Delle crisi cicliche del capitalismo, del loro inevitabile e storico sbocco nella guerra guerreggiata e della sola e decisiva soluzione storica rappresentata dalla rivoluzione proletaria (2)

(Riunione generale di milano, 17 gennaio 2009)

 

(«il comunista»; N° 113; Luglio 2009)

 

(continua dal numero scorso)

 

Teoria delle crisi

 

In questa seconda parte affrontiamo l'argomento centrale del rapporto tenuto alla riunione, e cioè la Teoria delle crisi.

L'obiettivo è di dimostrare che solo il marxismo è stato in grado di comprendere le cause profonde delle inevitabili crisi cui va incontro il capitalismo nel corso del suo sviluppo e di prevederne storicamente la fine solo alla condizione che una rivoluzione fatta dall'unica classe rivoluzionaria dell'epoca moderna - il proletariato - guidata dal suo partito di classe, ponga fine al potere politico della classe borghese.

Il capitalismo si è imposto a livello mondiale in tempi storici relativamente brevi - poco più di 200 anni, dal 1640 inglese al 1848 europeo - col suo specifico modo di produzione che, nei 160 anni ulteriori, giungendo ai nostri giorni, ha sviluppato tecnicamente una potenza produttiva di dimesioni gigantesche, talmente grande da mettere sempre più in crisi lo stesso modo di produzione che l'ha generata.

Le crisi capitalistiche, siano esse crisi commerciali, monetarie, industriali, finanziarie o crisi economiche generali, hanno una causa comune che va cercata nella produzione capitalistica, quindi nel modo di prodzuione capitalistco stesso, e la si rintraccia nella riproduzione semplice del capitale. E' nella riproduzione semplice che Marx dimostra l'inevitabilità delle crisi capitalistiche; non serve dunque doversi inoltrare nei meandri dell'accumulazione progressiva, nella riproduzione allargata del capitale, poiché queste non sono che lo sviluppo conseguente della produzione capitalistica che, appunto sviluppandosi, sviluppa contemporaneamente gli elementi di crisi già insiti nella stessa produzione capitalistica.

In un rapporto dedicato all'economia marxista, tenuto nella riunione generale di partito nell'ottobre 1959 (1), nel quale si sono approfonditi gli argomenti del Libro Secondo del Capitale di Marx (dedicato al Processo di circolazione del capitale) vi è un capitoletto che tratta, per l'appunto, la teoria delle crisi nel quale si spiega con grande chiarezza l'assunto di cui sopra. E vale la pena riportarlo qui.

«E' fondamentale che il capitalismo è condannato ad accumulare estendendo il capitale generale anche a costo di sacrificare a questo fato inesorabile tutto il privilegio e la vita stessa dei capitalisti-persone. Ciò malgrado anche nella umile ipotesi della costanza del capitale sociale e della riproduzione semplice, Marx affaccia la prova della teoria delle crisi. In altri termini, questo significa che nella sua corsa turbolenta, assillato dalla esigenze di produrre più plusvalore per fare aumentare il volume del capitale totale, il mondo capitalista od un suo settore possono anche farci assistere, come alle travolgenti fasi di accumulazione progressiva, a fasi di "riproduzione regressiva". Proveremo, al solito, di non averlo scoperto noi.

«Anche con la infelice formula immediatista che giungerebbe a quella che Marx deride come "generalizzazione della miseria", con lo spartire il plusvalore tra i salariati, la macchina economica resterebbe mercantile e capitalista e sarebbe soggetta a saltare nelle crisi del suo funzionamento, per dimesso che sia.

«Il paragrafo sulla riproduzione semplice, che precede quello sulla "accumulazione e riproduzione su scala ingrandita" (là dove è detto che il più semplice sarà di ammettere che si accumuli tutto il plusvalore)  va nella edizione francese da pag. 110 a pag. 133. La vera e propria teoria delle crisi la togliamo dalle pagg. 129-130 (2).

«In questo passo Marx fa l'ipotesi opposta a quella che sta a base della "verifica" degli schemi, ossia che non tutto si venda e non tutto si consumi. Il prodotto finale M' va venduto perché, nella riproduzione semplice, si divida  tra m consumato dal capitalista e M con cui riparte il ciclo [economico di produzione]. Ma: "poco importa per il momento che M' sia comprato dal consumatore definitivo o dal commerciante che vuole rivenderlo". E poco dopo, previa la nota osservazione che lo stimolo è il bisogno del capitale di riprodursi e non la famosa domanda ed offerta dei signori "circolazionisti" (*), o tampoco il bisogno degli esseri umani da soddisfare:

«"In certi limiti, il processo di riproduzione può farsi sulla stessa scala o su una scala ingrandita, sebbene le merci che esso smaltisce non rientrano direttamente nel consumo individuale o produttivo. Il consumo dei prodotti non è necessariamente implicato nel movimento circolatorio dei capitali da cui essi sono usciti. Fino a che il prodotto si vende, tutto segue il suo corso normale nei riguardi del produttore capitalista, e il movimento circolatorio del valor capitale non è interrotto. Se questo processo è allargato, e per conseguenza il consumo dei mezzi di produzione è anche allargato, questa riproduzione del capitale può accompagnarsi ad un consumo individuale più grande da parte degli operai (3), essendo il consumo produttivo l'inizio e l'intermediario di tale processo.

«"Può dunque avvenire che la produzione di plusvalore si accresca, che tutto il processo di riproduzione si trovi in piena fioritura, ma che tuttavia una gran parte delle merci (prodotte) non entri nel consumo che in apparenza e stazioni in realtà senza essere venduta, tra le mani dei rivenditori [quelli all'ingrosso, che abbiano già pagato il capitalista produttore e reinvestitore, ndr] e resti insomma sul mercato. Le merci si succedono alle merci e ci si accorge finalmente che il primo lotto non era stato assorbito che in apparenza dalla circolazione. I capitali-merci si disputano il posto sul mercato. Volendo vendere ad ogni costo, gli ultimi arrivati vendono al disotto del prezzo [qui si tratta di ciò che è nella economia marxista il prezzo di produzione, il prezzo pari al valore che contiene la esatta parte di capitale anticipato e di plusvalore al tasso medio sociale, ndr]. Non ancora sono stati liquidati i primi apporti, che già i termini di pagamento sono scaduti. I venditori sono forzati a dichiararsi insolvibili o a vendere a non importa che prezzo pur di poter pagare. Questa vendita non ha nulla a che fare con lo stato reale della domanda. Essa non si rapporta che alla domanda di pagamento, alla assoluta necessità di convertire delle merci in denaro. E  SCOPPIA LA CRISI.

«"Ciò che la rivela non è tanto la diminuzione immediata della domanda che si riferisce al consumo individuale [questa sarebbe la solita ed anche modernissima spiegazione degli economisti conformisti: vedi un esempio attuale nel nostro scritto nel numero scorso sulla crisi nell'agricoltura statunitense, ndr] (4), quanto la diminuzione dello scambio di capitale contro capitale, del processo di riproduzione del capitale".

«Questa è forse una delle più eloquenti descrizioni delle crisi nell'opera di Marx. Quando il sistema capitalistico entra in crisi non avviene soltanto la contraddizione stridente e lacerante con la sua esigenza storica di allargarsi, ma avviene addirittura che viene impedita la sua circolazione in quantità costante, ossia si ha una riproduzione negativa rispetto alla riproduzione semplice, una parte di valore che già ha preso la forma di capitale produttivo, industriale, si polverizza, e la somma sociale dei mezzi di produzione circolanti come capitali discende paurosamente dal livello storico raggiunto».

Qui si dimostra che il capitalismo, nel corsodel suo sviluppo, non può che generare crisi alla scala sempre più larga; più si sviluppa, più elementi di crisi si accumulano; più il capitalismo sviluppa la sua produzione, dunque soprattutto i mezzi di produzione (in sintesi, il capitale costante), più allarga il mercato dei capitali-merci, e dei capitali-denaro, e più aumentano i contraccolpi di crisi. E, dato che,  fin dall'origine, la realizzazione del valor capitale la si ottiene soltanto con la vendita dei prodotti-merce, la crisi capitalistica è caratterizzata non dalla "sotto-domanda", dal cosiddetto "sottoconsumo", ma dalla quantità di merci immesse nel mercato e rimaste invendute, dunque, dalla sovraproduzione: tutte le merci prodotte non trovano sul mercato tutti gli acquirenti necessari a garantire l'avvenuta vendita, ed anche le merci offerte al di sotto del prezzo di produzione - «pur di poter pagare i capitalisti produttori» - non riescono ad essere totalmente smaltite. Si assiste perciò al fenomeno della sovraproduzione, di merci e di capitali.

Non va mai dimenticata la tesi fondamentale del marxismo sulla produzione capitalistica: «Il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso; è il fatto che il capitale e la sua autovalorizzazione appaiono come punto di partenza e come punto di arrivo, come movente e come fine della produzione; il fatto che la produzione è soltanto produzione per il capitale e non, inversamente, i mezzi di produzione sono puri e semplici mezzi per una espansione sempre più diversificata e completa del processo di vita per la società dei produttori» (5). La produzione per il capitale: è questo lo scopo del capitalismo, al quale scopo sono indirizzate obbligatoriamente tutte le risorse, tutte le energie e le forze sociali; il capitale  o si valorizza nel processo produttivo e nella circolazione nel mercato, o entra in crisi distruggendo merci, capitali e forza lavoro.

La sovraproduzione di merci, quindi la sovraproduzione capitalistica, è fenomeno tipico dello sviluppo dell'economia capitalistica. C'è differenza fra sovraproduzione in economia capitalistica e sovraproduzione in economia socialista.

Nella produzione di merci, scrive Kautsky, ancora marxista, nel suo lavoro del 1902 «Teorie delle crisi», «sovrapproduzione significa produzione eccedente il fabbisogno del mercato, eccedente cioè la domanda dei consumatori in possesso di denaro. Gli altri consumatori sono messi nel novero degli straccioni, cui non resta che andarsi a far sotterrare e che in ogni caso sono costretti a scomparire dal mercato» (5). Mentre, ogni economia lungimirante, e quindi la società socialista, «cercherà costantemente di realizzare un certo grado di sovrapproduzione oltre il consumo normale, onde compensare inattese flessioni della produzione o far fronte a imprevisti aumenti del fabbisogno» (6). La differenza non sta nella sovrapproduzione in sè, ma nel fatto che l'economia  socialista è un'economia pianificata sui bisogni degli uomini, nel presente e nel futuro delle generazioni, mentre l'economia capitalistica si sviluppa sulle esigenze del mercato nel quale i bisogni degli uomini sono considerati solo nella misura in cui possono essere esauditi attraverso l'acquisto dei beni con denaro.

Marx, nel secondo Libro del Capitale, dedicato al Processo di circolazione del capitale, nel capitolo sulla Riproduzione Semplice, dimostra che nella produzione capitalistica il capitale (che è costituito da capitale fisso e da capitale variabile, ossia mezzi di produzione e mezzi di consumo) riproduce soprattutto capitale costante, mezzi di produzione: «la maggior parte del lavoro sociale annuo è spesa nella produzione di nuovo capitale costante (valore capitale esistente in mezzi di produzione) per sostituire il valore capitale costante speso nella produzione di mezzi di consumo» (7). E questo è un segno ben preciso della finalità reale della produzione capitalistica: si producono più mezzi di produzione che mezzi di sussistenza, si produce soprattutto capitale costante perché è l'impiego della forza lavoro salariata sui mezzidi produzione che dà la possibilità ai capitalisti di estorcere pluslavoro, e quindi plusvalore, il loro vero guadagno dai cicli di produzione capitalistica.

La crisi di sovrapproduzione di merci  è scritta nel corso di sviluppo del capitalismo in quanto il mercato è destinato sì ad espandersi, ma non all'infinito; poteva perciò essere occasionale e imprevedibile all'inizio della produzione di merci, ma è diventata poi ciclica con un andamento che dal 1825 si è rilevato grosso modo decennale e che con il nuovo secolo tendenzialmente si è accorciato intorno a quinquennio. Ciò che caratterizza l'economia capitalistica, dunque, non è soltanto la crisi di sovrapproduzione di merci, e di capitali, ma  la sua periodica alternanza a periodi di prosperità.

Nel capitalismo, ogni crisi economica genera il sottoconsumo delle masse; già ai tempi di Marx ed Engels, e poi di Kautsky e Lenin, molti economisti spiegavano la crisi con questo specifico fenomeno, ma cercavano la causa della crisi nei suoi effetti e non nelle sue origini profonde. Il sottoconsumo genera crisi nelle società in cui si produce per l'autoconsumo, dunque nelle società in cui il mercato, pur esistendo, non è determinante, quindi nelle società precapitalistiche. Ma nella società capitalista si produce esclusivamente per il mercato, ossia la potenza produttiva del modo di produzione capitalistico è indirizzata e trova una sua ragione di esistere solo se la quantità sempre più gigantesca di merci prodotte trova nel mercato i consumatori in possesso di denaro; tutti gli altri esseri umani che non posseggono denaro sono automaticamente esclusi dal mercato, e quindi dal consumo, sono condannati, come scrive Kautsky, a scomparire, ad andare a farsi sotterrare! Nel capitalismo, le esigenze del mercato, quindi della valorizzazione del capitale, decidono della vita degli uomini.

Il sottoconsumo, scrive Kautsky nell'opera citata, «non va concepito in senso fisico, per esempio come sottonutrizione, bensì in senso sociale, come consumo di una classe che rimane in ritardo rispetto a ciò che produce. Non solo una limitazione del consumo, rimanendo invariata o aumentando la produzione, ma anche un aumento della produzione, rimanendo invariato o aumentando (ma con ritmo inferiore) il consumo, porta al sottoconsumo»; si tratta, quindi di «un sottoconsumo che si verfiica in condizioni particolari». E le condizioni particolari Kautsky le descrive subito dopo:

«La differenza fra lo sfruttamento precapitalistico e quello del capitalismo industriale consiste prima di tutto in questo, che il primo poggiava in gran parte sull'economia naturale nella quale, (...) sono a priori escluse crisi di sovrapproduzione. Questo vale per la società antica quanto per la società feudale, come per la società del dispotismo orientale. Ma nella produzione mercantile semplice il sottoconsumo non produceva necessariamente delle crisi, se al sottoconsumo degli sfruttati faceva da sufficiente contrappeso il consumo degli sfruttatori (...) (8).

Vale la pena, q uesto punto, seguire la descrizione che Kautsky svolge sulle differenze tra l'economia capitalistica e le economie precapitalistiche. Si tratta di alcuni brani, sintetici, che i lettori avranno la pazienza di leggere insieme a noi.

«Prima dell'avvento del capitalismo industriale, lo sfruttamento serve quasi esclusivamente ai fini del consumo. Quel che viene spremuto dalle classi lavoratrici viene consumato. Non si può parlare quindi di sovrapproduzione originata da cause sociali. I metodi di sfruttamento precapitalistici sviluppano se mai il male opposto (...).

«Completamente diversa - continua Kautsky - è la linea di sviluppo della società capitalistica. Essa si basa su di una produzione mercantile sviluppata e predominante. Non si produce più direttamente per l'uso proprio o della famiglia sfruttatrice, bensì per il mercato. Ma sul mercato, in regime di libera concorrenza, vince chi vende a prezzi più convenienti, il che a lungo andare è possibile soltanto per chi produce a costi inferiori. Oltre alla depressione del salario, all'aumento della specializzazione dell'intensità del lavoro e all'allungamento del tempo di lavoro, entra in gioco un nuovo fattore di diminuzione dei costi di produzione: la macchina, non più prodotto del caso, ma di una metodica ricerca scientifica. Abbiamo visto sopra, (...) come la macchina procuri extraprofitti ai primi che la usano e come poi la concorrenza costringa gli altri produttori a impiegarla. L'introduzione o il perfezionamento di macchine comporta però anche l'ampliamento e il consolidamento degli edifici utilizzati come luogo di lavoro, comporta l'aumento delle materie prime da trasformare; suppone dunque il possesso di maggiori quantità di denaro, un capitale accresciuto.

«Da questo momento in avanti  per i nuovi sfruttatori, i capitalisti, diventa impossibile sostenersi sul mercato se tutto il profitto percepito viene divorato nel consumo personale. Sono costretti quindi a "risparmiare", ad accantonare una parte del profitto, ad accumulare per accrescere il loro capitale e mantenere la concorrenzialità. Così il modo di produzione capitalistico porta necessariamente da un lato a limitare il consumo personale dei capitalisti e dall'altro, proprio in conseguenza di ciò, ad aumentare costantemente i mezzi di produzione e ad elevare continuamente la produttività del lavoro, e quindi a espandere senza sosta la produzione di beni di consumo. A questo punto il sottoconsumo degli sfruttati non viene più compensato da un corrispettivo consumo personale degli sfruttatori. Sta qui la ragione della costante spinta alla sovrapproduzione, insita nell'attuale modo di produzione» (9).

Ma il mercato si espande nella stessa misura in cui si espande la produzione capitalistica? Evidentemente no.

«I capitalisti e i lavoratori da essi sfruttati offrono ai beni di consumo prodotti dalla grande industria capitalistica un mercato in continua espansione, con l'aumento della ricchezza dei primi e del numero dei secondi, ma è un'espansione che non tiene il passo col ritmo di crescita dell'accumulazione del capitale e della produttività del lavoro e quindi il mercato stesso è di per sè insufficiente. La grande industria capitalistica deve perciò cercare un mercato aggiuntivo al di fuori della propria sfera, nelle professioni e nelle nazioni che non producono ancora capitalisticamente. Lo trova e lo espande senza sosta, ma anche qui in proporzione insufficiente. Infatti questo mercato aggiuntivo manca in larga misura di elasticità e di capacità di espansione del processo di produzione capitalistico. Non appena la produzione capitalistica entra  nello stadio della grande industria sviluppata, come era già avvenuto in Inghilterra nel primo quarto del secolo scorso [il riferimento è al 1800, ndr], si crea la possibilità di un tale balzo nell'espansione, da superare ogni allargamento del mercato. In tal modo ogni periodo di prosperità, che segue a una notevole espansione del mercato, è condannato fin da principio a breve vita e la crisi ne diventa lo sbocco necessario» (10).

Naturalmente le crisi capitalistiche non sono tutte della stessa dimensione e durata, e possono anche prodursi non solo per sovrapproduzione, ma anche per sottoproduzione; infatti può succedere che in determinati periodi nel mercato non arrivino (ad esempio a causa di guerre) materie prime in quantità sufficienti a coprire la capacità produttiva di tutti gli impianti di produzione esistenti e pronti per la loro trasformazione, determinando in questo modo una sproporzione fra capacità produttiva e produzione effettiva, dunque tra capitali impiegati nei mezzi di produzione e capitali impiegati nelle materie prime e nella produzione finale.

E' comunque confermato, dalla storia dell'economia capitalistica, che le crisi sono inevitabili e che si ripresentano con ciclicità, anche irregolare, nonostante la libera concorrenza - che in parte funziona come regolatrice di mercato rispetto alla congenita anarchia generata dalla produzione di merci dovuta a molti capitalisti che agiscono uno indipendentemente dall'altro - e nonostante gli interventi concordati tra  trust o tra  Stati. Ma la concorrenza capitalistica ha anche la funzione di stimolare la produzione di merci, e perciò se, da un lato,  «fa sì che in quelle branche produttive, nelle quali si ha un eccesso di utilizzazione del lavoro sociale, i prezzi diminuiscano con l'effetto di provocare una limitazione della produzione e aumentino, invece, in quelle branche produttive nelle quali si produce meno di quanto richiesto dalla proporzionalità [della produzione, ndr], con l'effetto di stimolare l'espansione della produzione» (11), dall'altro lato spinge i capitalisti ad unirsi in cartelli, in trust, la fine di aumentare la disponibilità di capitali, allargando perciò la potenzialità produttiva ed espandendo conseguentemente la produzione, di rafforzare la propria posizione sul mercato e di tendere a renderla dominante.

Con la concentrazione dei capitali in cartelli si tende a "regolarizzare" il mercato, ad eliminare la "sproporzionalità" esistente e quindi a superare le crisi economiche determinate da questa sproporzionalità; i cartelli tendono ad eliminare la concorrenza in singole branche produttive, e si sostiene che ciòprovochi una stabilizzazione dei prezzi, ma in realtà l'effetto ottenuto è completamente diverso: con i cartelli, i prezzi si mantengono costantemente elevati, e con essi i profitti. Kautky, inoltre, mette in evidenza, nel suo scritto, seguendo le affermazioni e le conclusioni cui era giunto Marx nel Capitale, come lo sviluppo del capitalismo porta alla concentrazione capitalistica, e quindi come i cartelli, i monopoli nelle diverse branche produttive, invece di «eliminare l'indipendenza reciproca delle singole branche di produzione e di eliminare dall'insieme della produzione l'assenza di piano», tendono invece ad «inceppare il regolatore della libera concorrenza». Nei fatti, quanto più forti si fanno i trust, le associazioni di imprenditori, «tanto più gravi diventano gli squilibri entro i quali la cocnorrenza è costretta ogni volta ad imporsi. In tal modo i cartelli rappresentano un nuovo fattore di crisi» (12).

 

Produzione per il consumo umano

 

L'allargamento del mercato, e lo sviluppo del capitalismo in paesi in precedenza arretrati (oggi si può pensare a Cina, India, Brasile, Messico, Sudafrica, Corea del Sud  e altri ancora, come ieri a Russia, Cecoslovacchia, Polonia, Ungheria, Spagna, Australia ecc.), ha consentito all'economia capitalistica di affrontare le sue crisi - in assenza di lotte sociali proletarie che approfittassero delle crisi per imporsi con la rivoluzione,e quando le crisi non sboccavano in guerra guerreggiata - spostando e diluendo  i suoi effetti più drammatici sui paesi della periferia del mondo capitalistico sviluppato, e naturalmente sulle masse proletarie dei propri paesi. Le crisi dell'economia capitalistica sviluppata sono soprattutto di sovrapproduzione, il che significa, soprattutto per le masse proletarie, non avere denaro sufficiente per consumare le merci prodotte e presenti sul mercato; e dato che il salario corrisponde ai mezzi di sussistenza necessari ai proletari per vivere, significa non avere salariosufficiente per acquistare i mezzi di sussistenza necessari per vivere. Quindi, i salari che i proletari ricevono in cambio del loro lavoro non corrispondono più alla quantità di mezzi si sussistenza necessari per riprodurre quotidianamente la loro forza lavoro; la massa del capitale variabile anticipata dai capitalisti per far funzionare la massa di capitale costante, diminuisce, non basta più non solo per tutta la forza lavoro effettivamente impiegata fino a quel momento nella produzione, ma non basta più nemmeno per la forza lavoro diminuita di numero. La stessa quantità di lavoratori non disoccupati, non espulsi dal processo produttivo, non riceve più un salario che corrisponda al valore dei beni di consumo necessari per vivere. La crisi di sovrapproduzione capitalistica si abbatte perciò soprattutto sulle condizioni di vita delle masse proletarie che subiscono immediatamente i suoi effetti negativi. La crisi capitalistica diventa così crisi sociale, e la sua profondità si misura immediatamente con l'aumento esponenziale della povertà tra le masse a livello mondiale.

Facciamo un passo indietro, e vedremo che la produzione è produzione per il consumo umano. Solo nel capitalismo la produzione è costretta a diventare produzione di capitale e per il capitale.

Il capitalista non fa differenza fra uomo e macchina: entrambi, dal suo punto di vista, sono "mezzi di produzione", entrambi producono profitto e il consumo della macchina ha lo stesso valore del consumo del lavoratore. Ma le leggi fondamentali della società poggiano sul fatto che la società è società di uomini, mai lo sarà di macchine; i rapporti sociali sono rapporti fra uomini, uomini che sfruttano altri uomini e uomini che vengono sfruttati da altri uomini,; i rapporti sociali non diverranno mai rapporti fra uomini e macchine, nonostante la società borghese tenda a ridurre l'uomo, e il suo lavoro, in macchina, in oggetto di commercio, in merce equiparabile a qualsiasi altro prodotto della produzione capitalistica.

«Il lavoro umano resta in definitiva il fattore creatore di valore e anche il sonsumo umano è ciò che decide in ultima analisi della espanasione della produzione», riprende Kautsky nello scritto che stiamo seguendo. Per quanto il capitalismo abbia reso dominante nella società il valore di scambio rispetto al valore d'uso dei prodotti, il valore d'uso non scompare, non può sparire perché la soddisfazione dei bisogni primari di vita degli uomini può essere stravolta dalla sua mercificazione ma non può essere seppellita.

«La produzione è e rimane produzione per il consumo umano - continua Kautsky - E' vero che il numero delle aziende, nelle quali si produce direttamente per il consumo personale, dominuisce relativamente, con il progredire della divisione del lavoro, rispetto a quelle che formiscono le une per le altre utensili, macchine, materie prime, mezzi di trasporto. (...) Tutte però sono finalizzate allo scopo ultimo di produrre beni per il consumo umano e tutte si riducono all'inattività qualora questo scopo ultimo non venga perseguito in misura sufficiente» (13).

Nella produzione capitalistica, «l'autonomia dal consumo che assumono alcuni dei numerosi anelli intermedi della produzione di beni di consumo (per esempio la costruzione di ferrovie)» può certamente ingannare sulla loro destinazione ultima al consumo umano, se non si fosse aggiunta, sostiene Kautsky, un'ulteriore circostanza: la produzione capitalistica non è nazionale, è internazionale,  è produzione mondiale. E qui entra in campo la divisione internazionale del lavoro che ha fatto sì che i vecchi paesi industriali «non siano più in grado di estendere, se non  lentamente, la produzione per il consumo personale, mentre in essi fa ancora rapidi progressi la produzione di mezzi di produzione, che misura il polso della loro vita economica molto più che la produzione di beni di consumo» (14).  In realtà, ai capitalisti preme la produzione di plusvalore, in tempi più rapidi possibile e in quantità maggiore possibile per ciclo produttivo; il plusvalore lo si ottiene molto più rapidamente e in masse immediatamente imponenti nella produzione di mezzi di produzione piuttosto che nella produzione di mezzi di sussistenza. Molti prodotti agricoli, per quanto l'agricoltura venga "industrializzata", sono sottoposti a cicli stagionali che non possono essere accelerati a piacimento, mentre la produzione industriale, in genere, non subisce condizionamenti dalle stagioni e può essere avviata in ogni momento appena l'impianto produttivo è pronto ad essere messo in moto e la forza lavoro necesaria pronta ad essere sfruttata. La divisione internazionale del lavoro, generata dallo sviluppo della grande industria, corrisponde, come si legge nel Capitale, «alle sedi principali dell'industria mecanizzata, per cui una parte del pianeta si trasforma in campo di produzione prevalentemente agricola per l'altra parte quale campo di produzione prevalentemente industriale» (15).

La divisione internazionale del lavoro non altera il dato di fondo generale, e cioè che la produzione è, in ultima analisi, produzione di mezzi di consumo per l'uomo per cui, quando l'economia capitalistica nel corso del suo sviluppo va incontro alle crisi, mette ancor più in evidenza la contraddizione fondamentale del suo modo di produzione, e cioè che non è carente la quantità di mezzi di produzione e di mezzi di sussistenza, ma è la loro caratteristica di merce, di valore di scambio, che provoca ad un certo punto sul mercato la crisi di sovrapproduzione..

 Fin dal Manifesto del 1848 sono chiare al marxismo le caratteristiche delle crisi capitalistiche: «Nelle crisi commerciali - vi si legge - viene regolarmente distrutta non solo una gran parte dei prodotti ottenuti, ma addirittura gran parte delle forze produttive già create. Nelle crisi scoppia una epidemia sociale che in tutte le epèoche anteriori sarebbe apparsa un assurdo: l'epidemia della sovrapproduzione. La società si trova all'improvviso ricondotta a uno stato di momentanea barbarie; sembra che una carestia, una guerra generale di sterminio le abbiano tagliato tutti i mezzi di sussistenza; l'industria, il commercio sembrano distrutti. E perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive che sono a sua disposizione non servono più a promuovere la civiltà borghese e i rapporti borghesi di proprietà; anzi, sono divenute troppo potenti per quei rapporti e ne vengono ostacolate, e appena superano questo ostacolo mettono in disordine tutta la società borghese, mettono in pericolo l'esistenza della proprietà borghese. I rapporti borghesi sono divebnuti troppo angusti per poter contenere la ricchezza da essi stessi prodotta. - Con quale mezzo la borghesia supera la crisi? Da un lato, con la distruzione coatta di una massa di forze produttive; dall'altro, con la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento più intenso dei vecchi. Dunque, con quali mezzi? Mediante la preparazione di crisi più generali e più violente e la diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stesse» (16).

Non smetteremo mai di ripeterlo: la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio, rispetto alla possibilità dei consumatori paganti di comprare tutto ciò che viene immesso nel mercato. E' «la rivolta delle forze produttive moderne contro i rapporti moderni della produzione, cioè contro i rapporti di proprietà che costituiscono le condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio» (17).

 

Proletariato e rapporti di forza fra le classi

 

La sovrapproduzione cui va incontro l'economia capitalistica produce crisi economica, e sociale, a causa del fatto che i prodotti-merce, e i prodotti-capitali, non trovano nel mercato acquirenti in grado di pagare il prezzo dovuto provocando in questo modo una interruzione intollerabile per il capitalismo nel processo di valorizzazione del capitale. La cosa più importante diventa, quindi, la disponibilità di denaro per acquistare le merci che si trovano nel mercato; ma il denaro, nella società capitalistica, non è solo un mezzo di pagamento, un equivalente generale, è capitale, è valore capitale, e il suo possesso o meno, decide - nella società capitalistica - della vita e della morte dell'attività umana, e della vita umana stessa. I proletari posseggono denaro solo alla condizione di vendere la loro forza lavoro al prezzo che stabilisce il «mercato del lavoro», al prezzo determinato dai rapporti di forza fra proletariato e borghesia: più è forte la classe borghese, più il prezzo della forza lavoro tende verso il basso, sebbene vi siano periodi in cui i salari aumentino grazie alla straordinaria prosperità economica del  tal paese o a causa di lotte dure e incisive del proletariato organizzato in sindacati di classe. Ma, alla pari delle altre merci, aumentando la quantità di salariati a disposizione della produzione capitalistica, aumenta la concorrenza fra proletari e diminuisce tendenzialmente il prezzo della loro forza lavoro; internazionalizzando sempre più i mercati, e facilitando la circolazione delle merci attraverso trasporti sempre più veloci e capaci di spostare quantità di prodotti sempre più grandi, aumenta anche la possibilità di migrazione da un paese all'altro da parte di masse proletarie sempre più numerose.

Nella misura in cui le crisi economiche si succedono con ciclicità più ravvicinata nel tempo, le migrazioni dei proletari si fanno più numerose, frequenti e consistenti, sia all'interno del paese dato sia verso altri paesi anche molto lontani. E la borghesia approfitta doppiamente di questa condizione di proletario-migrante e sradicato dalla sua terra natale, dalla famiglia e dall'ambiente sociale in cui è nato e cresciuto; liberato da vincoli affettivi e da legami sociali, il proletario migrante è ancor più debole e solo di fronte alla potenza del capitalismo e viene trasformato facilmente nel veicolo principale della concorrenza con gli altri proletari che incontra: la fame e la miseria da cui proviene lo spinge ad accettare condizioni di vita e di lavoro subumane. La forza lavoro del porletario migrante è sfruttabile tanto quanto la forza lavoro di proletari stanziali e che costano di più, perciò i capitalisti sfruttano molto più intensamente la forza lavoro del proletario migrante  per estorcere maggior tempo di lavoro non pagato, dunque maggior plusvalore. L'esercito industriale di riserva di cui parlano Engels e Marx non è più formato soprattutto da proletari disoccupati della stessa nazionalità dei borghesi, ma si ingrossa con proletari di ogni nazionalità, con proletari sradicati dalla propria terra d'origine; è la loro condizione di senza riserve, espropriati di tutto perchè si sottomettano al regime di schiavi salariati per ottenere il salario per sopravvivere, che li pone nella situazione di non avere proprietà, famiglia, patria. La lotta che i proletari sono costretti a condurre giorno per giorno per la sopravvivenza, è lotta per difendere la propria esistenza ed è una lotta di resistenza alle condizioni di vita, e di lavoro, cui sono sottoposti obbligatoriamente, attraverso la violenza economica del modo di produzione capitalistico e la violenza della società borghese esercitata per mezzo di tutti gli apparati di sorveglianza e di difesa dei rapporti di proprietà borghesi; questa è una delle condiizoni materiali per le quali i proletari non hanno vie d'uscita se non attraverso la propria lotta di classe contro la borghesia, contro la classe dei capitalisti e i suoi apparati di dominio politico e sociale, a partire dallo Stato. Nel Manifesto del 1848 è affermato con forza che la lotta del proletariato contro la borghesia comincia con la sua esistenza; e potremmo proseguire la frase affermando che la sua lotta contro la borghesia terminerà quando le classi sociali in cui è suddivisa la società non esisteranno più; fino ad allora la traiettoria storica della lotta fra le classi proseguirà il suo inesorabile corso.

La sovrapproduzione di merci e di capitali va di pari passo con la sovrapproduzione di braccia da lavoro, solo che la merce-forzalavoro è una merce molto particolare alla quale il capitalismo, per quanto la schiacci nella condizione di macchina, di strumento di lavoro, di mezzo di produzione, non riesce e non può devitalizzarla; è allo stesso tempo forza viva, che agisce in modo sociale e associato, è protagonista della produzione e della distribuzione dei prodotti, è produttore e consumatore allo stesso tempo e nell'esperienza della sua vita sociale matura esigenze, interessi, bisogni che la società capitalistica non può soddisfare. La tendenza più profonda della classe proletaria è di sottrarsi al regime di schiavitù salariale, ma la sua sopravvivenza quotidiana la pone costantemente nella condizione di vendere la propria forza lavoro contro salario alla classe che detiene tutto il potere, economico, sociale, politico, militare, rafforzando così oggettivamente il dominio della classe borghese sull'intera società.

I rapporti di forza nella società sono determinati non solo dalla condizione sociale delle classi rispetto alla produzione, ma anche dal loro movimento di lotta per affermare i rispettivi, e antagonisti, interessi di classe. Senza  questo movimento di lotta nessuna classe ha possibilità reale di affermare i suoi interessi e soddisfare le proprie esigenze, nè la borghesia nè il proletariato. Rimane il fatto che la borghesia, da quando è assurta al potere politico e domina la società, non ha mai smesso la sua lotta, sia di concorrenza con le altre borghesie sia di classe contro il proletariato dal cui sfruttamento sistematico e quotidiano trae il suoi profitti. Mentre il proletariato, solo in periodi di grande tensione sociale e di maturazione dello scontro di classe, ha  espresso in pieno il suo movimento di lotta, il suo movimento di classe.

Il proletario, il lavoratore salariato, perché la sua lotta per sopravvivere abbia efficacia duratura, e sia terreno fertile per la lotta di classe, deve allacciare legami di solidarietà con gli altri proletari, associandosi per difendere le proprie condizioni di vita, e sviluppare la percezione di una forza posseduta oggettivamente e storicamente, ma nascosta e mistificata sul terreno della «libera scelta» e dell'«interesse personale» ("scelta" di lavoro, di salario, di condizione sociale ecc.), o dell'interesse "comune" con tutte le altre classi.

In quanto forza produttiva fondamentale dell'economia capitalistica, il proletariato ha oggettivamente peso vitale nella società capitalistica, ma la condizione di schiavo salariato sfruttato a tempo pieno dal capitalismo mentre lo rende forza attiva per il capitale nell'impiego della sua forza lavoro, lo rende nello stesso tempo forza passiva nella difesa dei suoi interessi di classe.

Ma la base materiale della debolezza sociale del proletariato rispetto alla borghesia dominante si allarga nei periodi di crisi economica, perchè uno dei risultati immediati della crisi economica capitalistica è l' aumento della precarietà del laviro e della disoccupazione.

Le tesi riformiste hanno sempre sostenuto che lo sviluppo economico avrebbe consentito ai proletari un tenore di vita più alto e avrebbe nello stesso tempo attenuato gli effetti drammatici delle crisi sulla società e soprattutto sulla loro esistenza quotidiana. In realtà, e fin dai tempi di Marx, lo sviluppo economico del capitalismo produce sì periodi di espansione e di prosperità, ma al contempo produce fattori di crisi che tendenzialmente aggravano la situazione delle masse proletarie; basta allungare lo sguardo sulla realtà del mercato mondiale per accorgersi che per i proletari ogni crisi economica non fa che peggiorare le loro condizioni di vita e che lo sviluppo economico che segue la crisi non porta benefici ai proletari ma soltanto ai capitalisti.

Si è fatto riferimento più sopra al movimento di concentrazione capitalistica in cartelli e trust. Grazie a concentrazioni di capitali sempre più gigantesche, i capitalisti hanno la possibilità di combattere la loro concorrenza sul mercato mondiale da posizioni di forza; ma queste posizioni di forza, se consentono ad una parte sempre più ristretta di proletari di raggiungere condizioni di vita migliori del resto della massa proletaria, gettano in realtà le grandi masse del proletariato anche dei paesi capitalistici sviluppati in situazioni più vicine all'indigenza che al minimo per sopravvivere. E sono gli stessi economisti borghesi ad affermarlo.

In regime di cartelli e di grandi gruppi monopolistici, non diminuisce ma aumenta l'oppressione del proletariato; e, soprattutto, come riferisce Kautsky nel suo scritto, «impediscono ai lavoratori di profittare dei periodi di prosperità», ossia, oltre ad aumentare e prolungare la disoccupazione nel tempo di crisi, «impediscono anche ai lavoratori, in tempo di prosperità, di aumentare i loro salari in proporzione all'aumento dei prezzi particato dagli imprenditori consociati nel cartello e dagli altri monopolisti» (18).

Che il peggioramento delle condizioni di vita del proletariato tenda ad aumentare e ad allargarsi a tutti gli strati del proletariato, e al proletariato di tutti i paesi, lo si deve in prima istanza alla crisi economiche del capitalismo e al movimento di difesa dei profitti da parte della classe dei capitalisti; l'estorsione di quantità aumentate di pluslavoro, e quindi di plusvalore, dal lavoro salariato, è la misura più diretta che i capitalisti hanno a disposizione, e che attuano, per contrastare la caduta tendenziale del saggio di profitto. Ma il successo del movimento di difesa dei capitalisti è facilitato dall'assenza del movimento di difesa dei proletari, o dalla sua corruzione.

E' questo il vero nodo che il proletariato deve sciogliere: la sua debolezza nei rapporti di forza con la classe borghese è determinata soprattutto dalla mancanza di efficace lotta di resistenza alla pressione quotidiana del capitale sulle condizioni di vita e di lavoro proletarie. Il fatto che questo sia il vero centro del problema negli attuali rapporti sociali fra proletariato e borghesia, è dimostrato dalla quantità e qualità di energie che la classe dominante borghese impiega per corrompere gli strati di aristocrazia operaia e per asservire capi e apparati del sindacalismo operaio e dei partiti cosiddetti operai. La collaborazione di classe che la borghesia persegue costantemente è il terreno sul quale il proletariato si arrende  al nemico, cedendo la sua indipendenza di classe; e tutte le organizzazioni sindacali e politiche che fondano la loro funzione e la loro esistenza sulla collaborazione di classe, non hanno altro ruolo che assediare il proletariato affinchè non esca da quei confini.

 

Mercato ad espansione continua?

 

Altra tesi riformista, parallela allo sviluppo graduale del benessere fra le masse proletarie nonostante le cfisi economiche, è quella che ritiene che il movimento di sviluppo del capitalismo significhi espansione continua della produzione, e quindi del mercato. Si dice: con l'andare del tempo crescono le esigenze della società e i bisogni degli uomini, dunque la produzione non può che rincorrere queste esigenze e questi bisogni per soddisfarli, tanto più che la stessa popolazione mondiale cresce, e con essa cresce la quantità di prodotti necessari per tutti. Il problema è che ai periodi di prosperità e di espansione economica succedono periodi di crisi (e diciamo periodi di crisi, perché fin dalla seconda metà dell'Ottocento le crisi capitalistiche rivelavano di non risolversi nel giro di pochi mesi o un anno ma duravano molto più), crisi che rimettono sempre in discussione la capacità del sistema capitalistico di recuperare e di tornare alla prosperità. Con la crisi del 1929, che durò fino al 1932, il capitalismo apparve come alla fine dei suoi giorni; come scritto nel Manifesto, la società sembrava all'improvviso ricondotta ad uno stato di momentanea barbarie. Ma la «barbarie» non terminò con la ripresa economica degli anni successivi, ma si ripresentò in forma più acuta, nel 1939 con la «guerra generale di sterminio» che durò per ben 6 anni.

Passata la tempesta, passata la paura? In un certo senso è qusto il ritornello borghese ripetuto ad ogni crisi. Ma non si tratta di una tempesta. Per quanti sforzi la borghesia capitalistica faccia, grazie anche alle esperienze accumulate nel tempo, per tenere sotto controllo le crisi del suo sistema economico, non trova altre soluzioni alle proprie crisi se non quelle che , inevitabilmente, prepararano successive crisi piùacute ed estese, sia geograficamente che temporalmente.

E' indiscutibile che lo sviluppo del capitalismo, anche attraverso le su crisi economiche, abbia coinvolto paesi diversi dal vecchi paesi capitalisti. Storicamente il mercato si è effettivamente allargato, espandendo lo sviluppo industriale a paesi che solo 30, 50 anni prima mai avrebbero pensato di raggiungere uno sviluppo economico simile a quello dei vecchi paesi capitalisti. Basta ripercorrere velocemente la sequenza delle crisi economiche, segno evidente dello sviluppo capitalistico moderno.

«Le prime crisi erano circoscritte quasi unicamente all'Inghilterra - riferisce Kautsky - ma insieme a questa ne fu ben presto investita anche l'America. Già il 1857 portava alla Francia e alla Germania una crisi profonda. nel 1873 non solo la Germania, ma anche l'Austria è già matura per un tracollo di prim'ordine; il decennio passato [1890-1900, nrd] vede il Sud America, il Giappone e la Russia entrare nel novero dei paesi che hanno parte alla benedizione di crisi capitalistiche periodiche e profonde. La crisi attuale [1901-1902, ndr] ha carattere generale più di ogni altra precedente. Non ha ancora investito l'America, ma le sue crisi non sempre hanno coinciso con quelle europee. la penultima depressione cominciò in Europa nel 1890 e in America nel 1893» (19).

Il mercato capitalistico, dunque, si espande, e raggiunge paesi non ancora sviluppati capitalisticamente; ma come  l'economia capitalistica si radica e si svilupp, il paese dato è maturo per il tracollo. E succede inesorabilmente, a dimostrazione del fatto che l'ampliarsi continuo delle crisi «non è soltanto in rapporto e alla durata della disoccupazione in un dato paese, ma anche in rapporto alla loro estensione geografica»; dunque, in generale, «possiamo affermare che le crisi si inaspriscono e si espandono progressivamente» (20).

Il mercato si espande, dunque, è un fatto; oggi con l'entrata in scena di Cina, India, Messico, Brasile, Sudafrica, Turchia, Egitto, Corea del Sud, il capitalismo sembra dimostrare di non aver terminato la sua corsa allo sviluppo. Tale è stato il suo sviluppo ineguale finora che  è come se si fosse creata una grande sacca di scorta, rappresentata dai paesi - e sono la maggioranza - ancora capitalisticamente arretrati, paesi che prima o poi vengono stimolati e spinti ad accelerare lo sviluppo economico capitalistico grazie agli investimenti di capitali da parte dei paesi di vecchio capitalismo e a risorse autoctone ricavate ad esempio dalle materie prime, dalla localizzazione di porti e di importanti vie commerciali, ecc.

E' successo nell'area europea, e nell'area americana nell'Ottocento, è successo nell'area euroasiatica nel Novecento, sta succedendo nell'area estremo-orientale negli ultimi decenni e si sta ora affacciando in Africa. Sembra proprio che il mercato capitalistico abbia sette vite, e che abbia la possibilità di espandersi senza sosta. Lo sviluppo delle forze produttive, dunque, è irrefrenabile e appare come il rimedio naturale delle crisi del capitalismo.

La contraddizione tipica del capitalismo, che provoca per l'appunto le crisi economiche, e che bisogna sempre tener presente, è data proprio dallo sviluppo delle forze produttive, iperfolle, rispetto al mercato mondiale che, per quanto si espanda, non riesce a tenere lo stesso ritmo dello sviluppo delle forze produttive. La sovrapproduzione capitalistica è la dimostrazione di questa contraddizione, e più si sviluppa il capitalismo - più aumentano le forze produttive - più la sovrapproduzione capitalistica diviene cronica per tutti i paesi industriali. E' per questo motivo che le crisi tendono a diventare sempre più acute, nonostante i perdiodi di prosperità e i perdiodi di attenuazione della depressione economica.

«Il modo di produzione capitalistico - scrive kautsky -  ha bisogno di un'espansione ininterrotta e rapida, senza la quale la disoccupazione e la miseria per i lavoratori e l'insicurezza per i piccoli capitalisti sono destinate a raggiungere livelli estremi» (21). E' sotto gli occhi di tutti che la crisi economica comporti miseria per i lavoratori e porti alla rovina molti piccoli capitalisti. Dal  punto di vista della sopravvivenza quotidiana non è soltanto il proletariato a subire i colpi duri della crisi, ma lo sono anche strati di piccola borghesia che, infatti, a causa della crisi, perdono le loro attività commerciali e artigianali e precipitano nella proletarizzazione.

I capitalisti, in realtà, non credono che il mercato mondiale si possa espandere all'infinito. La lotta di concorrenza e la tendenza ai trust e alla monopolizzazione di branche importanti di produzione parlano chiaro: e i contrasti fra i grandi trust e i grandi  Stati capitalistici sono destinati ad acutizzarsi fino allo scontro diretto, economico, commerciale, militare, al di là delle alleanze fra monopoli e Stati che sono finalizzate alla difesa delle rispettive quote di mercato e alla possibilità di allargare i propri mercati di riferimento.

Conquista di nuovi mercati, rafforzamento delle posizioni già in essere nei vecchi mercati, protezionismo, cartelli, alleanze per spartirsi in pochi il mercato... di tutti. Le «soluzioni» borghesi alle crisi sono sempre le stesse, nulla di nuovo sotto il sole, e il marxismo le aveva stigmatizzate fin dalla sua affermazione.

Che la crisi più pericolosa per la tenuta del dominio borghese sulla società sia quella industriale - detta anche dell'economia reale - è cosa ben conosciuta dal marxismo.

Che le crisi capitalistiche avessero una loro ciclicità era cosa nota, anche allora, agli economisti borghesi. Marx, in un articolo del 1852 per il New-York Daily Tribune (22) infatti scrive senza problemi:

«Tutti sanno che l'industria e il commercio moderni percorrono cicli periodici di 5-7 anni, durtante i quali in successione regolare passano attraverso diversi stadi: calma, seguita da animazione, fiducia crescente, attività, prosperità, parossismo, sovrapproduzione, crollo, restrizione, stagnazione, marasma per ritornare infine allo stato di calma».

Ma, analizzando i dati ufficiali relativi all'assistenza dei poveri in Inghilterra, e alla diminuzione dei poveri interpretata dagli economisti come segno di crescente prosperità capitalistica, con disponibilità crescente di capitali da investire in nuove fabbriche da costruire, Marx mette in evidenza un fenomeno tipico della crisi capitalistica. Leggiamo:

«Che cosa si deduce dunque da questo colossale investimento di capitale, destinato alla produzione industriale immediata? Che non ci sarà una crisi? Niente affatto, ma, al contrario, che la crisi assumerà un carattere assai più pericoloso che nel 1847, quando ha avuto un carattere commerciale e finanziario più che non industriale. Questa volta essa colpirà in pieno i distretti industriali (...). Quanto più il capitale eccedente si concentra nella produzione industriale invece di dividersi in molti rivoli tra i molteplici canali della speculazione, tanto più massiccia sarà la crisi e tanto più a lungo ricadrà sulle masse lavoratrici e sull'élite della borghesia».

 

Lo sbocco finale della crisi capitalistica è la guerra

 

Le crisi sotto il capitalismo non sono tutte uguali, questo si sa. Ma si deve anche sapere che per superare le crisi economiche la classe borghese capitalistica è obbligata a seguire linee di intervento che non possono incidere minimamente sulle cause profonde delle crisi - ossia sul modo di produzione capitalistico -  ma possono intervenire sugli effetti e, in particolare, sugli effetti che provocano sulle condizioni di vita delle masse lavoratrici, perchè - lo ripetiamo - è dal lavoro salariato degli operai  che la classe borghese estrae il suo guadagno, sotto forma di plusvalore, e al quale dà il nome di profitto.

Il fattore decisivo sul mercato mondiale, in ultima analisi, è sempre il prezzo concorrenziale delle merci. Più aumenta la concorrenza fra capitalisti nel mercato, più essi tendono ad ottenere costi di produzuione più bassi e, quindi, gettare nel mercato merci a prezzi più convenienti. La legge di concorrenza non smette di funzionare, anche in presenza di cartelli e monopoli. Caso mai, come in effetti succede nello stadio imperialistico del capitalismo, l'azione dei cartelli e dei monopoli consiste nell'aumentare la pressione sulla classe proletaria in termini di intensità di lavoro e di produttività e  abbassando i salari. La spinta della classe dei capitalisti a forzare la collaborazione di classe nonostante l'abbattimento dei salari, l'aumento del tasso di sfruttamento dei  lavoratori impiegati e l'aumento della disoccupazione, tende, come ricorda Kautsky non ancora passato al nemico, «a distruggere e indebolire le loro organizzazioni»; di più, questa tendenza, in tempo di crisi, «è tanto più forte, quanto più aspra è la concorrenza sul mercato mondiale e quanto più questo appare ristretto in rapporto alla crescita illimitata delle forze produttive del capitalismo» (23).

Alla classe capitalistica non basta, però, schiacciare la classe salariata sotto la pressione dell'aumentato tasso di sfruttamento e della miseria crescente diffusa nelle gradi masse proletarie. Per uscire dalla crisi, quando i contrasti sul mercato mondiale si fanno particolarmente acuti con i concorrenti, da mettere in pericolo la stessa esistenza della classe borghese nazionale come classe dominante, non bastano più misure economiche e sociali restrittive, non basta più la collaborazione di classe in fabbrica, non bastano più leggi che aumentano l'autoritarsimo e il dispotismo sociale della classe dominante: si deve passare all'uso della forza militare, la politica di difesa degli interessi capitalistici e imperialistici della classe dominante cambia i propri mezzi di intervento, e diventa politica di guerra.

Le guerre commerciali, le guerre monetarie, le guerre delle diplomazie, ad un certo punto convergono in un'unica guerra, la guerra militare, la guerra per la spartizione del mercato mondiale su altri rapporti di forza di quelli precedenti.

Riprendendo questo aspetto del problema, continuremo il resoconto nel prossimo numero.

 


 

(1) Vedi Questione fondamentali della economia marxista, Riunione genrale di partito, Milano 17-18 ottobre 1959, seconda seduta,  in «il programma comunista» nn.22-23/1959 e 1-2/1960. Il capitoletto Teoria delle crisi è in «il programma comunista» n. 1/1960.

(2) Qui riscriviamo esattamente il testo per come è stato scritto nel 1959/60, con le citazioni tradotte dall'edizione francese del Capitale utilizzata dal relatore nella riunione. Per l'edizione italiana ci si riferisca a Il Capitale nell'edizione Utet, Torino 1980, Libro Secondo, cap. II, pagg. 102-103.

(3) A questo punto, nel resoconto scritto da cui riprendiamo il testo vi è una parentesi in cui è scritto: « (non si dimentichi che nella formula della riproduzione allargata quando la nuova spesa merci diventa più grande, Marx ammette che, crescendo il capitale anticipato, possa crescere quello costante ma non quello salarii, né relativamente né assolutamente, quando il tasso di composizione organica muti; il che non si supporrà prima di Luxemburg nel tracciare gli schemi della Terza Parte) ». Il riferimento alla Luxemburg è inerente alle questioni dibattute tra Luxemburg, Bucharin e lo stesso Lenin sulla complicatissima questione dell'accumulazione e della riproduzione allargata del capitale.

(4) Si tratta dell'articolo La crisi dell'agricoltura americana pubblicato nel n. 23 del 1959 de «il programma comunista», dove si mette in risalto il paradosso caratteristico dell'economia capitalistica che anche in agricoltura, di fronte ad un certo gradi di sviluppo, viene colpita dalla crisi non di sottoproduzione, bensì di sovraproduzione agricola!

(5) Vedi K. Kautsky, Teorie delle crisi, Guaraldi Editore, Firenze 1976, pag. 67.

(6) Ibidem.

(7) Cfr K. Marx, Il Capitale, Libro Secondo, cit, pag. 526-7.

(8) Cfr K. Kautsky, Teorie delle crisi, cit., pag. 70.

(9 Ibidem, pagg. 71-72.

(10) Ibidem, pag. 73.

(11) Ibidem, pag. 73.

(12) Ibidem, pagg. 76-77.

(13) Ibidem, pag. 87.

(14) Ibidem, pag. 87.

(15) Cfr K. Marx, Il Capitale, Libro Primo, Utet, Torino 1974, cap XIII, pag. 595.

(16) Cfr Marx-Engels, Manifesto del partito comunista, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1962, cap. Borghesi e proletari,  pp. 107-108.

(17) Ibidem, p. 107.

(18) Cfr K. Kautsky, Teorie delle crisi, cit., pag. 91.

(19) Ibidem, pagg. 93-94.

(20) Ibidem, pagg. 94.

(21) Ibidem, pagg. 102.

(22) Cfr K. Marx, Pauperismo e libero scambio - La crisi commerciale incombente, articolo pubblicato nel «New-York Tribune», 1 novembre 1852, in Opere complete, vol. XI, Editori Riuniti, Roma 1982, pag. 373.

(23) Cfr K. Kautsky, Teorie delle crisi, cit., pag. 104.

 

 

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