La febbre borsistica e finanziaria, segno della ricaduta dell’economia mondiale

(«il comunista»; N° 122; ottobre 2011)

 Ritorne indice

 

 

Una vera burrasca ha scosso le borse e i mercati finanziari nel cuore d’agosto. Crolli degli indici borsistici del 5% e oltre per seduta hanno fatto parlare i media di “panico delle Borse” e hanno obbligato i dirigenti politici dei grandi Stati europei ad interrompere le loro vacanze e a moltiplicare le dichiarazioni lenitive per cercare di “rassicurare i mercati”. Ma, passato agosto, le cose non sono andate meglio: la forte oscillazione delle borse è diventata quasi la norma, mentre i forti incrementi del debito pubblico mettono in croce un paese dopo l'altro, dalla Grecia al Portogallo, dall'Irlanda all'Italia, lambendo anche la Francia. Nonostante ciò si accumulano una sull'altra dichiarazioni per rassicurare quelli che sono ormai i nuovi dei, appunto i mercati.

Fatica sprecata! I grandi e i piccoli operatori di Borsa hanno creduto di rivivere le ore nere della tempesta seguita nel 2008 al fallimento della banca Lehman Broters. Nouriel Roubini, il famoso “Dottor Catastrofe”, esperto nell’approfittare di una reputazione acquisita grazie alla sua previsione nel 2006 di una prossima grave crisi economica negli USA, dichiarava lugubremente ai giornalisti del Wall Street Journal, l’organo degli ambienti finanziari americani: “Marx aveva ragione. Il capitalismo può autodistruggersi” (1).

La burrasca è incominciata in seguito delle nuove inquietudini sulla capacità della Grecia nel rimborsare i suoi debiti: una insolvenza dello Stato greco avrebbe gravissime conseguenze sulle banche di questo paese, sulle banche europee di cui queste ultime sono spesso delle filiali e, di rimbalzo, sull’euro. L’inchiostro della firma dell’accordo per un ennesimo “piano di aiuto alla Grecia” (in realtà: un piano di aiuto alle banche) deciso in un vertice d’urgenza, si era appena asciugato, che la burrasca riprendeva vigore a causa dei timori che si addensavano sull’Italia.

Poi ci fu l’abbassamento dell’indice di affidabilità degli Stati Uniti, da parte di un’agenzia di rating, a causa del loro debito pubblico che provocò uno choc mondiale; gli Stati Uniti, prima potenza economica del pianeta e centro motore del capitalismo mondiale, sono anche il primo mutuatario  mondiale e il debito pubblico americano (obbligazioni, buoni del tesoro ecc.) gioca un ruolo chiave nell’equilibrio e nei flussi finanziari mondiali.

Ora, i detentori dei titoli di stato americani, che siano delle banche, degli Stati o dei privati (2), corrono il rischio di vederseli svalutati; avranno ovviamente la tendenza ad allontanarsi dai titoli di debito americano per cercare titoli più sicuri (di più, molti istituti finanziari hanno statutariamente l’obbligo di tenere nel loro portafoglio solo dei “prodotti” che possiedono l’indice di affidabilità massimo, la famosa tripla A), e ciò renderà il finanziamento del debito americano meno facile, quindi più costoso: per attirare i compratori, i tassi di interesse dovranno essere più elevati. Ma un aumento dei tassi d’interesse americani rappresenta un freno alla crescita economica, già molto debole. Si vede, dunque, che l’abbassamento dell’indice di rating degli Stati Uniti ha potenzialmente delle conseguenze importanti su tutta l’economia internazionale. Le borse avevano appena digerito con fatica questo triste avvenimento, che inquietudini  circa la Francia e le sue banche fece decollare una nuova ondata di panico borsistico…

 

VERSO UNA RICADUTA DELL’ECONOMIA MONDIALE

 Top

 

I media e gli economisti borghesi hanno moltiplicato le “spiegazioni” più fantasiose della crisi borsistica e finanziaria attuale: maneggi di speculatori agenti nell’ombra, attacchi di finanziari anglosassoni ostili all’euro, diffusione di voci malevole, utilizzazione di programmi informatici per vendere e acquistare azioni ecc. In effetti, al di là degli aspetti contingenti, è il rallentamento dell’economia mondiale dopo molti mesi la causa reale dell’esasperazione di tutti i problemi finanziari e di indebitamento che fanno cadere le borse.

All’epoca della crisi economica del 2007-2008, i governi capitalisti hanno fatto ricorso in tutti i paesi ad un indebitamento massiccio: si trattava di salvare le banche minacciate dal fallimento, di preservare il sistema bancario indispensabile al funzionamento del capitalismo, e di rilanciare la macchina economica. Queste misure, più o meno importanti a seconda del paese, sono riuscite ad evitare l’affondamento economico e hanno permesso un rilancio, in generale ansimante, ma innegabile, della produzione. L’afflusso di liquidità ha avuto tuttavia l’effetto perverso di alimentare delle bolle speculative, sia sul mercato azionario che delle diverse materie prime; era il mezzo più rapido per le banche e le grandi imprese, comprese le grandi industrie (3), per ricostituire i loro profitti, in ragione dell’atonia di un mercato che non poteva assorbire, se non con grande difficoltà, ulteriore sovraproduzione di merci: quelli che i media denunciano come “speculatori” senza nominarli, sono spesso proprio le stesse grandi imprese, banche e istituti finanziari che vengono glorificati come dei campioni nazionali!

Tuttavia, dopo aver permesso di evitare almeno provvisoriamente la crisi economica, l’indebitamento degli Stati è diventato il problema sempre più urgente da risolvere, poiché pesa notevolmente sul budget dello Stato, tanto più quando il suo finanziamento diventa sempre più oneroso  a causa della “sfiducia” dei “mercati” (cioè degli investitori: banche, istituti finanziari ecc.). L’indice del debito in rapporto al PIL, che è normalmente pubblicato dai media, non ha un grande significato; ciò che conta è il servizio del debito, cioè quel che bisogna rimborsare ogni anno. Per esempio, il debito della Pubblica Amministrazione era in Francia nel 2010 equivalente a 82,3% del PIL (contro 83% in Germania, 91,6% negli Stati Uniti, 119% in Italia, 220% in Giappone) (4); ma gli oneri del debito (pagamento degli interessi dei prestiti) rappresentava nella legge finanziaria francese circa l’11% delle entrate fiscali (al secondo posto nel budget dello Stato, dopo la Scuola pubblica e prima della Difesa), mentre il servizio totale (oneri più rimborso del capitale prestato) corrispondeva al 40% circa delle spese (5): nei fatti, lo Stato chiede prestiti per rimborsare quel che deve!

Jacques Attali, il vecchio consigliere di Mitterrand che aspira ad essere il consigliere di Sarkozy, sentenziava in una intervista a Le Monde: “la sola cosa che avrebbe potuto risolvere il problema del debito (…), è o la guerra o l’inflazione o la crescita. Le prime due soluzioni non sono augurabili. Occorre dunque (…) la crescita” (6), Il problema è giustamente che la crescita non è all’orizzonte, mentre all’orizzonte, al contrario, c’è un nuovo tuffo nella recessione che si disegna alla scala mondiale.

Negli Stati Uniti, dove gli istituti di statistica hanno recentemente concluso che la caduta della produzione più forte della crisi era stata superiore a quanto stimato finora, e dunque la ripresa meno vigorosa (ciò che ha fatto dire ad alcuni economisti che le misure di rilancio erano troppo deboli), le cifre del PIL  per i primi due trimestri 2011 mostravano già un forte rallentamento dell’attività economica. Ma altri indici, più recenti, sull’attività industriale, sembrano indicare un suo prossimo calo (7), quando il numero di coloro che cercano lavoro resta elevato (il tasso di disoccupazione ufficiale è intorno al 9%, ma il tasso di disoccupazione reale è piuttosto del 16-17%!) (8) segnando il marasma dell’economia: con ogni probabilità gli Stati Uniti sono sul punto di entrare in recessione se non vi sono già entrati!

In Francia, l’INSEE ha annunciato che nel secondo trimestre la crescita economica era stata dello... 0%, mentre le cifre della produzione industriale indicavano un rinculo in marzo, aprile e soprattutto in giugno, non compensato dai rialzi di maggio e luglio: le previsioni di crescita annunciate dal governo (più del 2% nel 2011) saranno evidentemente disattese, ciò che rafforza la sfiducia degli ambienti finanziari internazionali sulla capacità dello Stato francese difar fronte ai suoi impegni.

La Germania, campione delle esportazioni, della crescita e motore economico d’Europa, ha sorpreso tutti annunciando una crescita del suo PIL degno della Francia (0,1%) e, peggio ancora, un rinculo della sua produzione industriale in giugno (-0,6%) e un deficit del suo commercio estero a causa del calo delle sue esportazioni! In Italia, che soffre di mancanza di crescita economica da molti mesi, le ultime previsioni, già riviste diverse volte mese dopo mese al ribasso, danno per quest’anno un aumento del PIL allo 0,3%, e non è detto che a ottobre o a novembre non vi sia un’altra revisione al ribasso (9).

Gli indicatori dell’OCSE, che forniscono una previsione dell’evoluzione economica nei mesi a venire, “continuano a segnalare un rallentamento dell’attività per il mese  di giugno 2011 nella gran parte dei paesi dell’OCSE e delle grandi economie dei non membri”. Il rallentamento sarà significativo anche per paesi come la Cina, il Brasile, l’India, spesso presentati come i nuovi motori dell’economia  mondiale, come già per gli Stati Uniti e per i paesi europei (10): in realtà, questi paesi “emergenti” dipendono sempre dai mercati dei grandi paesi capitalisti: Stati Uniti, Giappone, Europa.

 

LE SOLUZIONI BORGHESI E LE MENZOGNE RIFORMISTE

Top

 

Di fronte a queste gravi crisi borsistiche e finanziarie,  responsabili economici e politici d’Europa e del mondo si sono lanciati in piani di austerità e di misure di rigore budgetario per “equilibrare i conti”. La Grecia è servita come banco di prova, prima che la ricetta fosse applicata al Portogallo, all’Irlanda e ad altri paesi come la Romania. Le misure di austerità, con intensità al momento più debole, sono state in seguito adottate dalla Spagna, dalla Gran Bretagna e dall’Italia.

Tuttavia, queste misure che colpiscono essenzialmente i proletari ma che toccano anche strati della piccola borghesia, trainano inevitabilmente un rallentamento economico, o addirittura una brutale caduta nei paesi che sono costretti a prenderele (la produzione industriale in Grecia è così precipitata del 13% in giugno rispetto all’anno precedente e il PIL, secondo lo stesso governo, potrebbe dimunuire quest’anno del 4,5%). La recessione economica diminuisce le entrate fiscali rendendo più difficile il rimborso del debito e il ristabilimento dell’equilibrio dei conti, e ciò riporta a nuovi piani di austerità. La recessione economica, d’altra parte, accentua anche lo scarto in Europa tra i paesi economicamente più forti (Germania e suoi “satelliti” come Austria o Paesi Bassi) e quelli più deboli (i paesi del sud Europa), ingenerando tensioni sempre più acute in seno alla zona dell’euro.

E’ questa la ragione per la quale qualche economista non ortodosso, le cui tesi sono riprese dalle correnti riformiste piccoloborghesi “di sinistra” o di “estrema sinistra”, preconizza altre soluzioni: non l’austerità, ma un rilancio basato sulle grandi opere pubbliche grazie a nuovi prestiti, tasse sulle rendite di capitale per aumentare salari e rilanciare così i consumi, la lotta contro la speculazione e il controllo delle atività delle banche ecc.

A titolo d’esempio, prendiamo le proposte avanzate nel giornale trotskista del NPA (11); i nostri trotskisti (o post-trotskisti?) che vogliono evitare “lo scoglio” di “limitarsi a denunce generali del capitalismo e a chiamare al suo rovesciamento come sola soluzione, disinteressandosi, e denunciando come riformiste o opportuniste le idee contestatarie che circolano nella società”, raccomandano così di “decretare una moratoria sul debito esistente” che dovrebbe essere sottoposto “ad un revisore dei conti pubblico” allo scopo di determinare la parte che potrebbe essere rimborsata e quella che non dovrebbe esserlo; di “rifomare lo statuto della Banca Europea per mettere fine alla sua indipendenza e permettere il finanziamento del deficit”, di realizzare “un’ampia riforma fiscale” volta alla tassazione delle più alte rendite, di “incatenare la finanza”, di “mettere tutte le istituzioni finanziarie sotto lo stretto controllo della società” ecc.

Il lettore non potrà non pensare che bisognerebbe essere ben settari per non vedere in queste proposte di riforme che indizi del più piatto riformismo e del più putrido opportunismo…

Tentando di giustificare queste pietose proposte, di cui si riconosce di malavoglia che “esse non esauriscono tutte le rivendicazioni all’ordine del giorno” (!), l’articolo termina scrivendo che, in ogni caso, esse “sintetizzano ciò che appare più urgente per far fronte ad una crisi che non è solamente economica e che produce in Europa rischi di decomposizione sociale propizi al ritorno dell’estrema destra”. Non ci mancava che lo spaventapasseri del fascismo per far passare quest’infame brodaglia riformista!

Il NPA non fa nemmeno più finta di difendere prima di tutto gli interessi operai e di rivolgersi prioritariamente ai lavoratori: è “la società” che deve controllare le istituzioni finanziarie. Questo linguaggio non è usato per caso; è utilizzato per rivolgersi ai piccoli borghesi, ai piccoli e medi padroncini che sono in difficoltà a trovare finanziamenti presso le banche, e per rivolgersi agli intellettuali che sono i loro portavoce. Questo linguaggio permette di evitare la minima critica verso le istituzioni politiche dello Stato borghese, raccomandando, al contrario, implicitamente il ricorso proprio a queste istituzioni: esse sono in effetti le sole che possono teoricamente “controllare” le banche (per legge o per regolamento), visto che il NPA esclude ogni prospettiva rivoluzionaria.

E’ il linguaggio dei partigiani o dei tirapiedi del capitalismo, che temono la decomposizione della società borghese, che si spaventano soltanto – come il borghesissimo Roubini che abbiamo citato all’inizio - dei rischi che la crisi fa correre al capitalismo stesso!

I proletari devono comprendere, e lo comprenderanno velocemente senza dubbio, che quel che li attende sono nuove misure d’austerità (annunciate da qualcuno a mezza voce e da qualcun altro a voce alta), nuovi attacchi dei capitalisti e del loro Stato per estorcere quantità supplementari di profitto di cui hanno bisogno in questo difficile periodo come di aria per respirare.

E’ del tutto vano lamentarsi davanti a questi inevitabili attacchi e rimpiangere la bella epoca della prosperità capitalista: in questo modo di produzione, la prosperità genera naturalmente la crisi. E’ un suicidio accordare fiducia alle soluzioni alternative dei riformisti, che sono fallite sempre e, soprattutto, hanno sempre disarmato il proletariato, e sempre lo disarmano, di fronte al capitalismo: le soluzioni riformiste sono solo polvere negli occhi, menzogne destinate a sbarrare la via dello scontro aperto fra le classi e a spaventare i proletari con la minaccia di un ritorno del fascismo. Non vi sono riforme che possano evitare o attenuare gli attacchi capitalisti e non è la “coesione sociale” che va difesa, che è un altro modo di intendere la collaborazione fra le classi. La conciliazione, la collaborazione fra le classi hanno sempre portato vantaggi alla borghesia e sconfitte al proletariato.

Il periodo che viene sarà un periodo di inevitabili scontri sociali, di lotta aperta fra le classi, non soltanto nei paesi poveri situati sull’altra sponda del Mediterraneo, come già è avvenuto in questi mesi, ma negli stessi paesi capitalisti ultrasviluppati la cui borghesia domina il mondo, come già in Gran Bretagna si sono visti i primi fuochi. E’ ad una situazione di esplosioni sociali che i proletari d’avanguardia devono prepararsi e preparare i loro compagni, riconquistando i metodi e i mezzi della lotta di classe, lavorando alla ricostituzione degli organi di questa lotta e, in particolare, del partito di classe che dovrà esserne alla direzione perché la classe proletaria possa alla fine trionfare nella sua lotta di emancipazione.    

 


 

(1)   Vedi: http://europe.wsj.com/video/nouriel-roubini-karl-marx-was-right/68EE8F89-EC24-42F8-9B9D-47B5 10E473B0.html?KEYWORDS=roubin+interview

(2)   Un terzo del debito “sovrano” degli Stati Uniti è, sotto forma di obbligazioni e di “buoni” diversi, nelle mani di creditori stranieri. Nel 2010 la Cina ne deteneva il 21%, il Giappone il 20%, la Gran Bretagna l’11%, il Brasile il 4%, la Russia il 3% (la Germania non ne detiene che l’1%, l’Italia lo 0,5%, la Francia lo 0,4% ecc.). Cfr International Herald Tribune, 20/7/11 e il blog: criseusa.blog.lemonde.fr

(3)   Per esempio l’americana General Electric, che è la più grande impresa industriale privata al mondo, riscuote un terzo dei suoi utili dalle sue attività finanziarie.

(4)   Cfr. www.aft.gouv.fr/aft_fr_23indicateur_economiques_20/comparaisons_internationales_143/dette_administrations_publique_152/index.html                   

(5)   Vedi : http://fr.wikipedia.org/wiki/Dette_publique_de_la_France

(6)   Cfr. Le Monde, 11/8/11. Per « ristabilire le condizioni della crescita », egli propone… “un grande prestito”. Indebitarsi per risolvere il problema dell’indebitamento, ci voleva proprio un pensatore del calibro di Attali per arrivarci!

(7)   Vedi: http://www.philadelphiafed.orga/research-and-data/regional-economy/business-outlook-survey/2011/bos0811.cfm

(8)   Calcolato secondo le stesse cifre ufficiali; vedi: http://www.bls.gov/news.release/laus.nr0.htm. Altre stime danno una cifra ancora superiore, come per esempio il sito conservatore: http://www.shadowstats.com

(9)   Cfr. www.loccidentale.it/node/104960

(10) Vedi: http://oecd.org/dataoecd/15/44/48494466.pdf

(11) Cfr. “Tous est à Nous”, 14/8/11.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

Top

Ritorne indice