Qualche dato economico sulla Libia

(Supplemento a «il comunista»; N° 119; Dicembre 2010 / Gennaio 2011)

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La Libia è un paese di circa 6,5 milioni di abitanti, in gran parte semidesertico, le cui sole risorse sono il petrolio e il gas. Vecchia colonia italiana (all'epoca veniva chiamata "scatolone di sabbia", ma da quando fu scoperto il petrolio quello scatolone di sabbia cominciò ad assumere un valore ben diverso da un semplice punto nella carta geografica), era governata da una monarchia legata all'imperialismo inglese che regnava su tre province largamente autonome e su una moltitudine di tribù. Nel 1969 un giovane colonnello dell'aviazione, Muammar Gheddafi, alla testa di una giunta militare, rovesciò il re Idris I e instaurò la "Repubblica" - in realtà un  regime dittatoriale senza nemmeno la facciata delle istituzioni democratiche borghesi. All'epoca, per smarcarsi dalla dipendenza diretta e ingombrante dell'imperialismo americano, che stava allungando prepotentemente le sue zampe nell'area del Mediterraneo (l'area del petrolio arabo) - dove si scontravano gli interessi di tutti i maggiori imperialismi, dagli Usa alla Russia, dalla Gran Bretagna alla Francia -, andava di moda che i paesi che si liberavano dal colonialismo europeo decorassero le nuove forme di regime con parole e vestigia del "socialismo". E così anche la Libia, nel 1969 definita Repubblica araba di Libia, diventerà, nel 1977, Repubblica araba di Libia Popolare (Jamahiriyya) e Socialista, contribuendo così all’ulteriore falsificazione e confusione dei concetti legati al socialismo.

Il nuovo regime utilizzò le rendite del petrolio per comprare la lealtà dei diversi clan e capi tribù, ma anche per avviare un certo sviluppo economico che ha avuto bisogno dell'immigrazione di centinaia di migliaia di lavoratori (dall'Egitto, dalla Tunisia, dall'Africa nera e dal sub-continente indiano) che ha spinto ad una rapida urbanizzazione (l’85% della popolazione vive oggi nelle città), mentre un potente apparato repressivo era incaricato di mantenere l'ordine e reprimere nel sangue le rivolte che sono esplose a più riprese.

Negli anni 70 la Libia era un grande produttore dell'OPEP (il cartello dei principali paesi produttori di petrolio), estraendo più di 3 milioni di barili al giorno. In seguito alla nazionalizzazione delle compagnie petrolifere e delle sanzioni economiche imposte all'inizio degli anni ‘80 dagli Stati Uniti, questa produzione ebbe un forte calo. Dopo la riconciliazione del regime con gli imperialismi occidentali all'inizio del nuovo millennio, le grandi società petrolifere, attirate dalla qualità del petrolio libico e dai suoi vasti giacimenti (le sue riserve sono stimate in 44 miliardi di barili, le più importanti di tutta l'Africa), la produzione petrolifera libica ha ricominciato ad aumentare. Tuttavia, non ha raggiunto che 1,8 milioni di barili al giorno, ciò che corrisponde appena al 2% del mercato mondiale.

In ogni caso, il petrolio e il gas libici hanno un peso molto più importante per alcuni paesi europei, a cominciare dall'Italia: nel 2010, il 22% del petrolio e il 13% del gas naturale consumato in Italia provenivano dalla Libia. Nel 2009, i principali acquirenti di petrolio libico erano l'Italia (425.000 barili al giorno), la Germania (178.000 barili al giorno), la Francia (133.000), la Spagna (115.000) e gli Stati Uniti (80.000). La più grande compagnia produttrice di petrolio in Libia è l'italiana ENI (244.000 barili al giorno) seguita dalla britannica BP, dalla tedesca BASF, senza dimenticare l'anglo-olandese Shell, la francese Total ecc., per le quali non abbiamo trovato dati.

Il principale partner economico della Libia è l'Italia. Gli scambi commerciali nel 2010 hanno raggiunto i 17,6 miliardi di dollari, con un aumento del 7,8% rispettto all'anno precedente. In Libia sono presenti oltre 100 imprese italiane, e tra queste vi sono colossi come ENI,   Finmeccanica, Impregilo, Italcementi, Unicredit, Telecom, Alitalia, Edison, Saipem, Terna, Generali, e non mancavano affari molto lucrosi tra le aziende del premier Berlusconi e il colonnello, soprattutto dopo la firma del trattato d'amicizia tra Libia e Italia del 2008. Questo trattato ha aperto le porte ad investimenti nelle opere di urbanizzazione, negli aeroporti, nella  costruzione della progettata autostrada lunga 1700 km lungo la costa che, da Rass Ajdir a Ismaad, collegherebbe il confine tra Egitto e Tunisia.

La Francia segue l'Italia da lontano, con flussi commerciali  di 6,6 miliardi di dollari, ma con un forte aumento: più del 71% rispetto l'anno precedente. E poi c'è la Cina, con 5,96 miliardi di dollari, in aumento del 36%, e la Germania con 4,97 miliardi di dollari, in diminuzione però del 2,6%. Troviamo poi la Spagna con 4,22 miliardi di dollari, in forte aumento (43%), gli Stati Uniti a 2,26 miliardi di dollari, con un leggero aumento del 4,38%, la Gran Bretagna anch'essa a 2,26 miliardi di dollari ma in incremento consistente (25%); di rilevante vi è poi la Turchia con 2,12 miliardi di dollari, in incremento del 5,89% e la Corea del Sud, con 1,4 miliardi di dollari in forte aumento (30,65%).

Non è un caso se la Francia, il paese che ha registrato il più forte aumento negli scambi commerciali con la Libia, è stato il paese che più di altri ha forzato per l'intervento militare (l'appetito vien mangiando...); né se, dall'altra parte, la Germania, il solo grande partner commerciale della Libia che ha visto i suoi scambi commerciali declinare, è stato il paese europeo più reticente rispetto a questo intervento.

Quanto all'Italia, è evidente che ha più da perdere che da guadagnare da un rovesciamento politico a Tripoli. Le autorità libiche hanno investito in numerose imprese italiane: dopo l'Unicredit - la più grande banca italiana in cui il fondo sovrano libico è diventato il primo azionista (7,5%) - la Fiat, la Finmeccanica sia per l'elicotteristica civile che per gli armamenti. Come ricordavamo sopra, il trattato d'amicizia del 2008, oltre agli scambi commerciali e agli investimenti, aveva come punto cruciale il controllo dell'immigrazione. Si capisce quindi perché  il governo italiano abbia frenato molto prima di cedere alle richieste americane di utilizzo delle basi aeree per bombardare le truppe ghedaffiane, e abbia moltiplicato le critiche verso l'attivismo del governo Sarkozy. Ma, come nel tradizionale voltagabbanesimo della classe dominante italiana, dopo aver cercato di stare dalla parte del colonnello Gheddafi nelle prime settimane - nella speranza che Tripoli salvasse i grandi affari già fatti e quelli da fare, soffocando la ribellione che da Bengasi si stava estendendo a tutto il paese - visto che la situazione non volgeva con certezza a favore di Gheddafi e data la pressione decisa degli imperialismi americano, britannico e francese su Roma per un coinvolgimento più partecipativo a quella che ormai era diventata "la guerra di Libia" -, all'inizio di aprile l'Italia, dopo Francia e Qatar, riconosce il Consiglio Nazionale di Transizione dei ribelli di Bengasi. Il governo italiano ha giustificato il "voltafaccia" nei confronti di Gheddafi e della sua fazione col fatto che non si poteva più sopportare che le truppe lealiste bombardassero e massacrassero la popolazione  civile in tutte le città, e Misurata in particolare, di cui i rivoltosi cercavano di prendere il controllo. Ma il vero motivo è un altro: l'ENI correva, e corre tuttora, il pericolo di venir rimpiazzata - in caso di vittoria dei rivoltosi - dalla francese Total come principale società petrolifera in Libia!

I paesi dell'Unione Europea, e l'Italia in particolare, hanno fatto accordi col regime di Gheddafi al fine di farne un vero guardiano delle frontiere respingendo senza pietà i lavoratori africani che tentavano di guadagnare l'Europa partendo dalle coste libiche. Ruolo che anche i nuovi governanti continueranno ad espletare, ed è per questa ragione che i paesi che effettuano i bombardamenti aerei in Libia hanno generosamente evitato di attaccare la marina libica anche se essa è impegnata nella repressione della resistenza dei rivoltosi, soprattutto a Misurata: "difendere le popolazioni civili", può essere, ma non al prezzo di rischiare un allentamento del controllo militare e poliziesco dell'emigrazione in partenza da quella che la stampa  italiana chiama la sua "quarta sponda" sul Mediterraneo e che, di fatto, è la frontiera dell'Europa dei «diritti dell'uomo», della «libertà», della «democrazia», della «civile convivenza»...

 

(Fonti dei dati: Financial Times, Wall Street Journal, la Repubblica)

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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