestinese», e nel quale groviglio ci andavano di mezzo anche strati borghesi e piccolo-borghesi. La «sistemazione nazionale» avrebbe potuto, però, essere definita anche in mancanza di una vera rivoluzione borghese palestinese, ossia per mezzo di accordi fra borghesia palestinese, borghesia israeliana e altre potenze imperialistiche che, per una loro convenienza politica e contingente, avrebbero potuto fare concessioni in questo senso, come d’altra parte avvenne in tante altre situazioni. Di proclami da parte degli imperialisti americani e europei sulla formaione di uno Stato palestinese se ne sono sentiti parecchi, ma la Palestina non c’è e se mai ci sarà avrà la forma di un Bantustan e il contenuto di una prigione.

L’«autodeterminazione nazionale» è, invece, concetto politico più complesso perché coinvolge più direttamente il proletariato come forza attiva nell’ambito della sua lotta nazionale. Essa può diventare rivendicazione anche per il proletariato ma nell’ambito di una lotta armata contro l’oppressore «straniero» e nella più netta indipendenza politica e militare delle forze proletarie dalle forze borghesi e piccolo-borghesi (insomma, nel senso che ne dava Lenin), e che – in condizioni storiche favorevoli alla lotta rivoluzionaria proletaria per la sua rivoluzione di classe – può trascrescere, dialetticamente, nella lotta rivoluzionaria per la dittatura proletaria al di là dei confini territoriali che le classi dominanti borghesi hanno segnato secondo i loro reciproci rapporti di forza economica e militare. A Lenin, e ad ogni rivoluzionario comunista conseguente, importava non l’obiettivo in sé dell’autodeterminazione nazionale, o del diritto alla separazione nazionale, che sono obiettivi borghesi, ma la lotta per conseguire quell’obiettivo; lotta nella quale si sarebbe dimostrato che i proletari della nazione oppressa potevano superare i limiti «nazionali» della loro lotta e delle loro rivendicazioni – politicamente e militarmente – grazie all’apporto della lotta che i proletari della nazione opprimente avrebbero fatto contro la propria  borghesia affinché concedesse, appunto, il diritto alla separazione della nazionalità oppressa. Soltanto in questa lotta che presentava una duplice faccia: quella della nazione oppressa e quella della nazione opprimente, i proletari delle due nazionalità diverse avrebbero potuto riconoscersi come fratelli di classe, come una sola classe che doveva combattere ognuno contro la propria borghesia, sebbene – in una prima fase della lotta – per motivazioni diverse.

I proletari della nazionalità oppressa, per non soccombere sotto il peso dell’oppressione nazionale, combattono contro la classe borghese opprimente anche per la propria borghesia e per gli strati della propria piccola-borghesia; e per non soccombere sotto il peso dell’oppressione economica e salariale, devono combattere contro la propria classe borghese che diventa dominante grazie, appunto, alla loro partecipazione attiva alla lotta nazionalrivoluzionaria di «liberazione nazionale».

I proletari della nazionalità opprimente hanno anch’essi un problema in più perché le loro condizioni economiche e salariali non solo dipendono, come per tutti i proletari del mondo, dai rapporti di produzione e sociali capitalistici, ma sono in questo caso integrate da piccoli privilegi, miglioramenti, ammortizzatori sociali, garanzie sul piano economico e sociale che la borghesia dominante della nazione opprimente concede ai propri proletari grazie al supersfruttamento dei proletari delle nazioni oppresse. Lottare, quindi, perché la propria borghesia conceda il diritto alla separazione della nazionalità oppressa è, di fatto, lottare contro il raddoppio dell’oppressione borghese; è lotta di classe, certamente, che mette in evidenza che la classe borghese vive esclusivamente di oppressioni e di ingiustizie grazie alle quali accumula profitti, privilegi e ricchezze. Un proletariato che non lotta contro l’oppressione nazionale che la propria borghesia attua nei confronti di altre popolazioni è un proletariato che non combatterà mai per la propria emancipazione (Marx), un proletariato al servizio della conservazione sociale, uno schiavo che vive sulla schiavitù degli altri proletari.

L’attuale «programma comunista» sostiene che il «problema nazionale» è un problema che non riguarda il proletariato palestinese, ma, se proprio lo si vuol porre, riguarda tutto il proletariato mondiale, e che «come tale» può essere «affrontato e risolto nella prospettiva della lotta e della dittatura del proletariato mondiale contro tutte le borghesie e i loro apparati statali». In pratica si dice ai proletari palestinesi che si ribellano e che combattono, anche a mani nude, contro la borghesia israeliana e contro anche la propria borghesia corrotta e poliziesca, di lasciar perdere, di sopportare vessazioni, soprusi, oppressione, repressione, rappresaglie, uccisioni, case demolite, campi rubati o distrutti, in pacifica attesa «della lotta e della dittatura del proletariato mondiale contro tutte le borghesie e i loro apparati statali». Visione tattica davvero geniale! Ma non è tutto. Forse temendo di essere accusati di indifferentismo, gli attuali «programmisti» se ne escono con una trovata dell’ultima ora: «La rivendicazione dell’autodeterminazione palestinese si può porre ancora utilmente (cioè dal punto di vista dello sviluppo della lotta di classe nell’area) solo ed esclusivamente per ciò che riguarda il proletariato israeliano (che deve così dimostrare, nei fatti, ai proletari palestinesi, di voler lottare contro la propria borghesia anche su questo terreno)» - le sottolineature sono del testo originale. Si sottolinea subito dopo che tale rivendicazione servirebbe non a dare slancio al movimento nazionale palestinese, ma «solo come atteggiamento tattico disfattista contro la propria borghesia, per accrescere la fiducia del proletariato palestinese nei confronti di quello israeliano, considerato altrimenti complice dei misfatti della propria borghesia» - sottolineatura nel testo originale.

Come se in tutti i decenni passati dalla costituzione dello Stato di Israele nel 1948, quando l’Onu decretò in una sua risoluzione che la Palestina fosse divisa in due stati, uno arabo e uno ebraico (risoluzione mai accettata dagli arabi), il proletariato israeliano non avesse mai avuto occasione di dimostrare, con la lotta, la sua opposizione all’oppressione sui palestinesi attuata dalla propria borghesia.

In realtà il proletariato israeliano ha nei fatti dimostrato, per sessant’anni, di essere complice della propria borghesia, delle sue ambizioni territoriali e dei suoi massacri. Quanti altri massacri di palestinesi ci vogliono perché i proletari israeliani alzino la testa e combattano contro la propria borghesia? Se le vicende storiche ci fanno dire che la nazione palestinese è fottuta, ci fanno anche dire che il proletariato israeliano, paralizzato com’è da decenni sulla più vergognosa collaborazione di classe, è fottuto. E’ da un proletariato che vive da generazioni in simbiosi con una borghesia che giustifica ogni sua nefandezza con la storia di un popolo vittima predestinata alla diaspora, ai pogrom, alle persecuzioni razziali e all’olocausto, e che non ha mai alzato un dito in difesa dei proletari e dei diseredati palestinesi oppressi e massacrati dalla propria borghesia ebraica e sionista, che gli attuali «programmisti» si attendono il sostegno della rivendicazione dell’autodeterminazione nazionale palestinese? Un sostegno con quale arma: la petizione parlamentare, la marcia pacifista, la raccolta di firme? Per avere un «atteggiamento tattico disfattista contro la propria borghesia», come sostengono gli attuali «programmisti», il proletariato israeliano dovrebbe poter contare, come minimo, su un partito comunista rivoluzionario esistente ed operante in Israele, organizzato sulla base del programma del comunismo rivoluzionario e che si muove su linee tattiche ben definite e in grado di esprimere atteggiamenti tattici coerenti con la lotta contro la propria borghesia su tutti i piani, quindi anche su quello del disfattismo rivoluzionario che si concretizzerebbe nella lotta fianco a fianco con i proletari palestinesi contro la borghesia israeliana. Ma quel partito laggiù non c’è, quel programma non è conosciuto, quella tattica meno ancora. Su che cosa dovrebbero contare i proletari palestinesi se non sulla propria spinta a lottare nonostante i massacri, le vessazioni, i soprusi, le faide scatenate le une contro le altre da frazioni borghesi che si contendono le poche briciole che Israele e i vari paesi imperialisti lasciano cadere nei loro territori?

Noi, che ci definiamo comunisti rivoluzionari, anche se la nostra voce è ridottissima e la nostra propaganda oggi non giunge in Palestina, abbiamo il dovere di non nascondere la realtà ai proletari, in qualsiasi paese siano nati e lottino per sopravvivere, tanto più se subiscono le conseguenze più dure dell’oppressione nazionale, come appunto i palestinesi. Abbiamo il dovere di esprimere, sempree, prima di tutto, la più decisa solidarietà con la loro lotta non nascondendo che gli obiettivi per i quali i proletari lottano o sono inseriti in un programma rivoluzionario di classe o condannano la lotta proletaria alla sconfitta, anche nel caso vincesse la lotta per l’indipendenza nazionale. La realtà è che la lotta contro l’oppressione nazionale, soprattutto quando questa oppressione è particolarmente dura e cinica, assorbe costantemente le energie che i proletari dovrebbero utilizzare nella propria lotta di difesa sul terreno economico, e confonde gli interessi di lotta esclusivamente proletari con quelli di identità nazionale (se non addirittura religiosa) che sono avanzati dalla borghesia e dalla piccola borghesia. Ma la lotta contro l’oppressione nazionale, e quindi per l’autodecisione, non porta necessariamente alla costituzione di uno Stato nazionale  palestinese politicamente indipendente, tanto meno se questo Stato è territorialmente spezzettato e disunito. Il partito comunista rivoluzionario deve essere però coerente, e perciò il sostegno al diritto di separazione politica della nazione palestinese deve svolgersi fino in fondo, anche quando la rivoluzione proletaria avrà vinto e instaurato la propria dittatura erigendo il proprio Stato di classe: il potere proletario riconoscerà di fatto, immediatamente, alle nazioni oppresse il diritto alla separazione dal vecchio Stato oppressore, ma nello stesso tempo sosterrà la lotta che il proletariato delle ex nazioni oppresse farà contro la propria borghesia perché anche là la rivoluzione proletaria giunga alla vittoria (4).

La lotta dei proletari palestinesi contro l’oppressione nazionale ha davanti a sé due vie.

La via borghese che, non solo, non risolve il problema nazionale, come ha ampiamente dimostrato in questi sessant’anni, ma lo incancrenisce all’ennesima potenza dimostrando, per contrapposizione dialettica, che, come l’imprenditore capitalista può non essere proprietario dell’azienda che gestisce, della terra su cui l’azienda è stata edificata, del denaro che serve per acquistare macchinari, materie prime e forza lavoro, ma sicuramente si appropria il prodotto finale pronto per lo scambio, così la borghesia, per sfruttare la forza lavoro proletaria ed estorcerle il plusvalore può anche non possedere un territorio con confini ben definiti, un mercato nazionale nel quale scambiare merci e denaro, battere propria moneta e produrre nazionalmente. Certo, in queste condizioni è improbabile che riesca a diventare una classe borghese potente e decisiva in campo internazionale, ma può benissimo continuare a vivere sulle spalle del lavoro salariato di suoi proletari o di proletari di altre nazionalità. Una borghesia contadina e commerciante come quella palestinese, in futuro, continuerà a vendersi ai migliori offerenti sulla piazza, come ha fatto finora, e il futuro che può assicurare al proprio proletariato è un futuro di miseria e di oppressione perché questa sua condizione è la merce di scambio della borghesia palestinese con qualsiasi altra borghesia, compresa quella israeliana, con la quale essa trovi un vantaggio più o meno immediato.

La via proletaria che, fino al 1973, poteva ancora incrociarsi con la via borghese di un  movimento nazionalrivoluzionario teso a liberarsi dell’oppressione nazionale prima anglo-francese, poi israeliana, rimane ferma nella prospettiva della lotta di classe portata fino in fondo, cioè sviluppata nella lotta rivoluzionaria per abbattere il potere borghese sia in Israele che rappresenta la diretta oppressione nazionale e salariale, sia nelle sue declinazioni arabe dei paesi del Medio Oriente, Stati, Emirati o Sceiccati che siano, in quanto cointeressati a spezzare ogni tentativo indipendente del proletariato palestinese per la sua indiscutibile influenza su tutta l’area mediorientale, e non solo. Non va però taciuto il fatto che anche il proletariato palestinese è stato drammaticamente influenzato, per decenni, dal collaborazionismo interclassista organizzato in particolare dalle formazioni nazionaliste borghesi che diedero vita nel 1967 all’OLP, e nelle altre successivamente createsi. Tale maledetta influenza, in realtà, disarmò e continua a disarmare i proletari palestinesi sul piano politico e organizzativo, tanto da dover subire continue disfatte non dovute ad assenza di combattività e di eroismo – come il Settembre Nero in Giordania, Tall-el Zaatar, Beirut, Sabra e Shatila – ma appunto al disarmo politico al quale contribuirono in modo determinante  le forze opportuniste di partiti cosiddetti comunisti e socialisti.

La via proletaria non può non porsi il problema «nazionale» perché è l’oppressione nazionale da parte israeliana che glielo pone tutti i giorni, e tutti i minuti di ogni giorno. Il problema reale è come lottare contro questa  oppressione senza cadere sistematicamente prigionieri delle illusioni e delle manovre borghesi. E qui viene in aiuto la tattica indicata da Lenin e che non perso alcun suo punto vitale. Un partito che si definisce comunista e che fa dell’internazionalismo proletario una sua caratteristica non può non tener conto dell’esistenza di due campi nel proletariato internazionale: il campo del proletariato dei paesi che opprimono, e che «è corrotto dalle briciole che cadono dalla tavola della borghesia delle grandi potenze», e il campo del proletariato delle nazioni oppresse che «non può liberare se stesso senza liberare le piccole nazioni, senza educare le masse nello spirito antisciovinista, cioè antiannessionista, cioè nello spirito dell’”autodecisione”». Perciò al proletariato israeliano, che fa parte del paese oppressore, è perfettamente giusto dare l’indicazione della lotta contro la propria borghesia anche sul terreno dell’autodeterminazione palestinese (lo scrive l’attuale «programma comunista» nell’articolo citato), ma bisogna essere più espliciti e chiari: la lotta deve essere perché la borghesia israeliana riconosca il diritto alla separazione della Palestina da Israele anche se questa separazione appare «irrealizzabile». E questa lotta sappiamo che ha enormi difficoltà a decollare, ciò nonostante noi, comunisti rivoluzionari, dobbiamo indicarne la via e l’esigenza. Dice Lenin: «L’educazione internazionalista degli operai nei paesi dominanti deve avere necessariamente come centro di gravità la propaganda e la difesa della libertà di separazione dei paesi oppressi. Altrimenti non v’è internazionalismo» (5); e ribadisce: «Si tratta di una rivendicazione incondizionata, quantunque fino all’avvento del socialismo la separazione sia possibile e “realizzabile” in un caso su mille»! (sottolineature di Lenin).

Attenzione al periodo storico: fino all’avvento del socialismo! Forse a «programma comunista», come faceva sistematicamente Amadeo Bordiga, avrebbero fatto bene andarsi a rileggere Lenin. La situazione dal 1916 è cambiata? Sì, in peggio, nel senso che se molti paesi coloniali e semicoloniali, per rivoluzioni dirette o per la combinazione di movimenti nazionalrivoluzionari di liberazione e la concessione del diritto di autodecisione da parte delle grandi potenze imperialiste in seguito a forti crisi economiche o crisi di guerra, hanno raggiunto l’indipendenza politica, molti Stati  già indipendenti politicamente, invece, sono caduti, sempre in seguito alla vittoria nelle guerre mondiale delle potenze imperialiste più forti, sotto una diversa colonizzazione, quella del capitale finanziario del dollaro, e più recentemente anche dell’euro. Gli aggiornatori sono perciò esentati dal riferirsi a Lenin, o a Marx ed Engels, e comunque al comunismo rivoluzionario: non c’è nulla da aggiornare, vi sono solo conferme!

Va detto che l’attuale «programma comunista» non fa che ribadire posizioni che aveva già espresso cinque anni fa, quando scriveva che «non esiste in quest’area nessuna questione nazionale ancora aperta» (6). Da allora, questo gruppo non si è posto il problema di verificare se le posizioni che esprime sono o no in  linea con il marxismo. D’altra parte, questo genere di aggiornatori fa parte di quelli che non sentono il bisogno di citare i testi del marxismo per confutarli; confutano senza dare la possibilità ai lettori di andare a verificare se quanto affermano è farina del loro sacco o è quanto sostiene il marxismo. E’ farina del loro sacco, per noi non ci sono dubbi, ma è andata a male.

     


 

1) Lenin, Risultati della discussione sull’autodecisione, scritto nel luglio 1916, in Opere, vol. 22, pag. 341.

2) Lenin, La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all’autodecisione (Tesi), scritto nel genn/marzo 1916, in Opere , cit.,   pag. 149, come le due citazioni successive.

3) Ibidem, pag. 151.

4) Lenin, nell’opuscolo intitolato I compiti del proletariato nella nostra rivoluzione, dell’aprile 1917, al punto 14, (citato  anche dalla nostra Struttura economica e sociale della Russia d’oggi, pagg. 157-8) riprende e ribadisce senza possibilità di equivoci la classica posizione: «Nella questione nazionale il partito del proletariato deve rivendicare anzitutto la proclamazione e la rivendicazione immediata della piena libertà di separazione dalla Russia di tutte le nazioni e nazionalità oppresse dallo zarismo, unite o mantenute con la forza nei confini dello Stato, cioè annesse. Tutte le dichiarazioni, i proclami e i manifesti sulla rinuncia alle annessioni che non implichino l’effettiva libertà di separazione si riducono a un inganno del popolo da parte della borghesia o a pii desideri piccolo-borghesi. Il partito proletario tende a creare uno Stato il più vasto possibile, perché ciò è nell’interesse dei lavoratori; esso tende a ravvicinare e poi a fondere le nazioni, ma vuole raggiungere quest’obiettivo senza violenza, attraverso l’unione libera e fraterna delle masse operaie e lavoratrici di tutte le nazioni. Quanto più la repubblica russa sarà democratica, quanto meglio si organizzerà la repubblica dei soviet dei deputati degli operai e dei contadini, tanto più vigorosa sarà la forza d’attrazione che condurrà liberamente verso di essa le masse lavoratrici di tutte le nazioni. Piena libertà di separazione, la più ampia autonomia locale (e nazionale), garanzie minuziosamente definite dei diritti delle minoranze nazionali: ecco il programma del proletariato rivoluzionario» [sottolineature di Lenin, ndr]. Vedi Lenin, Opere, vol. 24, pagg. 65-66.

5) Lenin, Risultati della discussione sull’autodecisione, cit. pag. 344.

6) Cfr. «il programma comunista» n.2 del 2002; vedi la nostra critica ne «il comunista n. 80-81, agosto 2002, Critica alle posizioni falsamente marxiste, che si occupa, riferendosi alla questione palestinese, delle posizioni dell’attuale «programma comunista», de «il partito», di «battaglia comunista», del «p.c.int.le di Schio».

 

Partito comunista internazionale

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