Fiat Mirafiori: passa l’accordo strangola-operai che verrà esteso anche a Cassino e Melfi.

(«il comunista»; N° 119; Dicembre 2010 / Gennaio 2011)

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Voluto dalla Fiat e dai sindacati firmatari, Fim, Uilm, Ugl, il referendum a Mirafiori sull’accordo strangola-operai della vigilia di Natale (23 dicembre 2010), si è concluso con il 54% di sì e il 46% di no; vi hanno partecipato quasi il 95% dei dipendenti Fiat, a dimostrazione che il ricatto padronale sul risultato del referendum ha in questo caso pesato molto e mobilitato la stragrande maggioranza degli operai a parteciparvi.

Che questo referendum fosse pesantemente condizionato dal ricatto padronale sui posti di lavoro lo sanno anche i sassi; la posizione della Fiat è stata chiarissima: o vince il sì, anche solo del 51%, allora Mirafiori non chiude e riceverà il necessario investimento per l’ammodernamento degli impianti in vista di produrvi ben 250-280 mila Suv a marchio Crhysler-Alfa per il mercato mondiale; o vince il no, anche solo del 51%, e allora Mirafiori chiude e la produzione automobilistica prevista viene spostata in stabilimenti di altri paesi dove le condizioni salariali e di lavoro peggiorative previste nel nuovo accordo di Mirafiori sono già passate.

Ha “vinto” il sì. Mirafiori, la città-fabbrica simbolo della Fiat e dell’industria automobilistica italiana, resta in piedi coi suoi quasi 5.500 dipendenti di cui circa 450 tra impiegati, quadri e dirigenti. Ma questa “vittoria” – nonostante il peso indiscutibile del ricatto sul posto di lavoro sì, o posto di lavoro no – non è stata una così pesante come speravano Marchionne, il governo Berlusconi, l’Unione Industriali locale, la Confindustria  e i sindacati firmatari dell’accordo. Se è vero che gli iscritti alla Fiom a Mirafiori rappresentano il 13% degli operai, il 46% di “no all’accordo” evidenzia che quasi la metà degli operai di Mirafiori non sostiene questo accordo. E questo fatto segnala che il clima in fabbrica non sarà per niente favorevole ad una collaborazione automatica tra operai e direzione nella gestione delle esigenze produttive che, si può facilmente prevedere, verranno necessariamente imposte con la forza. Dunque, il referendum, che non è certo un’arma di lotta operaia, ma che gli operai subiscono oramai da anni grazie al generale cedimento del sindacalismo tricolore anche sul fronte della mobilitazione collettiva degli operai, ha dato comunque ragione alle attese dei più servili sindacati collaborazionisti.

Ma gli aspetti legati al referendum sono, in un certo senso, secondari rispetto agli aspetti più sostanziosi e “nascosti” della politica industriale perseguita dal più grande gruppo industriale italiano, e multinazionale, politica che da sempre in Italia detta “la linea” agli imprenditori nelle relazioni da tenere con gli operai e con i sindacati. L’accordo imposto a Pomigliano e quello imposto a Mirafiori hanno l’obiettivo di rompere il meccanismo tradizionale della collaborazione che i sindacati tricolore hanno assicurato al capitalismo italiano fin dalla loro costituzione sull’onda della guerra “antifascista” e dell’unione “sacra” tra capitale e lavoro ben rappresentata dal C.L.N. partigiano. Quella collaborazione interclassista, assolutamente necessaria alla classe dominante borghese per condurre la guerra a fianco degli imperialismi “democratici” e per facilitare la ricostruzione postbellica con una partecipazione operaia simile a quella instaurata dal fascismo con le corporazioni, aveva bisogno di appoggi materiali che solo un impianto di riforme sociali ereditate dallo stesso fascismo (i famosi ammortizzatori sociali) poteva dare. Ai sindacati tricolore, in particolare alla Cgil per la maggiore influenza che aveva tra gli operai, era demandato il compito di mantenere un controllo sulle masse operaie organizzate sindacalmente, di attutire e far sfogare in modo non dirompente le inevitabili spinte alla lotta generate dall’inesorabile e aumentato sfruttamento della forza lavoro richiesto da un apparato produttivo che doveva essere rimesso in funzione e sviluppato in modo accelerato al fine di riprendere velocemente ad accumular profitti dopo le distruzioni di guerra. La tradizione di lotta classista del proletariato italiano, negli scioperi del 1943 e 1944, in piena guerra, aveva già dato segni di ripresa; una volta scardinato l’apparato repressivo e di controllo del fascismo,  vinto militarmente nella guerra imperialista, con la caduta di quest’ultimo la tradizione di lotta classista avrebbe potuto riguadagnare gli strati proletari più combattivi e riprendere nel tempo vigore; l’azione politica e organizzativa del sindacalismo tricolore e del politicantismo staliniano avevano, perciò, il compito di chiudere a tenaglia le masse proletarie che si ribellavano all’intenso sfruttamento richiesto dalla borghesia nel lungo periodo di ricostruzione postbellica, e laddove il pompieraggio sindacale e politico non era sufficiente a tenere a bada per conto dei capitalisti gli strati più ribelli del proletariato, ci pensava la polizia del nuovo Stato democratico a reprimere gli scioperi e i movimenti di lotta non limitandosi ai manganelli ma usando spesso e volentieri il fucile.

Tra le grandi fabbriche del capitale privato, la Fiat è sempre stata fin da allora una fabbrica dove il sindacalismo tricolore era particolarmente piegato ai voleri e alle esigenze del padrone, tanto che per molto tempo un sindacato come la Cgil non aveva praticamente propri iscritti all’interno degli stabilimenti. La tradizione del corporativismo fascista, all’interno della Fiat, si prolungava nel dopoguerra non attraverso i sindacati tricolore formalmente indipendenti dal padronato come la Cgil, ma attraverso i sindacati dichiaratamente padronali. In un certo senso, in Fiat si  svolgeva un gioco politico simile a quello più generale del fascismo e dell’antifascismo democratico: la politica democratica antifascista aveva “bisogno” di mobilitare le masse contro il “fascismo” o il “pericolo fascista” per poter ingannare meglio e più a lungo le masse proletarie; così, la politica collaborazionista del sindacalismo “democratico” e “indipendente” dai padroni “ha bisogno” di mobilitare le masse contro il sindacato “padronale”. Sull’onda delle lotte operaie del 1968 e, soprattutto del 1969 (“l’autunno caldo”), il sindacalismo tricolore targato soprattutto Cgil, ma non solo, si è liberato delle vecchie e supercorrotte Commissioni Interne per “entrare” nelle fabbriche con nuovi organismi imposti dalle lotte operaie spontanee, i Consigli di Fabbrica, ottenendo, con appositi accordi con le associazioni padronali e con i governi, nuove leggi sulle rappresentanze sindacali e tutta una serie di agevolazioni inerenti l’attività sindacale all’interno delle aziende (sale appositamente predisposte, permessi pagati per svolgere quell’attività, ore dedicate alle assemblee ecc.). Il collaborazionismo sindacale otteneva in questo modo un suggello ulteriore al ruolo di mediazione della forza lavoro nei confronti delle direzioni aziendali, diventandone in pratica il gestore per conto delle aziende: nei negoziati tra organizzazioni sindacali e direzioni aziendali gli aspetti inerenti alla produttività, all’innovazione dei processi lavorativi, alla organizzazione del lavoro, alla competitività delle merci prodotte ecc. – ossia gli aspetti cui erano interessati soltanto i padroni – predominavano sempre più relegando in secondo e terzo piano gli aspetti legati alla difesa delle condizioni salariali e di lavoro degli operai. Quest’opera del collaborazionismo sindacale non poteva aver successo presso gli operai se non con il sostegno diretto e dichiarato delle associazioni padronali e dei governi i quali, trattando soltanto con i rappresentanti dei sindacati ufficialmente riconosciuti come “controparte”, costringevano le stesse lotte operaie, per rimanere nella legalità e per non andare incontro a sanzioni di legge e a licenziamento “per giusta causa”, a ridurre le proprie spinte nei margini voluti dai sindacati collaborazionisti, precipitando sempre più spesso, inevitabilmente, nell’impotenza e nella demoralizzazione.

Ma dal 1975 in poi, ossia dalla prima grande crisi di sovrapproduzione del secondo dopoguerra, scoppiata simultaneamente in tutti i grandi paesi capitalisti, le classi dominanti borghesi hanno iniziato, ora in un paese ora in un altro, a rivedere il tipo di relazione che avevano stabilito coi sindacati nel trentennio precedente. La loro opera, cioè, doveva rispondere in modo più incisivo per far passare nel proletariato di ciascun paese non più l’idea e la speranza di un benessere lento, difficile da raggiungere ma in ogni caso raggiungibile, ma l’idea di dover fare sacrifici a causa della crisi economica e di doverne fare sempre di più ad ogni crisi che si sarebbe successivamente presentata poiché la concorrenza mondiale si sarebbe sempre più acutizzata. La gestione della forza lavoro in vista di possibili miglioramenti economici e di vita lavorativa si trasformava così in gestione della forza lavoro che non solo non poteva aspirare a miglioramenti, ma doveva aspettarsi un generale peggioramento, un’aumentata concorrenza tra proletari a causa non solo di una disoccupazione in aumento ma anche dell’immissione nei paesi capitalistici avanzati di masse proletarie immigrate  che premevano sempre più ai loro confini. D’altronde, le stesse innovazioni tecniche adottate nei diversi settori produttivi, e nell’industria automobilistica mondiale hanno avuto un impatto devastante dal punto di vista dell’occupazione; esse contribuivano ad aumentare il potenziale produttivo e la produttività con molti meno operai di prima. La Fiat, che ancora negli anni Ottanta del secolo scorso, nei suoi stabilimenti contava circa 120.000 dipendenti, e nella sola Mirafiori ne aveva circa 60.000, oggi a Mirafiori ne ha 5.500, e in tutta Italia non arriva a 60.000 pur avendo assorbito altre fabbriche automobilistiche come l’Alfa Romeo, la Lancia, l’Autobianchi, la Ferrari e altre minori.

Senza il contributo notevole dato dai sindacati e dai partiti “operai” collaborazionisti in tutti questi decenni, la Fiat non avrebbe superato con profitto le varie fasi del suo sviluppo multinazionale, e le sue crisi,  ottenendo in più vantaggi economici e investimenti di soldi pubblici praticamente “a perdere”. Le dure lotte che portarono nel 1962 ai fatti di Piazza Statuto a Torino, quando gli operai ribellatisi ai ritmi massacranti e a salari da fame venivano repressi dalla polizia e trattati come “teppisti” e “delinquenti” per aver rotto le vetrine dei negozi delle vie centrali della città, o che portarono al famoso sciopero ad oltranza dei 35 giorni nel 1980, in concomitanza con i grandi scioperi degli operai dei cantieri di Danzica in Polonia, se avessero potuto contare su organizzazioni sindacali di classe, avrebbero certamente potuto segnare unasvolta storica alla lotta operaia non solo a Torino ma in tutta Italia. Così non fu perché da quelle lotte non rinacque l’associazionismo operaio di tipo classista, come non è il caso nemmeno oggi ad oltre trent’anni di distanza. Le vicende storiche che hanno generato la forza del collaborazionismo interclassista vanno lette nella sconfitta del movimento rivoluzionario comunista in Europa, e nel mondo, a causa soprattutto dell’ondata opportunista stalinista; quest’ultima non poteva che rafforzare il dominio della classe borghese sulla società e spingere il proletariato in un reale e drammatico arretramento dalle posizioni classiste che avevano caratterizzato il suo movimento politico e di difesa immediata fino a metà degli anni Venti del secolo scorso. Perciò, lotte come quelle del 1962 e del 1980, e come tantissime altre non solo alla Fiat, anche molto dure ma assenti sul terreno dell’aperto e riconosciuto antagonismo di classe tra capitale e lavoro, non sono bastate per radicare – nelle generazioni operaie che si sono succedute – vitali lezioni non solo nella conduzione pratica di una lotta ma soprattutto nell’inquadrare politiche, pratiche e comportamenti di tipo collaborazionista come micidiali per la stessa lotta elementare di difesa immediata. Ciò non toglie che i veri alleati dei proletari di un’azienda o di un paese non sono i padroni e i borghesi che vivono dello sfruttamento operaio ma i proletari degli altri paesi e delle altre aziende, nonostante la concorrenza tra proletari alimentata, fomentata, sostenuta da ogni borghesia nazionale.

Oggi, la svolta storica, di cui si vantano Fiat e tutto il fronte borghese, che consisterebbe nell’aver piegato platealmente i sindacati alla legge della massima produttività e del massimo sfruttamento della forza lavoro, significa un ulteriore arretramento del proletariato non solo dalle posizioni classiste degli anni Venti sopra ricordate, ma dalle stesse posizioni riformiste di lotta di difesa immediata. Come già in moltissimi episodi precedenti, e in ogni settore industriale, la lotta condotta coi metodi del collaborazionismo sindacale per “salvare il posto di lavoro” non ha mai garantito gli operai, né anziani né assunti da poco: tutt’al contrario, quei metodi hanno aggiunto sempre un punto in più a favore del padronato e della sua “libertà” di trattare la forza lavoro operaia a proprio piacimento, disinteressandosi completamente dei bisogni di vita degli operai e delle loro famiglie. Nello stesso tempo, il clima di cedimento del movimento operaio sul terreno della difesa dei suoi interessi immediati e vitali ha facilitato lo sgretolamento – lento ma inesorabile – di quel complicato castello di ammortizzatori sociali che servì, nei decenni di ricostruzione postbellica e di sviluppo forsennato dell’industrializzazione in Italia, a tener legate le masse proletarie alla sorte del capitalismo nazionale e dei suo arrembaggi nel mercato mondiale. L’aumentata precarietà del posto di lavoro in questi ultimi decenni si accompagna all’aumentata precarietà degli ammortizzatori sociali e, mentre aumenta la disoccupazione attraverso i licenziamenti e la non-occupazione giovanile, diminuiscono drasticamente le “difese” che tendenzialmente rappresentavano gli ammortizzatori sociali lasciando masse sempre più numerose completamente nude di fronte ai vitali bisogni della vita quotidiana. La violenza sistematica del sistema capitalistico che fa dipendere la sopravvivenza della stragrande maggioranza degli uomini dallo sfruttamento del lavoro salariato, si accompagna all’ulteriore violenza dello stesso sistema che si regge sull’esistenza permanente di masse numerose di disoccupati utilizzate come vero e proprio esercito industriale di riserva per alimentare ed aumentare la concorrenza fra proletari. E queste violenze si attuano quotidianamente tanto in ambiente democratico quanto in ambiente autoritario e dittatoriale; dal che non è difficile dedurre che la democrazia borghese non contribuisce per nulla ad un tenore di vita migliore delle masse proletarie rispetto ad un regime non democratico: il potere della classe borghese capitalistica adotta metodi di governo che, nei periodi dati e negli ambiti delle alleanze imperialistiche di cui si fa parte, rispondono meglio alla difesa degli interessi capitalistici nazionali e al controllo delle masse di schiavi salariati spremute a dovere per estrarre dallo sfruttamento della loro forza lavoro il massimo di “produttività capitalistica”, cioè il massimo di profitto possibile.

E’ enorme la responsabilità del collaborazionismo dei sindacati e dei partiti cosiddetti “operai”, quindi non solo della Fiom, e la corresponsabilità dei sindacati cosiddetti “alternativi” tipo Cobas, nel mantenere i proletari nell’alveo del rispetto della democrazia e dei meccanismi negoziali legalitari che sono studiati appositamente per infilare le lotte operaie nei meandri del burocratismo e dell’impotenza parolaia. Gli operai, da decenni sono in realtà lasciati soli a dover sopportare i continui attacchi alle loro condizioni di vita e di lavoro, costretti a contrastare questi attacchi non con la forza collettiva di una classe, ma con la debolezza del singolo individuo che si trova di fronte la classe borghese organizzata e difesa da apparti economici, politici, sociali e militari. Ridotti ad essere non una collettività che ha interessi comuni da difendere e che è organizzata per questa strenua ed esclusiva difesa dalla micidiale pressione del capitale che usa ogni possibile arma – politica, sociale, religiosa, culturale, militare – per schiacciarne a proprio vantaggio le condizioni di vita e di lavoro, i proletari sono costretti ad affrontare il peso di una organizzazione sociale potente come quella capitalistica completamente disarmati: senza un’associazione economica di classe, indipendente dalle esigenze del capitale e dagli apparati dello Stato borghese, senza una tradizione recente di lotta di classe ma con la presenza soffocante di una miriade di organizzazioni opportuniste che li paralizzano imprigionandoli con i mille invisibili fili delle illusioni democratiche.

Non si può dire che gli operai di Pomigliano o di Mirafiori non abbiano tentato di reagire al ricatto della Fiat, ma che potevano fare nella posizione di abbandono in cui sono stati gettati per anni dalle organizzazioni sindacali collaborazioniste? Il ricatto del posto di lavoro è uno dei ricatti più efficaci, e perciò più usati dai padroni. La complicità stretta che ha sempre legato gli apparati del collaborazionismo sindacale con le direzioni aziendali – complicità sostanziale, anche se formalmente lo “scontro” poteva in alcuni casi sembrare forte e determinato, ma in genere soltanto in funzione di una “credibilità” da mantenere fra gli operai per avere peso nei negoziati col padrone – è stato in realtà il lubrificante perché questo ricatto apparisse come qualcosa che si doveva “accettare”, alla quale non conveniva reagire duramente con la lotta più ampia e continua possibile perché sarebbe stato peggio…e ci sarebbero andati di mezzo tutti mentre…negoziando e accettando condizioni peggiori si potevano salvare i posti di lavoro, se non tutti almeno una parte. Con questa politica la disoccupazione è forse diminuita? No. Quanti posti di lavoro sono stati salvati nei decenni trascorsi? Ben pochi rispetto ai licenziati, ai precarizzati, ai disoccupati cronici!

Gli operai di Mirafiori, e prima di loro a Pomigliano, possono dire oggi di aver “salvato il posto di lavoro”: ma a quali condizioni salariali e di lavoro e per quanto tempo? La precarietà del posto di lavoro, e quindi del salario, è ormai una costante del capitalismo; basta vedere che cosa succede alle giovani generazioni di oggi. Lottare per mantenere il posto di lavoro, ossia contro il licenziamento, è fondamentale per ogni operai occupato; come è fondamentale lottare per la diminuzione della giornata lavorativa, contro l’intensificazione del lavoro, dei ritmi, delle mansioni; come è fondamentale lottare per l’aumento del salario-base al di fuori degli incentivi di produttività, e contro l’allungamento della giornata di lavoro, quindi contro lo straordinario; come è fondamentale lottare contro la concorrenza fra operai diversi per età, sesso o nazionalità. La lotta operaia, se mette al centro la difesa delle condizioni di vita e di lavoro operaie, riconoscendo la comunanza di interessi fra tutti gli operai, si svolge su queste rivendicazioni e adotta metodi e mezzi di lotta che corrispondono alla difesa da un attacco che è già in atto da parte del padrone e degli apparati statali e periferici che ne difendono gli interessi, quindi metodi e mezzi della lotta di classe come lo sciopero senza preavviso e ad oltranza, la sospensione immediata del lavoro di fronte ad ogni incidente, sopruso o mancanza di sicurezza sul lavoro. La lotta operaia è, appunto, lotta: azione che contrasta un’azione contraria, azione che nel difendere gli interessi degli operai tende a fermare l’attacco avverso e a danneggiare gli interessi dei capitalisti e dei loro complici e servitori. Ma la lotta operaia di classe non si dimentica dei disoccupati, degli operai che sono stati espulsi dalle fabbriche o che non trovano lavoro e che sono costretti a subire i ricatti più tremendi per non morire di fame! La visione di classe della lotta operaia mette al centro dell’azione di difesa immediata i proletari in quanto lavoratori salariati – che un qualsiasi datore di lavoro li abbia o no assunti nella propria azienda – superando i recinti delle fabbriche nei quali i capitalisti rinchiudono i “propri” operai e combattendo una delle cause principali della disgregazione operaia e dell’influenza del collaborazionismo interclassista: la concorrenza tra operai. Ecco perché, tra le rivendicazioni di classe sul terreno della lotta di difesa immediata, nonostante sia una rivendicazione difficile da comprendere oggi per gli stessi operai, noi comunisti rivoluzionari mettiamo questa: salario da lavoro o salario di disoccupazione!

Oggi, la Fiat ha interesse a costruirsi una posizione di forza in Italia per ottenere in Borsa il massimo vantaggio finanziario possibile; l’operazione iniziata con la suddivisione societaria in new co. separate è andata esattamente in questa direzione; ha anche interesse a dimostrare ai sindacati americani della Crhysler, diventati azionisti della fabbrica automobilistica accettando condizioni di lavoro per i nuovi assunti molto peggiorative (a cominciare dalla metà del salario orario dei vecchi dipendenti), e al governo di Washington che ha versato milioni di dollari perché la fabbrica non chiudesse, che il management attuale (leggi Marchionne e suoi stretti collaboratori) è in grado di risollevare le sorti economiche del gruppo automobilistico e di far fronte all’enorme debito acceso in America a quello scopo. La Fiat, d’altra parte, ha anche interesse – ma vi è in buona misura obbligata effettivamente dalle condizioni generali critiche in cui versa l’industria automobilistica mondiale – a “cambiare marcia” rapidamente nelle cosiddette “relazioni industriali”; ad esempio in Italia, costringendo non solo i sindacati, ma la stessa Confindustria, a quella che Marchionne stesso ha chiamato “svolta storica”, ossia a chiudere con le pratiche del burocratismo negoziale, ormai stantio e di procedura troppo lenta non più sopportabile in una situazione di concorrenza mondiale che accelera tanto le “opportunità di profitto” nel mercato mondiale quanto le perdite. Il tempo è denaro, dice un vecchio motto capitalista; ma è tanto più vero in situazione di crisi economica. D’altronde, le parole di Marchionne sono tutto sommato chiare: o la Fiat in Italia torna ad essere fonte di profitto, per cui tutte le parti interessate devono accettare le condizioni immediate perché questo succeda (la Confindustria deve accettare la fuoriuscita del gruppo privato più importante d’Italia facendo buon viso a cattiva sorte, i sindacati devono accettare di ridimensionare notevolmente il loro peso e il loro ruolo di semi-indipendenza formale dal capitale e dallo Stato assoggettandosi velocemente e pubblicamente alle esigenze di profitto dell’azienda, gli operai devono accettare condizioni salariali e di lavoro che il padrone, di volta in volta, decide di offrire, pena la perdita del posto di lavoro); oppure la Fiat in Italia ridimensionerà drasticamente la sua presenza – sempre legata alla possibilità effettiva di far profitto – e andrà a fabbricare auto in altri stabilimenti dove le condizioni per far profitto sono più vantaggiose e rapidamente attuabili.

L’accordo strangola-operai di Mirafiori, sull’onda dell’accordo di Pomigliano, sarà esteso anche agli stabilimenti di Cassino e di Melfi: era prevedibile fin dall’inizio delle discussioni intorno alla chiusura o meno di Termini Imprese e di Pomigliano. Il “piano industriale” sul quale si sono scornati Marchionne e la Fiom è semplice: la Fiat, alla stessa stregua di qualsiasi altra azienda, investe se ha possibilità di far profitto in tempi ragionevoli; il paese in cui investire i suoi capitali, sia l’Italia, la Polonia, la Serbia, il Brasile e domani la Russia o l’India, è problema relativo poiché l’importante è che vi siano le condizioni economiche, politiche, sindacali, ambientali e di mercato che facciano fruttare gli investimenti. Questi sono problemi che ogni imprenditore si pone e deve porsi, ma sono problemi suoi. Se il sindacato “operaio” o il partito “operaio” si interessano di quei problemi e, addirittura, danno il loro sostegno alle esigenze aziendali di sfruttare la forza lavoro più intensamente estraendone maggiore produttività – come è normale per tutti i sindacati e i partiti operai tricolore – significa che quelle organizzazioni cosiddette operaie raccolgono sì adesioni e voti dagli operai ma per fare gli interessi dei capitalisti: il collaborazionismo consiste esattamente in questo!

La lezione che gli operai presto o tardi dovranno tirare dalle vicende della Fiat e dalla “svolta storica” di Marchionne, sul piano della lotta immediata, è sostanzialmente questa:

 

  ROMPERE drasticamente con le pratiche e le politiche del collaborazionismo sindacale e politico, dunque con la politica della conciliazione fra le classi

●  LOTTARE sul terreno dell’aperto antagonismo di classe tra capitalisti e lavoratori salariati, adottando mezzi e metodi della lotta di classe

●  DIFENDERE esclusivamente gli interessi immediati operai contro ogni attacco alle proprie condizioni di vita e di lavoro

●  COMBATTERE la concorrenza tra proletari riconoscendosi membri della stessa classe salariata al di là dell’età, del sesso, delle convinzioni religiose, dell’appartenenza politica, della nazionalità, della temporanea o permanente occupazione o disoccupazione

●  RIVENDICARE obiettivi unificanti i proletari delle diverse aziende, dei diversi settori di produzione e di distribuzione, privilegiando la solidarietà di classe rispetto al localismo e all’aziendismo

●  RIORGANIZZARE le proprie forze sul terreno della lotta di classe avendo come obiettivo la riconquista di un associazionismo operaio classista, dunque indipendente da ogni apparato dello Stato borghese o delle associazioni padronali

 

Risalire dal drammatico indietreggiamento dalle posizioni di classe avvenuto in tutti questi decenni non sarà cero facile; non basterà lottare intorno a rivendicazioni esclusivamente operaie e non basterà lottare con metodi e mezzi che non si sottraggono allo scontro di classe. Riconquistare il terreno della lotta di classe e la tradizione classista delle generazioni proletarie passate è comunque un passaggio obbligato per i proletari di oggi e di domani se vogliono avere la possibilità di contrastare efficacemente la pressione e la repressione capitalistica.

In prospettiva, lo sviluppo del capitalismo in Italia e in tutti i paesi del mondo, soprattutto in quelli più avanzati industrialmente, supererà anche stavolta la crisi che ha colpito l’economia mondiale, ma alla condizione di far pagare alle masse proletarie un prezzo sempre più alto in termini non soltanto di precarizzazione del lavoro e della vita, ma di vero e proprio affamamento di una parte consistente della popolazione mondiale preparando i proletariati di tutti i paesi ad immolarsi domani in una terza guerra imperialistica mondiale per la salvezza del capitalismo come modo di produzione e come sistema sociale universale. Lo sviluppo capitalistico è ormai storicamente inceppato da continue e cicliche crisi di sovrapproduzione: si producono più merci di quanto il mercato possa assorbire, fino a quando la crisi di sovrapproduzione non è più “superabile” se non con la guerra generalizzata, come è già avvenuto per ben due volte, con una vasta e gigantesca distruzione di prodotti-merci e di lavoratori-merci; sì, perché alla sovrapproduzione di prodotti-merci parallelamente vi è una sovrapproduzione di lavoratori salariati che, a differenza delle merci invendute accatastate in qualche luogo e immobili – al massimo inquinano – i lavoratori salariati non occupati hanno la “cattiva abitudine” di muoversi, di cercare una qualsiasi soluzione alla propria sopravvivenza radunandosi a branchi e rendendosi spesso turbolenti e violenti andando così a spezzare la pace sociale tanto perseguita dai poteri borghesi.

In prospettiva, quindi, i proletari non potranno non ribellarsi al continuo e sempre più pesante peggioramento delle loro condizioni di vita e di lavoro; da schiavi salariati, se non vorranno morire di fame o di guerra, dovranno rialzare la testa e lottare per la vita o per la morte. La morte è il capitalismo, la morte è rappresentata dal potere borghese che si regge sul capitalismo e che ne difende il sistema perché da esso trae i propri privilegi accaparrandosi con la forza l’intera ricchezza sociale. La vita è rappresentata dalla lotta del proletariato che si vuole sottrarre alla morte garantita che diffonde il capitalismo, dalla lotta per l’emancipazione dal capitalismo e per una società in cui lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo sarà finalmente finito e superato per sempre. Ma perché i proletari abbiano la forza di lottare per obiettivi così alti come l’emancipazione dal capitalismo, devono saper lottare per gli obiettivi immediati legati alla sopravvivenza quotidiana in una lotta di resistenza quotidiana che, nei fatti, svolge il ruolo di “scuola di guerra di classe” del proletariato contro la borghesia; lotta che incontrerà inevitabilmente situazioni in cui proletari più avanzati e combattivi dovranno scontrarsi con proletari più arretrati e facilmente manovrabili dalla borghesia, situazioni in cui la stessa riorganizzazione classista sul terreno della difesa immediata può deviare facilmente in senso localistico, burocratico e corporativo aumentando, invece di contrastare, la divisione fra proletari; situazioni in cui l’attacco della repressione borghese può raggiungere livelli di grandissima violenza come è già avvenuto in molti paesi anche solo prendendo in considerazione gli anni del secondo dopoguerra (a cominciare dalla repressione della rivolta di Berlino del 1953 e di Budapest nel 1956, per andare poi alla Grecia dei colonnelli, alle dittature militari sudamericane o estremo-orientali per non parlare del Medio Oriente o del Corno d’Africa, dei Balcani o dei recentissimi fatti di Tunisia e d’Algeria).

Si dirà: che c’entra la vicenda Fiat e l’accordo Mirafiori con quello che è successo tanti anni fa nell’est europeo o in America Latina e con quello che succede in Medio Oriente o in Nord Africa? Lo dice lo stesso Marchionne: il mercato globale ha spinto i grandi gruppi industriali a globalizzare la propria attività,ad andare ad investire i grandi capitali in paesi in cui è più facile sfruttare la forza lavoro con meno regole e meno resistenze rispetto ad altri. Ma questo non succede solo negli ultimi anni, succede da quando il capitalismo è entrato nella sua ultima fase di sviluppo, quella imperialistica (come diceva Lenin, dal 1915, durante la prima guerra imperialistica mondiale) e che è continuata attraverso la seconda guerra imperialistica mondiale e che continua attualmente in preparazione di una terza guerra imperialistica mondiale. E’ questa inevitabile, e prevista dal marxismo, internazionalizzazione del capitalismo con la quale le sorti di un paese sono sempre più legate alle sorti degli altri paesi – e quindi le sorti di un’azienda dipendono sempre più dalle vicende del mercato mondiale e della concorrenza che vi si svolge – che pone il proletariato di un’azienda, di un paese, di fronte ad un orizzonte che è sempre più il mondo. La concorrenza tra proletari non si limita più, come nell’Ottocento, al paese in cui sono situate le aziende ma si estende a tutti i paesi del mondo dai quali i capitalisti attirano nelle proprie aziende proletari a costi inferiori o nei quali i capitalisti vanno ad impiantare proprie aziende. Si dimostra una volta di più come il marxismo ha letto la storia nel modo giusto già da più di centosessant’anni, indicando la classe del proletariato, proprio per la sua caratteristica di essere senza riserve e di essere la sola classe dal cui lavoro, applicato al capitale, si produce ricchezza sociale, come l’unica classe che in questa società non ha nulla da guadagnare (se non sfruttamento e morte) ma che ha tutto un mondo da guadagnare rovesciando il potere della classe borghese che domina l’intera società con la forza in difesa della proprietà privata e dell’appropriazione privata del prodotto sociale. L’unica cosa che possiede il proletariato come classe storica, quindi come partito di classe, in questa società è la teoria rivoluzionaria, il marxismo, dunque il programma di un movimento rivoluzionario che la classe proletaria è storicamente chiamata ad attuare perché è lo stesso sviluppo del capitalismo che porta l’intera società al bivio storico: o un salto di qualità in avanti, ed è la rivoluzione proletaria, o la persistenza centenaria di un sistema che via via incancrenisce sempre più ma che non può fermare il corso della storia mentre può allungare la tremenda agonia di una società che da tempo non ha più nulla da offrire alla specie umana se non crisi economiche devastanti e olocausti al dio capitale.

 

18 gennaio 2011

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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