Fiat: l’unico vero interesse che la muove è applicare la cinica legge del profitto capitalistico, sulla pelle dei lavoratori italiani, polacchi, serbi e americani.

Come devono difendersi i proletari?

(«il comunista»; N° 118; Ottobre 2010)

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L’attacco sferrato dalla Fiat alle condizioni generali e particolari dei lavoratori dei suoi stabilimenti in questi ultimi tempi fa parte della “guerra di classe” tra borghesi capitalisti e proletari che riguarda i profitti della Fiat ma, allo stesso tempo, i profitti di tutti i capitalisti italiani.

Marchionne, amministratore delegato Fiat, ha il compito di cambiare, in sostanza e nella forma, i rapporti finora stabiliti con i lavoratori e con i sindacati. L’accordo peggiorativo imposto ai lavoratori dello stabilimento di Pomigliano, sostenuto col ricatto classico del posto di lavoro solo a coloro che accettano la “resa incondizionata”, falsamente giustificato con la produzione della Panda spostata dallo stabilimento polacco di Tychy a Pomigliano, è stata una vera e propria “dichiarazione di guerra” che mira ad imporre ai lavoratori condizioni contrattuali molto più favorevoli al padronato delle attuali, condizioni che, grazie a decenni di collaborazionismo tra forze del sindacalismo tricolore, partiti cosiddetti “operai”, aziende e istituzioni capitalistiche, hanno piegato l’intera classe operaia – e non solo in Italia – alle esigenze del capitalismo nelle continue modificazioni dei rapporti di concorrenza mondiale.

Cisl e Uil da tempo sono tornate a svolgere platealmente la funzione assunta fin dalla loro nascita nel 1949: rompere il “fronte sindacale”, sebbene già da allora collaborazionista, isolando la Cgil e, in particolare, il sindacato dei metalmeccanici che nei decenni scorsi più di altri ha dimostrato maggiore “resistenza” alle richieste del padronato a causa della forte spinta della sua base operaia. Ma la “resistenza” che hanno fatto, e stanno ancora facendo, la Fiom e la Cgil nella vicenda Fiat, si limita in verità a richiamarsi agli accordi contrattuali esistenti – che già lasciano parecchia mano libera ai padroni – e ai “diritti” che ne derivano, promettendo nel contempo di accettare praticamente qualsiasi richiesta aziendale pur di “mantenere il lavoro” per la gran parte degli operai. Tale “resistenza”, in realtà, è data più dal timore di una rivolta operaia generalizzata nel napoletano, che già da molto tempo è precipitato in una situazione di gravissima disoccupazione giovanile e non solo, piuttosto che da una seria e coerente azione di difesa delle condizioni operaie. Il teatrino è destinato a finire con la sconfitta della Fiom e della Cgil che tenteranno di salvare almeno “l’onore di bandiera”, ma saranno costrette ad accettare prima o poi la disdetta del contratto dei metalmeccanici da parte non solo della Fiat ma dell’intera Federmeccanica. Sulla strada del collaborazionismo che i sindacati, a partire dalla Cgil, hanno imboccato fin dalla loro ricostituzione dopo la fine della seconda guerra mondiale, i pochi risultati favorevoli alle condizioni operaie – dovuti soprattutto alla forte spinta combattiva delle masse operaie – sono stati ampiamente compensati per i padroni da una serie interminabile di vantaggi per loro. Oggi il padronato vuole di più, vuole ottenere mani più libere nella gestione della forza lavoro perché la concorrenza mondiale si è fatta più spietata, in particolare a causa della crisi economica iniziata nel 2007 e non ancora finita nonostante le continue voci di “ripresa” provenienti dai vari istituti di statistica. In questa crisi il comparto industriale automobilistico è uno dei più gravemente colpiti e stenta, a livello mondiale, a riprendere col ritmo necessario al recupero dei profitti persi durante la crisi.

Pomigliano, alla fine, sembra che abbia avuto la soluzione: la nuova Panda sarà tolta dalla fabbrica polacca di Tychy e data a Pomigliano. Ma questa non è una “vittoria” della lotta operaia per due motivi: 1) gli operai non vincono mai quando il temporaneo mantenimento del posto di lavoro è dovuto al peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro di altri operai, in questo caso a spese dei compagni di lavoro dello stabilimento polacco di Tychy; 2) come la Fiat si è comportata ieri con gli operai di Tychy, ottenendo da loro uno sfruttamento bestiale per la produzione della Panda per poi togliere loro questa produzione mettendo a rischio il posto di lavoro per gran parte di loro, così domani si comporterà con gli operai di Pomigliano quando vedrà che lo spostamento della produzione in altro sito – in Serbia, in Russia, in Brasile o in qualsiasi altro paese – sarà per lei più conveniente. I proletari polacchi di Tychy hanno fatto sentire la loro voce di solidarietà, seppur debole, dichiarando di aver imparato dall’esperienza precedente che fidarsi delle promesse del padrone e delle “garanzie di lavoro duraturo” sostenute dai propri sindacati collaborazionisti non porta reali risultati agli operai, e che non sarebbero scesi in lotta “contro” i compagni di lavoro di Pomigliano per trattenere la produzione della Panda in Polonia a condizioni ancora peggiori di quelle che già avevano accettato, pur di “salvare il proprio posto di lavoro”. La lotta di classe degli operai, perché produca una effettiva solidarietà di classe e combatta la concorrenza fra di loro che i padroni, i sindacati collaborazionisti, i partiti riformisti e i governi borghesi alimentano continuamente non solo sui posti di lavoro ma nella stessa loro vita quotidiana, deve essere attuata su obiettivi esclusivamente d’interesse proletario, fuori e contro ogni obiettivo di compatibilità con le esigenze di mercato delle aziende e, soprattutto, con mezzi e metodi a difesa esclusiva degli interessi immediati operai. Se la difesa del posto di lavoro (che vuol dire difesa del salario) rischia di trasformarsi, anche non intenzionalmente, in un aumento della concorrenza fra operai, tale difesa può essere efficace solo sulla base di una lotta comune, solidale, che affratelli gli operai dei diversi stabilimenti anche al di là dei confini nazionali. I proletari polacchi di Tychy in qualche maniera l’hanno indicato, sebbene pure loro siano invischiati nelle politiche  e nelle pratiche del collaborazionismo interclassista. Ma quella è la strada. 

Nel frattempo l’attacco alle condizioni di lavoro e di vita operaie veniva accompagnato dal licenziamento in tronco di tre operai della Fiom dello stabilimento di Melfi, accusati di sabotaggio della produzione durante uno sciopero. La vicenda è nota: sciopero nello stabilimento di Melfi, la Fiat licenzia i tre operai per sabotaggio alla produzione, la Fiom ricorre al Tar che decide il loro reintegro, la Fiat non li riammette al lavoro pur continuando a pagarli, ricorre legalmente pure l’azienda contestando il reintegro e attende il secondo grado di giudizio; intanto interviene perfino il presidente della repubblica Napolitano auspicando una soluzione “equa” della vicenda per non acutizzare la situazione. Ma la Fiat non torna indietro e, soprattutto, non teme l’eventuale duro scontro con la Fiom. La questione in ballo può sembrare di lana caprina, ma va letta almeno su due livelli: da un lato, l’attacco a tre operai Fiom, di cui due delegati sindacali, è un segnale ben preciso a tutti gli altri operai Fiom che vengono così messi a confronto con quelli di Cisl, Uil e Ugl che sono i sindacati che hanno firmato l’accordo di Pomigliano senza fiatare, e nello stesso tempo dà un punto di vantaggio alla Fiom facendola passare per vittima della prepotenza padronale; dall’altro lato, è un ulteriore segnale della decisa volontà padronale di cambiare completamente i rapporti sindacali in fabbrica, e fuori di essa, come se la Fiat dicesse: da oggi io detto le condizioni, lascio un margine di discussione coi sindacati che non mi crei alcun danno, e chi non è d’accordo ne paga immediatamente le conseguenze.    

Il ricatto che la Fiat ha attuato a Pomigliano: lavoro a condizioni molto peggiori di prima, stracciando i “diritti” acquisiti dai lavoratori, o ridimensionamento drastico dello stabilimento, se non la sua chiusura, è un ricatto classico che ogni capitalista attua ogni volta che i suoi profitti sono in pericolo. Nel caso della Fiat, essendo rimasta praticamente l’unica e la più grande fabbrica automobilistica italiana, il ricatto nei confronti dei lavoratori assume una valenza ancor più decisiva sul fronte dei rapporti tra governo, confindustria e sindacati.

L’obiettivo della multinazionale Fiat è ormai evidente: conquistare in tempi brevi una posizione importante nel novero delle grandi case automobilistiche mondiali, e l’intervento per il  “salvataggio” della Chrysler va in quella direzione, anche se l’unione di due case automobilistiche in gravi difficoltà non fa certamente una forza, ma in prospettiva l’obiettivo è di produrre 6 milioni di autoveicoli ed è questo obiettivo che porrebbe il gruppo Fiat-Chrysler ai più alti livelli nell’industria automobilistica mondiale. Nello sviluppo capitalistico il movimento verso le grandi concentrazioni di capitali è ovvio, è assolutamente naturale: il capitale non sopravvive se non continua la sua corsa per ingigantirsi e internazionalizzarsi. Questa tendenza è provocata certamente dalla sempre più accanita e spietata concorrenza mondiale, ma anche da un movimento “interno” allo stesso grande capitale che deve, pena la morte, continuare ad ingrandirsi, continuare a girare sempre più velocemente mettendo in funzione masse sempre più grandi di merci e di capitali. Nelle grandi aziende capitalistiche questo sviluppo lo si nota con maggiore facilità, ma la stessa tendenza permea tutte le aziende capitalistiche che, proprio per questo, si fanno la guerra a colpi di competitività delle merci prodotte, di redditività del capitale, di posizione preminente sul mercato, di influenza sui governi, di politiche concorrenziali al limite della legalità o anche oltre col beneplacito dei governi locali e delle forze politiche e sindacali che controllano le masse operaie. La Fiat, dunque, non è diversa da tutte le altre aziende capitalistiche: se “vanno bene”, se continuano ad aumentare la produzione, se allargano il proprio peso sul mercato, significa soltanto che hanno a propria disposizione forza e risorse per attuare tutte le necessarie pressioni sui governi, sulla concorrenza, sui partiti e sui sindacati, per ottenere i loro scopi. E come le grandi aziende automobilistiche, così le grandi aziende del petrolio, della chimica-farmaceutica, della cantieristica, dell’agro-alimentare, dei trasporti e, naturalmente, le grandi banche. Una rete fittissima di rapporti, di contatti, di favori reciproci, di agevolazioni, di “conoscenze”, lega i capitalisti gli uni agli altri sebbene la concorrenza trasformi continuamente gli amici in nemici, i soci in acerrimi concorrenti.

La vicenda di Pomigliano, come a suo tempo la vicenda dello stabilimento di Tychy in Polonia, o di Togliattigrad in Russia, di Melfi piuttosto che di Termini Imerese o Mirafiori, si inserisce in questa fitta rete di interessi da cui dipende il futuro dei profitti Fiat. Ormai lo sa anche il più giovane e inesperto operaio che i capitali producono profitto solo se sfruttano in modo adeguato la forza lavoro operaia, e solo se questo sfruttamento è protetto dalle leggi, dalla forza pubblica, dalla posizione che l’azienda ha raggiunto sul mercato. Per il capitalista moderno e informale Marchionne, che si è preso la libertà di annunciare la sua politica industriale come l’unica che corrisponda alla nuova epoca di economia globalizzata, usando addirittura l’immagine del “dopo Cristo”, vanno bene tutte le mosse che producono un beneficio all’adempimento del suo compito principale, e che è vecchio quanto è vecchio il capitalismo: fare più profitti di prima! E in queste mosse, ovviamente, ci stanno gli accordi da imporre ai sindacati affinché gli operai accettino condizioni di lavoro particolarmente dure. Ma fa parte anche la mossa “dialogante”, quella che fa dire al capitalista Marchionne “stop al conflitto operai-padroni” e che trova ovviamente il solidale coro di voci da parte della Confindustria, del governo, dei partiti parlamentari e dei sindacati, anche se la Fiom, sempre per onore di “bandiera”, insiste nel “resistere” sulla validità del contratto attuale che formalmente scadrà nel 2011. Con il pretesto dell’attuale grave crisi economica, la Fiat intende cambiare le regole e la Confindustria, anche se in taluni settori recalcitrante, la seguirà: la regola principale sarà quella già operante nell’accordo di Pomigliano: più turni di lavoro, meno pause, più straordinari comandati e niente sciopero, pena il licenziamento come è successo ai tre operai di Melfi per “sabotaggio della produzione”, e naturalmente meno salario! E tutto ciò viene fatto passare per interesse comune sia dei lavoratori che dei datori di lavoro!

Per difendersi dalla violenza con la quale i capitalisti impongono le loro regole al lavoro salariato non c’è legge che tenga, non c’è magistrato che possa cambiare in modo decisivo la situazione a favore degli operai; per una sentenza a favore degli operai – e resta sempre da vedere se viene applicata effettivamente – ve ne sono cento a sfavore. Le leggi dello Stato borghese sono fatte per difendere gli interessi dei capitalisti perché lo Stato borghese è la massima istituzione centralistica del capitalismo; e quando “difendono” gli interessi degli operai lo fanno solo formalmente perché contengono contraddizioni e cavilli tali che le sentenze a favore, alla fin fine, vengono di fatto ribaltate e gli operai si ritrovano con un pugno di mosche in mano! Questo non vuol dire che i capitalisti in generale non rispettino gli accordi presi con i sindacati e che gli operai non beneficino degli ammortizzatori sociali previsti dalle leggi in vigore. Gli è che le più difficili condizioni di concorrenza sul mercato spingono i capitalisti a rivedere gli accordi, riscrivere le regole rimuovendo tutta una serie di vincoli che impediscono loro di rincorrere la concorrenza con la stessa velocità con cui si muovono i concorrenti più aggressivi e meno appesantiti da articoli di legge e accordi che prevedono lungaggini burocratiche e rapporti complicati nei negoziati che fanno “perdere tempo e soldi”! La concorrenza sul mercato mondiale è una guerra, e in guerra le regole le detta il più forte e agguerrito.

Per difendersi dalla pressione continua che i capitalisti e le loro associazioni fanno da sempre sulle condizioni di lavoro, e quindi di vita, dei lavoratori salariati, gli operai sono scesi in lotta fin dall’Ottocento e si sono associati in organizzazioni di difesa chiamate sindacati, società di mutuo soccorso, cooperative di consumo e, finalmente, in partito politico di classe, a dimostrazione che i rapporti tra capitale e lavoro sono da sempre rapporti antagonistici. Le associazioni operaie, sulla base di lunghe e durissime lotte che hanno lasciato sul terreno moltissimi morti ad opera della forza pubblica accorsa in difesa degli interessi del capitale, quando sono riuscite ad ottenere condizioni di lavoro e di vita più favorevoli l’hanno fatto solo ad altissimo prezzo e, in ogni caso, non è mai stato “per sempre”! I diritti che la classe degli operai ha strappato alla classe dei borghesi e al loro Stato sono sempre stati ottenuti grazie alla forza delle loro lotte e all’indirizzo classista che le loro lotte avevano. Ma quei diritti, e le varie “garanzie” che nel tempo la classe degli operai ha accumulato a favore delle proprie condizioni di lavoro e di vita, concessi nelle diverse epoche dalla classe dei capitalisti anche per loro effettiva convenienza, a causa all’opera capillare e quotidiana del collaborazionismo sindacale e politico col quale i capitalisti hanno corrotto le associazioni economiche e i partiti operai, vengono rimangiati sistematicamente, dimostrando in questo modo che il metodo della conciliazione degli interessi tra operai e padroni porta ad un unico risultato: peggiorare le condizioni di lavoro e di vita della classe operaia!

Per difendersi dai soprusi, dalle vessazioni e dalla repressione che gli operai, soprattutto i più combattivi e organizzati, subiscono da parte degli sgherri dei padroni, delle forze dell’ordine e della magistratura, la classe degli operai non può limitarsi a richiamare le leggi dello Stato e i commi degli accordi contrattuali solennemente siglati dai reciproci rappresentanti, perché quelle leggi e quegli accordi, in situazione di crisi del capitale, hanno lo stesso valore della carta straccia. Le regole di ieri vengono violate e sostituite dai capitalisti con atti di forza come dimostra la Fiat nelle vicende di Pomigliano e di Melfi. Ad atti di forza vanno opposti atti di forza, e lo sciopero operaio, se condotto con metodi di classe, anche se limitato nel tempo, è un atto di forza che ha molta più efficacia di mille incontri e negoziati portati avanti alla maniera dei sindacalisti tricolore che hanno a cuore esclusivamente la conciliazione degli interessi tra operai e padroni, dunque, gli interessi dei padroni!

Per difendersi dagli attacchi alle proprie condizioni di esistenza, gli operai devono riconquistare il terreno della lotta di classe, ossia il terreno in cui si riconosce, alla stessa stregua di quanto fanno i padroni nei confronti degli operai, che i propri interessi immediati si possono difendere soltanto colpendo gli interessi dei padroni. Gli operai di Melfi sono stati licenziati, sostiene la Fiat, per aver sabotato la produzione interrompendo il lavoro di altri operai: ma lo sciopero che cos’è se non l’interruzione del lavoro proprio e degli altri operai? In ballo non è tanto il “diritto di sciopero” sancito formalmente anche dalla legge dello Stato, ma l’unica azione di difesa che gli operai possono adottare per contrastare la pressione e la repressione capitalistica!

Lottare con metodi classisti significa unire le forze operaie intorno a piattaforme e obiettivi di lotta che definiscano esclusivamente l’interesse immediato operaio al cui centro non può che esservi la diminuzione drastica della giornata di lavoro, e quindi la diminuzione della quotidiana fatica fisica, nervosa e mentale degli operai, e l’aumento di salario. Intorno a queste due rivendicazioni fondamentali devono girare tutte le altre rivendicazioni più specifiche e parziali, legate alle mansioni, agli straordinari, all’intensità e ai ritmi di lavoro, alle pause, ai turni, alla mensa, alle giornate di malattia, alle misure di sicurezza e antinfortunistiche ecc.

Lottare con mezzi classisti significa mettere alla base della lotta operaia la lotta contro la concorrenza fra operai, la solidarietà effettiva tra operai di diversa nazionalità, dei diversi reparti, stabilimenti e settori di produzione; significa adottare lo sciopero come un’arma di pressione reale sui padroni e non come una formalità che ogni singolo operaio è tenuto a rispettare, perciò lo sciopero deve tendere ad essere ad oltranza e senza preavviso in modo che gli interessi immediati dei capitalisti vengano effettivamente colpiti e costringano i padroni a prendere seriamente in considerazione le richieste operaie; la lotta, d’altra parte, deve prevedere di non fermarsi finché la trattativa coi padroni non sia terminata, perché è interesse della lotta operaia sviluppare il massimo di pressione possibile sui padroni. Il padronato a suo favore ha una società intera, il potere economico, politico, militare e usa sistematicamente tutte le armi di pressione, di corruzione, di intimidazione e di repressione che ha disposizione a seconda della situazione; gli operai non hanno alcuna speranza di condurre una efficace difesa dei loro interessi di classe se non oppongono al padronato la forza della loro lotta con la quale incidere decisamente sugli interessi padronali. Il profitto capitalistico è il vero e unico punto debole dei capitalisti e gli operai, visto che è dallo sfruttamento del loro lavoro salariato che i capitalisti estorcono plusvalore e quindi profitto, hanno la possibilità, pur non avendo a propria disposizione lo stesso potere che ha la borghesia, di incidere in modo profondo sugli interessi padronali.

La storia delle lotte operaie dimostra, d’altra parte, che anche se si ottengono dei risultati a favore delle condizioni operaie, questi risultati sono in realtà temporanei e prima o poi gli operai sono costretti a tornare a lottare a difesa sempre degli stessi obiettivi: aumenti di salario, diminuzione della fatica quotidiana del lavoro e, quindi, della giornata lavorativa! Ma lottando gli operai imparano a difendersi, imparano a riconoscere chi sta dalla loro parte e chi invece li inganna e li tradisce, imparano che la solidarietà di classe fra operai è un’arma essenziale per riuscire a resistere nel tempo, imparano che non basta difendersi sul piano immediato perché i loro interessi si dimostrano molto più ampi di quello che i padroni vogliono far loro percepire. I capitalisti, nonostante il loro dominio economico e politico, vivono su di una grave contraddizione perché sono organizzati in aziende separate le une dalle altre che agiscono sul mercato in modo estremamente concorrenziale e, sebbene tendano a unire i capitali e le rispettive aziende in società per azioni sempre più imponenti e internazionali, la logica antagonistica tra aziende non scompare ma si acutizza ad un livello maggiore portando i contrasti ad una guerra di concorrenza sempre più aspra e nella quale vengono adottate tutte le misure per vincere i concorrenti fino alla guerra guerreggiata. I proletari, fino a quando si fanno costringere a conciliare i loro interessi immediati con gli interessi dell’azienda per cui lavorano, si trasformano in un ingranaggio della lotta di concorrenza fra capitalisti, per di più perdendoci direttamente sia sul piano del salario, sia su quello delle condizioni di lavoro e di vita, sia sul proprio futuro poiché non c’è capitalista al mondo che possa garantire ai propri operai che miglioreranno progressivamente le loro condizioni di esistenza in uno sviluppo incessante e nella pace generale!

La lotta di classe che gli operai sono stati, sono e saranno costretti a condurre in difesa dei propri interessi di classe, non è una “scelta” fra altre scelte, poiché qualsiasi altra “lotta” a carattere riformista, conciliatorio e collaborazionista fatta dagli operai non sarà che un inutile spreco di energie illudendosi di ottenere comunque un risultato positivo mentre, in realtà, non sarà che un ulteriore anello che li incatena in quanto schiavi salariati alla sorte del padrone di turno. La lotta di classe è la via obbligata che i proletari hanno davanti, è l’unica via sulla quale essi hanno la possibilità reale non solo di difendersi dalle angherie, dai ricatti e dalle pressioni di ogni genere dei capitalisti e dei loro sgherri in abiti civili o in divisa, ma di contrattaccare per imporre finalmente ai padroni le proprie richieste e per aprirsi, un domani, una via ancor più ampia e internazionale ad una società in cui non esistano più schiavi salariati e capitalisti che schiavizzano il lavoro salariato, ma uomini che producono e vivono in una effettiva armonia sociale, una via alla società che i marxisti chiamano da sempre comunismo.

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La vicenda Fiat, proprio per le sue attuali caratteristiche e per lo scenario internazionale che inevitabilmente presenta, insegna qualcosa di molto utile per la lotta operaia di oggi e per le lotte future. In questa vicenda  si dimostra che i sindacati tricolore, e quindi collaborazionisti, non rappresentano gli interessi dei lavoratori presso le istituzioni borghesi e le associazioni padronali, ma, al contrario, rappresentano gli interessi dei capitalisti presso i lavoratori. E come succede sempre, nella variegata gamma dei lacchè al servizio del capitale non vi sono soltanto i ruffiani dichiarati ma anche coloro che si mimetizzano da amici e rappresentanti dei “veri” interessi operai; nel caso italiano i bonzi della Cgil e della Fiom.

Non sarà per nulla facile per i proletari sottrarsi all’influenza ideologica e organizzativa delle associazioni sindacali votate al collaborazionismo; decenni di pratica opportunista hanno  cancellato dalla memoria di alcune generazioni operaie le tradizioni di classe che caratterizzarono le lotte del proletariato, non solo in Italia, dei primi anni del Novecento, e non solo sulla scia della vittoriosa rivoluzione d’Ottobre del 1917, ma sulla stessa esperienza diretta dei proletari italiani, francesi, tedeschi, serbi, russi nelle lotte prima ancora della prima guerra mondiale e della rivoluzione proletaria in Russia. Quelle tradizioni classiste si basavano su organizzazioni sindacali, come la CGL degli anni Venti che, nell’art. 1 del suo Statuto, dedicato al tema della sua “costituzione e scopi”, dichiarava di essersi costituita “per organizzare e disciplinare la lotta della classe lavoratrice, contro lo sfruttamento del regime capitalistico della produzione e del lavoro; e per sviluppare nella classe stessa le capacità morali, tecniche e politiche che la debbono portare al governo della produzione socialmente ordinata ed alla amministrazione degli interessi pubblici generali” (1). La CGIL, nata dopo la distruzione dei sindacati rossi da parte del fascismo – la I di  “italiana” fu aggiunta evidentemente per caratterizzare il nazionalismo da cui discendeva – si costituì su basi non più classiste ma interclassiste, e perciò il suo riferimento principale non fu più la lotta di classe ma la Costituzione democratica della Repubblica Italiana, riferimento che, infatti, sostituì completamente la lotta di classe contro lo sfruttamento del regime capitalistico della produzione e del lavoro.

Dal secondo dopoguerra, quindi, i proletari in Italia, e allo stesso modo in Francia, in Germania, in Inghilterra e in tutti gli altri paesi, si trovarono ad essere organizzati in sindacati, come la Cgil, la Cgt ecc., che solo formalmente mantenevano un qualche ricordo dei sindacati di classe dell’anteguerra, ma che in sostanza partivano già come sindacati tricolore, come sindacati collaborazionisti che avevano come scopo principale la conciliazione degli interessi operai con gli interessi dei capitalisti e non l’organizzazione della lotta di classe contro i capitalisti. Anche nella stessa formulazione delle dichiarazioni degli scopi del sindacato sono spariti i termini “lotta di classe”, “sfruttamento capitalistico”. Figuriamoci poi il compito che la CGL di allora sottolineava fin dall’inizio di assumere riguardo lo sviluppo nella classe operaia delle capacità morali, tecniche e politiche che la dovevano preparare per governare la produzione in generale e il paese. Il sindacato tricolore, nato sulle ceneri del sindacato rosso, non si assume alcun compito di preparazione della classe operaia al governo della produzione e degli interessi pubblici, ma è investito ufficialmente dal potere borghese di una specie di “diritto di rappresentanza delle classi lavoratrici” in quanto mediatore con i capitalisti, i governi e le istituzioni borghesi. La tendenza dei sindacati tricolore all’integrazione nello Stato borghese, che la nostra corrente di sinistra comunista aveva denunciato fin dalla loro nascita, ha continuato a svilupparsi in tutti questi decenni a tal punto che soltanto un tremendo terremoto sociale potrebbe far nascere al loro interno delle tendenze classiste che potrebbero ambire a prenderne la testa. Ma è un fatto che, in tutti questi decenni, i proletari più combattivi e spinti a forme di lotta classiste a sostegno di rivendicazioni ad esclusiva difesa degli interessi immediati operai fuori dalle politiche e dalle pratiche conciliatorie e collaborazioniste, hanno dovuto organizzarsi autonomamente e tendenzialmente fuori dei sindacati attuali per poter esprimere in modo diretto e senza impedimenti burocratici e politici i propri obiettivi e la propria volontà di lotta. E’ quindi su questa strada che si devono incamminare i proletari più coscienti della necessità di lottare con altri mezzi e metodi che non siano quelli della negoziazione preventiva, dell’abbondante preavviso e soprattutto del rispetto delle compatibilità e della redditività delle aziende, poiché questi metodi non hanno fatto altro che dare ulteriori vantaggi ai padroni togliendo alla lotta operaia forza ed efficacia.

La “faccia dura” che la Fiom ha mostrato nella vicenda Fiat, e in vicende precedenti, non le ha impedito mai di dichiarare la propria disponibilità ad andare incontro alle esigenze dell’azienda, solo voleva non perdere la faccia di fronte ai suoi iscritti e per questo ha continuato a battere sui “diritti violati” ben sapendo che un qualsiasi “diritto” scritto se non è sostenuto con forza da una adeguata lotta non viene rispettato; e, soprattutto, se la lotta operaia viene sostituita dall’azione giudiziaria con la quale ci si illude di vincere sulla base dei “diritti” scritti e di sentenze favorevoli dei giudici, significa svalutare completamente la lotta della classe operaia fatta di assemblee, azioni comuni, scioperi, manifestazioni, difesa della lotta  grazie anche alla solidarietà di lotta degli operai di altre fabbriche e comparti industriali.

Tale è l’abitudine da parte operaia a delegare in tutto e per tutto ai sindacati qualsiasi aspetto della difesa delle sue condizioni di vita e di lavoro, che agli operai stessi riesce difficile immaginare di poter lottare, organizzare la lotta e la sua difesa, senza la “copertura dei sindacati ufficiali”. Tale è l’abitudine da parte operaia a fare affidamento sul metodo della conciliazione col padrone, della trattativa delle proprie rivendicazioni nel prioritario rispetto delle esigenze aziendali, della pace sociale e dei metodi remissivi che evitino in tutti i modi lo scontro col padrone, che riesce molto difficile oggi ai proletari, soprattutto ai più giovani, vedere altre vie che non siano appunto quelle cosiddette legalitarie e rispettose della redditività d’impresa per ottenere un miglioramento delle proprie condizioni di esistenza o, per lo meno, un freno al loro peggioramento progressivo. Ma la crisi economica e sociale generata inevitabilmente dallo sviluppo del capitalismo mostra chiaramente che per un capitalista che va in rovina, ma in generale può sempre contare su delle riserve accumulate in tempi di vacche grasse e tornare a sfruttare il lavoro salariato appena la ripresa economica glielo consente, o meno, vi sono migliaia di proletari che vengono espulsi dalla produzione e gettati sul lastrico, perdendo la loro unica fonte di sostentamento che è il salario: i proletari, senza riserve, che non hanno alcuna “riserva” su cui contare se non la propria forza lavoro, che può essere impiegata a seconda delle convenienze dei capitalisti, non hanno nulla da guadagnare né dal buon andamento dell’economia capitalistica né, tanto meno, dalla sua crisi.

La vita dei proletari, finché essi l’affidano al collaborazionismo sindacale e politico, sarà sempre appesa alla sorte dei capitalisti e alle vicende legate alla lotta di concorrenza fra capitalisti; i proletari, finché la società sarà basata e organizzata sul capitalismo, non saranno mai padroni della propria vita. Il mito della libertà, dell’eguaglianza, della fratellanza che accompagnò la rivoluzione borghese antifeudale è miseramente caduto nella palude del mercato, vero mito per ogni borghese! La democrazia che ha accompagnato la vittoria borghese sulle vecchie società feudali ha finito il proprio compito storico di progresso civile nell’epoca in cui il capitalismo ha mostrato tutte le sue contraddizioni fondamentali e, principalmente, quella che oppone il capitale al lavoro salariato, quindi la borghesia al proletariato.

Il capitalismo, e quindi la borghesia, non hanno più nulla da dare alla società se non sfruttamento dell’uomo sull’uomo, miseria crescente per le masse proletarie del mondo, spietata lotta di concorrenza che sfocia sempre in guerra guerreggiata, devastazioni ambientali sempre più vaste, in una spirale infinita che può essere fermata solo alla condizione che il proletariato, la classe dei senza riserve, di cui i capitalisti sfruttano la forza lavoro al solo scopo di trarre profitto per loro, si ribelli alla condizione di schiavitù salariale in cui da due secoli la borghesia lo costringe con la forza dei suoi capitali, dei suoi Stati, dei suoi eserciti. E a patto che questa ribellione a condizioni di vita e di lavoro intollerabili sia convogliata nella lotta di classe, organizzata da associazioni economiche che per scopo hanno esclusivamente la difesa degli interessi proletari contro qualsiasi altro interesse, e influenzata dal partito di classe, dal partito politico della classe proletaria che nel suo programma condensi l’esperienza storica di tutte le lotte proletarie e delle rivoluzioni e, nelle condizioni storiche favorevoli, guidi la classe proletaria di ogni paese verso la rivoluzione e la conquista del potere politico.

In questa straordinaria, complessa e lunga prospettiva storica si inserisce, inconsapevolmente, ogni lotta di resistenza al capitale che gli operai attuano in difesa delle loro condizioni di esistenza. Essi non potranno percorrere questo lungo cammino di emancipazione dalla schiavitù salariale se non riconquisteranno il terreno della lotta di classe in aperto e dichiarato antagonismo rispetto agli interessi capitalistici, rompendo drasticamente con le politiche e le pratiche della conciliazione degli interessi fra le classi e del collaborazionismo.

Marchionne e altri rappresentanti della classe dominante borghese insistono sul concetto che ormai le classi non esistono più, e che, quindi, gli interessi di classe contrapposti sono una rappresentazione del conflitto sociale vecchio e superato, roba dell’Ottocento, roba dell’era “avanti Cristo”. Questi novelli profeti del profitto capitalistico come “bene comune” per il quale, soprattutto a causa della crisi economica, i proletari devono essere pronti a sacrificare ogni aspirazione all’emancipazione dal giogo dell’obbligo di lavorare sotto padrone pena la disoccupazione, la miseria e la fame, non fanno che preparare ideologicamente e mentalmente le masse proletarie a sacrifici ben più pesanti in vista di una guerra mondiale che non sarebbe altro che lo sbocco naturale, nella società capitalistica, della lotta di concorrenza fra Stati capitalisti, ognuno in rappresentanza degli interessi nazionali e particolari del proprio capitalismo nazionale.

La classe dei proletari, sul fronte del collaborazionismo con i padroni, non ha mai trovato e non troverà mai la soluzione dei suoi problemi di vita e di lavoro. Fra capitalisti e proletari interessi comuni non ce ne sono, vi è soltanto antagonismo che la democrazia politica maschera con grande abilità.

Rompere col collaborazionismo interclassista significa, di fatto, rompere anche con la democrazia borghese che funziona nel contempo come lubrificante del collaborazionismo – e quindi della sottomissione del proletariato alle esigenze di dominio sociale e politico della borghesia – e come metodo generale grazie al quale ai proletari è concesso eleggere dei rappresentanti che spendono tempo ed energie nei sindacati tricolore, nei partiti riformisti, negli enti locali, nel parlamento, nelle varie e infinite istituzioni, ad amministrare la delega ricevuta dalle masse proletarie, attraverso il voto, in funzione della conservazione della società del capitale.

A dispetto di Marchionne e di tutti i rappresentanti della classe dominante borghese, le classi sociali esistono come esistono i rispettivi interessi antagonistici; oggi ancora la lotta di classe la sta conducendo soltanto la borghesia contro il proletariato, e le mosse della Fiat, come quelle della Tirrenia, delle Itierre, della Videocon, della Legler, della Natuzzi, della Ineos Vinyls, della Merloni, della Mariella Burani, della Electrolux, della Saint Gobain, dell’Ideal Standard e di decine e decine di altre aziende in procinto di licenziare migliaia di dipendenti, lo dimostrano ampiamente. Il problema per il proletariato è che non ha ancora la forza di accettare la sfida, accettare il terreno dello scontro aperto e dichiarato, classe contro classe. L’accelerazione che la Fiat e il governo centrale stanno dando al rimescolamento delle regole nelle relazioni industriali in un quadro internazionale di grave crisi economica, di acutizzazione della lotta di concorrenza e dei contrasti fra gli imperialismi più forti, annuncia che il tempo della lotta di classe del proletariato non è poi lontanissimo.

 


 

(1) Cfr. Confederazione Generale del Lavoro, Statuto, approvato dal VI Congresso nazionale di Milano, 10-13 dicembre 1924, in appendice all’opuscolo intitolato “L’Unità Sindacale – i comunisti contro la manovra scissionista dei riformisti confederali”, a cura del Comitato Nazionale Sindacale Comunista, febbraio 1925.     

 

 

Partito comunista internazionale

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