Insegnamenti e conferme della nuova storia delle lotte proletarie

(«il comunista»; N° 121; luglio 2011)

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A dimostrazione del fatto che nel partito, pur sottoposto alla pressione di tendenze interne contrastanti con la continuità teorico-politica e tattico-organizzativa alla quale le migliori forze dedicavano dalla sua ricostituzione nel secondo dopoguerra tenacemente le proprie energie – tendenze devianti che, scontrandosi, portarono alla sua crisi esplosiva del 1982-84 – coglieva comunque ogni  occasione per ribadire la corretta interpretazione degli avvenimenti dello svolgimento storico di quegli anni e la giusta linea politica sulla quale il partito doveva muoversi, vogliamo ripubblicare un articolo che i lettori del nuovo “programma comunista” dovrebbero apprezzare molto. Il titolo è: “Insegnamenti e conferme della nuova storia delle lotte proletarie”, pubblicato nel n. 8, 19 aprile 1980 dello stesso giornale.

Nell’incipit, la valutazione che qui si dà delle lotte proletarie che, in quegli anni, scuotevano i paesi meno avanzati e che offrivano “insegnamenti e conferme” al proletariato dei paesi più avanzati, dei paesi di vecchio imperialismo, proviene da una visione dialettica dello sviluppo della lotta di classe a livello internazionale; a differenza della visione schematica e “logica” che il nuovo “programma comunista” esprime, ad esempio, quando afferma categoricamente, nel suo articolo “Medioriente e Maghreb” di cui parliamo in questo stesso numero, che I paesi capitalisticamente meno avanzati non ci mostrano affatto la via maestra e il proletariato, anche nei suoi contenuti internazionalisti e internazionali, nella sua immediatezza economica, non  può fare dei salti storici senza il partito”. E’ tale l’arroganza di chi si sente investito dalla” superiore civiltà” dei paesi più avanzati, che ci si scorda bellamente che è stato il proletariato dell’arretrata Russia a mostrare la via maestra della rivoluzione proletaria e comunista al proletariato della civilissima Europa.

Prendere l’occasione delle rivolte proletarie e contadine nei paesi arabi di questi mesi per negare categoricamente che si possa ripresentare una situazione storica come quella del 1917, che cioè sia il proletariato dei paesi capitalisticamente meno avanzati, un domani, a mostrare la via rivoluzionaria ai proletari intossicati fino al midollo di collaborazionismo, di democraticismo, di legalitarismo, di pacifismo come sono i proletari dei paesi capitalisticamente  più avanzati, significa essere fuori del tutto da quel materialismo dialettico di cui ci si riempie la bocca.

Altra cosa, ovvia per i marxisti, è dire che la lotta decisiva per la vittoria internazionale della rivoluzione proletaria e comunista sulle classi dominanti borghesi e sul capitalismo sarà quella del proletariato europeo e americano!

I “salti storici” il proletariato, in realtà, può anche farli – come ha dimostrato la Comune di Parigi – giungendo al potere e ad instaurare la propria dittatura di classe (lo affermano Marx ed Engels!), ma non sarà in grado, senza il partito di classe, di mantenere il potere proletario, di  incoraggiare e sostenere il movimento rivoluzionario a livello internazionale ed avviare vittoriosamente la trasformazione sociale dal capitalismo al socialismo e al comunismo.

Il nuovo “programma comunista”, bontà sua,  ammette che il proletariato dei paesi capitalisticamente meno avanzati possa avere dei “contenuti internazionalisti e internazionali”, ma gli nega la forza storica che corrisponde a quei contenuti, condannandolo ad attendere, magari altri 9 decenni di degenerazione democratica e nazionalista come quelli che sono già trascorsi dalla rivoluzione russa, che sia il proletariato dei paesi industrializzati a riprendersi dalla sua lunga e profonda malattia borghese…

 


 

Il paese industrialmente più evoluto non fa che presentare al meno evoluto l’immagine del suo proprio avvenire”, scriveva Marx nella prefazione alla Ia edizione del Capitale, 1867. Dal punto di vista degli sviluppi della lotta di classe e del bilancio delle sue più feconde esperienze, non di rado accade però l’inverso: è il paese meno avanzato che presenta l’immagine del suo proprio avvenire al più avanzato.

E’ stato vero 63 anni fa per la Russia ancora zarista; è vero oggi per i paesi che da poco hanno portato a compimento, sull’onda delle lotte di emancipazione nazionale contro l’imperialismo e il colonialismo, la loro rivoluzione borghese, o, avendola compiuta già da tempo, ne hanno visto frenati gli sviluppi dal concorso di molteplici fattori ritardanti interni ed esterni; paesi che abbracciano nel loro insieme una percentuale enorme della popolazione (non parliamo poi della superficie) del pianeta.

Il giovanissimo ma numericamente già consistente proletariato di una gran parte di questi paesi ricorda, per condizioni di vita e per forme di lotta, assai più il suo fratello di classe ai tempi della “prima rivoluzione industriale”, che quello dell’Europa o dell’America d’oggi. Un rapido e violento processo di industrializzazione prima, i drammatici squilibri causati dall’inserimento degli stessi paesi nel mercato mondiale e dalle sue ripercussioni in tempi di boom e, a maggior ragione, in tempi di crisi, poi, e il brusco e profondo rivoluzionamento dei modi di vita tradizionali, che ne è derivato e che non cessa di derivarne, lo spingono sull’arena dei conflitti sociali “nudo e spoglio” come il proletariato per definizione, quello che, nell’immagine di Marx, avendo portato sul mercato l’unico bene in suo possesso – la propria pelle – ha solo da attendere che gliela concino.

Nessuna “riforma”, nessuna “previdenza”, nessuna “garanzia”, insomma nessuna patina d’oro sulle sue catene di acciaio, maschera o attutisce la violenza dell’impatto delle nuove condizioni di vita e di lavoro dei “bagni penali” della grande industria e delle sue appendici piccole e medie o, ai margini e davanti alle porte delle fabbriche, spesso ostinatamente chiuse ai nuovi venuti, negli ergastoli delle favelas brasiliane e delle bidonvilles arabe o turche. Non ci sono, qui, illusioni da perdere o speranze alle quali dire addio: esse non hanno neppure avuto il tempo di nascere, in un mondo in cui nessun velo pietoso copre la cruda realtà dei contrasti di classe e nessun balsamo rende meno lancinanti le piaghe del quotidiano sfruttamento. E, in quelli che la retorica o la pseudo-scienza borghese chiama “paesi emergenti”, non solo accade che il divario rispetto ai paesi già “emersi” da lunghi decenni vada crescendo invece di ridursi, a tutte spese dei nuovi “dannati della terra”, ma la loro miseria aumenta in assoluto, o flagelli moderni della fame e delle epidemie oscurano di gran lunga quelli della tradizione, il tormento di lavoro sotto la sferza dell’accumulazione accelerata di capitale si centuplica.

Perciò, qui, le lotte assumono la forma di violente, improvvise esplosioni; perciò il confine tra sciopero e rivolta è fluido e rapidamente superato, e teatro dello scontro fra capitale e lavoro è la piazza assai più che la fabbrica. Perciò quando le braccia proletarie si incrociano sospendendo il lavoro intorno alle macchine, sono interi rioni e perfino città improvvisate intorno a stabilimenti sorti dal nulla come mostruosi fantasmi, a mettersi in moto in uno slancio che è poco dire di solidarietà verso i forzati delle catene di montaggio, perché è di totale e diretta identificazione con la loro causa. Perciò l’incendio della guerra di classe investe e divora esattorie e gabelle, commissariati di polizia e prefetture, case del comune e palazzi del governo, sedi di partito e sedi di falsi sindacati operai.

Chiusi nell’orizzonte della “civiltà moderna” nelle sue espressioni più sofisticate – un orizzonte apparentemente più vasto, in verità miseramente rimpicciolito dall’azione capillare dei mass media borghesi (sia che parlino, sia che, come spesso avviene a proposito di simili “episodi”, pratichino la più rigorosa congiura del silenzio) – noi proletari dell’Occidente “avanzato” stentiamo a riconoscere, ma è gran tempo che riconosciamo, in quelle eruzioni elementari non soltanto il segno dell’inconciliabilità degli antagonismi di classe, della loro inseparabilità dall’esistenza del modo di produzione capitalistico, quindi del loro esplodere insopprimibile sotto la spinta di determinazioni materiali più forti di qualunque remora soggettiva, ma l’immagine della condizione alla quale è prima o poi inevitabile che, nel crollo di tutte le “certezze” e le “guarentigie” artificiosamente costruite dalla classe dominante a salvaguardia dell’ordine e dei suoi mercantili valori, venga a trovarsi l’intera classe dei paesi “progrediti” e in cui si trova già immersa, “emarginata” e invelenita, una sua parte sostanziosa, il sempre più esercito industriale di riserva.

Sia che li riconosciamo, sia che tardiamo a distinguerli, quei segni e quell’immagine sono del resto destinati ad affollarsi sempre più intorno agli antichi epicentri del capitalismo, il Vecchio e il Nuovo Mondo, irrompendo nel primo dall’intero arco del Mediterraneo meridionale e orientale, nel secondo per il lungo corridoio dell’America centrale e, in ogni caso, attraverso i mille canali del mercato delle merci e dei capitali e attraverso i mille fili tessuti dall’emigrazione operaia.

I borghesi dividano pure il mondo, per confondere le idee dei proletari, in Primo, Secondo, Terzo, Quarto: la lotta di classe ignora questi compartimenti stagni. Il nuovo potente sciopero dei metalmeccanici di São Paulo e il lungo sciopero dei lavoratori dei trasporti pubblici di New York hanno paralizzato contemporaneamente ai primi di aprile le gigantesche concentrazioni urbane di due paesi di ben diverso grado di sviluppo capitalistico: la fine del secondo è stata largamente contestata dalla “base” allo stesso modo della conclusione – avvenuta quando esso appena cominciava – dell’interminabile sciopero dei metallurgici inglesi. Per noi, queste “coincidenze” al di sopra di interi continenti ed oceani è qualcosa di ben più importante che un simbolo.

 

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Ma v’è un’altra ragione che deve farci guardare alle condizioni di vita e, soprattutto, di lotta della classe operaia dei paesi della “periferia” capitalistica – ammesso che questo termine possa mantenere a lungo la sua validità – per trarne fecondi insegnamenti.

Quella classe operaia soggiace alle leggi che governano in tutto il mondo lo sfruttamento della forza lavoro ad opera del capitale scontrandosi per giunta con una borghesia a fianco della quale ha combattuto contro le vecchie classi dominanti e contro l’imperialismo di cui queste erano generalmente le servili alleate. Borghesia però, che, lungi dall’avere la minima intenzione di mostrargliene “gratitudine”, ha mille motivi economici e politici, materiali e di classe, per imporle una disciplina sul lavoro e nella società altrettanto severa (spesso più severa) di quella che i padroni del vapore solevano instaurare e mantenere ai tempi del passaggio dall’artigianato alla manifattura e di qui alla grande industria capitalistica. E, se non lo facesse, le ricorderebbe la necessità imperiosa di farlo l’imperialismo – di occidente e di oriente – al quale essa stessa si è legata a filo doppio.

Giunti in ritardo sulla scena del mercato mondiale, e costretti a correre più veloci dei loro più antichi colleghi di classe (e attuali concorrenti), i giovani capitalismi di oggi uniscono alla rozza brutalità dell’epoca di ferro e fuoco dell’accumulazione primitiva, nel trattamento della forza lavoro nazionale e di quella immigrata di cui generalmente si servono ad integrazione della prima, la brutalità organizzata, la “blindatura” aperta o democratica proprie dell’epoca di ferro e fuoco del capitalismo imperialistico, decadente, parassitario e, nella stessa misura, incline a preferire i metodi della violenza dichiarata a quelli della persuasione più o meno assortita di intimidazione e, se non basta, di terrore.

O essi si sono dati le forme politiche della dittatura borghese a partito unico (e un partito che si confonde con l’esercito o ne è la diretta e proclamata filiazione), con sindacati cosiddetti operai direttamente legati allo Stato o, che è lo stesso, del partito di Stato.

O sono dei totalitarismi “imperfetti” perché non nati da una rivoluzione nazionale e da una guerra nazionale vittoriose, e, non potendo farne a meno per questioni di vita o di morte, allentano a intervalli ricorrenti le maglie della militarizzazione collettiva concedendo alla classe operaia margini ristretti di libertà di movimento nel quadro di una struttura tuttavia rigida che, per reggersi restando tale, ha bisogno di periodiche iniezioni di “consenso”. Lo sciopero vi è quasi sempre e dovunque proibito; il diritto di associazione non vi è riconosciuto o, quando lo è, vige per una breve pausa di respiro fra due condanne al bando.

In tali condizioni, la lotta di classe, già di per sé esplosiva per le ragioni sopra illustrate, da una parte si scontra direttamente, anche a livello umilmente rivendicativo, con lo Stato nazionale borghese e le sue branche periferiche, tendendo perciò ad assumere rapidamente una colorazione politica; dall’altra, in mancanza del veicolo precostituito di organizzazioni classiste indipendenti, è prima o poi costretta a tentar di crearsele per lo più clandestinamente come ai vecchi buoni tempi della rivoluzione industriale, quando l’associazionismo operaio era fuori legge e nasceva nell’ombra e coi riti delle sette segrete.

Che questi organismi di lotta a generazione spontanea non possano non raggruppare delle minoranze operaie d’avanguardia, quindi in un modo o nell’altro politicizzate, è evidente e, si può ben dire, scontato; del resto la storia delle origini del movimento sindacale dei lavoratori non conosce dovunque nulla di diverso da situazioni e soluzioni del genere.

Ma appunto questo doppio aspetto politico che le lotte proletarie e le loro forme di organizzazione tendono ad assumere nei paesi capitalisticamente meno avanzati, muovendosi fuori delle grandi centrali sindacali, anticipa il percorso che esse dovranno compiere – come se ne vedono già le prime fragili e confuse esperienze nel Vecchio Mondo – anche nei paesi capitalisticamente più avanzati. Ne anticipa il percorso man mano che, come previsto da noi sulla scorta della generale diagnosi marxista del ciclo storico presente, la democrazia blindata porterà avanti il processo di integrazione  anche del sindacato nelle maglie dello Stato, riducendo ad un minimo sempre decrescente i margini di manovra che la classe dominante, una volta consolidatosi il suo dominio, aveva creduto necessario concedere alla classe dominata, non certo per benevolenza, ma per evitarne o almeno ritardarne le esplosioni.

E’, per la classe lavoratrice, un elemento di forza, perché rende più difficile alle sue lotte di chiudersi in un guscio angustamente solo trade-unionista, minimalista e contingente; è un elemento di debolezza nella misura in cui l’estremismo infantile e il velleitarismo di falsa sinistra non possono non esercitare sui nascenti organismi operai di resistenza economica e di autodifesa classista la pressione disgregatrice e disorientatrice di un dottrinarismo tanto inconsistente quanto chiassoso e, peggio, di una vocazione anti-organizzativa, anti-centralista, immediatista, dura a morire.

Battersi per valorizzare le sane spinte politiche di classe nascenti dalla lotta nelle condizioni che il capitalismo va sempre più creando ai proletari in tutto il mondo, e dal senso degli organismi “eterodossi” che questi ultimi cercano faticosamente di costruire nello sforzo di liberarsi dal peso ideologico e organizzativo schiacciante dell’opportunismo; battersi per impedire nello stesso tempo sia che quelle spinte fertili e generose si convertano in fattori di disorganizzazione, discriminazione e disunione nelle file dei salariati, sia che quegli organismi si trasformino in impotenti “parlamentino del lavoro”, in palestre di retorica falsamente rivoluzionaria: sono tra i più difficili, ma anche più vitali problemi che il partito della rivoluzione comunista è e sarà chiamato a risolvere come premessa sine qua non della conquista delle masse alla decisiva battaglia rivoluzionaria.

Così dal mondo svegliatosi più di recente alle “glorie” del capitalismo giungono a noi sollecitazioni e insegnamenti destinati ad illuminarci la via con le folgoranti conferme, date dai fatti nel loro brutale linguaggio, della verità e insostituibilità del marxismo.

 

(“il programma comunista”, n. 8, 19 aprile 1980)

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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