Il capitalismo promette ai proletari «anni di sofferenze»

Ma la vecchia talpa di Marx lavora!

(«il comunista»; N° 117; Giugno 2010)

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Ripresa economica drogata

 

Secondo la maggioranza degli economisti ufficiali (1), la crisi economica è terminata tra la fine del 2009 e l’inizio del 2010, a seconda di quando gli indici di crescita sono ridiventati positivi nei differenti paesi. Diversi indici statistici attestano che siamo entrati in una fase di ripresa economica: dalle cifre di crescita del PIL e della produzione industriale a quelle del commercio mondiale. Il solo aumento dei profitti negli Stati Uniti, sempre e di gran lunga la prima economia mondiale che ricomincia a creare posti di lavoro, dimostra senza dubbio che il parossismo della crisi, conosciuta dalla fine del 2008 all’inizio del 2009, è passato.

Tuttavia persistono le incertezze su questa ripresa anche tra gli stessi economisti che ne hanno stabilito la fine, prima ancora che la «crisi greca» ravvivasse brutalmente le inquietudini borghesi. In effetti, questa «ripresa» è molto più molle e incerta delle riprese che solitamente hanno finora seguito le recessioni economiche precedenti. Ad esempio, nel mese di maggio di quest’anno, le statistiche del governo americano annunciavano la creazione di 430.000 posti di lavoro, il migliore dato mensile di aumento dell’occupazione dopo più di 10 anni. Ma più del 95% di questi posti di lavoro sono degli impieghi temporanei con i quali le istituzioni pubbliche hanno deciso un nuovo censimento nazionale della popolazione (2). Anche il commercio mondiale, nel primo trimestre 2010, ha registrato un forte rialzo che, in valore, corrisponde al +25% rispetto all’anno precedente. Ma questo aumento deve essere messo in relazione al fatto che nel periodo corrispondente del 2009 vi è stata la caduta storica del commercio internazionale dalla fine della seconda guerra mondiale. Se poi si compara ad oggi l’evoluzione del commercio mondiale rispetto al trimestre precedente, si constata un abbattimento di più del 10%…

La ripresa economica, dunque, rimane fino ad ora interamente dipendente dalla crescita del debito pubblico, dei deficit di budget statali come dalla politica del denaro facile («quantitative easing») delle banche centrali: tassi d’interesse vicino allo zero che permettono alle banche di rifinanziarsi gratuitamente; siamo sempre in quel che un economista chiama una «economia drogata» (3).

Negli Stati Uniti, nel primo trimestre 2010, ci volevano 3,6 dollari di debito finanziario e 2,2 dollari di spese di budget per avere 1 dollaro di crescita del PIL (4). Perché sia possibile parlare di ripresa solida, che possa sostenersi da sola senza ricorrere a dosi massicce della droga del credito, bisognerebbe che questi indici divenissero inferiori a 1. Presto o tardi in effetti gli Stati, e lo Stato americano che gode tra l’altro del formidabile vantaggio che il dollaro è ancora la moneta di riserva internazionale (dunque la moneta che fa finanziare il suo deficit dagli altri Stati) non fa eccezione, dovranno ridurre il loro indebitamento e il loro deficit budgetario che sono giunti a livelli che alla lunga sono insopportabili. La ripresa economica, se non trova un altro motore, si trasforma in una ricaduta nella recessione: è lo scenario di una crisi «a doppio fondo», come quella del 1980-1982. Da subito la Banca Mondiale ha avvertito dei rischi di una ricaduta nella crisi economica per certi paesi europei con minacciose conseguenze per i paesi dell’Est Europa, dell’Asia centrale e dell’America Latina (5).

Per evitare una ricaduta nella crisi, il governo Obama ha ufficialmente deciso dopo diversi mesi di trovare un tale motore nello sviluppo (udite! udite!) delle esportazioni americane, appoggiandosi in particolare sulla diminuzione del dollaro rispetto alle altre monete (e facendo pressione sulla Cina affinché rivalutasse la sua moneta). Malauguratamente per gli Stati Uniti, la cosiddetta «crisi greca» e la diminuzione dell’euro che essa ha provocato sono venute a contrastare quella prospettiva…

 

La «crisi greca», nuovo sviluppo della crisi capitalistica mondiale

 

La «crisi greca» non è in realtà che una manifestazione della crisi economica capitalistica, che è tutt'altro che terminata; ci troviamo di fronte a una crisi dell’indebitamento dello Stato che deve chiedere continuamente prestiti al mercato finanziario internazionale per regolarizzare il suo debito e finanziare il suo deficit. Se si fosse in un periodo di forte crescita economica, questo non rappresenterebbe un problema insormontabile. Ma, nel periodo attuale, le diverse organizzazioni finanziarie, banche e altri istituti, hanno incominciato a trovare rischioso l’acquisto dei mutui greci, il loro rimborso appariva sempre più aleatorio stanti le prospettive economiche particolarmente deboli di questo paese. Durante parecchi mesi i grandi paesi europei si sono mostrati ricalcitranti nel soccorrere lo Stato greco; secondo molti analisti, una delle ragioni del ritardo nell' intervenire per salvare la Grecia dalla bancarotta è che gli Stati europei hanno visto in questa crisi innanzitutto un modo facile per far diminuire il valore dell’euro aiutando così le proprie esportazioni, perché le loro merci diventavano più competitive rispetto a quelle americane, giapponesi o cinesi.

La crisi greca doveva diventare molto acuta, rischiando di estendersi ad altri paesi e di mettere in pericolo la sopravvivenza della stessa zona dell’euro, mentre gli Stati Uniti, preoccupati per le proprie esportazioni a causa del diminuito valore dell’euro, facevano notevoli pressioni sui più forti paesi europei perché questi ultimi si decidessero infine a preparare un «piano di salvataggio» della Grecia e di sostegno dell’euro: per due anni lo Stato greco potrà chiedere prestiti da un fondo costituito da tutti i paesi europei (6) senza dover passare dal mercato finanziario internazionale e quindi pagare i suoi tassi d’interesse usurari.

Il tasso di interesse per il prestito alla Grecia è stato fissato, in ogni caso, molto alto (3%) perché sia conveniente per i creditori e ciò ha suscitato le critiche del FMI: gli Stati europei vogliono essere sì «solidali» ma solo se ci guadagnano! e non potrebbe essere altrimenti. Gli investitori sono così «rassicurati» dal piano di 750 miliardi di euro, le borse diventano euforiche, il valore dell’euro si rialza, la pressione «speculativa» sul Portogallo o la Spagna si alleggerisce. Ma chi è stato in realtà salvato?

Riguardo la risposta non ci sono dubbi: sono le banche europee, soprattutto francesi e tedesche, le prime beneficiarie di questo salvataggio. Secondo le statistiche della Banque des Règlements Internationaux, nel primo trimestre di quest’anno, le banche francesi erano le più esposte al debito greco (79 miliardi di dollari), seguite dalle banche tedesche (45 miliardi di dollari), e insieme rappresentavano più del 64% del totale dell’esposizione delle banche europee. «Le Monde» scriveva il 18 maggio scorso: «sono le banche che si sono salvate grazie alla Grecia»; furioso, il grande quotidiano tedesco «Der Spiegel» non esitava a parlare il 29 maggio di un «complotto francese» perché, nel quadro del piano di aiuto alla Grecia, la Banca Centrale Europea stava comprando 25 miliardi di euro di obbligazioni greche (invendibili altrimenti) presso le banche francesi…

Per portare un po’ di conforto allo Spiegel, ricorderemo che si trattava anche di salvare un ottimo cliente della Germania: la Grecia è il secondo cliente dell’industria degli armamenti tedesca, mentre è bene ricordare che la Germania è diventata la terza esportatrice mondiale di armi, superando la Francia. Quanto a quest’ultima, sembra che non avrebbe dato parere positivo al piano di salvataggio della Grecia se la Grecia non vesse onorato i contratti di acquisto di armi sottoscritti dal governo precedente: l’austerità non si applica ai mercanti di cannoni!

In «contropartita», rispetto a questo piano molto «generoso», lo Stato greco deve imporre un’austerità senza precedenti: è evidente che l’austerità piomberà sulle condizioni di vita e di lavoro dei proletari greci, in termini di bassi salari, diminuzione delle pensioni, aumento della disoccupazione, in una parola: aumento del tasso di sfruttamento per migliorare il tasso medio di profitto dell’economia greca in modo che possa liberare sufficienti risorse per rimborsare i creditori.

 

Le conseguenze più dure della crisi devono ancora arrivare

 

Come noi avevamo già sostenuto, quel che sta accadendo in Grecia non è che la prefigurazione di quel che succederà ai proletari degli altri paesi europei. Non appena varato il piano di aiuti allo Stato greco, propagandato come la «soluzione» per la Grecia, ci si è accorti, da un lato, che questa soluzione non era che temporanea (sono rari gli economisti che credono che in 2 anni la Grecia raggiungerà una crescita economica sufficiente per evitare l’insolvenza) e, dall’altro lato, che gli stessi problemi si ponevano in modo più o meno acuto in tutti gli altri paesi europei: indebitamento esorbitante, deficit budgetario e prospettive di crescita economica molto deboli formano una miscela esplosiva anche nei paesi più potenti. L’agenzia economica Reuters scriveva il 24 maggio: «le conseguenze più dure della crisi probabilmente devono ancora arrivare».

In alcune settimane i diversi paesi europei, spaventati dalle oscure prospettive economiche che alimentavano la depressione delle borse, hanno annunciato, uno dopo l’altro, in Spagna, in Portogallo, in Irlanda, in Italia ecc., misure d’austerità piuttosto draconiane: avanzamento dell’età  pensionabile, diminuzione delle pensioni, abbattimento dei salari per i dipendenti pubblici, restrizione delle prestazioni sociali ecc. Anche la ricca Germania ha annunciato il suo piano di austerità, il più importante dopo la fine della seconda guerra mondiale, che dovrebbe colpire soprattutto la spesa sociale dello Stato.

Fin da ora i proletari dei paesi europei periferici sono messi di fronte a condizioni e misure non ancora passate così pesantemente nei paesi della zona dell’euro, ad eccezione della Grecia e dell’Irlanda, ma che si profilano come prossime anche per loro. Prendiamo come esempi i Paesi Baltici e la Romania.

In Estonia la disoccupazione è più che triplicata in un anno, superando ufficialmente il 15% alla fine del 2009, e la povertà è devastante per i disoccupati e i pensionati.

In Lettonia la crisi economica è comparabile a quella degli anni trenta negli Stati Uniti; il PIL è caduto del 18% nel 2009, la disoccupazione è triplicata anche qui (le cifre ufficiali indicano il 19%). Per ottenere dei prestiti dal FMI, dall’Unione Europea e dalle banche nordiche, la Lettonia ha imposto un piano d’austerità drastico: il salario minimo è stato abbattuto del 20% (a 140 euro al mese), le pensioni del 10% ecc. I salari nel settore privato sono stati abbattuti del 30%. Malgrado queste misure, si prevede che il debito e il deficit aumenteranno comunque, richiedendo così ulteriori piani di austerità antioperai.

In Lituania il PIL si è abbassato del 15%  nel 2009: di fronte al rischio di bancarotta del paese, il governo si è lanciato anch’esso in un piano di austerità draconiano: diminuzione della spesa sociale del 30%, diminuzione dei salari del pubblico impiego del 15-20%, abbattimento dell’11% delle pensioni, aumento dell’Iva al 21%. «E’ meglio non diventare vecchi in Lituania», scrive, con il sarcasmo spocchioso tipico dei borghesi benestanti, il New York Times il 22.4.2010…

In Romania, il governo ha deciso una vera «terapia d’urto» (che lo stesso FMI si è permessa il lusso di giudicare eccessiva!): aumento dell’Iva al 25%,  soppressione di 145.000 posti di lavoro nel pubblico impiego, abbattimento dei 25% dei salari dei funzionari pubblici, diminuzione degli assegni di disoccupazione e di pensione del 15%, riduzione drastica di numerose prestazioni sociali…

I dirigenti del mondo intero credono di poter risolvere la grave crisi economica del capitalismo ricorrendo in modo massiccio all’indebitamento, questa volta da parte degli Stati. Questa bombola d’ossigeno ha indubbiamente evitato, nell’immediato, il peggio e ha salvato il sistema finanziario internazionale dal crollo verticale, ma  non può fare altro che ammortizzare temporaneamente la crisi, prolungandone gli effetti e allontanando di qualche anno una crisi che si presenterà ancora più acuta. Perché riprenda un nuovo ciclo economico di crescita vigorosa, il capitalismo deve sopprimere la sovrapproduzione che lo soffoca; il capitalismo deve valorizzare i capitali pletorici, sopprimere le forze produttive in sovrabbondanza a cominciare dalla più importante fra queste, la forza lavoro, i proletari. Il capitalismo non può uscire dalla propria crisi se non colpendo sempre più duramente i proletari, estorcendo loro una parte supplementare di pluslavoro!

Questo processo di ripresa capitalistica può essere compiuto solo attraverso una crisi brutale, catastrofica, una nuova guerra mondiale le cui immense devastazioni giocherebbero il ruolo di un rinnovato bagno di giovinezza per il capitalismo, come successe con la prima e soprattutto con la seconda guerra mondiale. Ma il capitalismo mondiale non è ancora spinto a questa estrema soluzione. La sua prospettiva attuale è quella descritta dal Primo Ministro britannico; parlando della Gran Bretagna, egli ha annunciato ciò che la borghesia dei paesi europei riserva ai lavoratori: «anni di sofferenze»! (7).

 

Verso la ripresa della lotta di classe

 

I borghesi hanno dalla loro parte un vantaggio formidabile: dappertutto la classe operaia è paralizzata, prigioniera di organizzazioni sindacali e politiche collaborazioniste che sacrificano sistematicamente gli interessi proletari a favore degli interessi del capitalismo. Il 14 maggio, il responsabile delle Comisiones Obreras, il principale sindacato spagnolo, dichiarava di rigettare totalmente il piano di austerità del governo, ma aggiungeva nello stesso tempo che rigettava anche un vero sciopero generale di tutti i lavoratori del settore pubblico e del settore privato (al posto di uno sciopero simbolico dei funzionari pubblici) perché è «l’ultima cosa di cui ha bisogno il paese in un periodo come questo» (8). Dalla Spagna alla Grecia, dalla Romania alla Francia, dalla Germania all’Italia e ai Paesi Baltici, gli apparati sindacali, totalmente integrati nella rete borghese della collaborazione di classe, vedono le manifestazioni e le proteste dei proletari solo come valvole di sfogo per dissipare la collera dei lavoratori e impedire loro di entrare davvero in lotta contro la classe borghese.

Questi pompieri sociali non potranno contenere in eterno le spinte di lotta che nascono e nasceranno inevitabilmente in risposta agli attacchi dei capitalisti. Sotto i colpi della crisi, e sotto la spinta elementare e materiale alla lotta dei proletari, le gabbie che tengono prigioniero il proletariato, sempre più logore, finiranno per cedere. Il ritorno alla lotta di classe non avverrà di colpo e in maniera definitiva; vi saranno inevitabilmente esplosioni di lotta che saranno deviate e sterilizzate fino a quando i proletari ritroveranno la forza di dotarsi di organizzazioni di difesa  classista degne di questo nome, cosa che non potrà avvenire in un giorno. Ma la ripresa della lotta di classe è inevitabilmente all’ordine del giorno delle crisi del capitalismo.

Questa è la direzione nella quale i proletari più avanzati e combattivi devono porsi, questa è la direzione nella quale si devono preparare, anche negli episodi di lotta temporanei e parziali, i proletari che più hanno a cuore la lotta collettiva nella certezza che il loro numero, che corrisponde alla stragrande maggioranza della popolazione, potrà diventare un fattore decisivo nella lotta anticapitalistica solo se organizzato in difesa esclusiva dei propri interessi di classe e se influenzato dal partito comunista rivoluzionario che ne rappresenta gli obiettivi storici di emancipazione dal capitalismo. A dispetto dei limiti oggi ancora imposti dalla situazione oggettiva, in silenzio la vecchia talpa di Marx lavora!

 


 

(1)    Ma l’istituto americano NBER, incaricato di annunciare l’inizio e la fine delle crisi, ha stimato a metà aprile che non vi erano ancora sufficienti elementi per dichiarare la fine della crisi negli Stati Uniti: «Molti indicatori sono del tutto preliminari e saranno rivisti nei prossimi mesi. Il comitato agisce unicamente sulla base di indicatori reali e non si appoggia su delle previsioni per determinare le crescite o le cadute dell’attività economica», vedi il sito www.nber.org/cycles/april2010.html.

(2)    Cfr. «Le Monde», 5/6/2010.

(3)    Cfr. «Les Echos», 4-5/6/2010.

(4)    Vedi http://criseusa.blog.lemonde.fr/2010/05/01/le-pib-us-au-t-l-2010-la-reprise-nest-pas-la 

(5)    Cfr. http://go.worldbank.org/LVQ96TT0R0

(6)    Eccezione: la Gran Bretagna ha rifiutato di parteciparvi, mentre la Svezia, anch’essa non membro della zona euro, vi parteciperà.

(7)    Cfr. «The Sunday Time», 6/6/2010.

(8)    Cfr. «The Financial Times», 14/5/2010.

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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