Rivolte nei paesi arabi e imperialismo

(«il comunista»; N° 120; Aprile 2011) - (Supplemento a «il comunista»; N° 119; Dicembre 2010 / Gennaio 2011)

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1. Le rivolte delle masse proletarie e contadine che dal dicembre 2010 e, in particolare, dall’inizio del 2011, stanno scuotendo  i paesi arabi del Nord Africa e del Medio Oriente sono indubbiamente la conseguenza della crisi economica generale del capitalismo che ha prodotto in questi paesi un rialzo dei prezzi dei generi di prima necessità tale da rendere impossibile per queste masse quasi la sopravvivenza.

2. Già nei decenni precedenti, ora in un paese, ora in un altro, vi sono state turbolenze sociali sempre per lo stesso motivo, ma mai della dimensione e della forza di contagio delle attuali rivolte. Basti pensare che la Tunisia, dove si è formato il primo sindacato operaio africano, la UGTT, è stata scossa negli anni dal 1975 al 1977 da grandi scioperi  e violenti scontri che, per la prima volta dall’indipendenza,  hanno messo a dura prova, il governo “socialista” di Bourghiba tanto da indurlo, con il prezioso aiuto dell’imperialismo francese, a più che triplicare le risorse finanziarie per la polizia e l’esercito. Nella primavera del 1984 un’altra ondata di scioperi è stata repressa nel sangue con condanne degli arrestati da 5 a 30 anni di prigione, ma ciò  non ha fermato il movimento di scioperi che è ripreso anche l’anno succesivo; non ha, d’altra parte, nemmeno modificato l’attitudine collaborazionista della UGTT, che ha sottoscritto un accordo col governo per “sviluppare un clima di concordia e patriottico” affinché “il ricorso allo sciopero non si effettui se non dopo che si siano esauriti i tentativi di dialogo a tutti i livelli” (1). Il dispotismo sociale, abbinato alla repressione preventiva di ogni di sciopero cui ha collaborato l’UGTT, è riuscito a soffocare ogni tentativo di protesta operaia; ma, dalla primavera del 2008, di fronte ad aumenti iperbolici dei prezzi dei generi alimentari e alla sempre più diffusa disoccupazione giovanile, la “rivolta del pane” torna sul proscenio registrando scontri violentissimi con la polizia, fino a quelli del gennaio 2009 nel bacino di Gafsa, vicino a Redeyef, alle miniere di fosfati, dove la polizia torna a sparare ad altezza d’uomo, e che preparano le ultime rivolte dei mesi scorsi.   

Negli stessi anni Settanta, in Egitto, paese economicamente disastrato a causa delle guerre contro Israele, scoppiano dei veri e propri moti proletari come quelli del gennaio 1975, ripresentatisi sulla scena nel 1977 (2), protagonisti contadini poveri e operai, di fronte ad un rialzo notevole dei prezzi dei generi di prima necessità e alla soppressione delle sovvenzioni statali al consumo primario. Commissariati di polizia, locali notturni, mezzi di trasporto, banche, residenze di lusso ecc. sono stati i simboli del potere e dell’oppressione borghese del giovane e vorace capitalismo egiziano dati alle fiamme da masse inferocite ribellatesi alla fame, alla miseria, alla disoccupazione, alla corruzione, ai privilegi di una classe dominante  che ostenta ricchezza e potenza.  Decine di morti, migliaia di feriti, arrestati, torturati, soffocano il movimento operaio egiziano, ma solo temporaneamente, perché negli anni successivi le agitazioni operaie sono continuate anche se isolate e senza le caratteristiche del precedente moto violento. All’inizio degli anni Cinquanta la popolazione egiziana contava poco più di 20 milioni di abitanti, all’inizio degli anni Settanta contava già più di 50 milioni e oggi raggiunge ormai gli 80 milioni. In grandissima maggioranza si tratta di proletari e contadini che i regimi borghesi,   succedutisi dall’indipendenza in poi - spinti ad accelerare al massimo lo sviluppo capitalistico del paese e l’accumulazione di profitti che, in quote sempre maggiori, erano divorati dal FMI (quindi dagli imperialisti occidentali che sostenevano quei regimi) - hanno fatto precipitare in condizioni di sopravvivenza sempre più intollerabili: alle crisi cicliche del capitalismo si aggiungevano così condizioni di sfruttamento ancor più bestiali di quelle riservate ai proletari dei paesi più industrializzati.

Dal 2004 al 2010 l’Egitto ha conosciuto una lunghissima stagione di agitazioni operaie, lotte, scioperi, occupazioni, tentativi di organizzazione immediata classista al di fuori e contro i sindacati ufficiali controllati dallo Stato, scontri con la polizia. I bacini industriali maggiori sono al nord, sul delta del Nilo vicino ad Alessandria: Kafr Dawar e Ghazl el Mahallah, e poi Porto Said e Suez; vi sono situate le fabbriche più grandi d’Egitto, come il gigante tessile Misr Spinning and Weaving Co. La crisi capitalistica, ingenerata verso la fine del 2007 dai crack borsistici e finanziari  immobiliari americani, ha provocato un ulteriore enorme rialzo dei prezzi dei prodotti alimentari primari (pane, riso, olio, zucchero, farine, carne), facendo precipitare in condizioni ancora peggiori la gran parte delle masse proletarie e contadine povere. Per contrastare e spegnere la collera proletaria, che scoppiava a ondate dal 2004, e dal dicembre del 2006 con sempre maggior forza, i governanti del Cairo hanno continuato a far promesse di ogni tipo, mantenendone alcune per forza ma sempre in misura minima sia a livello di aumenti salariali che di tolleranza verso i comitati di sciopero e le varie organizzazioni di lotta dirette dei proletari. E, come sempre succede, sull’onda delle grandi agitazioni operaie, si mobilitano anche gli altri strati sociali della piccola e media borghesia portando in seno al movimento di lotta generale la protesta per proprie rivendicazioni politiche inerenti, in genere, le riforme democratiche. Ne approfittano anche i Fratelli musulmani, solitamente radicati nella classe media (avvocati, ingegneri, medici, farmacisti ecc.) che, dal 2007, intervengono con successo all’interno dei sindacati locali.  La pressione delle masse proletarie è diventata però troppo forte; non riescono a stemperarla né le concessioni  economiche, peraltro molto lontane dagli aumenti salariali rivendicati dagli operai, né le intimidazioni e i licenziamenti, né gli arresti e la repressione mirata contro i proletari più combattivi e attivi nei nuovi organismi di lotta nati al di fuori della Federazione Nazionale dei sindacati che è sempre stata totalmente controllata dal regime di Hosni Mubarak. E tale pressione ha provocato, ad esempio nel gennaio del 2008, la mobilitazione anche dei dipendenti statali, che hanno avuto sempre qualche garanzia in più dei dipendenti delle aziende private, ma che, in quell’occasione hanno coordinato le loro agitazioni con gli operai delle grandi fabbriche tessili. I partiti di opposizione, sempre pronti a svolgere il ruolo di pompieri sociali,  non potevano che farsi promotori delle rivendicazioni democratiche che davano l’idea di contenere in una soluzione “politica” le richieste a livello economico avanzate dai numerosissimi scioperi operai, in genere non coordinati fra di loro. In assenza di una guida politica di classe, come solo un partito comunista marxista può dare, è inevitabile che il movimento di lotta delle masse proletarie e dei contadini poveri venga incanalato sulle rivendicazioni classiche della piccola e media borghesia: la democrazia, come panacea di tutti i mali della società, come cura di tutti i mali... E così,  il grande movimento di rivolta delle masse proletarie e proletarizzate che ha detronizzato il clan della famiglia Mubarak, pur avendo radici materiali molto forti nei movimenti di lotta degli anni scorsi, una volta incanalato sulla strada di un illusorio e impotente “cambiamento democratico”, è stato in pratica consegnato al controllo dell’esercito che si è dimostrato una volta di più il vero pilastro dell’ordine costituito in Egitto. Sebbene l’esercito egiziano sia stato fin dalla “rivoluzione nasseriana” del 1952 la vera forza compatta e dominante nel paese, sembra che oggi, di fronte alla formidabile pressione del movimento di rivolta di questi primi mesi del 2011, mostri delle crepe attraverso le quali si stanno sviluppando scontri di interessi tra le diverse frazioni borghesi che si contendono il prossimo regime politico, contesa sulla quale ha un enorme peso la politica estera imperialista americana.  

 3. La situazione di grandissima miseria che attanaglia la grande maggioranza della popolazione in tutti i paesi della vasta area ha raggiunto livelli di rottura sociale tali che è bastato poco per incendiare le piazze (un ambulante che si dà fuoco perché i poliziotti gli sequestrano il carretto che rappresenta l’unica e misera fonte di sopravvivenza, in un paesino dell’interno della Tunisia, è stata la miccia che ha fatto esplodere la rivolta) e per spingere masse sempre più numerose a manifestare pubblicamente sapendo perfettamente di andare incontro ad una repressione che sarebbe stata tremenda; già in anni passati era successo.

Il movimento di protesta e di rivolta per il pane e contro regimi di oppressione sociale particolarmente dura si è allargato a grande velocità a tutti gli strati sociali. Ma ciò che ha “sorpreso” i governi di questi paesi, e le cancellerie delle metropoli imperialiste che sostenevano  e proteggevano i governi dispotici di Tunisi, del Cairo come quelli di Tripoli, o di Riad, è l’estensione e la forza inarrestabile di una rivolta che si è caratterizzata per non essere armata e per essere del tutto laica, esterna perciò dai gruppi e partiti confessionali, e sostenuta dal disgusto per la evidente corruzione dei ceti al potere e dalla ribellione contro una pluridecennale oppressione burocratica e militare; anche per questo motivo le rivendicazioni “democratiche” hanno avuto facilmente successo nell’ingabbiare i movimenti sociali verso gli obiettivi della democrazia elettorale e parlamentaristica. 

4. I partiti politici di opposizione, nella loro debole e marginale sopravvivenza politica in regimi che non permettevano il pluralismo politico, hanno contato ben poco rispetto all’organizzazione di questi movimenti che, in sostanza, hanno mostrato una larga e profonda spontaneità. Non è detto però che quei partiti non contino di più dopo che i despoti sono caduti, soprattutto se esponenti dei vecchi regimi e dei vertici militari cambiano casacca e, dopo aver militato per anni nei vecchi regimi autoritari condividendo privilegi di casta e repressioni sociali, passano armi e bagagli... all’opposizione. La richiesta di “più democrazia” e di un “governo democratico” in Tunisia, in Egitto, in Yemen, in Bahrein, in Libia, in Siria porterà inevitabilmente in auge quei partiti e quegli esponenti che meglio di altri, sia verso l’interno che verso l’esterno del paese, rappresenteranno il “cambiamento” e si assumeranno il compito di traghettare il potere capitalistico nazionale (con tutta la sua rete di interessi nei propri paesi e con i diversi paesi imperialisti) dal governo di un Ben Alì, di un Mubarak, di un Saleh o di un Gheddafi, ad un governo “democratico”. La forza dei movimenti spontanei di protesta e di rivolta, proprio perché non indirizzata dal proletariato e dal suo partito di classe nell’alveo della lotta di classe anticapitalistica, viene per l’ennesima volta sfruttata dalle fazioni borghesi che meno sono apparse coinvolte nella corruzione e nel dispotismo dei precedenti poteri e che dovranno applicare qualche riforma sociale e politica per tacitare i bisogni delle grandi masse espressi così violentemente in questi mesi da far cadere regimi dittatoriali pluridecennali. E non è detto che non sarà proprio la “libertà democratica”, rivendicata a gran voce dai rivoltosi, ad aprire le porte alla legale presenza del fondamentalismo islamico, bestia nera di ogni governo occidentale ma di gran lunga preferito al montare della lotta di classe organizzata e indipendente del proletariato.

5. La caduta dei rais non significa e non significherà la fine dell’autoritarismo dei governi borghesi democratici che hanno preso e prenderanno il posto dei vecchi governi. I generali egiziani che stanno pilotando la cosiddetta “transizione politica” al dopo-Mubarak hanno immediatamente proclamato che gli operai devono tornare al lavoro e che non devono scioperare; e, come dimostra la repressione delle manifestazioni di piazza del dopo-Mubarak, la “nuova democrazia egiziana” intende controllare anche col pugno di ferro la tanto agognata “transizione politica”.  Anche in Tunisia, dopo la caduta di Ben Alì il 14 gennaio, sono proseguite le manifestazioni di protesta, fino a mobilitare più di 100.000 manifestanti il 26 febbraio, ma anche qui la polizia non è rimasta con le mani in mano. La democrazia parlamentare, per quanto cercherà di mostrare un volto meno dispotico e autoritario del regime borghese in Tunisia o in Egitto, è pur sempre voce politica dello stesso sistema economico capitalistico - questo sì dispotico e dittatoriale sempre - sul quale, col benestare e il favore dei paesi imperialisti, si sono retti i regimi di Ben Alì e di Mubarak, come del resto si reggono i regimi di tutti i “dittatori” che governano i paesi della periferia imperialistica.

6. L’ondata di rivolta, come tutti sanno, non si è fermata alla Tunisia e all’Egitto; si è estesa all’Algeria, allo Yemen, al Bahrein, all’Oman, alla Libia, alla Siria, ma preme su tutti i paesi del Nord Africa e del Medio Oriente, dal Marocco fino a Teheran. In Libia si è trasformata in una “guerra civile” tra schieramenti borghesi legati storicamente ad interessi delle diverse tribù che controllano i territori che compongono il paese (Cirenaica, Tripolitania, Fezzan). In Libia, fin dalle primissime manifestazioni di piazza partite dalla Cirenaica e dalla sua capitale, Bengasi, il governo guidato da Gheddafi è immediatamente intervenuto con  la più violenta repressione mirando a stroncare sul nascere, anche coi bombardamenti, quello che temeva - come poi si è verificato - fosse l’inizio di una rivolta armata per abbattere il regime di Gheddafi. Contro la Libia di Gheddafi, i paesi imperialisti, capitanati da Francia, Gran Bretagna e Usa, hanno deciso di intervenire militarmente, sotto la solita foglia di fico della risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che maschera l’intervento militare con la “difesa della popolazione civile” dagli attacchi furibondi delle milizie e dei mercenari di Gheddafi. Decretando la no-fly zone, il Consiglio di sicurezza dell’ONU ha dato praticamente il via libera all’attacco militare aereo degli alleati occidentali, e poi della Nato, contro le truppe cosiddette “lealiste” di Gheddafi. Il fatto che la decisione ONU sia stata controversa e abbia visto alla fine non il veto ma l’astensione di Germania, Russia e Cina, mostra come i contrastanti interessi dei paesi imperialisti principali, se, da un lato, non impediscono spedizioni militari repressive da parte dei maggiori paesi imperialisti contro regimi ritenuti troppo ostici e incontrollabili  in paesi ricchi di materie prime ritenute vitali per l’economia capitalistica mondiale - come sono senza dubbio il petrolio e il gas naturale -, dall’altro confermano che il periodo che stiamo attraversando, soprattutto dalla prima guerra del Golfo in poi, è un periodo segnato costantemente dalla guerra nei paesi nell’immediata periferia dell’imperialismo occidentale, ed europeo in particolare. E sono le conseguenze sia delle crisi economiche, i cui cicli si avvicinano sempre più, che delle guerre  - che sono regionali dal punto di vista dell’area in cui si svolgono, ma di valenza mondiale per l’intervento militare costante delle potenze imperialistiche - a gettare le masse proletarie e proletarizzate di questa vasta area in condizioni di miseria crescente, di fame, di aumentata disoccupazione e di oppressione, di morte alle quali hanno trovato la forza di ribellarsi.

7. In sostanza, nessun paese della vasta area, che conta nella sua estensione più di 330 milioni di abitanti costituiti da una popolazione giovane per circa il 50%, può dirsi non toccato da questo vero e proprio terremoto sociale, compreso il paese apparentemente più “stabile” come era considerata la Libia prima dell’esplosione della guerra civile, o la Siria prima delle manifestazioni delle masse iniziate a Dar’a, vicino al confine giordano, per raggiungere poi la capitale Damasco e la città costiera Latakia; per non parlare dell’Arabia Saudita dove, per il momento,  le masse saudite non hanno ancora manifestato nelle piazze contro la corruzione, le ingiustizie sociali e le leggi d’emergenza. La disoccupazione giovanile nella maggioranza di questi paesi è molto alta, tocca più del 30%, mentre in alcuni, come la Libia, l’Arabia Saudita, gli Emirati è molto forte la presenza di un proletariato immigrato da altri paesi africani e dall’estremo Oriente.

8. In questa vasta area si sono concentrate e acutizzate una serie di contraddizioni economiche, politiche e sociali tali che, per scoppiare, è bastato un detonatore, apparentemente isolato, come l’ambulante tunisino Mohammed Buoazizi che si è dato fuoco il 17 dicembre 2010 davanti al municipio di Sidi Bouzid, seguito 5 giorni dopo da un  giovane, Houcine Falci, uccisosi durante una manifestazione alla quale esponeva un cartello in cui aveva scritto: “No alla miseria, no alla disoccupazione”!

Da quel momento, le manifestazioni di strada contro la miseria e la disoccupazione si sono fatte sempre più numerose e dai villaggi periferici si sono sempre più avvicinate alle città e alle capitali. L’intervento repressivo della polizia di Ben Alì comincia a fare i primi  morti, ma le manifestazioni non si fermano, aumentano e si espandono contagiando i paesi vicini. L’8 gennaio è la volta dell’Algeria, coi suoi morti e feriti; il 13 gennaio tocca alla Giordania, il 16 gennaio alla Mauritania, allo Yemen e al Marocco: dappertutto si registrano continui scontri tra manifestanti e polizia. In Tunisia le manifestazioni si sono intanto trasformate in vera e propria rivolta contro il governo accusato di corruzione e di aver scatenato una feroce repressione contro i manifestanti inermi; il governo si dimette, Ben Alì  promette riforme e “libere elezioni”, ma il movimento dei rivoltosi non si ferma e chiede che Ben Alì e la sua cricca se ne vadano; il 14 gennaio Ben Alì e famiglia fuggono in Arabia Saudita; il 24 gennaio si forma il nuovo governo di “transizione”,  ma con esponenti della vecchia cricca mescolati con esponenti dei deboli e inconsistenti partiti della “opposizione”; governo nel quale si succedono nuovi personaggi per stemperare la tensione sociale. Tensione che, in realtà, non cala più di tanto perché le manifestazioni continuano anche in febbraio, e la polizia continua ad intervenire, questa volta sparando “solo” lacrimogeni, ma con lo stesso intento di soffocare le proteste di piazza. La “rivoluzione dei gelsomini”, come è stata chiamata la rivolta delle masse tunisine, diventa “patrimonio comune” di tutti, delle masse proletarie e proletarizzate, contadine povere e diseredate, precipitate nella miseria e nella disoccupazione, e degli strati piccolo borghesi e borghesi meno coinvolti col regime di Ben Alì: tutti salgono sul carro del “cambiamento”, tutti parlano di diritti, di riforme, di lotta alla corruzione, di democrazia, di libere elezioni, e tutti si illudono che il nuovo vento della democrazia porterà davvero un “futuro” diverso. I capitali accumulati da Ben Alì e dalla moglie nella gestione mafiosa della gran parte dei prodotti che circolavano in Tunisia, bloccati dalle banche svizzere e di altri paesi, torneranno con ogni probabilità nella gestione dei nuovi governanti, ma seguiranno inevitabilmente i corsi funzionali ai profitti capitalistici e non certo a beneficio delle masse affamate di Tunisia 

9. Il 25 gennaio è la volta dell’Egitto. Al Cairo, in piazza Taharir, si radunano 30mila manifestanti, chiedono riforme politiche e sociali, la fine della corruzione e delle leggi repressive: inizia a montare la protesta in tutto il paese. Il  26 e 27 gennaio violenti scontri con le forze di sicurezza a Suez e nel Sinai settentrionale; il ministro dell’Interno el-Hadli promette il pugno di ferro, e si cominciano a contare i primi morti negli scontri tra la polizia e i manifestanti. In una sua dichiarazione, la Casa Bianca “auspica” che il governo egiziano riconosca i “diritti dei cittadini”; il presidente Mubarak, il 29, annuncia le dimissioni del governo in carica e un nuovo governo guidato dall’ex ministro dell’Aviazione civile, mentre al potere sale l’ex capo dei servizi segreti egiziani Omar Suleiman. Ma le manifestazioni crescono di numero e intensità; i magnati e i potenti del regime fuggono verso i paesi del Golfo; la folla assalta l’aeroporto del Cairo; piazza Taharir, occupata permanentemente dai manifestanti, diventa il cuore della rivolta. Mubarak fa ripiegare i reparti antisommossa e schiera l’esercito ordinando il coprifuoco. Il 30 gennaio si fanno i primi bilanci degli scontri: oltre 150 morti, mille i feriti e centinaia gli arrestati. Mentre Stati Uniti ed Unione Europea si limitano a dichiarazioni di prudenza, Israele li critica duramente perché l’Egitto “non va destabilizzato” e per aver “abbandonato” Mubarak al suo destino. Il movimento di protesta  cresce in tutto il paese chiedendo a gran voce che Mubarak se ne vada; il 1° febbraio, in piazza Taharir, convergono circa 2 milioni di manifestanti, l’esercito è schierato a protezione della piazza e, nello stesso tempo, la controlla; el Baradei, l’ex capo dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, dal Cairo dà un ultimatum a Mubarak perché si faccia da parte; Mubarak dichiara di voler restare fino alla fine del suo mandato e di non voler morire lontano dal “suo” Egitto.

Il 26 gennaio giungono notizie di grandi manifestazioni di protesta nella capitale dello Yemen, Sana’a, contro il governo di Ali Abdallah Saleh, al potere da 32 anni. In Giordania, il re Abdallah II annuncia riforme economiche e sociali nel tentativo di disinnescare lo scontento che ha spinto nelle piazze di Amman centinaia di manifestanti. Notizie di manifestazioni di protesta e di scontri con la polizia giungono anche dalla capitale del Sudan, Khartoum, dove i manifestanti chiedono la fine del regime di Omar el Bashir; e anche da Beirut, dove centinaia di manifestanti tentano di assaltare l’ambasciata egiziana. Ad Algeri, il presidente Abdelaziz Bouteflika è costretto ad annunciare che lo stato d’emergenza, in vigore dal 1992, verrà revocato.

In Egitto la situazione comincia a precipitare; gruppi di sostenitori di Mubarak attaccano i manifestanti in piazza Taharir, l’esercito lascia fare mentre annuncia che il coprifuoco sarà fatto rispettare con più decisione. Washington inizia un lontano braccio di ferro chiedendo a Mubarak che la “transizione” inizi subito mentre il vicepresidente Omar Suleiman dichiara che Mubarak non deve dimettersi per non far sprofondare l’Egitto “nel caos”; in piazza Taharir arriva anche Amir  Moussa, ex segretario della Lega Araba,  candidandosi a guidare la “transizione”. Il 5 febbraio cambiano i vertici del Partito nazional-democratico del presidente Mubarak nel tentativo di darsi un nuovo volto, e annunciano misure per “il rilancio economico del Paese”. Ma le manifestazioni di protesta continuano e continua la loro repressione. L’11 febbraio, 18 giorni dopo l’inizio della rivolta, Omar Suleiman annuncia che Mubarak si è dimesso e ha passato i poteri all’esercito; il 13 il Consiglio Supremo dell’esercito scioglie il parlamento, sospende la Costituzione, annuncia che i militari rimarranno al potere per sei mesi, fino alle nuove elezioni di settembre, viene sgomberata piazza Taharir, simbolo della protesta permanente contro il regime di Mubarak, e si intima agli operai di riprendere il lavoro dichiarando che gli scioperi sono vietati.

Qualche giorno dopo l’inizio del movimento di protesta sono cominciati gli scioperi nella regione di Alessandria, al Cairo, a Suez, a Porto Said, scioperi che hanno punteggiato le tre settimane di rivolta contro il regime di Mubarak sostenendo, con la propria forza e la propria pressione, il movimento di protesta generale. Le richieste operaie si sintetizzavano in 4 obiettivi: aumento dei salari, istituzione del salario minimo, migliori condizioni di lavoro e sostituzione di tutti i dirigenti legati al regime di  Mubarak. “Guadagno 300 lire al mese (45 euro ndr), solo con contratti a termine e da undici anni non ci pagano l’assicurazione medica”, racconta un operaio in sciopero al Tunnel del Cairo (3), e non è solo questione di salari bassissimi; gli operai vengono assunti e licenziarti di continuo da entità diverse - il governatorato del Cairo e l’autorità per il Tunnel - così non sanno mai a chi chiedere gli arretrati: insomma, una truffa superlegalizzata! E in queste condizioni vive la gran parte della classe operaia egiziana. E’ contro il movimento di sciopero della classe operaia egiziana che il nuovo governo di Sharaf, prima ancora di soddisfare una qualsiasi delle richieste operaie, emana il nuovo decreto che rende illegali manifestazioni e scioperi. La nuova norma, come si può leggere nel blog NenaNews, “contribuisce a criminalizzare scioperi e proteste. Chi scende in strada e interrompe un’attività lavorativa rischia fino a un anno di detenzione e una multa da 30.000 (3.500 euro) a 500.000 (quasi 60.000 euro) ghinee egiziane. Anche chi organizza o incita la protesta può essere arrestato e sottoposto ad un’ammenda fino a 50.000 ghinee (5.900 euro)”. Che vi sia l’urgenza da parte dei poteri economici più forti di una normalizzazione è talmente evidente che si legge: “la norma intende punire i casi di sabotaggio dei mezzi di produzione, le attività di protesta che influenzino negativamente l’unità nazionale, la pace sociale e il sistema generale o danneggino proprietà mobili o immobili pubbliche e private” (4).

E’ questo il risultato della “rivoluzione egiziana”? A parte il fatto che non si è mai trattato di rivoluzione in quanto non si è trattato di conquista del potere politico da parte della classe operaia, guidata dal suo partito di classe, di abbattimento violento dello Stato borghese, di instaurazione della dittatura proletaria, di esclusione dal potere e dalla vita politica di qualsiasi associazione politica, economica  e militare borghese, democratica o oligarchica che fosse. E, a parte il fatto che non si è trattato di guerra civile rivoluzionaria, attraverso la quale soltanto si esprime una rivoluzione. Resta il fatto che il possente movimento di rivolta e di protesta che ha mobilitato le grandi masse proletarie e proletarizzate dell’Egitto ha dato non solo un enorme scossone alla stabilità dispotica di una classe dominante borghese particolarmente vorace e brutalizzante, ma ha ridato vigore ad una classe operaia che, nella sua recente storia, ha sempre dimostrato grandissima combattività e tenacia, ad una classe operaia che si è sempre dovuta scontrare con leggi soffocanti e repressive anche solo per avanzare una richiesta del tutto pacifica e legittima di miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro. Le nuove leggi repressive che giustificano, in modo “democratico”, la continuità nella repressione del movimento di sciopero e dell’organizzazione sindacale indipendente, non fermeranno certo una classe operaia che ha già dato negli anni, e anche in questi mesi, dimostrazioni di coraggio e di vitalità tali da costituire esempio per gli stessi proletari europei, che mai sono scesi in sciopero di solidarietà coi proletari non solo di Tunisia ed Egitto, ma di tutta l’area nordafricana e mediorientale.

10. Dall’inizio di febbraio anche dal Marocco si hanno notizie di manifestazioni antigovernative. In Yemen, nella capitale Sana’a, ad Aden e in altre cittadine minori, continuano le manifestazioni contro il presidente Saleh, ma anche qui il potere usa lanciare contro la folla manifestante non solo polizia ed esercito ma anche gruppi di supporter del governo armati di pugnali e bastoni. Il 12 febbraio Algeri è presidiata da 30mila soldati contro una grande manifestazione riunitasi in piazza  Primo maggio: vi sono stati più di 400 arresti.

Nelle strade di Teheran tornano a manifestare, come l’anno scorso e due anni fa, gli studenti dell’Onda Verde, il movimento riformista studentesco, contro il regime di Ahmadinejad; intervengono duramente polizia e milizie paramilitari Basiji fedeli alla Repubblica Islamica. La tensione sociale vissuta in Iran in questo inizio d’anno è rispecchiata nel fatto che il regime di Ahmadinejad, tra gennaio e febbraio, ha impiccato 99 persone tra rappresentanti del movimento Onda Verde e contestatori di varia provenienza: se non li uccide durante le manifestazioni di piazza li ammazza dopo averli incarcerati.

11. Dal 17 febbraio anche il piccolo Bahrein è stato investito da manifestazioni e tumulti nella capitale Manama e nei centri di Bani Jamrah, Diraz, Nuwerdait; manifestazioni di decine di migliaia di persone, spinte, da un lato, dalla situazione economica del paese che registra una disoccupazione in aumento (i dati ufficiali parlano del 15% di disoccupati) e, dall’altro, dal fatto che la popolazione, per la maggioranza di religione islam-sciita, chiede riforme politiche a suo favore (la famiglia regnante e i governanti sono sunniti, come in Arabia Saudita). Le richieste dalla Rotonda della Perla (una sorta di piazza Taharir del Bahrein) di Manama sono le stesse già alzatesi dalle altre piazze arabe: fine dei regimi dispotici che da decenni soffocano la vita quotidiana della grande maggioranza della popolazione, più lavoro, più diritti, riforme e dimissioni del premier Sheikh Khalifa Bin Salman Al Khalifa al potere da 40 anni; anche qui gli interventi dei reparti antisommossa dell’esercito (accompagnati dai baltagia, scagnozzi del regime) provocano regolarmente morti e feriti. Washington, naturalmente, è molto preoccupata della situazione: nel Bahrein c’è il quartier generale della V Flotta americana; e infatti, arriva puntuale la solita e ipocrita dichiarazione: “Chiediamo al Bahrein, alleato e amico dell’America, moderazione in vista di possibili nuovi disordini. Chiediamo inoltre che sia mantenuta la promessa di ritenere responsabile chi ha fatto un uso eccessivo della violenza contro i manifestanti pacifici. Gli Stati Uniti sostengono il processo per veri, significativi cambiamenti politici nel paese” (5). Per chi non lo sapesse, la V Flotta americana ha il compito di sorvegliare le rotte marittime percorse dalle petroliere nel Golfo Persico (dallo stretto di Hormuz transita il 20% del petrolio mondiale), sostenere le operazioni militari in Afghanistan e contrastare qualsiasi eventuale “minaccia” iraniana agli interessi americani e dei suoi alleati. Il timore che le manifestazioni di protesta nel Bahrein sviluppassero una forza incontrollabile e contagiassero l’Arabia Saudita è stato alla base della brutale repressione dei manifestanti, del tutto inermi e pacifici; sono documentati da filmati e testimonianze non solo gli attacchi delle forze di sicurezza, ma anche il blocco delle ambulanze e degli infermieri giunti in soccorso dei feriti, e delle vere e proprie esecuzioni sul posto per mano dei militari.  

La tensione sociale sviluppatasi non poteva non toccare i lavoratori dei diversi settori; per non perdere il loro controllo, il 19 febbraio l’Unione generale dei sindacati del Bahrein proclama uno sciopero generale a tempo indefinito a partire dal giorno dopo, assicurando però i servizi minimi di base. Lo sciopero non ha obiettivi economici, ma solo politici, naturalmente in sostegno della pace sociale,  “per preservare la vita e la sicurezza dei cittadini”, come si legge in un comunicato sindacale, e “per il diritto di organizzare proteste pacifiche senza l’intervento violento delle forze di sicurezza” (6). Il 14 marzo, l’Arabia Saudita e gli Emirati inviano nel Bahrein i propri soldati a dare man forte perché i “diritti dei cittadini” non fossero sostenuti con le manifestazioni di piazza e con gli scioperi, ma fossero “gestiti” dal governo del Regno, ma soprattutto a difesa degli impianti idrici, petroliferi e degli istituti finanziari che potevano essere obiettivi delle proteste e degli scioperi. Negli stessi giorni, i sindacati hanno proclamato, con l’anticipo richiesto dalla legge, uno sciopero generale per il 13 aprile. Il 14 marzo sono scesi in scioperi gli insegnanti. Ma, nel contempo, licenziamenti di massa hanno colpito diverse centinaia di lavoratori della scuola, delle telecomunicazioni, della Gulf Air, della Khalifa Sea Port, dell’Alba Aluminium Company, che hanno continuato a scioperare nonostante i sindacati ufficiali avessero chiesto di riprendere il lavoro “nell’interesse dell’economia nazionale e al fine di creare le condizioni per un rafforzamento delle basi del dialogo nazionale”! (7). D’altronde, non ci si può attendere nulla di diverso da sindacati che, costretti a proclamare scioperi per non perdere il controllo dei propri iscritti, si rivolgono in questo modo al re, che è il mandante della repressione: “Chiediamo l’intervento immediato del re Hamad bin Isa Al Khalifa per porre fine a questa crisi. In questa fase una soluzione politica bloccherebbe i licenziamenti e salverebbe i lavoratori” (8).

Non è così strano che da Teheran vi sia pressione verso l’ONU perché quest’ultimo intervenga con una “azione decisa e immediata” per porre fine alla dura repressione delle autorità del Bahrein contro manifestanti e rappresentanti dell’opposizione sciita che protestano da metà febbraio contro la famiglia reale, gli al-Khalifa. “L’Iran potrebbe non rimanere indifferente riguardo la crisi in corso in Bahrein, che rischia di destabilizzare il Golfo Persico e avere effetti politici a livello mondiale”, ha affermato il ministro degli esteri iraniano Ali Akbar Salehi (9), il quale ha denunciato i metodi cui fanno ricorso le autorità bahreinite, elencando rastrellamenti, rapimenti, demolizioni di moschee e licenziamenti. E qui non è solo una questione di appartenenza religiosa - la grande maggioranza dei bahreiniti è sciita, come gli iraniani, mentre la famiglia regnante e il ceto al potere sono sunniti. E’ il pericolo del contagio sociale, e proletario, che il regime di Teheran teme più di tutti. D’altra parte, una delle parole d’ordine delle manifestazioni di protesta, che svuota l’argomento della cospirazione sciita sostenuta dall’Iran per destabilizzare il Bahrein, è stata: “Né sciiti, né sunniti, ma bahreiniti!” (10).

12. Se Teheran “condanna” la brutale repressione delle manifestazioni pacifiche e degli scioperi nel Bahrein - ma tace ovviamente sui propri metodi repressivi -, la Siria, notoriamente il più stretto alleato dell’Iran di Ahmadinejad, dichiara invece del tutto legittimi la repressione e l’uso della forza contro i manifestanti. Il perché è semplice: in febbraio Damasco è raggiunta dal vento delle rivolte nei paesi arabi e il presidente Bashar al-Assad e il regime baathista, al governo da quasi cinquant’anni, non hanno alcuna intenzione di lasciare il potere.

Anche in Siria, come in quasi tutti gli altri paesi dell’area, esistono leggi d’emergenza (dal 1963) e tribunali speciali. Ma è in marzo soprattutto che scoppiano i primi tumulti; anche qui il segnale è dato da un fatto apparentemente isolato: un gruppo di bambini tra i nove e i dieci anni è statoi fermato dalle forze di sicurezza perché scoperto a cantare slogan contro il regime. Il 18 marzo a Dar’a, città della Siria meridionale capoluogo della regione agricola, e tra le più povere del paese, manifestazioni antiregime sfociano in proteste di massa che si scontrano violentemente con le forze di sicurezza; si iniziano a contare i morti e i feriti anche in Siria. L’ondata di rivolta, che a febbraio era stata soffocata sul nascere, torna a farsi sentire e si sviluppa lungo la dorsale che da Dar’a porta a Damasco e poi al nord, a Homs, e ad ovest fino alla costa, al porto di  Latakia. Nonostante le promesse di riforme, di finirla con le leggi d’emergenza, di avviare il multi-partitismo e di decisioni in favore “del popolo”, nulla avviene se non una continua repressione contro i manifestanti con arresti, morti e incarcerati. La repressione poliziesca non risparmia nemmeno i cortei funebri. Il ritornello di al-Assad è sempre lo stesso: i manifestanti sono sobillati da forze straniere e dalla Cia... Veri e propri combattimenti si svolgono a Dar’a, la città da cui la rivolta è partita, ancora all’inizio di aprile.

Ci sono alcune differenze tra la situazione della Siria e quella di molti altri paesi arabi. La Siria, come il Libano e l’Iraq, è un paese multiconfessionale e  multietnico; non vi sono solo sciiti e sunniti, ma anche cristiani e curdi. La minoranza Alawita, che è sciita, a cui appartiene il regime di Assad, costituisce circa il 15% della popolazione; cristiani, curdi e altre minoranze raggiungono circa il 13%, e il resto della popolazione è sunnita. Il regime di  Assad è laico, come lo era quello di Saddam Hussein in Iraq, e questa caratteristica è elemento di sostegno al regime di una parte consistente del paese. In effetti si comprende che vi siano state, rispetto alle manifestazioni anti-regime, delle contro-manifestazioni pro-regime, soprattutto da parte dei ceti cittadini. Non è un caso, d’altra parte, che Dera’a, polverosa e rurale città di confine, sia al centro della rivolta in Siria; qui vigono ancora i legami tribali che, innestati nella situazione economica di grande povertà e di disoccupazione, esprimono, insieme alla rabbia per la situazione economica depressa e per la durissima repressione, anche un profondo conservatorismo islamico che potrebbe costituire la porta d’entrata di un radicalismo islamico da molto tempo sconosciuto in Siria. La forza, comunque, su cui può contare il presidente al-Assad, è ancora una volta l’esercito, che finora è sempre stato al suo fianco, e questa è un’altra enorme differenza con la situazione che si era creata in Tunisia e in Egitto.

13. Il 17 febbraio, a Baghdad, si verificano i primi segnali di malcontento legati all’ondata di rivolta dei paesi arabi iniziata con le manifestazioni in Tunisia. In Iraq, e a Baghdad in particolare, il malcontento scoppia per i continui black out alla rete elettrica, per la mancanza d’acqua e contro una dilagante corruzione del governo al-Maliki. La protesta si espande velocemente da Baghdad verso le grandi città come Bassora e Kirkuk. Gli scontri sono violentissimi da subito; a Baghdad i manifestanti incendiano due palazzi governativi; a Kirkuk, Samarra e altre località curde i manifestanti danno alle fiamme alcuni edifici pubblici; a Baiji i rivoltosi attaccano la più grande raffineria del paese che, dopo l’esplosione di un grosso incendio, viene chiusa. Gli scontri proseguono per tutto febbraio e  marzo, e manifestazioni di protesta si registrano a Hilla, Nassiria, Falluja e sempre a Baghdad, nella cui piazza Tahrir si radunano continuamente i manifestanti.

 Anche la Giordania, per tutto febbraio, e in marzo, è attraversata da manifestazioni che spesso si trasformano in scontri violenti con le forze di polizia. Ad Amman, Irbid, Salt, Karak, i proletari e le masse proletarizzate scendono in piazza per protestare contro la povertà, la fame e la disoccupazione, soprattutto giovanile; ma le proteste sono anche contro la corruzione, che è un denominatore comune di tutti i governi. Re Abd Allah II di Giordania all’inizio di febbraio, nel tentativo di calmare le piazze, cambia il governo e sostituisce il premier Samir Rifa’i, preso di mira dalle proteste contro la corruzione, con l’ex premier Marouf Bakhit al quale dà mandato di avviare un processo di riforme. Ma è la solita musica: cambiamenti sostanziali non se ne vedono. Entra in scena con decisione la Fratellanza Musulmana che non attacca il re ma la regina Rania, accusata di spese eccessive, mentre una parte consistente della popolazione vive in condizioni di estrema povertà; sventola la bandiera della solidarietà con la “rivoluzione egiziana” e chiede una monarchia costituzionale che limiti il potere del re, su cui raccoglie un netto rifiuto.

Solo marginalmente, per ora, ma il vento di protesta lambisce anche l’Arabia Saudita. La minoranza sciita delle regioni petrolifere orientali manifesta pacificamente per chiedere il rilascio di attivisti imprigionati, ma i promotori della protesta vengono anch’essi arrestati. Re Abd Allah, nella speranza di prevenire eventuali manifestazioni di rivolta, promette sussidi per 35 miliardi di dollari a favore della popolazione, soprattutto come aiuti per i giovani disoccupati, prestiti per gli alloggi e aumenti di stipendio del 15% per gli impiegati pubblici. Tra le riforme previste, anche il voto alle donne (escludendone però la eleggibilità), confermando così che le misure di democrazia elettorale sono in realtà dei trucchi per calmare il malcontento delle masse e per continuare a dominare, sfruttando i privilegi di una classe dominante oscenamente ricca e sprecona.

14. Ai confini sud-est dell’Arabia Saudita, degli Emirati Arabi  Uniti e dello Yemen, l’Oman, dagli anni Ottanta, non è mai stato toccato né da ondate di protesta o di rivolta, né dal fondamentalismo islamico; in contrasto con il regime di tipo feudale e con l’isolazionismo del padre, l’attuale sultano Qabus bin Said al Said, ha avviato fin dal 1981 la “modernizzazione” delle istituzioni promulgando una Costituzione che consente alle donne il diritto di voto e anche di essere elette nel Consiglio Consultivo, una specie di assemblea parlamentare ma senza potere decisionale; nel 2002 concede il suffragio universale, nel 2004 viene eletta la prima donna a capo di un ministero con portafoglio, nel 2006 stringe l’alleanza con gli Stati Uniti firmando un accordo di “libero scambio” fra i due paesi. Il potere vero è completamente accentrato nelle sue mani, ma il contorno è molto più democratico di tanti altri sceiccati e regni mediorientali. Con l’inizio del 2011 e le rivolte che stanno buttando all’aria i regimi per decenni “stabili” nei paesi arabi, anche il tranquillo e “sicuro” Oman è stato scosso dalla febbre che ha fatto salire la temperatura sociale in tutta la vasta area. Alla fine di febbraio esplode la rabbia proletaria a Sohar, il porto principale dell’Oman. Qualche migliaio di manifestanti rivendica con forza aumenti salariali e posti di lavoro. La polizia interviene duramente, sparando, ci sono i primi morti; le manifestazioni si estendono anche alla capitale Mascat. Il 27 febbraio, a Sohar, vengono dati alle fiamme il palazzo del governo e il commissariato di polizia, saccheggiati i supermercati. Le proteste continuano anche in marzo; il sultano in dieci giorni cambia tre volte il governo, promette 50.000 posti di lavoro, sussidi di disoccupazione per 390 dollari al mese, il raddoppio delle paghe minime; ma ancora non basta, gli scioperi si estendono dal settore petrolifero a quello industriale, alle attività portuali e perfino ai servizi  di sicurezza.

15. In Libia, come già abbiamo accennato, dal 16 febbraio inizia un movimento di protesta a Bengasi. Anche qui è un particolare episodio che fa da detonatore: l’arresto di Fethi Tarbel, avvocato di una associazione di parenti dei prigionieri uccisi nella sparatoria avvenuta nel carcere di Tripoli nel 1996. Scoppia la rabbia dei manifestanti a Bengasi, ad al-Bayda e in diverse altre città; la polizia interviene sparando, si contano una decina di morti. E’ la scintilla che fa scoppiare l’incendio in tutta la Cirenaica, mentre a Tripoli si tengono manifestazioni pro-Gheddafi. Nel paese in cui Gheddafi dichiarava, solo qualche giorno prima delle manifestazioni represse nel sangue, che in Libia non si sarebbe mai verificato nulla di simile al terremoto che aveva fatto implodere i regimi di Ben Alì in Tunisia e di Mubarak in Egitto, iniziava in realtà una rivolta contro il regime di Gheddafi con accenti molto più politici che economici. Ed è in difesa di un regime certamente dispotico ma, nello stesso tempo, radicato in profondità in larghi settori della popolazione legati soprattutto alle tribù della Tripolitania, che  Gheddafi risponde alle proteste e alle manifestazioni di strada non con la promessa di riforme o di aumenti salariali, ma con la più dura e cannibalesca repressione. Nello scontro tra Bengasi e Tripoli, si rinnova l’antica rivalità di interessi legati ai clan e alle tribù che nella storia si sono sempre scontrate e che solo una dispotica dittatura - sebbene ammantata con l’aureola del “potere delle masse” contenuto negli illusori Comitati popolari decantati nel famoso “Libro Verde” attraverso i quali si attuerebbe la “vera democrazia socialista” - poteva sedare, tacitando di volta in volta le diverse esigenze che lo sviluppo capitalistico del paese faceva emergere. A questa politica di cosiddetta “democrazia diretta” era abbinata una politica economica molto simile a quella fascista, dunque corporativa, dove il lavoratore e l’imprenditore sono “soci” nella stessa azienda e si “ripartiscono” i guadagni, e sostenuta con tutta una serie di ammortizzatori sociali che “premiano” i lavoratori per la loro dedizione alla produzione e al buon andamento economico dell’azienda e, quindi, del paese. Che questo metodo funzionasse, con il suo corollario di repressione sistematica di ogni “opposizione” che mettesse in pericolo la “stabilità” del regime, è dimostrato dal fatto che da 40 anni il regime di Gheddafi si è mantenuto al potere ed ha, di volta in volta, a seconda delle convenienze interne ed esterne, assicurato agli alleati e alla cosiddetta “comunità internazionale”, un punto fermo d’equilibrio nello scenario africano e mediorientale, costantemente terremotato dal secondo dopoguerra in poi. Una popolazione relativamente poco numerosa e tendenzialmente benestante - date le risorse finanziarie provenienti dai profitti petroliferi che il regime di Gheddafi in parte utilizzava per alzare il tenore di vita dei libici - non dava abbastanza braccia per i bisogni dell’industria energetica in accelerato sviluppo. Perciò la Libia è stato paese di immigrazione; gli ultimi dati riferiscono che il numero dei proletari immigrati, provenienti dai paesi africani e dal medio e soprattutto estremo oriente, raggiungeva e superava abbondantemente il milione, il 15% dell’intera popolazione e circa il 50% della popolazione attiva.

Il movimento di protesta nato a Bengasi ed estesosi a tutto il paese, caratterizzato così fortemente da interessi politici contrastanti tra fazioni borghesi libiche, ha praticamente escluso il coinvolgimento del proletariato immigrato, gettandolo sempre più nella situazione di estremo pericolo, perché subiva solo gli effetti più negativi e rischiosi di quel che nel giro di poche settimane si è trasformato da rivolta pacifica in rivolta armata. Inoltre, i proletari immigrati dai paesi dell’Africa nera rischiavano ancor di più perché venivano scambiati per mercenari al soldo di Gheddafi, visto che il regime di Gheddafi, per sedare più velocemente possibile la rivolta della Cirenaica e dei rivoltosi di Tripoli, Misurata, Sirte, aveva assoldato qualche migliaio di mercenari dai paesi africani. L’unica via d’uscita immediata era quella della fuga - ed è ciò che è successo per tutto il mese di marzo - verso i confini con la Tunisia e con l’Egitto, attraversati i quali le centinaia di migliaia di proletari immigrati fuggiaschi dalla Libia hanno trovato ad accoglierli i fratelli di classe tunisini ed egiziani che, nonostante vivessero una povertà smisurata che la caduta di Ben Alì e di Mubarak non aveva certo fatto scomparire, hanno diviso con loro cibo, vestiario e quel poco che avevano, aiutandoli a ripartire per ritornare ai loro paesi d’origine: vero esempio di magnifica solidarietà proletaria di classe che fa ben sperare per la futura ripresa della lotta di classe finalmente fuori dalle paludi del nazionalismo, del corporativismo e dell’illusoria e soffocante democrazia dei potenti.

La dura reazione militare del regime di Gheddafi alla rivolta di Bengasi e delle città che ne hanno seguito l’esempio, arrivando a bombardare il “nemico interno”, equiparato ai traditori pagati dallo straniero (che indifferentemente è stato identificato in Al Qaeda piuttosto che nell’Imperialismo occidentale), è stata ed è, in realtà, una reazione che fa comodo ad alcuni paesi imperialisti, come la Russia, la Cina, la Germania e, in un primo tempo, all’Italia - che si sono smarcati rispetto agli altri circa la decisione di intervenire militarmente per “fermare il massacro della popolazione civile” da parte delle truppe di Gheddafi  - e rappresenta invece un’occasione di intervento militare (che nasconde sempre fini economici) per gli altri paesi imperialisti, come gli USA, la Francia, la Gran Bretagna e, al loro seguito, la Spagna, il Canada, la Danimarca, la Norvegia. Non è per nulla secondario il fatto che la Libia rappresenti l’ottavo paese per riserve di petrolio e che sia al 18° posto per la produzione di derivati del petrolio; come non è per nulla secondario il fatto che la posizione geografica della Libia, rispetto al Mediterraneo e rispetto all’Africa del Nord e dell’Africa sub-Sahariana, sia strategicamente centrale tanto da far gola ad ogni paese imperialista non solo europeo.

Il movimento di protesta in Libia è iniziato, come negli altri paesi, in modo del tutto pacifico e inerme; ma ben presto si è trasformato in rivolta armata, sebbene con armamenti raffazzonati. Nel giro di pochissimo tempo si è costituito a Bengasi un Consiglio Nazionale Libico con l’obiettivo di deporre Gheddafi e costituire un nuovo governo, e un nuovo regime, che è stato rapidamente riconosciuto dalla Francia. Ebbene, sono proprio la Francia e la Gran Bretagna, le due potenze imperialiste europee, appoggiate dagli Stati Uniti, che hanno forzato il Consiglio di Sicurezza dell’ONU perché rilasciasse una risoluzione che desse la copertura diplomatica ad un interventi militare da parte di paesi chiamati “volenterosi” disposti ad impiegare marine, aviazioni e risorse per andare a “proteggere” la popolazione civile libica sottoposta ai bombardamenti del suo stesso governo centrale. Una copertura che ha stabilito i limiti della no-fly zone e che non prevede l’occupazione del territorio libico da parte di truppe di terra di paesi “stranieri”. A differenza dell’Iraq, e dell’Afghanistan, dunque, le potenze imperialistiche non intendono impantanarsi in una situazione ingarbugliata e zeppa di punti interrogativi come si è dimostrata e sta dimostrando di essere la Libia di Gheddafi. L’azione militare di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna è accompagnata da una fittisma azione diplomatica sia verso Bengasi che verso Tripoli, sia verso le cancellerie delle altre potenze imperialiste, allo scopo di costringere prima o poi Gheddafi a cedere e ad andarsene in esilio - più o meno dorato - in un paese dal quale il Tribunale dell’Aia, che lo ha incriminato per strage di civili, non  possa chiederne l’estradizione. Ulteriore dimostrazione che ciò che sta a cuore ai briganti di Washington, di Parigi e di Londra, sta a cuore a tutte le capitali imperialistiche e anche a Gheddafi (come del resto a Ben Alì e a Mubarak): salvare la pelle, salvare i conti bancari, salvare i profitti; i “diritti umani”, i “diritti democratici”, sempre sbandierati come nobile vessillo, non sono che delle logore foglie di fico.

La Libia, nonostante non sia un paese così popoloso come l’Egitto, sta assumendo per le potenze imperialistiche mondiali un peso di notevole importanza e il fatto di “risolvere” la crisi libica volgendo in positivo per gli affari legati alle risorse energetiche gli attuali fattori “negativi” - la caparbia resistenza armata di Gheddafi e del suo regime, il distacco tattico di Germania, Cina e Russia da ogni coinvolgimento diretto, la presa di distanza della Lega Araba e dell’Unione Africana dall’intervento militare ecc. - sta diventando il punto nevralgico della diplomazia mondiale. Se Gheddafi cederà alla richiesta di andarsene dalla Libia, le potenze imperialistiche potranno utilizzare questo “successo” in tutta l’area molto più di quanto non possano fare con la “guerra al terrorismo di Al Qaeda” in Afghanistan e di quanto non abbiano potuto fare in Iraq dopo aver messo le mani su Saddam Hussein. Ma, per come stanno le cose, non sembra che Gheddafi si lasci “convincere” facilmente; anzi, la guerra di Libia potrebbe addirittura durare molto a lungo, con risvolti di tendenziale separazione dei territori tra Cirenaica (dove è situata la gran parte dei pozzi petroliferi e dalla quale si è iniziato a vendere nuovamente il petrolio con la mediazione del Qatar), Tripolitania e Fezzan. Si prolungherebbe in questo modo una situazione di estrema instabilità che potrebbe essere provocata addirittura appositamente, offrendo il fianco ad un intervento politico e militare imperialistico più incisivo per il controllo più diretto delle fonti petrolifere in vista di crisi ben più vaste e profonde di quelle attuali, crisi che tendono verso una terza guerra mondiale.

Nella sovrapposizione di interessi che si è creata nella situazione attuale, l’imperialismo italiano, storico colonizzatore della Libia, ha tentato in tutti i modi di salvaguardare i propri specifici interessi sostenendo e difendendo internazionalmente il colonnello libico sia al fine di trarre il maggior vantaggio possibile dagli investimenti reciproci, assicurati attraverso le grandi imprese come Eni, Fiat, Impregilo, Finmeccanica ecc., sia nel ruolo di traghettatore verso i potenti alleati occidentali i quali non hanno mai avuto buoni rapporti con Tripoli. Ma per il petrolio e i petrodollari si poteva anche dimenticare che la Libia era stata inclusa nella lista degli “Stati canaglia” e voltare la testa da un’altra parte di fronte alla sistematica repressione ed eliminazione degli avversari politici di Gheddafi. La sollevazione di Bengasi rispetto a Tripoli, mentre ha favorito la mossa anglo-francese e americana di “intromissione negli affari interni di un paese sovrano”, ha messo in grave difficoltà l’Italia. Quest’utlima, per un primo tratto di strada, ha tentato di fiancheggiare Tripoli, non condannando il regime di Gheddafi nella sua durissima repressione delle manifestazioni di protesta, “non disturbandolo”, per poi forzatamente accodarsi alle decisioni di Washington, Parigi e Londra relativamente all’intervento militare. Considerava infatti più conveniente mettere a disposizioni tutte le basi italiane necessarie alle missioni militari in Libia, appoggiando, senza bombardare direttamente, le operazioni  militari anti-Gheddafi, piuttosto che stare dalla parte del colonnello libico - vista la grande amicizia suggellata dal mafioso baciamano di Berlusconi - o di tenersi in disparte, come ha fatto la Germania, limitando al massimo il proprio coinvolgimento al sostegno “umanitario” dei profughi. Come spesso nella sua storia, l’imperialismo italiano ha continuato ad oscillare tra il cipiglio del potente che vuole agire in piena autonomia e lo scodinzolamento del furbetto che segue l’ombra dei veri  potenti; l’obiettivo è sempre lo stesso: sedersi al tavolo dei grandi per accaparrarsi una fettina del bottino. Nel frattempo, il governo di Roma fa la voce grossa contro gli immigrati che dalla Tunisia scappano a causa della miseria e dalla Libia scappano a causa della guerra.   

16. I forti contrasti tra le potenze imperialistiche non vanno dimenticati, anche se gli slogan della “lotta contro il terrorismo internazionale”, contro il “fondamentalismo islamico” e a “difesa delle popolazioni civili” possono apparire come l’espressione di interessi “generali”, di fronte ai quali la “comunità internazionale” sarebbe disposta a mettere da parte gli interessi particolari di ciascuna potenza. Per quanto nei diversi paesi si continui a sostenere che l’era del petrolio prima o poi finirà, e si dovranno trovare altre fonti energetiche per far funzionare gli apparati produttivi capitalistici, il petrolio, e insieme ad esso il gas naturale, restano al centro della funzionalità vitale degli apparati della produzione capitalistica in tutto il mondo. E, dato che la vasta area che va dal Medio Oriente al Nord Africa rappresenta il grosso della produzione e delle riserve di petrolio del mondo, è inevitabile che i contrasti inter-imperialistici si concentrino in questa parte del mondo, siano i paesi diretti da governi confessionali e fondamentalisti oppure laici e modernizzati.

La pressione dell’imperialismo su questi paesi, perciò, non diminuirà mai, e questo il proletariato lo sta vivendo sulla propria pelle attraverso uno sfruttamento bestiale, attraverso una repressione sistematica dei poteri locali e internazionali, attraverso la guerra tra fazioni locali o, per procura, degli interessi imperialistici stranieri. Il proletariato palestinese, dalla fine della seconda guerra mondiale in poi, il proletariato libanese per decenni, e il proletariato iracheno e iraniano negli ultimi trent’anni, per giungere ai proletari di Tunisia, Egitto, Libia, Giordania e di tutti i paesi coivolti nelle più recenti rivolte contro la miseria, i salari da fame e le guerre, lo vivono nelle proprie condizioni di vita quotidiana ed è a queste condizioni di schiavi affamati e stritolati dalla fatica  e da ogni genere di oppressione che si ribellano. E’ la forza magmatica di un movimento materiale incontenibile delle forze produttive che il capitalismo, nel suo forsennato sviluppo, non riesce più a soddisfare e a controllare - se non con una sempre più dura e cinica repressione - che annuncia il futuro della lotta di classe, di una lotta senza quartiere contro tutte le forze di conservazione e di dominio borghese, non importa come mimetizzate.

17. I proletari d’Europa e d’America, i proletari di Russia e Cina, che alla storia del movimento operaio internazionale hanno dato tanto, oggi devono guardare ai giovani, combattivi, temerari e indomabili proletari dei paesi arabi in rivolta come alle nuove leve di un esercito proletario internazionale che si sta formando nuovamente sul terreno della lotta di classe. E’, questa, una lotta non ancora guidata dalla coscienza rivoluzionaria che solo il partito comunista rivoluzionario può rappresentare ed esprimere; un partito che non c’è ancora e che va formato sul solco dei bilanci dinamici delle rivoluzioni e, soprattutto, delle controrivoluzioni. E’, questa, una lotta di tenace resistenza quotidiana al capitale pur se non organizzata in associazioni disciplinate ed esperte: appunto, come un magma vulcanico, la rivolta di segno proletario è esplosa travolgendo al suo passaggio tutto ciò che era stato costruito per contenerla, controllarla preventivamente e soffocarla. Ma questo pur generoso disprezzo della paura che i proletari dei paesi arabi in rivolta trasmettono al proletariato mondiale, i proletari d’Europa che sono geograficamente e storicamente più vicini a loro non lo recipiscono e, quindi, non lo condividono. I Proletari d’Europa sono stati intossicati dalla democrazia e dal collaborazionismo interclassista, e sono stati per almeno quattro generazioni dalla vittoria della controrivoluzione staliniana,  organizzati nel sindacalismo tricolore, politicamente incanalati nella difesa dell’economia nazionale e nella difesa dei valori borghesi di “patria”, “famiglia”, elezioni e parlamento, illusi da un benessere consumistico e sprecone e imprigionati nei vizi e nelle abitudini piccoloborghesi meschinamente appiccicate al proprio orticello, alla proprietà privata, all’interesse personale, alla diffidenza verso il prossimo, e soprattutto lo straniero. I proletari d’Europa hanno diffuso nel mondo, loro malgrado, l’immagine di una proletariato benestante, soddisfatto del suo tenore di vita e di una sostanziale pace sociale. L’opulenta borghesia imperialista, che ha continuato a gonfiare i propri profitti sfruttando bestialmente il lavoro di masse salariate schiavizzate coi metodi più brutali nei paesi della periferia dell’imperialismo, ha corrotto i  proletari delle proprie nazioni non solo con le illusioni democratiche, con lo “Stato di diritto”, con un benessere crescente derivante da una civiltà “superiore”, ma distribuendo ammortizzatori sociali e piccoli benefici ricavati dai sovraprofitti derivanti dal supersfruttamento delle colonie militarizzate, ieri, e dei paesi ex coloniali ma egualmente sottoposti ad una colonizzazione meno evidente ma più profonda ,come quella del capitale finanziario, oggi.

I proletari dei paesi imperialisti, con la loro passività nei confronti dei proletari che si sono ribellati in questi mesi nei paesi arabi, e con la loro diffidenza nei confronti dei proletari immigrati, mostrano una arretratezza disarmante rispetto alla difesa dei loro stessi interessi immediati. I proletari immigrati, che tutti i borghesi di questo mondo trattano come clandestini e delinquenti da reprimere, in realtà rappresentano per i capitalisti un fattore di vitale importanza per i loro profitti: sono pagati molto meno dei proletari autoctoni per lo stesso tipo di mansione, sono spessissimo pagati in nero e perciò ricattabilissimi, sono licenziabili in ogni momento senza tanti problemi burocratici, sono utilizzati nei lavori più pericolosi in cui normalmente le norme di sicurezza sono al di sotto di ogni minimo standard, insomma sono una forza lavoro talmente flessibile alle esigenze del capitale che al capitale, in definitiva, costa poco o niente. Inoltre, esercitano una pressione formidabile sulle condizioni di vita e di lavoro dei proletari autoctoni, che va a rafforzare la pressione che già viene esercitata sul mondo del lavoro dalle masse di disoccupati esistenti normalmente nella società capitalistica. L’economia capitalistica, si sa, non potrebbe funzionare e svilupparsi senza lo sfruttamento dei lavoratori salariati, ma ci guadagna di più se ai lavoratori salariati normalmente assunti e trattati secondo regole legislativamente definite, si accompagnano masse consistenti di lavoratori salariati instabili, flessibili, alla mercé delle esigenze delle aziende la cui attività dipende sempre più dall’andamento del mercato, quindi dalla concorrenza mercantile.

La vita di masse umane gigantesche, della stragrande maggioranza della popolazione mondiale, è messa così nelle mani di un’entità impalpabile, invisibile, imprendibile, ingestibile, incontrollabile: il mercato! Anche se non ne hanno coscienza, i proletari che lottano in difesa delle loro condizioni di vita e di lavoro lottano contro una forza “invisibile” che ha le sembianze di una divinità per il potere eccezionale che possiede: il dio denaro, la forza del capitale. Ma è una forza che si materilizza in mezzi di produzione e mezzi di sussistenza, in case, strade, condutture, mezzi di trasporto, vestiario, mobili ecc., ossia in mezzi necessari alla  vita che la stragrande maggioranza della popolazione mondiale non possiede perché sono nelle mani di una piccolissima minoranza di capitalisti, di borghesi che dominano l’intera società attraverso la proprietà privata, l’appropriazione privata della ricchezza prodotta dal lavoro salariato di miliardi di braccia umane, lo Stato borghese e le sue forze armate. Quando il proletariato si ribella alle sue condizioni materiali di vita, di schiavo salariato, si ribella in realtà alle condizioni in cui il potere borghese lo costringe con la forza e la violenza. Ne ha piena coscienza soltanto il partito comunista rivoluzionario che si basa sul risultato storico delle lotte di classe delle masse proletarie da quando esistono. Se ne può rendere conto una piccola minoranza di proletari che dalle lotte sul terreno della difesa immediata di classe trae gli elementi politici più generali che la collegano alla storia delle lotte proletarie in tutto il mondo. Ma è il movimento materiale delle grandi masse, spinte inesorabilmente a rompere gli equilibri, i vincoli e i limiti che il potere borghese costruisce e rafforza sempre più a difesa del suo dominio, la forza storica che aprirà ai proletari di tutto il mondo la strada della propria emancipazione. Ed ogni lotta proletaria, ogni rivolta proletaria contro l’ordine costituito, anche se impregnate inevitabilmente dalle illusioni di una giustizia sociale raggiungibile attraverso i metodi democratici, fa intravedere la strada d’uscita dalla crisi sociale in cui il capitalismo ciclicamente precipita ogni paese: la via della rivoluzione proletaria e comunista, cioè lo sconvolgimento generale e profondo che non si ferma agli effetti negativi del capitalismo, ma che va alla radice, alle cause vere delle crisi, della miseria, della disoccupazione, della vita di stenti, delle guerre, cioè il modo di produzione capitalistico e il potere borghese eretto su di esso.

I proletari rivoltosi dei paesi arabi stanno riconsegnando ai proletari di tutto il mondo questo grande insegnamento che i fratelli di classe d’Europa hanno dato per primi fin dalle loro prime lotte contro i capitalisti e che, con la Comune di Parigi e la Rivoluzione d’Ottobre in Russia hanno portato alle vette della rivoluzione mondiale, cristallizzando nel tempo la stella polare del movimento operaio internazionale.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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