Crisi economica capitalistica e lotta di classe

(«il comunista»; N° 108; Aprile 2008)

 

Nel momento in cui scriviamo, la realtà della recessione nella principale potenza economica miondiale, gli USA, non solleva più alcun dubbio, ivi compresi i più alti responsabili americani, eccetto il presidente Bush e i suoi fedelissimi. Lo stesso direttore della Federal Reserve (la banca centrale americana) ha dovuto ammettere che la crescita economica del suo paese andava incontro ad un rallentamento, più precisamente ad una contrazione.

La maggioranza degli esperti economici ufficiali giurano che, quest'autunno, malgrado i problemi finanziari legati alla speculazione immobiliare, è poco probabile che la recessione colpisca gli Stati Uniti, e quindi il resto del mondo. «I fondamentali sono buoni, l'economia è sana! Le liste degli ordini sono piene» affermano tutti come una sola voce. Marx rilevava, già 150 anni fa, che alla vigilia delle crisi si sente sempre il solito ritornello...

 

Oggi, gli stessi esperti riconoscono che la recessione è cominciata: difficile fare altrimenti quando le statistiche indicano che  i posti di lavoro spariscono a decine di migliaia negli Stati Uniti dall'inizio dell'anno: più di 75 mila sono quelli soppressi tra gennaio e febbraio, 80.000 solo a marzo.

Tuttavia essi stimano che la recessione sarà di corta durata e di debole ampiezza, grazie all'enorme quantità di credito iniettato nell'economia dalla Federal Reserve che dovrebbe far sentire i suoi benefici effetti da qui a qualche mese. Inoltre, la buona tenuta delle esportazioni americane in virtù del ribasso del dollaro in rapporto alle monete dei suoi principali concorrenti (Europa, Giappone e la stessa Cina), fa sì che il settore delle industrie esportatrici contribuisca a tirare tutto il resto dell'economia.

A questo proposito gli esperti avanzano un'altra tesi, quella del «disaccoppiamento». In ragione del loro potente sviluppo interno, le grandi aree economiche del mondo che sono l'Europa e l'Asia sono diventate molto meno dipendenti dal mercato americano e, per conseguenza, una recessione negli Stati Uniti non provocherebbe una recessione internazionale; al contrario, la continua crescita economica in quelle aree potrebbe permettere, «compensando» in qualche modo una crisi americana, all'economia mondiale di crescere, facendo finalemnte uscire dalla loro recessione gli stessi Stati Uniti.

Questa tesi, vero stereotipo nelle pubblicazioni del FMI e dell'OCSE e di altre istituzioni analoghe, è stata avidamente ripresa dai responsabili politici europei, preoccupati di mantenere la «fiducia» dei consumatori e degli «attori economici», questo fattore sottile e imponderabile senza il quale, sembra, tutto affonderebbe (in realtà, la «fiducia» dei consumatori dipende strettamente dalla busta paga per i proletari, e dalle cifre d'affari per i capitalisti).

Questa tesi appoggia su una realtà, quella dello sfasamento che esiste fra le differenti economie capitaliste (l'economia dei grandi paesi europei continua ad esempio ancora a crescere quandio invece la recessione colpisce oltre-atlantico); e su un augurio, quello di trovare altrove una locomotiva per far ridecollare la gigantesca macchina americana impantanata.Niente di nuovo sotto il sole capitalista: la ricerca di una tale locomotiva è sistematicamente l'obiettivodei capitalisti yankee dopo le recessioni dei decenni precedenti, con successi molto modesti.

In effetti è vero che l'economia americana ha perduto nel corso dell'ultimo cinquantennio la sua schiacciante preponderanza sul resto del mondo (questo indebolimento economico, relativo ma ben reale, minando linesorabilmente le basi del suo dominio poltico), ma resta tuttavia la prima al mondo: nessun altro è abbastanza forte per darle il cambio in caso di necessità.

Ma, soprattutto gli ultimi 10-15 anni hanno visto uno sviluppo rapido e importante dei legami economici e dei flussi finanziari che collegano fra di loro i paesi del pianeta. E' questa «mondializzazione» tanto vantata dalla borghesia come elemento importante della crescita economica (essa ha ragione) tanto da far sì che nessuna economia può, non solo funzionare indipendentemente dal mercato mondiale (e questo è vero da quando il capitalismo si è imposto alla scala planetaria), ma soprattutto non può più scappare alle ripercussioni delle crisi che scoppiano nel centro nevralgico del capitalismo mondiale, gli Stati Uniti d'America. Un «disaccoppiamento» delle economie potrà giungere solo all'uscita di gravi crisi catastrofiche, di guerre generalizzate - o di rivoluzioni! - le sole sufficientemente potenti da spezzare quei legami.

E' ciò che spiega come mai l'istituto bancario che ha perduto più denaro nella crisi dei mutui e prestiti immobiliari americani sia... una banca svizzera! Le perdite bancarie dopo novembre annunciate all'inizio di aprile di quest'anno sono:

UBS (Union des Banques Suisses): 37,1 miliardi di dollari; MerrylLinch: 24,4 miliardi di dollari; Citygroup: 18,1 miliardi; Carlyle Capital: 16.6 miliardi; Morgan-Stanley: 9,4 miliardi; Crédit Suisse: 5,7 miliardi; Bank of America: 5,3 miliardi; Capital One: 4,9 miliardi; Deutsche bank: 4,8 miliardi; Société Général: 4,3 miliardi. Da notare che queste perdite si sono accumulate dopo l'inizio di gennaio di quest'anno e soprattutto nelle ultime settimane, particolarmente difficili sui mercati finanziari.

Tuttavia la più grossa perdita per il 2007 non è stata registrata da una banca, ma da General Motors, numero uno mondiale tra i costruttori di automobili (tallonato dalla giapponese Toyota) e simbolo per molto tempo della potenza dell'industria americana: 38,7 miliardi di dollari! Questa perdita record è attribuita ad una caduta consistente nelle vendite di autoveicoli e alle perdite del suo ramo finanziario (che fornisce i credito ai consumatori per acquistare i loro veicoli). E' la dimostrazione che la crisi non è limitata ad un solo settore della finanza e della Borsa: ciò che è male per la General Motors è male per gli Stati Uniti...

 

GUERRA MONETARIA

 

Inoltre, la caduta del dollaro che aiuta le esportazioni americane, penalizza di conseguenza i loro concorrenti: dando una piccola boccata d'ossigeno all'economia statunitense, essa tende a strangolare le economie europee e asiatiche, le meno solide o le più dipendenti per le loro esportazioni. Da qui i pianti incessanti dei dirigenti italiani o francesi, confrontati con un deficit crescente del loro commercio estero, sul valore troppo elevato dell'euro.

Al contrario, la Germania, che rimane il primo esportatore mondiale grazie ai vantaggi competitivi delle sue merci, regge il rincaro dell'euro che gonfia meccanicamente l'eccedenza del suo commercio estero (la più alta eccedenza mondiale: 263 miliardi di dollari in febbraio, davamnti alla Cina coi suoi 250 miliardi di dollari, contro gli USA  che hanno il più grosso deficit: 819 miliardi di dollari).

E' per questo che il presidente dell'associazione degli esportatori tedeschi poteva ancora dichiarare  all'inizio dell'anno di «sostenere» la politica dell'euro forte seguita dalla Banca Centrale Europea (perché, in realtà, questa politica esprime gli interessi della potenza economica diminante in Europa), politica che aveva il vantaggio di attenuare i rialzi di prezzo delle materie prime.

Le iniezioni massicce e ripetute di liquidità nei circuiti economici da parte della Federal Reserve americana per mascherare la crisi del creditoe stimolare l'attività economica, costituiscono in fin dei conti delle masse di denaro supplementari; la sua conseguenza meccanica è quella di abbassare il valore di questa moneta, dunque di aumentare il valore di tutte le merci espresse in questa moneta, ciò che ai chiama l'inflazione.

L'abbassamento di valore del dollaro, essendo questo una moneta mondiale, ed esprimendo il valore di tutte le materie prime, significa perciò un corrispondente rialzo dei prezzi in dollari delle materie prime. Questo fenome è rafforzato dalle operazioni dette «speculative»: i possessori di dollari hanno tutto l'interesse a sbarazzarsene se non vogliono vedere sprofondare il valore dei loro capitali. Questa tendenza, sulla quale agiscono anche i diversi Fondi coi loro miliardi di dollari, la tesoreria delle grandi imprese o le riserve di Stato, non fa che rafforzare la svalutazione di questa moneta.

Questi capitali si spostano sia sulle monete concorrenti, sia, più sovente, sulle materie prime che vedono il loro prezzo crescere brutamente. Il famoso «trader pazzo» che ha fatto perdere miliardi di dollari alla Société Générale speculando sulle variazioni del mercato delle materie prime della Borsa tedesca, non era affatto più pazzo di questa; obbediva semplicemente ala meccanismo capitalista delle leggi di mercato che, questo sì, è perfettamente pazzo! Gli esperti stimano che il 20% di rincaro del prezzo del petrolio sia dovuto a questo meccanismo speculativo, ciò che faceva dire a qualcuno che la Federal Reserve americana è diventata un fattore più importante dell'OPEP nel commercio petrolifero...

Notiamo di passaggio che i capitali possono anche spostarsi sul valore rifugio tradizionale in caso di crisi, l'oro, di cui il prezzo attualmente ha raggiunto records storici. La ruiapparizione della febbre dell'oro, questo «simbolo barbaro», è un segno supplementare della malattia dell'economia capitalista...

Le autorità americane lasciano abbassare del tutto volontariamente il valore della loro moneta. Ma, nella misura in cui questa manovra è fruttuosa, cioè nella misura in cui, grazie ad essa, l'economia americana  fa affondare i suoi concorrenti per mantenersi con la testa fuor d'acqua, il ribasso del dollaro prende la forma di una guerra monetaria; e la cooperazione tanto vantata dalle istituzioni economiche e finanziarie del mondo per sfuggire ai rischi di crisi lascia il posto ad una concorrenza feroce su tutti i piani. I capitalisti non psosono salvarsi tutti dalla crisi; quest'ultima  non può essere superata che attraverso l'eliminazione dei più deboli e il rafforzamento dei più forti. E' vero per le imprese e i capitalisti «individuali», ma lo è anche per gli Stati capitalisti: la crisi economica che si traduce in distruzioni di capitali e in liquidazioni di imprese, provoca anche sulla sua scia rivalità, scontri e guerre interstatali.

La recessione attuale segna la fine di un ciclo di espansione aperto dopo la crisi del 2001-2002, il cui fattore scatenante era stato lo scoppio della «bolla informatica», la speculazione frenetica sulle imprese cosiddette di nuova tecnologia.

La recessione del 2001-2002 arrivava dopo un periodo di crescita negli Stati Uniti stranamente lungo e vigoroso - per quasi 10 anni - apertosi dopo la prima guerra contro l'Iraq. Oltre agli effetti benefici di questa guerra, l'economia americana aveva potuto prosperare alle spese del suo concorrente più presasante, il Giappone, asfissiato dal tasso di cambio insopportabilmente elevato dello Yen in rapporto al Dollaro che gli USA gli avevano imposto. Last but not least, non dimetichiamo che l'implosione del blocco sovietico aveva aperto un grande mercato alle economie «occidentali», mentre la pressione concorrenziale del capitalismo tedesco era in parte attenuata dalla sua pesante digestione dell'ex Germania Est.

Il rinnovato decollo dell'economia americana a partire dal 2002 lo si deve essenzialmente a due motori: 1) una nuova guerra in Iraq che, come detto prima, ridette ossigeno al settore «militaro-industriale», molto importante presso l'imperialismo planetario americano; 2) il massiccio ricorso al  credito che rilanciò in particolare il settore immobiliare, altro settore molto importante nelle economie capitaliste avanzate. Ma le condizioni eccezionalmente favorevoli per il capitalismo statunitense del decennio precedente non erano più presenti; anche la crescita economica in questo periodo è stata la più debole dopo alcuni decenni, creando meno posti di lavoro e aumenti di salario irrisori. Il ricorso massiccio e generalizzato al credito (di cui possiamo dare un quadro sorprendente dicendo che il tasso di indebitamento delle famiglie americane si è spinto ormai al 130% del loro reddito disponbile), che è servito innegabilmente ad alimentare l'espansione economica, non poteva che sfociare presto o tardi in un crollo di cui non vediamo oggi che i primi effetti.

 

UNA SOLA PROSPETTIVA SICURA , LA RIPRESA DELLA LOTTA DI CLASSE

 

La crisi economica attuale sarà più lunga da superare in quanto le risorse classiche attivate nelle recessione precedente non possono più essere utilizzate così facilmente. L'economia amwricana e mondiale è già imbottita di crediti; i tassi di interesse sono scesi a livello dell'inflazione (ciò che li porta ad un livello pressoché zero). In più gli Stati Uniti sono ancora invischiati nella guerra in Iraq.

La «purga» perciò sarà molto dura e sono i proletari che ne pagheranno il prezzo più alto. Aumentare il loro sfruttamento sarà la sola soluzione per i capitalisti spinti a salvare i tassi di profitto, quando internazionalmente la classe operaia, in generale, ha già visto i propri salari stagnare nel corso degli ultimi anni e il loro potere d'acquisto peggiorare a vista d'occhio.

Il presidente della Banca Europea, l'ineffabile Trichet, si spende in questo periodo in dichiarazioni per mettere in guardia le borghesie europee contro ogni tentazione di preservare la pace sociale attraverso aumenti di salario. In Francia, Sarkosy che pretendeva  essere «il presidente del potere d'acquisto» non può che dichiarare che «le casse sono vuote». In Italia, dopo che il presidente della  Confindustria aveva dichiarato che i salari operai sono troppo bassi e aveva deciso di anticipare ben 30 euro di aumento in busta paga in attesa del rinnovo del contratto dei metalmeccanici, oggi piange lacrime amare su un'economia «che non tira» e ha fatto di tutto perché l'aumento salariale dei metalmeccanici non fosse più alto di 50 euro medi!

In tutti i paesi il capitalismo va all'attacco delle condizioni operaie di vita e di lavoro, già sottoposte ad uno sfruttamento bestiale come l'aumento degli incidenti e delle morti sul lavoro dimostrano.  L'offensiva capitalistica contro i lavoratori va di pari passo all'offensiva generalizzata sui prezzi dei beni di prima necessità: dalla pasta al pane, al latte. E già le cronache riportano esplosioni sociali in paesi ai margini delle metropoli capitaliste, in particolare in Africa (Egitto, Camerun) e in  Asia (Bangla Desh, Vietnam); ma lotte operaie stanno avanzando anche in Europa, a partire dalla Russia, e nella opulenta Germania con la magnifica lotta dei ferrovieri, che, dopo la Francia, si sono mossi anche in Svizzera (il primo sciopero dopo il 1918!). Moti di strada come nelle banlieus francesi o danesi, annunciano anch'essi che la cappa di piombo della pace sociale comincia a fessurarsi.

Non ci illudiamo e non illudiamo i proletari; ma è un fatto che si stanno accumulando fattori di rottura sociale tra proletariato e borghesia ed è su questi spiragli che i rivoluzionari contano per la ripresa della lotta di classe. Le difficoltà e gli ostacoli che i proletari troveranno sul proprio cammino sono ancora enormi, ed è per questo che la borghesia, per quanto in difficoltà a causa della crisi economica, appare ancora invincibile.

Ma il terremoto che causerà una crisi profonda all'equilibrio sociale ancora in vigore sarà provocato dall'acutizzarsi delle tensioni sociali che inevitablmente si rafforzeranno e alle quali le borghesie dominanti tenderanno a rispondere sempre più con mezzi autoritari e violenti. La democrazia tanto osannata lascerà sempre più trasparire la blindatura di Stati che non potranno permettersi di non controllare la piazza, che avranno bisogno di una forza lavoro sempre più assoggetata ai sacrifici che il capitalismo chiede per difendere se stesso dalle sue stesse crisi.

I proletari non avranno vie democratiche di scampo: dovranno battersi per sopravvivere, per difendere le proprie condizioni di esistenza: Dovranno riprendere la strada della lotta di classe, aperta, dichiarata, indipendente dagli apparati della democrazia borghese e del collaborazionismo politico e sindacale; dovranno riprendere a  riorganizzarsi in modo classista per battersi con più efficacia, per difendersi meglio, per difendere anche le minime concessioni che riescono e riusciranno a strappare ai capitalisti. I proletari dovranno reimparare a battersi solo per se stessi, solo per difendere i propri interessi immediati; in questa lotta i proletari cominceranno nuovamente a riconoscere i fratelli di classe, i proletari di ogni età e nazione, dentro e fuori i confini borghesi e delle loro patrie; e cominceranno a riconoscere finalmente i nemici, che non sono soltanto i padroni, i capitalisti miliardari, ma anche quella folta schiera di sgherri al servizio del capitale che vestono i panni operai, i panni della gente comune, del popolino per mimetizzarsi meglio, ma che hanno il compito più insidioso: piegare la forza e la volontà di lottare degli operai agli interessi del capitalismo e del suo Stato.

I proletari, riprendendo il cammino della lotta di classe, impareranno nuovamente quel che già i loro fratelli del 1848 in Europa, del 1871 a Parigi, del 1917 in Russia, del 1927 in Cina avevano acquisito: in questa società il proletariato deve solo spezzare le catene che lo tengono avvinghiato al capitalismo, perché ha un mondo da guadagnare, un mondo in cui le attività umane non saranno più indirizzate alla produzione e alla valorizzazione di capitale ma alla soddisfazione dei bisogni di una società di esseri sociali, una società di specie. In questa storica lotta i proletari saranno spinti a superare i limiti della lotta immediata, della lotta economica, perché quei limiti li supererà inevitabilmente la stessa classe borghese antagonista ponendo il proletariato di fronte alla storica alternativa: guerra o rivoluzione, dittatura borghese e imperialista, o dittatura del proletariato. La lotta politica, perciò non sarà che il terreno decisivo dello scontro titanico tra la classe proletaria e la classe borghese.

Se la lotta immediata di difesa delle condizioni di vita e di lavoro operaie ha bisogno di un'organizzazione adatta allo scopo, che storicamente è stato il sindacato di classe e che in ogni caso u n domani sarà un'associazione a carattere economico che organizza le grandi masse proletarie, la lotta politica ha anch'essa bisogno di un'organizzazione adatta allo scopo, che storicamente è il partito di classe.

Senza l'organizzazione classista sul terreno immediato i proletari sono completamente nudi, alla mercé del padronato e dei suoi servi, schiavi incapaci di reagire e di alzare la testa. Senza l'organizzazione classista sul terreno politico e storico i proletari sono completamente senza futuro, schiavi salariati per sempre! Il partito di classe rappresenta, nell'oggi, il futuro del proletariato perché possiede la teoria del rivoluzionamento generale della società capitalistica, la teoria dell'emancipazione del proletariato dal lavoro salariato. Con la sua lotta di classe, dialetticamente, il proletariato è teso all'emancipazione dell'intera umanità dal capitalismo, da quelle famose catene che imprigionano la specie umana nella condizione di vivere e morire per farsi depredare della vita di uomini, data in pasto al profitto capitalistico goduto solamente da una piccola minoranza di capitalisti.

La crisi capitalistica, se non trova sul suo cammino una classe operaia che lotta per se stessa, per i propri interessi e per il proprio futuro, è destinata a rafforzare il dominio che il capitale ha sull'intera società, a rafforzare la pressione e la repressione che le classi dominanti borghesi esercitano sulle masse proletarie di tutto il mondo a proprio esclusivo beneficio.

La lotta di classe, per i comunisti rivoluzionari, non è soltanto la lotta che i proletari fanno per difendersi dalle angherie dei padroni, per sopravvivere in maniera più dignitosa in questa società. La lotta di classe del proletariato va portata fino in fondo, fino allo sbocco storico ineluttabile, fino alla rivoluzione per la conquista del potere politico, con la quale il proletariato in quanto classe storica e internazionale eserciterà attaverso il suo partito una ferrea dittatura per potere trasformare una società indirizzata interamente alla soddisfazione del mercato, del capitale, della classe borghese, in una società in cui gli uomini si associano in quanto esseri sociali ed organizzano la propria esistenza e il proprio futuro con un modo di produzione rivolto esclusivamente alla soddisfazione dei bisogni umani e ad un rapporto armonico con la natura. A quel punto capitale e crisi capitalistica saranno materie da museo.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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