Elezioni regionali

L’ennesimo inganno di una  democrazia ormai decrepita va  combattuto imboccando la strada della lotta a difesa esclusiva degli interessi  di classe dei proletari, nell’immediato  e  nel futuro

(«il comunista»; N° 116; Aprile 2010)

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L’inganno continua

 

Tutti i partiti e i movimenti organizzati che hanno partecipato alle elezioni hanno dichiarato - come sempre avviene - di aver «vinto»: devono in qualche modo giustificare presso gli «elettori» che lo sforzo fatto e richiesto non è stato «sprecato» e che, se in questa tornata la «vittoria» non ha portato il tale o tal altro partito a «governare» regioni, province e comuni dove si sono tenute le elezioni, i voti presi, la «fiducia»  raccolta, varranno comunque per «far pressione» sui governanti di oggi e «per vincere» alla prossima tornata.

A differenza dei bottegai che si lamentano sempre di non aver venduto abbastanza e, in tempo di crisi, di dover vendere «sottocosto» per non fallire, i partiti e i movimenti politici che si presentano alle elezioni devono continuare a infondere fiducia presso gli elettori perché il sistema elettorale ha un «valore» solo se muove una percentuale importante - diciamo più o almeno il 50% degli elettori potenziali - verso le urne; d’altra parte, se non oggi, domani, potrà «essere la volta buona» che si raggiungano finalmente gli scranni del potere (nazionale, locale, o localissimo, a seconda) messi in palio. La loro «vittoria» è come se fosse già incorporata nel fatto stesso di presentarsi alle elezioni e di poter esibire i propri eletti.

Dove sta l’inganno? L’inganno sta nel far credere che attraverso l’elezione di tizio o di caio, del partito tale o tal altro, sia davvero possibile modificare radicalmente la direzione determinata da forze ben più potenti e oggettive, al di sopra di ogni pretesa «volontà» dei partiti e dei loro rappresentanti o capi. Le forze più potenti e oggettive sono le forze espresse dal modo di produzione esistente e dalle contraddizioni di questo modo di produzione; sono le forze di classe che rappresentano storicamente interessi collettivi e generali a difesa e a favore del capitalismo e della sua conservazione (che ancora oggi sono indiscutibilmente dominanti) o, al contrario, a difesa e a favore della distruzione del capitalismo e dell’abbattimento del potere politico che lo difende e lo conserva, il potere politico borghese, democratico o fascista che sia (che ancora oggi sono soffocate dallo strapotere borghese e dalla duratura presa dell’opportunismo).

Quali sono le forze politiche interessate a rendere vitali le elezioni democratiche? Tutte quelle che, dichiaratamente o opportunisticamente, vogliono conservare il capitalismo come modo di produzione e il sistema democratico come sua sovrastruttura politica e amministrativa, al di là delle mille colorazioni di cui dotarsi nelle diverse situazioni. Possono essere cattoliche osservanti o sinceramente laiche, avvinte alla carriera professionale e imprenditoriale o generosamente caritatevoli e umanitarie, onestamente rispettose delle leggi e dei diritti proclamati o sistematicamente approfittatrici e prevaricatrici nel malaffare e nella malavita, baciapile o bacia-costituzione, bacia-crocefisso o bacia-mani. Possono anche proclamarsi sovversive e rivoluzionarie, di «destra» o di «sinistra», ma alla fine dei conti giurano tutte quante eterna fedeltà alle leggi del mercato, del valore, del profitto, insomma del Capitale e, naturalmente, a Santa Democrazia, ovviamente popolare!

Come ormai da tempo, lo scontro cosiddetto elettorale non è avvenuto su programmi e obiettivi concreti in concorrenza fra di loro - di cui ormai non si dà più conto  pubblicamente - ma sui personaggi, sul cosiddetto «carisma» del battilocchio di turno, sulla cosiddetta «credibilità»  o sul peso economico e politico già esistente di Tizio o di Caio. E qui entra in gioco necessariamente e a tutto spiano l’arte del marketing pubblicitario, sempre a caccia di «testimonial» di grido che possano potenzialmente trascinare più voti. Gli appuntamenti elettorali sono così trasformati in reality televisivi nei quali gli attori-candidati recitano una parte imparata a memoria; più entrano nella parte e più hanno la possibilità di alzare lo share del reality cui partecipano. In questo modo, il voto che l’elettore-spettatore-consumatore è spinto a infilare nell’urna è sempre più un televoto con cui, senza fatica, l’elettore-consumatore di reality crede di contribuire a determinare il risultato finale. Ovvio che non tutto è reality, nel senso che a una parte degli elettori-consumatori di democrazia non basta far da spettatori davanti ad uno schermo, ma vogliono vedere in faccia i propri beniamini e ascoltare dalla loro viva voce come «risolverebbero» i loro problemi più urgenti...

Un sistema democratico sviluppato, che pesca a piene mani dalle risorse consistenti della greppia statale, offre al mercato dei voti diverse opzioni: partiti nati dal predellino di un’auto di proprietà del miliardario di turno, come il partito di Berlusconi; partiti sommersi nel ventre di organismi di potere a 360° (il Pdl) come AN, una parte del vecchio Psi, una parte della vecchia DC; partiti di opposizione saltuaria come l’UDC (altro frammento della vecchia DC) o il partito radicale; partiti di opposizione «storica» come i sopravvissuti del vecchio Pci alla maniera di Rifondazione Comunista, dei cosiddetti Comunisti Italiani e simili che sono stati fregati dal tetto del 5% e dalle proprie attitudini bottegaie e cacciati dal parlamento ma ostinatamente aggrappati alle mangiatoie delle regioni, delle province e dei comuni; e partiti ormai in perenne trasformazione come il PD che non hanno più il vigore ideale del vecchio Pci e lo zoccolo duro della base operaia che lo sosteneva a difesa di un falso socialismo dimostratosi del tutto simile al vero capitalismo e sbriciolatosi come un castello di sabbia alla prime potenti scosse di un ordine mondiale oramai logoro e inadeguato ad uno sviluppo imperioso delle contraddizioni interimperialistiche. Ma la democrazia borghese non può non fare i conti  con la storia dei propri paesi e, per quanto cerchi, in Italia, di incanalare i movimenti politici verso il cosiddetto bipartitismo, non riesce a sradicare la vecchissima abitudine a rappresentare le istanze locali come fossero istanze onnicomprensive, sufficienti a se stesse e separate dalle istanze confinanti, tipica del vecchio modello dell’Italia degli staterelli e dei mille campanili.

Torna a rafforzarsi così l’idea che i territori, intesi come autonomie identitarie, dalle Regioni a statuto speciale (Sicilia, Sardegna, Friuli Venezia Giulia, Valle d’Aosta e Trentino Alto Adige) alla Padania tanto cara alla Lega Nord, siano la caratteristica da salvare e la carta da giocare a fianco o contro uno Stato centrale di cui non si può fare a meno, ma che deve servire solo a colmare i livelli di intervento (economico, amministrativo, o di ordine pubblico) che i «territori autonomi» non possono garantire. E nascono, muoiono e si riproducono continuamente movimenti trasversali che di volta in volta si indirizzano semplicemente a premere sui partiti esistenti affinché siano più attivi e decisi ad esempio nell’opporsi  a tale o tal altro indirizzo di governo, o a premere sulle «istituzioni» attraverso la protesta a più largo raggio contro il malaffare, la corruzione, la criminalità, l’uso indiscriminato del potere centrale. Alcuni esempi? I «girotondi» di qualche anno fa che tentavano di «svegliare» i partiti «di sinistra» ad una opposizione più seria e convincente contro un berlusconismo in crescita, i movimenti del tipo «No Dal Molin» contro l’allargamento della base militare Nato a Vicenza piuttosto che i «NO-Tav» contro la devastazione ambientale causata dalla nuova linea ferroviaria dell’Alta Velocità, fino al cosiddetto «popolo viola» di questi mesi, che si rivolge genericamente allo Stato e alla «nazione» tentando di svegliare «le coscienze» in difesa dei diritti sanciti nella Costituzione repubblicana e che via via si sta trasformando in movimento meno spontaneo e più organizzato (chiamato «Resistenza continua») con ambizioni politiche di livello più alto sempre a difesa degli ormai stinti valori della Costituzione repubblicana. E vi sono movimenti nati e organizzatisi, nell’ultimo ventennio, intorno a valori decisamente campanilistici e razzisti, come la Lega Nord e movimenti nati e cresciuti intorno a istanze cosiddette «giustizialiste» e «anticorruzione» come l’ Italia dei Valori,  diventati entrambi, su fronti concorrenti diversi, veri e propri partiti «di governo» e di «opposizione parlamentare», o come il più recente movimento dei cosiddetti «grillini», il Movimento 5 Stelle, nato e cresciuto nelle piazze sull’onda del disgusto verso l’uso e l’abuso di potere da parte della «banda Berlusconi».

Lo scenario italiano di questi ultimi vent’anni, (estinto il gruppo di partiti che rappresentavano la cosiddetta Prima Repubblica uscita dalla guerra, Dc, Pci, Psi, Psdi, Msi, Pli, Pri ecc.), è variato di molto, ma non sostanzialmente. La democrazia, che è il brodo in cui vive e si sviluppa l’opportunismo operaio, cambia pelle ma non le sue caratteristiche fondamentali. E’ certo che, dopo il periodo storico in cui il fascismo ha scalzato dal potere la democrazia liberale ed ha contribuito in modo determinante a battere le masse proletarie incamminatesi verso la rivoluzione anticapitalistica, la democrazia «post-fascista» ha difeso egregiamente il sistema capitalistico di potere, di qua e di là della cosiddetta «cortina di ferro». Lo ha difeso usando con grande perizia l’eredità che il fascismo le ha lasciato: gli ammortizzatori sociali, le famose «garanzie» che - grazie al lungo periodo di espansione economica post-bellica - hanno approfondito la formidabile presa dell’opportunismo nazionalcomunista su un proletariato completamente annientato sul piano delle sue organizzazioni sindacali di difesa economica (grazie al fascismo, e allo stalinismo) come su quello del suo partito politico di classe (grazie allo stalinismo), e trascinato nell’illusione che la sua emancipazione dipendeva dalla partecipazione alla guerra contro il fascismo per la difesa e il ripristino della democrazia. Gli ammortizzatori sociali, codificati nelle Costituzioni borghesi e nelle relazioni industriali, hanno permesso alle forze della conservazione borghese - al di là delle ovvie differenze fra di loro come richiede ogni concorrenza sul mercato  della politica borghese - di avere a disposizione un argomento concreto, materiale e duraturo nel tempo per strappare dal cuore e dalla memoria dei proletari la loro tradizione classista, la loro tradizione antidemocratica, antilegalitaria, antipacifista che nei primi venticinque anni del secolo scorso aveva fatto tremare i palazzi del potere borghese in tutto il mondo.

La forza della democrazia borghese si basa prima di tutto sulle concessioni materiali che è in grado di distribuire alle masse proletarie, ed è questo che porta il famoso consenso al sistema democratico e, quindi, al potere borghese. Le concessioni materiali non bastano, certo, e infatti lo Stato borghese è costantemente presente con la sua forza militare, ma la democrazia, per ottenere il risultato più vantaggioso a favore del potere borghese, deve poter mitigare l’uso della forza bruta, che non rinnega ma rivendica sistematicamente.

Nessun partito parlamentare, nessun partito democratico ha mai messo in discussione il fatto che lo Stato usi forza e violenza per «far rispettare le leggi», per «difendere la democrazia», per «difendere il suolo patrio» e magari per andare a difendere la civiltà «cristiana e occidentale», dunque «democratica», in giro per il mondo. La democrazia, quindi, oggi come ieri, in quanto sancisce concessioni materiali per il «popolo» e «diritti per tutti», continua a fare da perno a tutta la propaganda politica dei partiti e dei movimenti politici, in ogni manifestazione della loro attività e della loro vita, in ogni momento e non solo in tempo di elezioni. E questa funzione continua a svolgerla nonostante sia ormai una democrazia particolarmente logorata, dichiaratamente strappata in lembi abbandonati al vento, mistificata costantemente. La sua casa principale, il parlamento, è sempre più un bordello di lusso dove non si discutono le leggi e non si prendono decisioni che riguardano «il paese», ma si scambiano favori o si litiga sul sesso degli angeli, perché le vere decisioni i partiti e i poteri forti le discutono e le prendono in luoghi per nulla trasparenti e lontani dal pubblico, dai giornalisti, da ogni possibile interferenza democratica. Ciò nonostante, a votare si presenta ancora una notevole maggioranza della popolazione.

 

Nuovi partiti democratici per rigenerare la «democrazia»

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Mentre la logora esistenza dei residui dei vecchi partiti della conservazione borghese rappresenta la decrepitezza di un sistema democratico che non ha più nulla di «nuovo» da offrire al mercato dei propri elettori-consumatori, il fiorire di questi nuovi movimenti non è altro che l’espressione di un tentativo di rigenerazione della democrazia. Gli inganni perpetrati nei decenni scorsi dalla democrazia «antifascista», dalla democrazia «del benessere e dello sviluppo economico», hanno fatto il loro tempo e non danno più gli stessi risultati in termini di consenso, non solo perché la curva dell’espansione economica ha da tempo cambiato direzione verso crisi sempre più acute e recessioni cicliche sempre più ravvicinate nel tempo, ma perché tutti i partiti della cosiddetta Prima Repubblica si sono talmente logorati da non poter più essere  rinnovati «dall’interno», come tentò di fare Aldo Moro nella Dc e Berlinguer nel Pci all’epoca del famoso «compromesso storico», o Craxi nel Psi all’epoca del pentapartito. Ci voleva un ricambio, nuovo personale politico, nuovi partiti: la democrazia borghese aveva bisogno di tempo per dare modo alle diverse forze di conservazione esistenti nella società, ma non ancora emerse sul palcoscenico della politica parlamentare, di esprimersi, organizzarsi, strutturarsi. Non era solo una questione di «facce nuove», e i vecchi «partiti» dovevano in qualche modo cambiare veste, togliersi l’uniforme di ieri e mettersi una nuova uniforme, fosse la finta corazza del Carroccio della Lega Nord o la divisa della guardia di finanza o del «giustizialismo popolano» di Tangentopoli e dell’Italia dei Valori.

L’Idra dalle sette teste, la democrazia italiana, riuscì nell’impresa, passando le consegne ai nuovi San Giorgio che in verità finsero di uccidere il drago ereditandone attitudini, trasformismo e potere. Berlusconi è lì a dimostrarlo; la sua «discesa in campo» è del 1994, non del 1949. La rete di interessi che lui rappresenta è talmente fitta, ramificata e tentacolare che difficilmente oggi in Italia esiste un centro di potere che non sia collegato ad essa; un po’ come a suo tempo la Democrazia Cristiana, che spaziava dalla Chiesa di Roma alle grandi banche, dalle grandi industrie (che allora erano spesso statali) alla rete diffusa della media e piccola impresa, dalla malavita organizzata ai grandi giornali e all’informazione radiotelevisiva, solo che oggi il «sistema berlusconiano» è molto più centralizzato e concentrato di quello democristiano, generando inevitabilmente una più forte attrazione e contemporaneamente una buona dose di invidia da parte di concorrenti che si trovano spesso nella condizioni di combattere con armi spuntate e che sono obbligati a contare solo sull’appoggio di una certa magistratura ancora non piegata del tutto a quella rete di interessi di cui sopra.

La democrazia, sebbene svuotata di ideali e di valori al posto dei quali rimane nell’aria - come la scia di un aereo - soltanto la traccia di alcune parole come «libertà» e «giustizia», riesce però ancora a fare presa e a rigenerarsi nonostante la forte astensione che ha segnato queste ultime regionali.

Ma diamo un rapido sguardo ai risultati di queste elezioni che, non a caso, il PdL, partito di maggioranza, ha inteso da tempo non come elezioni semplicemente amministrative, ma elezioni a valenza politica di un certo spessore. La Lega Nord di Bossi-Maroni-Calderoli, rispetto alle elezioni regionali del 2005 ha praticamente raddoppiato i voti: da 1 milione 380 mila voti è passata a 2 milioni e 750 mila. E’ indiscutibilmente il dato più eclatante relativamente ai partiti di governo in questa tornata elettorale. Il Pdl di Berlusconi-Fini (aggregazione di un partito-azienda com’era l’ex Forza Italia berlusconiana e di un partito parlamentare di lungo corso, ma in via di disgregazione com’era il Msi-AN), rispetto alle regionali scorse, perde 1 milioni abbondante di voti e li perde soprattutto in Lazio e nelle regioni del Nord dove, per l’appunto la Lega ha raccolto consensi a man bassa. Chi perde di più, in termini numerici, è il Pd che, rispetto alle regionali scorse, dove si presentava come DS e Margherita, perde più di 2 milioni di voti, mentre segnano punti importanti due partiti-protesta: l’Italia dei Valori, dell’ex magistrato Di Pietro, e l’appena nato Movimento 5 Stelle dell’ex comico Beppe Grillo, che salgono alla ribalta con risultati numericamente significativi: l’IdV ha quadruplicato i consensi rispetto alle regionali del 2005, e il Movimento 5 Stelle fa il suo exploit raccogliendo quasi 400 mila voti nelle 5 regioni in cui si è presentato.

Il blocco elettorale e di governo di centro-destra di fatto si riconferma maggioritario: scalza i partiti di centro-sinistra dalla guida di regioni importanti, per numero di abitanti e per peso sociale e politico (Lazio, Campania, Piemonte, Calabria) e riconferma un solido presidio su Lombardia e Veneto. Rispetto alle regionali del 2005, il centro-destra si assicura 4 regioni in più e praticamente il controllo del Nord Italia, cuore industriale, commerciale e finanziario dell’imperialismo italiano, mentre amplia il proprio controllo al Sud dove, oltre alla Sicilia, nella quale può contare su alleati importanti, presidia direttamente Campania e Calabria nelle quali è noto che le elezioni sono in buona parte indirizzate dal voto di scambio in cui sono specializzate da tempo la camorra e la ‘ndrangheta che decidono di volta in volta quali candidati favorire - non importa se di «sinistra» o di «destra».

Un altro dato, non meno significativo, relativamente a queste elezioni, riguarda l’  «astensionismo»: più del 33% degli «aventi diritto» a votare non si sono presentati ai seggi, hanno preferito fare altro.

In un paese come l’Italia, dove la partecipazione alle elezioni è da oltre 60 anni molto più alta che negli altri paesi europei, per non parlare degli Stati Uniti, registrare un’astensione così alta desta preoccupazione presso tutti i vertici dei partiti parlamentari, presso tutti i salotti della grande borghesia e le sacrestie di ogni chiesa. Sì, perché non andare a votare, in un paese abituato a contare molto sull’inganno della partecipazione democratica del popolo più che sull’indifferenza verso «la politica», prende un significato immediatamente negativo e di protesta. In tutte le democrazie occidentali, in tutte le tornate elettorali politiche si registra una percentuale di astensione dal voto ritenuta fisiologica che, secondo diversi istituti di sondaggio e le abitudini elettorali dei vari paesi, si può aggirare intorno al 15-20% della Gran Bretagna al 50% degli Stati Uniti, percentuali che non destano normalmente alcuna preoccupazione presso i grandi strateghi del consenso popolare. Ma quando la soglia ritenuta fisiologica viene sfondata, e queste elezioni regionali italiane l’hanno evidenziato, allora qualche preoccupazione sorge e non vi è dubbio che forze politiche e sociali predisposte ad organizzare e a canalizzare il consenso popolare si mettono in moto per andare a recuperare almeno una parte degli «astensionisti». Le forze politiche e sociali di cui qui accenniamo non hanno già preventivamente un colore definito, non sono necessariamente di destra o di sinistra, più o meno estrema o di centro: sono sostanzialmente forze di conservazione che agiscono sul mercato dei voti in maniera simile a qualsiasi organizzazione di vendita che ha per scopo, sicuramente, piazzare presso più acquirenti possibile la propria mercanzia, ma nel contempo far passare l’idea che è solo attraverso quella vendita che si possono fare davvero degli affari.

Nel mercato della politica borghese la mercanzia che i vari commercianti di idee cercano di piazzare, per essere vendibile, deve contenere una qualità ideale semplice e facilmente identificabile, ed una finalità concreta, immediata, da poter essere trasformata, nel ciclo di vendita più breve possibile, in un vantaggio materiale per chi dà la propria adesione alla «proposta d’acquisto» del tale o tal altro partito. Non è un caso che anche per il mercato della politica si parli di marketing, di sondaggi e si usino gli strumenti di rilevazione di mercato per analizzare e prevedere i «gusti», le «attese», le «aspirazioni» dei consumatori-elettori.

Nel mercato borghese non ci sono «classi», ma venditori e acquirenti, e tutti sono consumatori. Nel mercato borghese si condensano tutte le caratteristiche e le azioni della società attuale che ha trasformato qualsiasi cosa materiale e immateriale (o spirituale) in una merce di scambio. Io voto te per ottenere un vantaggio rispetto alla mia condizione preesistente; ti sostengo perché sono convinto che se non oggi domani ne avrò un beneficio; voto te piuttosto che un altro per evitare che l’altro sia avvantaggiato, anche se questo voto non porta all’immediato un vantaggio personale: insomma, lo scopo materiale, di tutti, di ottenere un vantaggio il più immediato possibile, si combina sempre, nella politica borghese, con uno scopo immateriale - o se vogliamo «ideale» - che va a soddisfare, per alcuni o per molti, l’esigenza di sentirsi nobilitati, «a posto con la propria coscienza», rispetto ad un sentimento di «umanità» che se non ci affratella oggi, in questa situazione, in questo paese, su questa terra, potrebbe unirci un domani quando...«le cose cambieranno» e tutti ...«vivremo in pace» e nel «benessere», e che ci dà comunque la sensazione di aver soddisfatto un diritto di cui nessuno ci deve privare.

Si va al mercato con la convizione che lì si trovano le cose che ci servono, che lì c’è la possibilità di «scegliere», che lì si attua la «libertà di scelta» di ciascun individuo, al di là delle condizioni di vita e di lavoro o di censo di ogni elettore-consumatore. Non ci sone urne per ricchi e urne per poveri, le schede elettorali sono uguali per tutti, e tutti sono chiamati ad esprimere per iscritto la propria «scelta» su simboli e nomi a disposizione di tutti coloro che decidono di attuare il «diritto di voto».

Ma la merce che si compra al mercato dei voti è, in realtà, merce avariata. Si eleggono persone e partiti che non manterranno mai le promesse fatte in campagna elettorale; sono persone e partiti belli di fuori e marci dentro. Si eleggono persone e partiti che «si spera» siano meno peggio dei concorrenti, e per molti elettori-consumatori la loro elezione ha lo stesso valore delle nomination al Grande Fratello: questo dentro, questo fuori.

Ma sotto sotto, soprattutto per la massa proletaria, ci si illude che in gioco ci sia ben di più che una «nomination». I problemi concreti della vita quotidiana non lasciano molto spazio all’evasione, alla fantasia, o all’indifferenza: essi premono costantemente, si presentano ogni mattina, ad ogni pranzo e ad ogni cena, ogni volta che bisogna comprare il pane, il latte, la frutta, la carne, pagare le bollette, l’affitto o il mutuo,  viaggiare per andare ad un lavoro malpagato o per andare a cercare un lavoro che si sa già che sarà malpagato.

 

La Chiesa a sostegno dell’inganno democratico

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Di fronte a questi problemi, la società borghese non è indifferente: è cinica, ma non indifferente. La borghesia, come classe dominante (non come singolo rappresentante che spesso è becero e ignorante) sa perfettamente che la grande massa di proletari, dal lavoro dei quali estorce il suo profitto, ha soglie diverse di resistenza alla pressione economica, alla pressione sociale, alla pressione della disoccupazione, della precarietà, della fame, della miseria, alla pressione dei soprusi o dell’emarginazione. La borghesia, come classe dominante, sa perfettamente che senza l’opera costante, quotidiana, sistematica, puntigliosa e capillare di due grandi forze di conservazione: la chiesa con le sue infinite ramificazioni politiche, culturali, sociali, e l’opportunismo, inteso sia come organizzazioni sindacali tricolore sia come partiti politici, non avrebbe la stessa profonda presa sulle masse proletarie. Ed è attraverso non soltanto i propri canali istituzionali, ma anche attraverso questi ulteriori canali di controllo sociale, che il potere di classe della borghesia, in tempi di espansione economica come in tempi di recessione e di crisi,  misura la propria capacità di adeguare i diversi mezzi e metodi che usa per assicurarsi  il miglior risultato possibile nel piegare le masse proletarie e i diversi movimenti di protesta e di resistenza ai propri obiettivi, ai propri interessi.

La Chiesa cattolica, che ha esperienza millenaria di governo dei sentimenti e delle «anime», ed esperienza pluricentenaria di governo della vita terrena, ha da sempre puntato le sue più efficaci armi di propaganda sulla paura, sull’insicurezza, sull’instabilità dell’animo umano, sulla precarietà della vita terrena, sull’ignoranza generalizzata. Demandare ad un'entità soprannaturale ogni resposabilità di quanto succede di decisivo nella società degli uomini e nella loro vita quotidiana, è fornire al popolo - che per antonomasia è bue, è ignorante - l’elemento immateriale, spirituale, che serve per giustificare la sua condizione materiale, la sua condizione reale. La paura dell’Inferno serve per piegare gli uomini ai precetti della chiesa e guadagnarsi così il Paradiso, la pace eterna. La Chiesa è insieme la voce di dio in terra e il potere terreno sugli uomini: elemento materiale e immateriale insieme, potere economico, politico e sociale in terra con potere di vita e di morte, e suddito di un dio soprannaturale, invisibile, intoccabile, immateriale, conosciuto soltanto dagli «eletti», dai «visionari».

Tutti i partiti politici borghesi hanno imparato dalla Chieda cattolica. La storia materiale e reale delle società umane ha divelto, nel suo procedere, steccati, stratificazioni sociali rigide e poteri corrispondenti. Lo sviluppo delle forze produttive ha distrutto, di volta in volta, gli argini politici, giuridici, istituzionali, burocratici alzati a difesa di poteri che non corrispondevano più a quello sviluppo economico; e così lo schiavismo è stato superato dal feudalesimo, e il feudalesimo è stato distrutto dal capitalismo. Ma nel procedere storico, una società basata su un determinato modo di produzione è stata sostituita da una società basata su un altro modo di produzione, più potente, capace di generalizzarsi più ampiamente sul pianeta, capace di utilizzare per il progresso economico sempre più le scoperte scientifiche e tecniche così da abbattere via via una serie sempre più cospicua di barriere e di vincoli all’espansione mercantile. Il mercato è così diventato non solo un luogo in cui si scambiano prodotti provenienti da varie parti di un paese o del mondo, ma il luogo dove si decidono le sorti della vita economica dei gruppi umani, delle società e quindi anche di ogni singolo individuo. Nel mercato finisce tutto, ogni prodotto, materiale e immateriale, e così anche la Chiesa, potenza incontrastata per secoli nella gestione dell’immateriale, ha dovuto cedere parte del suo potere materiale alla nuova classe sociale che imperiosamente andava conquistando ogni livello di potere nella società: a partire da quello economico, a quello sociale e politico, a quello militare e finanziario fino a quello spirituale, immateriale. Ma nel mercato vige la legge dello scambio, e lo scambio è avvenuto secondo le leggi delle società divise in classi: la classe dominante accetta e obbliga al proprio servizio tutte le forze che dimostrano di essere un valido argine a difesa della conservazione sociale, a difesa quindi del suo potere politico ed economico. Nel corso dei secoli la stessa Chiesa ha dovuto cambiare, ha dovuto cedere parte del suo potere allo scopo di mantenere una funzione sociale, e quindi un potere sociale, che non è altro se non la gestione dell’immateriale, dei valori spirituali, quelli che «nobilitano» il mercato, quelli che «nobilitano» i «volgarissimi beni materiali». Ma nel «cambiamento», la Chiesa non ha fatto altro che ribadire il suo schieramento di classe, lo schieramento a difesa della società divisa in classi, della società del capitale che vive sullo sfruttamento del lavoro salariato, sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo; schieramento capace di cambiar pelle a seconda del periodo storico, compromettendosi con il re in monarchia o con la democrazia in repubblica, con la dittatura militare come nella Spagna di Franco, nel Portogallo di Salazar, nella Grecia dei colonnelli, nell’Argentina di Videla o nel Cile di Pinochet, o con il fascismo di Mussolini e il nazismo di Hitler o con la più democratica e parlamentare delle repubbliche antifasciste della Germania di Bonn e dell’Italia post-resistenziale. Il camaleontismo politico è una caratteristica della democrazia borghese che la Chiesa cattolica, nonostante l’attaccamento viscerale ad un centralismo  mai messo sul serio in discussione, ha saputo applicare a livello universale, facendone una forza.

In questa funzione sociale, al pari di ogni religione, rispetto al progresso travolgente del capitalismo, alla sua velocità di espansione, alla sua frenetica vita quotidiana nella quale sperpera e distrugge forze vive per accumulare lavoro morto e profitto, la Chiesa cattolica rappresenta la lenta contemplazione del creato, la reazione alla frenesia capitalistica tipica dell’usuraio parassita che attende vantaggi e guadagni dalla lenta ma inesorabile rovina del singolo consumatore attratto dal prestigio sociale e dal facile guadagno da speculatore. Dal punto di vista ideologico la Chiesa rappresenta la risposta reazionaria alle contraddizioni sociali che immiseriscono le masse dando loro una «soluzione» ultra-terrena; dal punto di vista economico e politico, essa rappresenta la giustificazione di un sistema che arricchisce la classe borghese al potere perché condivide una parte di quel potere; dal punto di vista sociale essa alimenta la propria influenza dedicandosi agli aspetti umanitari e caritatevoli delle sofferenze non solo «dell’anima» ma anche «dei corpi», quindi non solo chiese e parrocchie ma anche scuole, ospedali e mense per i poveri, andando così ad anestetizzare, e controllare, situazioni dalle quali possono nascere inquietudini, ribellioni o vere e proprie rivolte.

La Chiesa, dunque, ha tutto l’interesse di «partecipare» alle tornate elettorali, a sostegno di una politica che privilegi o che perlomeno difenda la sua fetta di potere, materiale innanzitutto, come dimostrano le pressioni sistematicamente fatte sul governo centrale e sui candidati alle elezioni amministrative e politiche in merito alle scuole private e alle cliniche, e che difenda anche il suo potere ideologico come dimostra l’insistente propaganda antiabortista in occasione della legalizzazione della terapia medico-chimica a mezzo della pillola RU486.

 

I sindacati tricolore, figli dell’inganno democratico

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Le organizzazioni che si occupano dei proletari in quanto tali, come le associazioni sindacali, nacquero e si svilupparono con il capitalismo, a difesa di condizioni di lavoro e di vita che uniscono i proletari in quanto lavoratori salariati, in quanto senza-riserve e padroni soltanto della loro forza-lavoro. Non avevano obiettivi, all’inizio, se non di carattere immediato e tendenzialmente contrastanti con gli interessi dei padroni contro i quali lottare per ottenere condizioni di lavoro migliori di quelle a cui i proletari venivano costretti se volevano vivere.

Ma, da quando i sindacati non sono più una minaccia per le associazioni dei padroni e per il potere borghese - grazie all’opera, prima, del riformismo socialista che li ha piegati al servizio del potere borghese democratico, poi del fascismo che ha completato l’opera distruggendoli e successivamente di nuovo ad opera dell’opportunismo che li ha trasformati in strumenti di mediazione col padronato e lo Stato ma al servizio del padronato e dello Stato e non degli interessi proletari -, da quando sono diventati perciò sindacati tricolore, e quindi una colonna di sostegno del potere borghese post-fascista, le organizzazioni sindacali si sono sempre più distinte per uno sviluppato e articolato collaborazionismo con i padroni e con i governanti, in un processo di integrazione nello Stato borghese che continua ancora oggi.

La classe dominante borghese è sempre stata molto attenta alla vita organizzata della classe proletaria. Ai tempi di Napoleone l’atteggiamento fu di vietare per legge l’associazione sindacale e politica del proletariato. Successivamente, in seguito anche alle continue lotte e sommosse di una classe operaia che con lo sviluppo capitalistico stava diventando sempre più numerosa e combattiva, la classe dominante borghese dovette concedere la legalizzazione delle associazioni operaie. Ma, ben presto, si convinse che era molto più conveniente per lei ottenere un consenso attivo nei confronti del suo sistema di potere e che non mettesse in discussione il suo reale dominio di classe sulla società, piuttosto che acutizzare uno scontro di classe che inevitabilmente avrebbe portato masse sempre più vaste di proletari a porsi sul terreno della rivoluzione antiborghese, anticapitalistica. Quel sistema di potere non era che la democrazia diffusa a tutti gli strati sociali, attraverso la quale coinvolgere le organizzazioni proletarie non solo a livello di concessioni economiche e immediate, ma anche sul terreno della gestione aziendale della manodopera e sul terreno giuridico istituzionale nella regolamentazione delle cosiddette «relazioni industriali» e nella formulazione di provvedimenti di legge a favore della pace sociale e delle «compatibilità» economiche e sociali tra gli interessi borghesi e quelli proletari.

Il collaborazionismo nasce sul terreno immediato, sul terreno nel quale il proletariato è materialmente più sensibile ma nel contempo più debole perché limita il suo orizzonte alla vita del giorno per giorno, dipendente da quel posto di lavoro, da quel salario, da quel padrone. Il collaborazionismo diventa inevitabilmente una politica, un modo di inquadrare e dirigere i rapporti fra i proletari e le altre classi, che la classe borghese adotta, affina e sviluppa a tal punto da poter essere applicata con ogni metodo di governo, democratico o fascista; col fascismo il collaborazionismo viene strutturato piramidalmente, in modo centralistico e obbligatorio e poggia su una serie di concessioni regolate dalle leggi dello Stato - i famosi ammortizzatori sociali - che la democrazia post-fascista erediterà limitandosi ad annullare l’obbligo per legge di iscriversi al sindacato unico, di collaborare col padrone, di non scioperare ecc. per poter meglio mistificare l’illusione della libertà d’associazione e di sciopero.

La storia è andata in questa direzione, non ci sono dubbi, con alcune eccezioni storiche che però confermano una prospettiva completamente opposta a quella sognata dai borghesi, la prospettiva della rivoluzione e della presa del potere politico da parte del proletariato diretto dal suo partito di classe. La Comune di Parigi 1871, l’Ottobre russo 1917 stanno a dimostrare che lo scontro di classe che caratterizza la società borghese - quando la combinazione di fattori oggettivi (livello e temperatura della lotta di classe proletaria, crisi e debolezza della classe dominante borghese, alla scala mondiale) e di fattori soggettivi (forti organizzazioni sindacali classiste, influenza determinante del partito di classe) - apre il periodo storico della rivoluzione proletaria e pone alla società intera la soluzione oggettiva dello storico superamento delle contraddizioni sociali esistenti. Quei magnifici episodi di «assalto al cielo» non hanno incendiato il mondo, non hanno condotto al traguardo finale, al superamento definitivo del capitalismo come modo di produzione e come sistema sociale; di assalti rivoluzionari ce ne vorranno ancora, e non mancheranno anche se la situazione odierna di estremo ripiegamento del proletariato dalla sua lotta di classe potrebbe far pensare che il capitalismo, e la società costruita al suo servizio, siano invincibili e che, perciò, l’unica cosa da fare sarebbe quella di cercare di eliminare le esagerazioni del capitalismo, riformandolo,renderlo più vivibile e sostenibile proprio grazie alla democrazia e alla partecipazione diretta e dal basso delle masse, del tanto amato popolo.

Ma le contraddizioni sociali del capitalismo - aumento progressivo della ricchezza per una minoranza di borghesi, aumento della miseria per la stragrande maggioranza del resto della popolazione e del proletariato in particolare - sono destinate a diventare sempre più acute e a stritolare masse proletarie sempre più vaste e numerose nel mondo. Per affrontarle e per contrastare le reazioni proletarie ai peggioramenti inesorabili della loro vita in generale e della loro sopravvivenza quotidiana in particolare, il potere borghese non può fare a meno dell’opera di supporto delle forze di conservazione, e delle forze opportuniste e collaborazioniste in primo luogo. E’ per questa ragione che il collaborazionismo dei sindacati tricolore, e dei partiti operai borghesi dell’epoca della democrazia post-fascista, avrà sempre un ruolo decisivo nel controllo sociale del proletariato anche quando - come in questi ultimi vent’anni - non può più contare sull’abbondanza di ammortizzatori sociali del periodo di espansione economica postbellico. Il collaborazionismo non si estinguerà mai perché troverà sempre sostegno e alimento nel potere economico e politico della classe dominante borghese. I proletari lo devono combattere sullo stesso terreno di lotta contro la classe dei capitalisti, sul terreno della lotta di classe apertamente antiborghese e antidemocratica, perciò anche anti-collaborazionista.

In tempi di espansione economica del capitalismo, e quindi di risorse potenzialmente più abbondanti da cui pescare miglioramenti concreti per gli operai, i sindacati collaborazionisti mescolavano normalmente obiettivi economici con obiettivi normativi e di gestione aziendale, candidandosi sia come gestori della forza lavoro in termini di «miglior organizzazione del lavoro per una più alta produttività», sia come gestori dell’azienda in termini di «obiettivi di mercato», «competitività», difesa delle «quote di mercato» mimetizzando il tutto sotto la bandiera della «difesa degli organici» e della «difesa delle specializzazioni» rispetto la «concorrenza straniera» e le delocalizzazioni alle quali molti padroni erano e sono spinti dati i costi  molto più bassi della manodopera in altri paesi della periferia delle potenze imperialistiche.

In tempi di crisi e di recessione, i sindacati tricolore hanno sistematicamente abbassato i toni e le pretese, appiattendosi sempre più sulle esigenze immediate dell’economia nazionale e delle economie aziendali; a dimostrazione che la loro massima preoccupazione non è mai stata l’effettiva difesa delle condizioni di lavoro e di vita dei proletari ma la difesa dell’economia aziendale e nazionale dalla quale far dipendere le condizioni di lavoro e di vita dei lavoratori salariati, al di là dei miglioramenti o meno. In tempi di crisi i sindacati tricolore si preoccupano che il malessere sociale non esploda, che la pace sociale sia mantenuta evitando al massimo possibile la repressione e le cariche di polizia contro gli operai, come dichiarava già un anno fa il capo della Cgil, Epifani, in un’intervista (cfr. «la Repubblica», 11.2.2009).

In pratica, negli ultimi vent’anni, alla lenta ma inesorabile ritirata dei sindacati tricolore tradizionali come Cgil, Cisl, Uil, dal fronte della difesa anche solo nominale delle condizioni di lavoro e di vita dei proletari, e alla inevitabile apparizione di sindacati di minoranza e spesso più corporativi, ma più attivi sui posti di lavoro allo scopo di ottenere consensi e iscritti, le masse proletarie si sono ritrovate ancor più frammentate, isolate e disorientate di prima. Gli episodi che hanno caratterizzato ad esempio le lotte in Francia, con il personale direttivo delle aziende bloccato negli uffici «in ostaggio» dei lavoratori esasperati dalla mancanza di risposte chiare e certe da parte delle direzioni aziendali, o in Italia con l’occupazione  dei tetti o delle gru delle fabbriche e dei cantieri da parte di piccoli gruppi di operai, se da un lato dimostrano una reazione coraggiosa da parte di operai isolati e abbandonati dai sindacati ma molto determinati e combattivi, dall’altro lato dimostrano l’estremo isolamento e spezzettamento delle lotte operaie sul terreno che dovrebbe invece facilitare la loro unione e la loro solidarietà: il terreno della difesa delle condizioni di lavoro e di vita immediate rispetto alle quali tutti gli operai - al di là dell’età, della specializzazione, del sesso, della nazionalità, della categoria, del settore - dovrebbero essere e sentirsi direttamente interessati e solidali.

Ma quella solidarietà e quell’unione sono diventate parole senza alcuna forza, svuotate, come sono state per lunghi decenni, proprio dalla pratica opportunista e collaborazionista; esse non appartengono oggi ai proletari perché hanno perso del tutto la memoria della tradizione classista che in decenni lontani aveva spinto le generazioni proletarie di allora non solo ad unirsi e a solidarizzare sul terreno della lotta immediata, ma a spingersi ben oltre, sul terreno della lotta politica e rivoluzionaria.

 

Si spostano i voti, si rafforza l’illusione democratica

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Il tremendo ripiegamento che ha colpito il proletariato in questi ultimi decenni, in Italia e in tutti i paesi industrializzati, squarciato solo episodicamente da qualche esplosione di rabbia proletaria di qualche ora o qualche giorno per poi scomparire, si riflette sul terreno politico con un generale distacco nei confronti della politica attiva dei partiti parlamentari, con una diffusa rassegnazione nei confronti di una situazione che si crede ormai perennemente sfavorevole, ed esprimendo una tendenza a fidarsi piuttosto di movimenti che nascono «dal basso», dalla spontanea reazione all’immobilismo dei partiti parlamentari, alla corruzione e al malaffare che, come metastasi, corrodono tutte le istituzioni.

Sul terreno elettorale, a parte  una quota di astensionismo dovuto sia alla rassegnazione di cui sopra che ad un certo disgusto verso «la politica», vi è stata una parte di proletari che ha affidato nuovamente il suo voto alla Lega Nord, all’Italia dei Valori o al Movimento 5 Stelle, ossia a partiti che per un verso o per l’altro hanno dimostrato di intercettare le loro paure (e qui sono andati verso la Lega Nord), paure verso «lo sconosciuto», «lo straniero», «il drogato», o la loro protesta contro l’abuso di potere degli attuali governanti e contro la corruzione dilagante, o la ripicca personale nei confronti di coloro che «a sinistra» hanno dimostrato di non opporsi allo strapotere dei padroni, anzi di cercare di farne parte ritagliandosi quote di potere, di benefici, di tangenti.

Anche questo spostamento di voti va letto come un rafforzamento dell’illusione democratica e un ulteriore indietreggiamento dal terreno della lotta aperta contro i veri responsabili del peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita dei proletari, cioè la classe dei borghesi prima di tutto e, al loro fianco, la congerie di collaborazionisti del potere borghese attivi in tutti i campi, sindacale, politico, economico, sociale, culturale, religioso.

La corruzione democratica non è dissimile dalla corruzione economica. Sempre di «tangente» si tratta: in un caso la tangente è il voto che, sommato ad altri voti, consente al politicante di turno di confermarsi o affermarsi per la prima volta in posti-chiave dai quali controllare privilegi, prebende, favori, affari; nell’altro caso la tangente è il favore stesso, o il mezzo immediato per ottenerlo (una consulenza, un posto di lavoro, un appalto, una facilitazione fino alla percentuale in denaro o in beni di lusso per l’affare andato a buon fine o semplicemente per «far andare avanti una pratica»). Come dimostrano da sempre tutti i partiti democratici, siedano o meno al parlamento, e chi più chi meno, al di là della loro collocazione nell’arco che va da destra a sinistra, la corruzione concreta, materiale ed economica ha bisogno della corruzione politica, ha bisogno di essere facilitata concretamente ma coperta di fronte alla legge, alla concorrenza e alla cosiddetta opinione pubblica. E per un corrotto o un corruttore che viene beccato ce ne sono altri mille che continuano la loro attività a man salva. Si è giunti addirittura a nobilitare, e non da oggi, attraverso il sistema elettorale - dunque a suon di voti - noti corrotti e corruttori, noti delinquenti indagati e condannati, noti malavitosi o marionette mosse da malavitosi, e tutto grazie al sistema democratico, alla copertura «morale», attraverso il coinvolgimento delle singole «coscienze», di un intero ceto sociale dedito al malaffare, al tornaconto personale, al privilegio dei clan d’appartenenza. La democrazia borghese, di fatto, consente una diffusione della corruzione e del malaffare molto più ampia e capillare che non la dittatura fascista, e questo non perché il fascismo poggi su persone «oneste» - sotto il capitalismo il grado di onestà dei suoi rappresentanti è inversamente proporzionale al grado di sfruttamento del lavoro salariato e al grado di parassitismo legato a questo sfruttamento, perciò l’imprenditore che tratta i suoi operai paternalisticamente non è meno sfruttatore del lavoro umano di quanto lo sia l’imprenditore che tratta i suoi operai più brutalmente - ma perché la sua «tenuta sociale» dipende anche dalla dimostrazione pratica di una  «dirittura morale» dei suoi rappresentanti nella vita di tutti i giorni.

Affidarsi, dunque, a movimenti politici che nascono «dal basso» e che accarezzano con più voluttà gli ideali di democrazia, di eguaglianza in una società che vive e si mantiene soltanto grazie a disuguaglianze sempre più profonde, significa affidare le proprie speranze e il proprio futuro ad una diversa, ma rinnovata illusione di poter risolvere le contraddizioni sociali, di poter abbattere in modo consistente le «ingiustizie», di eliminare i soprusi a suon di leggi, di decreti, di ordinanze che dovrebbero andare a sanare quel che altrettanti decreti, leggi e ordinanze hanno rovinato.

I proletari, finché saranno prigionieri di un sistema economico che li prosciuga di energie fisiche, nervose e mentali, finché saranno prigionieri di un sistema politico che ne paralizza l’iniziativa di classe, finché si fideranno della mediazione democratica, parlamentare, pacifista, legalitaria, collaborazionista di partiti e organizzazioni sindacali e sociali che vivono come sanguisughe del sangue dei proletari sfruttati dal capitale, finché sopporteranno senza reagire vigorosamente e in modo dichiaratamente antagonistico il peso dello sfruttamento capitalistico e del dispotismo sociale e politico della classe borghese, che lo vogliano o meno di fatto contribuiscono con le proprie mani al mantenimento e al rafforzamento della propria schiavitù salariale.

Sono psssati decenni su decenni di democrazia borghese declinata in tutte le salse possibili, dalla democrazia liberale inglese alla democrazia popolare di stampo sovietico, dalla democrazia a strati progressivi alla democrazia militare: la conclusione non è stata la fine delle guerre, l’eliminazione della miseria e della fame, la vittoria sull’inquinamento dell’ambiente, l’armonia tra i popoli del mondo. Il quadro che abbiamo di fronte è sempre più chiaro: il capitale e la società eretta a sua immagine e somiglianza e a sua strenua difesa dalla classe borghese, che è la sola e unica proprietaria dei mezzi di produzione e della ricchezza sociale prodotta, dominano la vita della specie umana diffondendo e approfondendo sempre più immani sofferenze ad una parte sempre più grande di uomini. La forza produttiva rappresentata dal capitale divora con una voracità mostruosa le energie e la vitalità espresse dalle forze produttive vive, dal lavoro salariato. Il capitale, più sviluppa se stesso e di conseguenza le forze produttive rappresentate dal lavoro umano, più deve distruggerle per poter rinnovare continuamente i suoi cicli di accumulazione.

La democrazia borghese, e quindi il sistema elettorale parlamentare, hanno il compito di mistificare questa realtà, di nasconderla, di giustificarla. E tutte le forze politiche e sociali che la usano, la propagandano, la difendono, se ne servono, non fanno altro che svolgere il ruolo dei pilastri che hanno il compito di sostenere il più a lungo possibile il castello di menzogne che avvolge la vita quotidiana dell’intera società.

I proletari che cosa ne ricavano? Per la stragrande maggioranza di loro nulla di positivo, ma solo l’illusione perdurante che chi li sfrutta, li calpesta, li dissangua, li massacra, possa un  giorno ricredersi, come Paolo sulla via di Damasco, spogliarsi di ogni ricchezza e dedicarsi ... alla salvezza delle anime aprendo per gli umili e gli sfruttati ... le porte dell’aldilà.

La realtà di questa terra, la realtà materiale della vita vissuta ogni giorno, è la realtà dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo,  per emanciparsi dal quale gli uomini hanno una sola possibilità: lottare concretamente, con forza fisica, nervosa e mentale, in modo organizzato, con finalità ben precise e un programma solido e invariante, per distruggere la causa delle immani sofferenze cui è sottoposta la stragrande maggioranza della popolazione mondiale. La causa è il capitalismo, è la stessa forza sociale che da un lato sfrutta e distrugge vite umane e dall’altro offre uguaglianza, benessere, armonia ma solo... nell’aldilà.

Da quando storicamente la democrazia borghese ha perduto completamente la sua forza propulsiva per far progredire la società umana, la sua forza rivoluzionaria con la quale ha distrutto i ceppi che impedivano lo sviluppo a livello mondiale delle forze produttive - e questa forza propulsiva l’ha persa nel periodo storico in cui un’altra classe, il proletariato, si è affacciata sulla scena storica con finalità generali che nessuna classe prima di allora poteva esprimere: la società senza classi, il comunismo - la stessa democrazia borghese si è trasformata prima in una forza riformista a fini chiaramente di conservazione sociale, e poi in una forza reazionaria a fini sempre di conservazione sociale ma con una caratterizzazione più accentuata nelle forme del dispotismo economico, politico, sociale.

La vita politica non si fa più nelle aule parlamentari e nelle sedi dei partiti democratici e parlamentari, ormai da decenni come i marxisti hanno denunciato da metà dell’Ottocento. La vita politica, le decisioni politiche, la borghesia la fa in altre sedi, molto più riservate e nascoste: nei palazzi dei potentati economici e politici, negli incontri a porte chiuse, negli accordi segreti. Il parlamento e le varie istituzioni pubbliche sono da tempo immemore dei mulini di parole per rincretinire il popolo. Il fatto è che ci riescono ancora nonostante le continue dimostrazioni di colossale presa in giro.

Certo è che, finché i proletari dei paesi avanzati, dei paesi più ricchi, possono contare su qualche piccola riserva materiale qualche piccola «garanzia» concreta - del tipo degli ammortizzatori sociali, della casa di proprietà, del pezzetto di terra da trasmettere in eredità - l’illusione democratica avrà sempre una base materiale su cui poggiare, sulla quale far leva per poter continuare a rincretinire le loro teste, cercando di assicurarsi così qualche decennio di vita capitalistica in più.

 

E’ sul terreno di classe che si devono spostare le forze proletarie

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Ma il terremoto sociale si sta preparando; le crisi economiche che si susseguono e che coinvolgono sempre più strettamente un gran numero di paesi, gettando sul lastrico masse proletarie sempre più numerose, tolgono progressivamente margine di manovra alle classi dominanti costringendole ad indurire sempre di più le condizioni di sopravvivenza dei proletariati non solo dei paesi della periferia dell’imperialismo, ma anche dei paesi imperialisti stessi.

Le condizioni oggettive di una ripresa  classista da parte dei proletari si stanno sempre più evidenziando, e non solo attraverso lo svelamento dell’inganno elettorale e democratico, ma anche attraverso l’immobilismo e l’impotenza delle organizzazioni sindacali e politiche che fino a qualche anno fa  avevano ancora sicura e attiva presa sui lavoratori ricavandone una fiducia partecipata.

 

Lo spostamento che noi ci auguriamo non avvenga tra altri trenta o cinquant’anni, non è certo lo spostamento di voti da partiti falsamente «comunisti» e «socialisti» a partiti «veramente democratici», ma  di forze proletarie che dal terreno del collaborazionismo e del pacifismo sociale si spostino sul terreno della lotta classista, sul terreno dell’aperto antagonismo di classe sul quale, d’altra parte, la classe borghese dominante non ha mai smesso di esserci  vista la sua politica sistematicamente antioperaia, solo che lo ha nascosto molto bene, con l’inganno democratico appunto, aiutata fattivamente da tutte le forze del riformismo e del collaborazionismo interclassista.

La lezione da trarre da queste ennesime tornate elettorali, e da quelle che ancora ammorberanno purtroppo la classe operaia nei prossimi anni, non è nuova.

I comunisti, e in particolare la Sinistra comunista, l’ha tratta fin dal 1921 quando, con la tattica dell’astensionismo indicava - non a parole, ma coi fatti - al proletariato la strada della preparazione rivoluzionaria.

L’astensionismo comunista non era un atteggiamento di indifferenza per la politica, non era nemmeno il pretesto per arroccarsi in una torre d’avorio in attesa di tempi migliori per la rivoluzione, ma era il netto rifiuto di contribuire all’inganno democratico nei confronti del proletariato e la contemporanea chiamata del proletariato ad organizzarsi in modo indipendente dagli apparati e dalle politiche del riformismo per dirigersi, appunto, verso la preparazione rivoluzionaria per la quale era indispensabile la presenza attiva e operante del partito comunista rivoluzionario nelle file proletarie.

 

A questo astensionismo noi ci richiamiamo e, soprattutto, alla preparazione rivoluzionaria che oggi - non essendo in un periodo storico caratterizzato dalla vittoriosa rivoluzione comunista come nel 1917 in Russia, dal movimento di lotta proletaria non solo per la difesa di classe delle condizioni di vita e di lavoro ma anche per l’offesa di classe contro il potere borghese e il suo Stato - non può essere che il lavoro di formazione e di irrobustimento del nucleo di partito comunista rivoluzionario che rappresentiamo, a stretto contatto con la vita e i problemi della lotta di classe operaia, fuori e contro ogni deviazione riformista e collaborazionista, contro ogni cedimento al politicantismo personale ed elettoralesco.       

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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