Libia: eliminato Gheddafi, le potenze imperialistiche si scontreranno per dividersi il bottino petrolifero e per ampliare le proprie zone d'influenza in Medio Oriente

(«il comunista»; N° 122; ottobre 2011)

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Di fronte alle rivolte delle masse proletarie e proletarizzate arabe contro gli effetti disastrosi della crisi economica mondiale in termini di disoccupazione, miseria e fame, iniziate in Tunisia nel dicembre dello scorso anno e allargatesi in un contagio pericoloso per i poteri costituiti in tutta l'area nordafricana e mediorientale, travolgendo infine Ben Alì e Mubarak, la Libia poteva apparire come un paese meno esposto allo stesso tipo di sommovimento sociale. Costretti a lasciare il potere, riparando precipitosamente all'estero, a causa della fortissima pressione dei movimenti di protesta pacifica e del mancato sostegno degli imperialisti americani ed europei  ai quali per decenni avevano garantito il controllo sociale dei rispettivi paesi senza risparmiarsi nella repressione sistematica e brutale di ogni opposizione anche "democratica", il tunisino Ben Alì e l'egiziano Hosni Mubarak sono stati il simbolo di governi dittatoriali che non avevano più la forza di resistere alle masse in rivolta: i rispettivi eserciti hanno preso via via le distanze dai raìs dando ascolto sempre più alle pressioni degli imperialisti americani ed europei, sospendendo la brutale repressione delle manifestazioni pacifiche e mettendosi a disposizione di un "rinnovamento democratico" interno che ha, in realtà, le caratteristiche del classico "cambio della guardia". Alle masse che si sono rivoltate chiedendo lavoro, e quindi salari, abbattimento dei prezzi dei generi di prima necessità, lotta alla corruzione e più libertà civili, il "nuovo corso" in Tunisia e in Egitto sta regalando legalità a nuovi partiti e sindacati, elezioni e un nuovo parlamento, e naturalmente "nuovi rapporti" con gli stessi imperialisti che ieri erano alleati con le "dittature" e che oggi discutono di nuovi accordi, nuovi contratti, nuovi affari... Insomma, una "nuova stagione" - la "primavera araba" come baldanzosamente è stato chiamato il dopo-Ben Alì, il dopo-Mubarak - vedrà un cambio del personale dei governi, nuovi accordi economici, politici e diplomatici con gli Stati imperialisti che si sono dati da fare di più perché la "transizione" avvenisse col minor spargimento di sangue, e una politica sociale che non avrà nulla da invidiare a quella dei governi di Ben Alì o di Mubarak: gli operai devono lavorare per il salario che i padroni e lo Stato possono concedere, con una regolamentazione dei rapporti sindacali intesa a salvaguardare i profitti e la concorrenzialità delle imprese, e tale da non intralciare la ripresa economica nazionale ritenuta la priorità assoluta per "uscire dalla crisi". Le "libertà democratiche" e le elezioni rappresentano la solita panacea sociale con la quale ogni borghesia "democratica" tenta di lenire le ferite causate al corpo sociale dal totalitarismo borghese precedente e diffonde l'illusione tra le masse di aver ottenuto davvero un cambiamento nelle loro condizioni sociali di esistenza. La grande differenza tra la situazione della Tunisia e quella dell'Egitto è data principalmente dalla rispettiva struttura economica e dalla storia stessa dei due paesi. Più debole economicamente e con una sovrastruttura politica e militare egualmente debole, la borghesia tunisina, nonostante il crollo del potere oligarchico del clan di Ben Alì, presenta una situazione economica tuttora molto critica, tanto da spingere i proletari, a decine di migliaia, ad imbarcarsi nelle carrette del mare per emigrare nei paesi europei. Più strutturato economicamente e politicamente e militarmente più solido, l'Egitto affronta la situazione post-Mubarak con un grado di crisi interna attualmente più controllabile: la borghesia egiziana sa perfettamente che il proprio proletariato è  potenzialmente molto più pericoloso di quello degli altri paesi dell'area, perciò l'esercito è il fulcro del potere in Egitto dove, per l'appunto, più che essere "al servizio" del potere politico è esso stesso, contemporaneamente, il potere politico e il potere militare. Non è un caso, infatti, che gli Stati Uniti l'abbiano foraggiato a suon di miliardi di dollari sia sotto Mubarak che sotto i nuovi governanti.

La Libia, per storia passata e per caratteristiche economiche recenti, rappresentate in particolare dal petrolio di cui è gonfio il suo sottosuolo, non è stata scossa, come buona parte dei paesi arabi, da movimenti di masse affamate e disperate. Qui, la gran parte del proletariato era rappresentato dai proletari immigrati, provenienti sia dai paesi dell'Africa sub-sahariana che dai paesi del Medio e dell'Estremo Oriente. Le masse libiche che si sono ribellate a Gheddafi erano formate dalla piccola borghesia urbana e rurale, dai ceti medi e da frazioni della stessa grande borghesia; masse certamente non ridotte alla fame. Il terremoto sociale che stava scuotendo l'intera area dei paesi arabi, dal Marocco all'Iran, è stato in un certo senso un'ulteriore e ottima occasione per le frazioni borghesi anti-gheddaffiane, perlopiù stabilite nella Cirenaica e a Bengasi che ne è la capitale, e più legate agli imperialismi anglo-americano e francese coi quali da anni mantenevano rapporti stretti, per lanciare la sfida al potere di Gheddafi e delle tribù che lo sostenevano. Esse perseguivano un disegno che esiste da molto tempo e che può essere fatto risalire almeno agli anni Ottanta, quando gli aerei americani bombardarono Tripoli in risposta agli attentati, finanziati da Gheddafi, contro basi militari americane. Ma, allora, e per un trentennio ancora, Gheddafi e i suoi clan sono riusciti a resistere e a rafforzarsi, contando sull'enorme ricchezza derivata dal petrolio in un paese di poco più di 6 milioni di abitanti, adottando una politica audacemente oscillante tra l'appoggio alla causa palestinese, i buoni rapporti con l'ex potenza colonialista Italia attraverso la quale aprirsi le porte in Europa, una certa indipendenza sia dagli imperialismi europei e americano che dalle petromonarchie arabe, fare affari con la Russia sovietica comprando armi, ma anche con la Russia post-sovietica, sostenere i terroristi che attentarono all'aereo della Pan Am esploso nei cieli scozzesi sopra il villaggio di Lockerbie ma ingraziarsi gli americani e gli inglesi cancellando il proprio programma nucleare, mantenere buoni rapporti con Mandela e Chavez, Castro e Mugabe, Ahmadinejad  e Berlusconi, fino a farsi riconoscere nientemeno che dall'Onu, insieme all'Arabia Saudita, come un campione dei "diritti umani".

Se il potere di Gheddafi in Libia è durato più di 40 anni, nonostante fosse stato inserito nell'elenco degli "Stati canaglia" per via dell'appoggio al terrorismo internazionale, e quindi fosse un bersaglio militare delle maggiori potenze imperialistiche del  mondo, non lo si deve soltanto alla sua politica interna di compensazione tra le diverse tribù e di ripartizione dei privilegi sociali derivanti dalla ricchezza petrolifera, ma anche all'interesse che le maggiori potenze  imperialistiche avevano nel mantenimento del ruolo di bilanciamento che la Libia poteva giocare di volta in volta verso i paesi africani come verso i paesi del Vicino e Medio Oriente. Ciò, naturalmente, non escludeva che vi fossero contrasti con la Libia da parte di una o dell'altra potenza imperialistica, ma nel quadro generale dei contrasti interimperialistici la Libia, finché continuava ad essere un importante produttore ed esportatore di petrolio, andava sì "guardata a vista", ma sopportata almeno fino a quando una situazione più generale modificata non avesse offerto l'occasione per scrollarsi di dosso l'ingombrante Gheddafi. L'avvicinamento che Gheddafi aveva cominciato ad avviare negli anni Novanta con l'Europa e l'America, tendeva sia a togliere la Libia dall'isolamento politico nei confronti delle maggiori potenze imperialistiche, sia ad attenuare di molto, fino a toglierle, le sanzioni economiche che ancora pesavano su di essa, sia ad aumentare il peso politico della Libia nei consessi internazionali, giocando sempre sul filo del propagandismo islamico da un lato e della diplomazia del petrolio dall'altro. Certo che la Libia di Gheddafi, anche se aveva cominciato a modificare il suo atteggiamento verso le potenze imperialistiche occidentali, non era così affidabile come, ad esempio, l'Arabia Saudita. Perciò, il terremoto sociale nei paesi dell'area che metteva in movimento le grandi masse, sconvolgendo i poteri costituiti, poteva rappresentare - ed ha di fatto rappresentato - l'occasione per cercare di disarcionare Gheddafi dal potere in Libia; d'altra parte, era sufficientemente inviso a una parte importante delle popolazioni libiche, che una lotta armata contro "il dittatore" che per decenni aveva ordinato torture, uccisioni, arresti, sparizioni, rappresaglie contro coloro che osavano opporglisi, poteva essere preparata e mostrata come una reazione "spontanea", "naturale", di un popolo contro il dittatore. E' quel che è avvenuto. Ciò non vuol dire che non vi fossero motivi più che concreti perché le masse  fossero spinte a ribellarsi, anche armi alla mano, contro un totalitarismo poliziesco e criminale come quello di Gheddafi e dei suoi clan. Ma è sempre più evidente che la rivolta armata degli insorti libici contro Gheddafi e le tribù a lui fedeli è stata una rivolta preparata da lungo tempo, e indirizzata da consiglieri militari appositamente calati mesi prima del fatidico 17 febbraio 2011 ("il giorno della collera"), in particolare da britannici e francesi. Sono stati, non per caso, la Francia e la Gran Bretagna, affiancati dagli Usa, i capi in testa che hanno sferrato il 19 marzo, col solito beneplacito dell'Onu, l'attacco aereo contro le truppe lealiste che stavano per riconquistare l'insorta Bengasi. La Nato, poi, darà semplicemente una struttura militare più consona alla guerra - peraltro solo aerea, mentre a terra la carne da macello era costituita solo da libici, insorti o meno che fossero - con la quale le potenze imperialistiche, e soprattutto Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti intendevano chiudere il capitolo Gheddafi per aprirne uno nuovo di spartizione del bottino petrolifero e per ridisegnare le rispettive zone d'influenza nel Medio Oriente in vista di contrasti ben più gravi di quelli che oggi, con la crisi mondiale esistente, mettono in tensione le cancellerie di tutto il mondo. Il 20 ottobre Gheddafi, mentre tenta di fuggire da Sirte, viene catturato e ucciso; i borghesi annunciano che si è aperta una nuova stagione di "liberazione nazionale", ma il proletariato arabo, come non può cantar vittoria a Tunisi o al Cairo, così non può cantar vittoria a Tripoli, a Bengasi o a Misurata, perché la sua lotta di classe e rivoluzionaria è ancora di là da venire.      

 

    

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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