Il capitalismo mondiale nelle strette della crisi

(«il comunista»; N° 115; Novembre 2009 - Gennaio 2010)

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A differenza del conflitto del 1914-18, la seconda guerra mondiale non sfociò in un’ondata rivoluzionaria, contrariamente a quanto speravano quelli che non avevano valutato a fondo la sconfitta subita dal proletariato alla fine degli anni Venti. Le immense devastazioni della guerra avevano dato al capitalismo la possibilità di lanciarsi con ardore giovanile in un poderoso ciclo di accumulazione ed espansione; ciò, tuttavia, non sarebbe stato possibile senza l’insostituibile aiuto del collaborazionismo politico e sindacale, di matrice staliniana o socialdemocratica, per superare il sempre difficile periodo dell’immediato dopoguerra, per opporsi alle velleità di questo o quel settore operaio combattivo di contrastare il supersfruttamento, incanalandoli nel quadro generale della democrazia borghese.

I trent’anni di espansione che seguirono, soprattutto nei paesi capitalisti sviluppati, radicarono fra i proletari il dominio del riformismo e dei meccanismi di collaborazione di classe sulla base materiale delle ricadute della prosperità economica che avrebbe «garantito» loro una crescita lenta ma regolare del livello di vita; mentre i paesi coloniali strappavano con dure lotte la loro indipendenza politica e si lanciavano, ovviamente con diverso successo, nella costituzione di centri nazionali di accumulazione capitalistica. Questo lungo periodo di crescita capitalistica terminò  con la grande crisi economica internazionale del 1974-75. Per la prima volta dopo la guerra le grandi potenze capitalistiche furono colpite simultaneamente dalla recessione economica. Anche se la borghesia riuscì a far ripartire senza troppe difficoltà la macchina economica, la crisi del 1974-75 e la sua «replica» ancor più violenta del 1980-82 hanno segnato una svolta nella vita del capitalismo. Il periodo di forte espansione economica e di continuo miglioramento per le masse lavoratrici era, nel complesso, finito, lasciando il posto a una crescita economica molto più debole e a una precarizzazione sempre maggiore fra i lavoratori.

Durante i tre decenni successivi alla crisi del 1975, il capitalismo continuava tuttavia a crescere e a mantenere i suoi profitti estorcendo ai proletari un’ulteriore fetta di plusvalore, alleggerendo il peso dello Stato sull’economia (senza sminuirne però il ruolo), ricorrendo in modo sempre più massiccio alla droga del credito per estendere artificialmente la domanda solvibile ecc., ma anche trovando un nuovo campo di espansione con l’apertura dei mercati rappresentati dai paesi sedicenti «socialisti». Tuttavia, come dicevano Marx ed Engels nel Manifesto, la borghesia risolve queste crisi solo preparando «crisi ancor più generali e più violente e la diminuzione dei mezzi per prevenirle». È così, per esempio, che nel corso degli ultimi anni le autorità americane hanno sistematicamente smantellato le norme e la regolamentazione istituite nel corso di decenni per prevenire il ripresentarsi di una grande crisi finanziaria, in quanto queste regole costituivano un ostacolo al movimento dei capitali! La crisi attuale, che deriva da trent’anni di ulteriore crescita del capitalismo, è, a detta degli stessi borghesi, più grave delle precedenti; è, in ogni caso, la più internazionale, la prima crisi veramente mondiale (infatti nella crisi del 1974-75 e in quella del 1980-82 i paesi del blocco dell’Est e la Cina, per esempio, erano stati relativamente risparmiati), come dimostra il fatto che per la prima volta il PIL (Prodotto Interno Lordo) mondiale è in ribasso: questa volta nessun paese ha potuto essere protetto dalla «cortina di ferro» o da una qualunque barriera doganale. Per questo le conseguenze della crisi saranno ben più profonde; anche se non sarà la crisi finale del capitalismo (concetto privo di senso perché il capitalismo finirà solo quando si passerà dalla crisi economica alla crisi politica rivoluzionaria), segnerà indubbiamente una svolta, aprendo un periodo che non potrà concludersi che con una nuova guerra mondiale, ancora più terribile delle precedenti, l’unico mezzo per questo sanguinario modo di produzione di ritrovare nuovo vigore, a meno che il proletariato non riesca rovesciarlo prima.

 

FINE DELLA GRANDE RECESSIONE?

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Un anno dopo il crollo delle borse a livello mondiale, i rappresentanti delle grandi potenze si sono reincontrati lo scorso autunno in occasione di diversi summit. Tutta questa bella gente si è felicitata del fatto che, grazie al proprio intervento, si sia evitato «il peggio»: si è scongiurato un nuovo 1929, la recessione è finita o quasi, la crescita comincia a intravedersi, i profitti iniziano a ricomparire nelle banche, i grandi Stati collaborano per eliminare le cause della crisi e impedire che si ripresenti.

La realtà è molto meno rosea, come d’altronde ammettono anche alcuni stimati economisti che a lungo, in precedenza, avevano negato qualunque ipotesi di cadere in una crisi economica. Mentre, secondo i pronostici dei responsabili economici americani, la recessione negli Stati Uniti sarebbe «probabilmente» nello scorso mese di agosto, le statistiche pubblicate in settembre presentavano un quadro ben diverso; quelli che assicuravano che il commercio mondiale avrebbe avuto una ripresa nel secondo trimestre sono stati smentiti dai fatti.

È comunque vero che si è assistito a una «stabilizzazione» dell’economia internazionale, seguita da un certo miglioramento. All’apice della crisi finanziaria, i grandi istituti bancari avevano smesso di concedersi reciprocamente prestiti ed è stato necessario un intervento urgente e massiccio delle banche centrali e degli Stati per evitare che l’esaurimento del credito e il crollo delle banche mettessero a terra l’economia mondiale. Questo intervento ha permesso di salvare i sistemi finanziari nazionali e internazionali; ma, anche se il malato non è più in pericolo di vita, è pur sempre in terapia intensiva, come dimostra fra l’altro la persistente fragilità del sistema bancario: a partire dall’inizio del 2009 fino a metà ottobre negli Stati Uniti sono fallite quasi cento banche (a metà dicembre erano in tutto già 136), tanto che l’istituzione deputata a garantire i depositi si è trovata a corto di denaro…

Cerchiamo ora di dare un sintetico quadro della situazione economica mondiale a un anno dal crac delle borse.

Da alcuni mesi le borse ostentano sfacciati rialzi, che stridono rispetto all’anemia della cosiddetta «economia reale». Alla metà di settembre la borsa americana aveva, infatti, appena vissuto il suo miglior semestre dal 1933 (53% di aumento dell’indice Standard & Poor’s), ma è anche vero che i sei mesi precedenti erano stati i peggiori dal 1932! Le altre borse del mondo hanno assistito a un’evoluzione simile, o addirittura molto più marcata: + 45% in Cina, + 56% in Giappone, + 70% in Francia e in Gran Bretagna, + 74% in Germania, + 94% in Russia, + 109% in Italia, + 133% in Turchia (1). Inutile dire che questa vera e propria febbre borsistica non ha alcun rapporto con l’evoluzione dei profitti delle aziende o dell’attività economica nel corso dello stesso periodo, a cui, secondo la logica, gli indici di borsa dovrebbero essere allineati. Come spiegare questo fenomeno?

Chiediamo allora ad economisti… cinesi di risponderci:

In seguito allo sviluppo dell’economia, il mercato borsistico e il mercato immobiliare in Cina hanno conosciuto una crescita strabiliante, provocando inquietudine fra gli economisti. Secondo le statistiche, dopo un incredibile aumento del mercato borsistico cinese, il valore stimato è già considerevolmente elevato. Gli investitori non esitano a entrare nel mercato borsistico. Nel mese di giugno, in totale, sono stati aperti 1,6 milioni di conti, che corrispondono a un aumento del 68% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Attualmente, il valore totale del mercato borsistico di Shangai e di Shenzhen ha superato quello del Giappone, piazzandosi al secondo posto a livello mondiale (…).

Secondo Zhang Liqing, direttore dell’Istituto finanziario dell’Università centrale di Finanze ed Economia, il rapido e incontrollabile aumento del credito delle banche ha provocato un aumento dei prezzi dei titoli azionari e degli alloggi. Secondo i dati dell’Ufficio statistiche dello Stato, alla fine del primo semestre 2009 i nuovi crediti emessi hanno superato i 7.370 miliardi di yuan, toccando un record mai raggiunto dalla fondazione della Repubblica Popolare Cinese. All’inizio del 2009 l’obiettivo annuale fissato dallo Stato era di solo 5.000 miliardi di yuan. L’enorme volume del credito ha indubbiamente stimolato la crescita economica del paese, ma ha anche determinato alcuni problemi. (…) Secondo Zhang, nel corso del primo semestre del 2009 gran parte dei fondi è stata riversata sul mercato borsistico e su quello immobiliare, mentre le piccole e medie imprese continuano a dover far fronte alla carenza di denaro. Lo scarto fra espansione finanziaria e crescita dell’economia reale continua ad aumentare. (…) Ba Shusong, direttore aggiunto dell’Istituto delle Finanze del Centro di ricerca e sviluppo del Consiglio degli Affari di Stato, ha dichiarato che la Cina presentava già i fattori fondamentali della formazione di bolle economiche. (…) Ba ha precisato che le bolle economiche sono, a breve termine, fonti di benefici per gli investitori, ma che rappresentano un grande rischio per l’economia nazionale” (2).

Lo stesso fenomeno si è ripetuto in tutti i paesi: le gigantesche quantità di crediti concesse agli istituti bancari e finanziari si sono in parte ritrovate sul mercato borsistico (e anche sui mercati delle materie prime) sui quali hanno alimentato la crescita della «bolla speculativa» in corso. I vari responsabili governativi hanno un bel criticare amaramente il fatto che il credito alle imprese e ai privati sia sempre estremamente limitato, ma le banche, la cui salute è ancora malferma dopo le colossali perdite dell’anno passato, non possono far altro che cercare di piazzare i loro capitali dove possono ottenere i più rapidi e sicuri profitti. Tanto peggio se questo significa far correre grandi rischi all’economia nazionale e internazionale!

In effetti, il credito alle imprese e ai privati ha assistito a una forte caduta in tutti i paesi industrializzati; ad esempio, in Francia, nel primo semestre 2009 si sono registrati: -  24%  per i prestiti alle imprese,  - 15% per i crediti al consumo, - 27% per i crediti immobiliari ai privati (dati annuali). Negli Stati Uniti, la contrazione del credito (credit crunch) continua e accelera anche per le piccole imprese e i privati; i crediti al consumo sono scesi in agosto 2009 di 12 miliardi di dollari (ultimo dato noto), cioè del 5,8% in variazione annuale, dopo essere scesi di 19 miliardi in luglio, ossia di oltre il 9%, che rappresenterebbe il dato peggiore da quando queste statistiche vengono pubblicate (1943).

 

I PIANI DI SALVATAGGIO STATALI NEL 2009…

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Tuttavia i piani di salvataggio o di rilancio adottati dai vari governi hanno avuto un effetto positivo sull’attività economica della maggior parte dei paesi. L’esempio più eloquente è quello degli incentivi che riguardano il settore automobilistico, branca particolarmente importante nei paesi industrializzati grandi o meno grandi. Ovunque siano state istituite, queste sovvenzioni statali all’acquisto di un veicolo nuovo hanno riscontrato un grande successo e costituiscono una preziosa riserva d’ossigeno non solo per le fabbriche automobilistiche, ma anche per i loro fornitori e per l’indotto.

Negli Stati Uniti, questo incentivo (detto cash for clunkers) è stato erogato solo per due mesi, ma avrebbe determinato la vendita di più di 600.000 veicoli e comportato una ripresa significativa della produzione industriale. Le autorità stimano che si tradurrà in un aumento fra lo 0,3 e lo 0,4 del PIL del terzo trimestre.

In Europa la vendita di automobili nuove è aumentata, rispetto all’anno precedente, del 2,8% in luglio e del 3% in agosto (ultimi dati noti) grazie a questa misura adottata da 11 paesi su 16 della zona dell’euro. Fra i paesi produttori, solo la Svezia, il cui governo ha rifiutato di adottarla, ha subito un forte calo delle vendite nei mesi estivi. In Germania, dove l’incentivo è stato concesso dal mese dicembre al mese di agosto, avrebbe portato alla vendita di due milioni di vetture. In agosto, il mercato tedesco avrebbe quindi registrato un aumento del 26,8% rispetto allo stesso mese del 2008!

Nel frattempo, la vendita dei veicoli commerciali, che non beneficia di questi incentivi, ha  continuato a calare; in Francia, per esempio, mentre la vendita di automobili nel mese di settembre era aumentata del 14% rispetto al 2008, quella di veicoli commerciali leggeri (meno di 5 tonnellate) è scesa del 18,8% e quella dei veicoli pesanti è  crollata (- 46,6%); questa continua caduta delle vendite di veicoli commerciali industriali è il riflesso diretto del persistente marasma economico. E nei paesi in cui si pone fine agli incentivi, le vendite calano immediatamente, fatto che dimostra il carattere artificiale e temporaneo dei precedenti aumenti.

L’esempio più significativo è rappresentato dagli  Stati Uniti, dove la fine degli incentivi ha determinato una nuova drastica caduta delle vendite, che sono scese del 41% rispetto al mese di agosto! Rispetto al settembre 2008, la vendita di veicoli nuovi è calata del 22,7% (nel 2008 era già scesa del 22,8% rispetto all’anno precedente): la crisi dell’industria automobilistica negli Stati Uniti continua, dunque, allo stesso ritmo. Più precisamente abbiamo un calo del 45% per la General Motors (recentemente sfuggita al fallimento, ma tutt’altro che in forma), del 42% per la Chrysler (venduta alla FIAT), del 20% per l’Honda, del 12,6% per la Toyota e così via; la Ford può quasi vantarsi perché perde solo il 5,1%… (3)

 

…HANNO IMPEDITO IL CROLLO ECONOMICO…

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Per avere una visuale più ampia sull’attività economica nei vari paesi e sulla sua recente evoluzione, guardiamo le cifre che riguardano la produzione industriale (i dati di cui disponiamo sono in generale relativi al mese di agosto), la produzione di acciaio e il consumo di petrolio, e i dati che indicano le variazioni del mercato mondiale.

Rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, quando la recessione economica era già cominciata, ma non aveva ancora raggiunto la massima intensità, i dati riguardanti la produzione industriale sono tutti estremamente negativi ad eccezione della Cina, che dichiara ufficialmente un aumento del 12,3% e dell’India, con un aumento del 6,8%.

Abbiamo: - 10,7% per gli USA, - 18,7%  per il Giappone, -16,7 per La Germania, - 13% per la Francia, - 11,2% per la Gran Bretagna, - 18,2 per l’Italia, - 11% per la Spagna, - 12,6% per la Russia, -9,2% per la Turchia e per la Svezia un calo record del - 20,9%: il famoso modello svedese ha del piombo nelle ali… Per completare il quadro, forniamo i dati riguardanti alcuni altri paesi. America Latina: Argentina, -9%; Brasile, - 9,9%; Messico, - 6,5%; Venezuela (giugno), 12,4%. Sudafrica (che affronta la sua prima recessione da 17 anni a questa parte): - 15% (4).

Ma se ora consultiamo le variazioni di un mese rispetto all’altro (cifre corrette dalle variazioni stagionali), possiamo constatare che nell’ultimo periodo la produzione industriale ha ripreso a crescere in molti paesi; pur rimanendo inferiore del 15,4% rispetto al livello dell’anno precedente, la produzione industriale della zona dell’euro era infatti aumentata in agosto dello 0,9% rispetto a luglio, mese in cui era già cresciuta dello 0,2% rispetto a giugno (5). Eccezioni: la Gran Bretagna, con un forte calo del 2,6% in agosto rispetto a luglio, identico a quello della Svezia; ma il record è detenuto dall’Irlanda: - 16%! In Giappone la produzione industriale era in agosto in leggero rialzo per il quinto mese consecutivo, grazie, secondo i commentatori, ai piani di rilancio messi in atto con grandi investimenti dall’inizio della crisi a livello sia nazionale che internazionale. Negli Stati Uniti la produzione ha ripreso a crescere a partire dal mese di luglio.

Per quest’ultimo paese, abbiamo già segnalato il ruolo importante avuto su questo aumento dalle sovvenzioni all’industria automobilistica. Secondo i calcoli di alcuni economisti, la totalità degli aumenti di produzione industriale in Germania e la metà in Francia sarebbero da attribuire  a questo tipo di sovvenzioni (6).  Comunque sia, è innegabile che negli ultimi mesi i dati della produzione industriale abbiano smesso di scendere  e abbiano addirittura ripreso a salire.

La produzione mondiale di acciaio continua a rimanere un elemento essenziale per l’industria e le costruzioni. Ha toccato il suo livello più basso (82 milioni di tonnellate) nel dicembre 2008, Poi ha ripreso a salire sensibilmente a partire da maggio, fino a raggiungere, in luglio, 104 milioni di tonnellate (con un calo, comunque, dell’11% rispetto al luglio del 2008). Una parte importante dell’aumento degli ultimi mesi è dovuta alla Cina che, in luglio, ha prodotto quasi la metà dell’acciaio mondiale (50,7 milioni di tonnellate), segnando un aumento di oltre il 12% su un anno. Per i grandi paesi produttori, abbiamo, per il mese di luglio, le seguenti variazioni annuali: Stati Uniti, - 41,6%; Russia, - 18,4%; Germania, - 28,8%; Italia, - 43,2%; Gran Bretagna, - 30,6%; Francia, - 37,2%; Spagna, - 32%; Turchia, - 8,5%; Ucraina, -28%; Brasile, - 22,8%; Messico, - 23%; Giappone, - 24%; Corea del Sud, - 13%; Taiwan, - 26,6%. Anche se non si tratta di un grande paese produttore, è interessante notare che il calo record è detenuto dalla Svezia: - 97%! Per quanto riguarda l’India, ha avuto un aumento del 4% (7). 

Il petrolio è una fonte di energia vitale per l’economia capitalistica moderna, che non può essere sostituita, a breve e media scadenza, da nessun’altra, nonostante tutti gli sforzi di diversificazione che vengono annunciati ovunque; il suo consumo è un riflesso fedele dello stato dell’economia internazionale. Nel 2008 si è già assistito al minore aumento del consumo di petrolio nel mondo dalla recessione del 2001:+ 1,4%. Questo dato è il risultato di una riduzione del consumo americano (- 2,8%) e degli altri paesi capitalisti più sviluppati (- 0,5% in Europa) e di una persistente crescita del consumo in Cina, in India e in altri paesi in via di sviluppo.

Il 2009, con la generalizzazione della crisi all’intero pianeta, ha segnato una diminuzione del consumo mondiale che viene stimata a oltre il 2% dall’Agenzia Internazionale per l’Energia (AIE). Quest’ultima, che pubblica soprattutto statistiche riguardanti i paesi dell’OCSE, ha annunciato, per il secondo trimestre 2009, un calo nel ritmo annuale di consumo del 5% negli Stati Uniti, del 10,8% in Germania, del 12,9% in Giappone, del 7,8% in Francia, del 5,6% in Italia, del 4,6 in Spagna. Da parte loro, le autorità cinesi hanno annunciato una riduzione del consumo nel primo semestre del 2,9% nel ritmo annuale. Queste cifre contrastano nettamente con l’aumento del prezzo del petrolio registrato da alcuni mesi; anche se l’AIE e l’OPEP hanno pubblicato negli scorsi settembre e ottobre delle previsioni di un rallentamento del calo del consumo, a dimostrazione del carattere puramente speculativo di questo rialzo.

Passiamo ora al commercio mondiale, che fornisce sempre un indice sicuro dell’ampiezza di una crisi; dalla fine della seconda guerra mondiale il suo volume aveva  subito solo due piccoli ribassi, in occasione delle crisi del 1975 e del 1982 (- 2,2%). Nel corso degli ultimi decenni il volume del commercio internazionale è aumentato più velocemente della stessa produzione in seguito alla crescente internazionalizzazione del capitalismo, la famosa «globalizzazione». L’attuale crisi economica, dunque, non poteva che avere su di esso la maggiore ripercussione degli ultimi venti o trent’anni. Stiamo assistendo a questo, ma a una scala inaspettata: il commercio mondiale ha subito un vero crollo, senza precedenti dalla fine della guerra mondiale, che, secondo alcuni economisti, sarebbe addirittura superiore a quello dell’inizio della crisi degli anni Trenta (8): nel settembre 2009 la CNUCED stimava che il calo si aggirasse intorno al 10% (9). Sembra, comunque, che il calo degli scambi internazionali si sia fermato nel corso dell’estate. Secondo uno studio specializzato olandese riportato dalla stampa, il volume del commercio mondiale sarebbe aumentato dell’1,6% nel  giugno 2009 rispetto al mese precedente e del 3,5% in luglio. Questi dati, in sé, sono ancora insufficienti per parlare di una sicura ripresa del commercio mondiale, ma indicano una netta variazione di tendenza rispetto al crollo subito dalla fine del 2008 (10).

Infine, per concludere questo giro d’orizzonte, dobbiamo citare una statistica ufficiale sull’andamento dei profitti in USA (non disponiamo di dati relativi ad altri paesi). Nel secondo trimestre, i benefici delle imprese non finanziarie hanno registrato un aumento di 12 miliardi di dollari, dopo aver subito, nel primo trimestre, una riduzione di oltre 40 miliardi. Questo aumento dei profitti è attribuito «all’abbassamento dei costi salariali e non» che ha più che compensato la riduzione dei prezzi (11): negli Stati Uniti, per lo meno, i capitalisti sono riusciti a trasferire alla grande il peso della crisi sulle spalle dei proletari!

 

…MA NON L’AUMENTO DELLA DISOCCUPAZIONE…

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Un altro dato sulle caratteristiche della crisi attuale ci viene dalle statistiche sulla disoccupazione. Gli ultimi dati pubblicati mostrano che continua ovunque ad aumentare inesorabilmente. Negli Stati Uniti, nel  settembre 2009 sono stati soppressi oltre 260.000 posti di lavoro. Indubbiamente il ritmo della perdita di posti di lavoro è rallentato rispetto all’anno precedente (oltre 400.000 al mese a partire dall’agosto 2008, con un apice di 700.000 in gennaio), ma questi licenziamenti di massa non concordano affatto con l’idea che le autorità si compiacciono di divulgare secondo cui la recessione sarebbe finita; ciò è confermato dalla diminuzione, sempre nel settembre 2009, del tempo di lavoro medio a 33 ore settimanali, un vero record. Il tasso di disoccupazione ufficiale si avvicina sempre più al triste record raggiunto durante la crisi del 1982 (quando ha superato il 10%), visto che in settembre ha raggiunto il 9,8%. Dall’inizio ufficiale della recessione (dicembre 2007) sono stati soppressi più di 7 milioni di posti di lavoro. Nel settembre 2009, le principali perdite di posti di lavoro si sono avute nel settore delle costruzioni (64.000), dell’impiego statale (53.000) e dell’industria manifatturiera (51.000). La maggior parte degli esperti stima che il tasso di disoccupazione abbia raggiunto entro la fine del 2009 il 10%.

Se, inoltre, esaminiamo più da vicino i dati ufficiali pubblicati, relativi al settembre 2009, constatiamo che in questo mese più di 500.000 persone hanno smesso di cercare lavoro; se si tenesse conto di questi lavoratori «scoraggiati» e di quelli che sono stati costretti ad accettare un lavoro a tempo determinato, si avrebbe un tasso di disoccupazione (completa o parziale) del 17% (12).

Considerando, quindi, che le statistiche ufficiali sminuiscono sempre fortemente la reale disoccupazione, andiamo a vedere che cosa succede negli altri paesi (la maggior parte dei dati riguarda agosto 2009): 8,2% in Germania; 9,9% in Francia; 7,4% in Italia (giugno); 7,9% in Gran Bretagna (luglio); 7,8% in Russia; 5,5% in Giappone; 8,1% in Brasile; 8,8% in Argentina; 6,3% in Messico; 7,7% in Venezuela (giugno); 13% in Turchia; 12,5% in Belgio e 18,9% in Spagna, poco invidiabile record battuto solo dal Sudafrica: 23,6% (giugno) (13). Ricordiamo che il calcolo del tasso di disoccupazione in Giappone (dove aveva raggiunto il 5,7% in luglio prima di scendere leggermente in agosto) differisce sensibilmente da quello degli altri paesi – evidentemente nel senso di diminuirlo ufficialmente! Una recente particolarità di questo paese è il fortissimo aumento dei lavori temporanei che riguardano attualmente un terzo della manodopera: sono questi lavoratori a sopportare il peso principale della crisi!

 Secondo l’OCSE, il numero di disoccupati all’interno della propria zona (che corrisponde grosso modo a quello che un tempo era chiamato il campo occidentale, compresi gli alleati asiatici degli Stati Uniti) dovrebbe raggiungere entro la fine del 2009 i 53 milioni…

 

…NÉ' HANNO DETERMINATO UNA NETTA RIPRESA ECONOMICA

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Le gigantesche quantità di denaro liquido messe in movimento in un modo o nell’altro dagli Stati e dalle istituzioni internazionali hanno dunque permesso di salvare il mercato finanziario mondiale e di fermare il deterioramento dell’economia internazionale. Ma perfino quegli economisti che più entusiasticamente sostengono le politiche messe in atto dall’inizio della crisi ammettono che la ripresa sarà lenta e tortuosa, alcuni arrivano addirittura a temere una ricaduta quando inevitabilmente si esauriranno gli effetti stimolanti dei piani di rilancio (come avvenne in occasione della crisi del 1980-82).

È questo che temono, senza confessarlo apertamente, le autorità finanziarie ed economiche mondiali, come dimostra il fatto che perseverano nella loro politica di denaro facile (tassi di interesse praticamente uguali a zero, deficit pubblici in forte rialzo ecc.) nonostante i pericoli insiti in questo per l’attività economica futura.

Secondo alcuni esperti di piani finanziari riunitisi a Parigi a metà dello scorso ottobre, la deriva dei deficit pubblici nella zona dell’euro rischia effettivamente di raggiungere livelli insostenibili, rendendo necessario a breve uno «shock fiscale», e cioè un forte aumento delle imposte, con conseguenze negative sulla crescita economica.

Il FMI, da parte sua, constatando che l’aumento del debito pubblico nei paesi sviluppati è «senza precedenti in tempi di pace», stima che si possa toccare il 120% del PIL entro 5 anni. Per riportarlo al 60% in vent’anni (sic!) auspica che gli Stati passino «da deficit di budget equivalenti in media al 3,5% del PIL a sforamenti nell’ordine del 4,5%” (14). A meno di ritrovare una vivace crescita economica che per il momento nessuno immagina, questo comporterebbe l’adozione di politiche di austerità estremamente pesanti che unirebbero aumenti di imposte e tasse a riduzioni della spesa sociale…

Per il momento gli Stati sono impegnati in una corsa ai deficit che rappresentano, nel breve periodo, uno stimolo prezioso per un’economia anemica. E tanto peggio se questi deficit e queste iniezioni di liquidità minano la stabilità dell’ordine economico, compromettendo la crescita futura, e alimentano le bolle speculative, la cui esplosione porterà prima o poi alla rovina: “troppi hanno interesse alla creazione di nuove bolle per far fronte alle perdite subite” (15)! La Commissione europea ha intrapreso dei procedimenti contro 20 dei 27 paesi perché i loro deficit di bilancio  superano il 3% stabilito dai criteri del trattato di Maastricht, a cui i responsabili politici hanno risposto con un’alzata di spalla: al diavolo i criteri e i trattati quando sono in  gioco la salute e i profitti immediati delle imprese capitalistiche, nazionali o sovranazionali!

Anche la «virtuosa» Germania, che ha inserito nella sua Costituzione la regola di non avere alcun deficit, quest’anno dovrà averne uno di almeno il 3,9% e questo senza tener conto della decisione del nuovo governo di accrescere ulteriormente il deficit. Ma gli altri Stati fanno ben di peggio: in Italia è stato previsto un deficit del 5,3%, in Francia dell’8,2%, in Spagna del 10%, in Gran Bretagna del 12,4% (più del 12% della piccola Irlanda) e in Grecia del 12,5% (16).

Anche il debito pubblico, che, secondo questi stessi criteri, non avrebbe dovuto superare un livello pari al 60% del PIL, nei paesi dell’area europea è in media del 72,2%. Più precisamente, ha già raggiunto il 74% in Francia e ufficialmente dovrebbe superare l’80% nel 2010; in Germania dovrebbe aver raggiunto nel 2009 il 73,4% e si prevede che toccherà il 78% nel 2010; in Italia, il paese europeo più indebitato, ha già superato il 115% nel secondo trimestre del 2009.

Negli Stati Uniti, alla fine dell’anno fiscale 2009 (settembre), il bilancio dello Stato presentava un deficit del 9,9%, il più importante da 50 anni a questa parte (anche gli introiti fiscali sono i più bassi dell’ultimo mezzo secolo); il debito pubblico ha probabilmente superato l’80% del PIL nel 2009 e, secondo il FMI, raggiungerà nel 2010 il 100%. A condizione che lo Stato non metta in atto un secondo grande piano di rilancio, come è richiesto con sempre maggiore insistenza da più parti, visti gli scarsi risultati del primo…

In Giappone, il deficit di bilancio previsto è del 10% (contro il 3,2% del 2007, prima della crisi), mentre il debito pubblico rappresentava, alla fine dell’anno fiscale 2009, l’equivalente del 196% del PIL e dovrebbe raggiungere il 220% alla fine del 2010, se il nuovo governo del Partito Democratico, come sembra, non intenderà sforare ulteriormente il deficit.

 

COME PUÒ IL CAPITALISMO SUPERARE LA CRISI?

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Nel Manifesto del Partito  Comunista, Marx ed Engels, dopo aver affermato che la crescita delle forze produttive determina regolarmente delle crisi di sovrapproduzione, scrivono: «Con quale mezzo la borghesia supera le crisi? Da un lato, con la  distruzione coatta di una massa di forze produttive; dall’altro, con la  conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento più intenso dei vecchi».

Il ricorso al credito è uno dei mezzi principali per sfruttare più a fondo i vecchi mercati (oggi si direbbe maturi): senza la generalizzazione massiccia del credito al consumo, né il settore immobiliare, né l’industria automobilistica né altri settori, avrebbero conosciuto il boom degli anni passati negli Stati Uniti e altrove.

Marx spiega che il sistema del credito accelera lo sviluppo delle forze produttive e del mercato mondiale, superando per un certo periodo i limiti del capitale; ma contemporaneamente «il credito affretta le violente eruzioni di questo antagonismo [tra forze produttive e mercato, NdR], le crisi, quindi gli elementi dissolventi il vecchio modo di produzione». Per questo agisce come «leva principale della sovraproduzione e sovraspeculazione nel commercio» (17).

La crisi attuale dimostra con chiarezza la veridicità delle analisi marxiste. Praticamente tutti gli economisti riconoscono ora che la ripresa economica seguita alla recessione del 2001 è stata il frutto di un indebitamento che, spinto all’estremo, scarsamente regolato (sono tutti del parere, a posteriori, che il capitalismo non è stato abbastanza regolato), è sfociato in un’orgia di speculazione e sovraproduzione. Il debito totale (pubblico e privato) degli Stati Uniti ha incominciato ad aumentare dopo la crisi del 1980-82 quando si aggirava intorno al 160% del PIL, per raggiungere poi il 265% durante la recessione del 2001 e aumentare ancor più rapidamente in seguito fino ad arrivare a oltre il 340% del PIL nel 2007;  l’indebitamento delle famiglie americane ha seguito una curva simile, ma ancor più accentuata, con una forte accelerazione dopo il 2001, contemporaneamente all’azzeramento del tasso di risparmio. Il ricorso sempre maggiore al credito (o al debito, come dicono oggi gli economisti) si è reso sempre più necessario per rilanciare una macchina produttiva sempre più minacciata dalla ricorrente saturazione dei mercati.

Una dimostrazione lampante ci viene dai dati seguenti: mentre negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso occorrevano 1,5 dollari di credito per ottenere 1 dollaro di crescita del PIL, questa cifra è aumentata a partire dagli anni Ottanta per culminare a 3 dollari di credito per 1 dollaro di crescita negli anni Novanta; è ulteriormente aumentata durante il ciclo che si è aperto dopo la crisi del 2001 per toccare quasi i 4,5 dollari credito per ogni dollaro di crescita (18)! L’«industria finanziaria» è divenuta sempre più importante nell’attività economica americana. Mentre nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta i profitti delle società finanziarie rappresentavano solo tra il 10 e il 16%  del totale dei profitti delle imprese, la loro fetta ha continuato a ingrandirsi a partire dalla metà degli anni Ottanta, soprattutto a causa delle politiche di deregulation adottate durante le presidenze Bush (padre) e Clinton, per raggiungere il livello del 40% al momento della crisi del 2001-02.

Questa crescente orgia di credito, finanza e speculazione avanza inevitabilmente negli Stati Uniti, ma anche negli altri grandi paesi e non poteva che sfociare in un crollo; essa testimonia le aumentate difficoltà incontrate dal funzionamento del ciclo economico capitalistico nel corso degli ultimi decenni. Indica anche che, per i capitalisti e i loro Stati, sarà ben difficile trovare, come dopo il 2001, un mezzo per rilanciare l’economia in una nuova espansione del credito al consumo; occorrerà innanzitutto che venga riassorbito l’attuale indebitamento dei consumatori che non ce la fanno a rimborsare i loro debiti! Per questo lo Stato è divenuto il consumatore ultima risorsa: praticamente solo l’aumento delle sue spese può offrire un mercato sufficiente alle imprese capitalistiche strangolate dalla sovraproduzione. Ma per quanto tempo può andare a avanti così? Il rapido aumento dell’indebitamento degli Stati e la necessità che prima o poi vi debbano porre rimedio, fanno sì che questa soluzione sia solo temporanea e parziale.

Una via che naturalmente cercano di imboccare tutte le potenze capitalistiche è quindi la conquista di nuovi mercati, nonostante il parere di coloro che condannano saccentemente il modello tedesco o giapponese, basati sull’esportazione: gli stessi che ieri elogiavano la globalizzazione, vorrebbero che il capitalismo tornasse, ora, ad avere come centro il mercato nazionale. Come diceva il Manifesto, il capitalismo ha definitivamente dato un carattere internazionale alla produzione e  al consumo di tutti i paesi. Con grande disperazione dei reazionari, ha tolto all’industria la sua base nazionale.

La conquista dei mercati significa l’accentuarsi della lotta commerciale fra le diverse potenze capitalistiche. Oggi questa lotta commerciale tende ad assumere sempre più la forma di una guerra monetaria, come già si profilava prima del crac della borsa del 2008. Il dollaro è così ridisceso a metà di ottobre 2009 allo stesso livello raggiunto nell’agosto 2008 rispetto all’euro (1,5 dollari per 1 euro) mettendo in subbuglio i responsabili europei: le merci americane, in effetti,  guadagnano così in competitività rispetto alle merci della zona dell’euro. Secondo le parole di un banchiere parigino, la Federal Riserve americana «è senza dubbio molto contenta di ciò che sta succedendo». Egli spiega che “è una gran fortuna per gli Stati Uniti: esportano recessione e importano crescita» (19). La ripresa economica in Europa  potrebbe in effetti essere compromessa da questo calo del dollaro, considerando inoltre che la moneta cinese è strettamente allineata al corso della moneta americana, rendendo la concorrenza con le merci cinesi ancora più difficile…

I capitalisti americani, d’altra parte, non sono particolarmente entusiasti dell’allineamento tra dollaro e yuan, perché preferirebbero una rivalutazione della moneta cinese per alleggerire la pressione concorrenziale di questo paese; ma hanno oggi troppo bisogno dei capitali cinesi allo scopo di finanziare i loro deficit per opporvisi veramente, senza contare che buona parte delle imprese cinesi esportatrici lavorano come succursali di imprese americane. Si assiste quindi alla realizzazione nei fatti di una specie di blocco commerciale-monetario americano-cinese, affiancato dalla Gran Bretagna che lascia anch’essa scivolare la sua moneta contro i loro concorrenti europei, giapponesi e di altri paesi (in particolare gli altri paesi asiatici esportatori).

 

CAPITALISTI CONTRO PROLETARI

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L’aggravarsi dello sfruttamento della classe operaia è inevitabile, perché è da questo sfruttamento che il capitalismo ricava il plusvalore  indispensabile al suo funzionamento. Abbiamo già visto che i capitalisti americani sono riusciti a salvare i loro profitti agendo sui salari; i proletari sono stati i primi a subire le conseguenze della crisi con il rapido aumento della disoccupazione , la perdita dell’abitazione, che interessa milioni di famiglie proletarie americane, e delle loro pensioni: per questo negli Stati Uniti centinaia di migliaia di proletari con più di 65 anni sono costretti a lavorare o a mettersi alla ricerca di un lavoro, mentre un po’ dovunque in Europa si generalizza la tendenza a far slittare l’età della pensione e a ridurre le spese sociali di ogni genere. Quelli che sono riusciti a conservare il loro posto di lavoro si trovano e si troveranno sempre più a fare i conti con diminuzioni del salario.

Gli esperti in previsioni di una banca di investimenti francese, rivolgendosi ai loro clienti capitalisti, descrivono così la prospettiva per i prossimi anni: «I governi, anziché annunciare una ripresa ciclica normale, farebbero meglio a spiegare le difficoltà: - perdite irreversibili di posti di lavoro (…); - contrazione del commercio mondiale e (…) rischio di apprezzamento dell’euro; - impossibilità di far ridecollare la crescita attraverso l’indebitamento; - necessità di passare in futuro a politiche di bilancio restrittive; - accelerazione delle delocalizzazioni; - ridefinizione della ripartizione delle entrate a scapito dei salari». In un’altra sintesi, mettono i puntini sulle i: «- La crescita sarà debole con il proseguimento del disindebitamento del settore privato. - Questo ridurrà spontaneamente la redditività delle imprese, come si è visto in passato in tutti i paesi. - (…) l’unica soluzione per le imprese sarà di ridurre i salari, come già si vede negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Giappone e in Germania». E, infine, concludono: “La situazione sociale diverrà estremamente tesa negli Stati Uniti, in Europa e in Giappone» (20). Questo è quanto dicono, in genere in forma più attenuata, tutte le istituzioni di previsione nazionali e internazionali, facendo riferimento a una ripresa debole e «senza occupazione». All’occasione, comunque, non esitano a essere più dirette, come ha fatto il FMI quando ha minacciato di sospendere i suoi aiuti all’Ucraina dopo che il suo governo aveva deciso di stabilire un salario minimo (21), in quanto questa decisione avrebbe minacciato la «stabilità» del paese: perché il capitalismo ritorni in buona salute occorre che i proletari lavorino sodo ma crepino di fame!

L’abbassamento dei salari, l’aumento della disoccupazione, la diminuzione delle prestazioni sociali stanno aumentando la povertà nei paesi capitalisti sviluppati, che già prima della crisi colpiva in Europa 76 milioni di persone. Secondo le statistiche ufficiali dei paesi industrializzati la soglia di povertà si sorpasserebbe se si guadagnassero meno di 1,25 dollari al giorno. La situazione è ancor più drammatica nei paesi in via di sviluppo. Secondo la Banca Mondiale, nel 2009 circa 90 milioni di persone nel mondo sarebbero cadute in un’estrema povertà (meno di 1,25 dollari al giorno) a causa della crisi e oltre un  miliardo di persone dovrebbero soffrire per la carestia (22). Per i borghesi non sono altro che poveri di cui bisogna preoccuparsi, non per motivi caritatevoli, ma per preservare la stabilità dell’attuale sistema politico ed economico; per i proletari rivoluzionari, al contrario, sono degli alleati naturali che dovranno essere mobilitati nella lotta rivoluzionaria comune di coloro che non hanno altro che le loro catene.

Il prossimo futuro vedrà accentuarsi sempre più lo sfruttamento capitalistico, vedrà aumentare la disoccupazione e la precarietà, mentre si scatenerà la concorrenza fra i diversi imperialismi o blocchi imperialisti per vincere sui loro concorrenti in un mercato mondiale già ampiamente saturo di merci, fino a quando la guerra commerciale, industriale e finanziaria si trasformerà in guerra aperta per distruggere con la violenza le forze produttive in eccesso e permettere una ripresa alla grande dell’accumulazione capitalistica.

Questo è stato l’inevitabile sbocco della grande crisi di sovraproduzione degli anni Trenta del secolo scorso; questo sarà lo sbocco fatale della futura crisi generale di sovraproduzione, di cui la crisi attuale è solo un segnale anticipato, a meno che negli anni avvenire il proletariato non riesca a trovare la forza di rispondere ai ripetuti colpi del capitalismo, a meno che non riesca, per riprendere le parole del Manifesto, a costituirsi in classe e dunque in partito, per abbattere questo modo di produzione che promette all’umanità solo crisi, miseria e guerre.

(1-Continua)

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1) Cfr. International Herald Tribune, 12-13/9/2009 (dati calcolati in dollari).

2) Cfr. Beijing Information, 10/8/2009.

3) Secondo Autodata Corporation, www.motorintelligence.com, ottobre 2009.

4) Riprendiamo le serie statistiche pubblicate dalla rivista britannica The Economist.

5) Comunicato di Eurosat (organismo di statistiche europee), 14/10/2009.

6) Cfr. Les Echos, 15/10/2009.

7) Le statistiche sono disponibili su www.worldsteel.org.

8) Vedi l’articolo con la tabella comparativa fra il 1929 e oggi, “A tale of two depression” (aggiornato al settembre 2009) su www.voxeu.eu.

9) Cfr. il «Rapporto sul commercio e lo sviluppo, 2009), prospetto generale, CNUCED, Ginevra settembre 2009. La CNUCED è la Commissione delle Nazioni Unite per il Commercio e lo Sviluppo.

10) Cfr. Les Echos, 15/10/2009.

11) Bureau of Economic Analysis, 30/9/2009. www.bea.gov / newsreleases / national / gdp / 2009 / gdp2q09_3rd.htm.

12) Vedi il comunicato del Bureau of Labor Statistics del 2/10/2009 su www.bls.gov.

13) The Economist, ibidem.

14) Cfr. Le Monde, 14/10/2009.

15) Secondo un responsabile dell’OFCE (organismo di previsione economica) citato da Enjeux Les Echos, settembre 2009.

16) Comunicato di Eurosat, 22/10/2009.

17) K. Marx, Il capitale, Libro terzo, cap. 27, UTET, Torino 1987, p. 558.

18) Secondo Hans Magnus, Financial Times, 23/1/2008.

19) Cfr. Le Monde, 24/10/2009.

20) Vedi Flash Economie n. 397 (7/9/2009) e 470 (21/10/2009) pubblicati dal servizio di Ricerca Economica della banca Natixis (si tratta di una delle banche “zombi” che ha sfiorato il fallimento durante il crac della borsa).

21) Comunicato del FMI, firmato dal suo presidente “socialista” Strauss-Kahn, 29/10/2009. Il FMI chiede ufficialmente un veto su questa legge e su quella delle pensioni.

22) Dichiarazione del vicepresidente della Banca Mondiale, il 20 ottobre 2009 in Messico. Secondo lui, prima della crisi 1,4 miliardi di persone vivevano con meno di 1,25 dollari al giorno e questa cifra sarebbe cresciuta di 89 milioni dopo l’inizio della crisi.

 

 


 

 

Variazioni della produzione industriale di alcuni grandi paesi capitalisti

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Le variazioni di un anno sull'altro della produzione industriale sono fra gli indici più significativi dell'ampiezza della crisi capitalista. Esprimono, in legame diretto, la caduta dei profitti, con la processione di licenziamenti, di pressione sui salari e sulla produttività imposta ai lavoratori che ciò implica.

 

 

 

 

 

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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