Sulla manifestazione del 15 ottobre a Roma

La profonda rabbia proletaria, alimentata dalla violenza economica e sociale del sistema capitalistico che nega alla stragrande maggioranza dei proletari una vita decente nel presente e una vita da vivere nel futuro, non può trovare risposta né nel vaneggiante  riformismo che rincorre un illusorio capitalismo “dal volto umano” e un’economia mercantile “eco-sostenibile”, né nell’impotente pacifismo piccoloborghese che si illude di poter piegare le ferree leggi dello sfruttamento capitalistico a favore della pace sociale e del benessere “per tutti” semplicemente pregando i potenti di essere meno ingordi, né nello sfogo rabbioso di una controviolenza individuale obbligata inevitabilmente dall’iniziativa repressiva dello Stato borghese ad avvitarsi su se stessa, né tanto meno nella rinuncia a lottare in difesa delle condizioni di esistenza, di lavoro e di lotta dei lavoratori salariati.

(«il comunista»; N° 122; ottobre 2011)

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Il movimento estremamente eterogeneo e confuso, sceso il 15 ottobre a manifestare nelle strade e nelle piazze in una novantina di città del mondo, con lo scopo di protestare contro le molteplici misure di austerità con cui i governi stanno affrontando le conseguenze di una crisi economica che non accenna a finire, ha potuto chiudere la giornata festosamente dappertutto, meno che a Roma e in Grecia. Mentre in Grecia tutti si aspettavano che i manifestanti si scontrassero violentemente con la polizia – come sta succedendo da due anni a questa parte – sembra che solo a Roma, tra le altre città del mondo, la pacifica manifestazione degli “indignati” sia stata “rovinata” da scontri violenti tra polizia e cosiddetti black bloc.

E’ diventato un ritornello, in Val di Susa come a Roma: gruppi di black bloc approfittano delle manifestazioni pacifiche, infiltrandosi per poter meglio avvicinarsi agli obiettivi della loro violenza, e improvvisamente si scatenano contro la polizia e contro i simboli del potere, siano essi negozi, banche, recinzioni, chiese... Ciò basta per “criminalizzare” tutto il movimento che, seppur pacifico, dimostrerebbe in questo modo di non sapersi distinguere e separare dai “violenti”... che di volta in volta vengono identificati come black bloc, anarchici, anarco-insurrezionalisti, ultras ecc.

Ma la violenza non è mai neutra! Ha sempre una ragione materiale e di classe!

I rapporti sociali esistenti nella società capitalistica non sono il risultato di una scelta individuale o di gruppi, ma derivano dai rapporti economici che fanno da base all’intera società borghese: i rapporti tra capitale e lavoro salariato, tra possessori di capitali e possessori di forza-lavoro, tra coloro che possiedono tutte le risorse della vita fisica e sociale e coloro che non le possiedono e che per vivere sono costretti a piegarsi alle leggi delle classi possidenti basate fondamentalmente sullo sfruttamento generalizzato del lavoro salariato. Le leggi del capitale regolano la vita di tutte le classi della società attuale e in difesa di quelle leggi agiscono lo Stato centrale, le istituzioni che da esso si ramificano in tutta la società, quindi la burocrazia, l’esercito, la polizia, la magistratura, le istituzioni politiche, democratiche o meno che siano. Chi non rispetta la legge incorre nelle sanzioni e nelle condanne che la legge stessa prevede ed è evidente a tutti che i capitalisti, grazie al denaro che poseggono, si “difendono” più efficacemente dalle loro stesse leggi, mentre i proletari, il cui denaro spesso non basta nemmeno per sopravvivere, subiscono in pieno la repressione legale e, ogni volta che si ribellano alla loro condizione di schiavitù salariale fuori dagli schemi imposti dalla legalità borghese, la violenza della repressione poliziesca.

La rabbia delle classi proletarie per la loro condizione che peggiora sempre più quanto più la crisi capitalistica ne minaccia la sopravvivenza stessa, ha, dunque, basi materiali ben precise.

La violenza economica del capitalismo è insita nel suo stesso modo di produzione: la “razza” dei capitalisti impone con la forza le sue leggi alla “razza” dei proletari, dei senza-riserve, dei lavoratori salariati; la legge del profitto, della valorizzazione del capitale si impone su qualsiasi legge esistente o “naturale”, su qualsiasi “diritto” di vivere, di lavorare, di avere figli. La violenza economica del capitalismo si espande su qualsiasi aspetto della vita sociale riducendola ad un groviglio di rapporti mercantili nei quali primeggia sempre il capitale, dunque il capitalista che è tale solo se continua a sfruttare la forza-lavoro salariata. Se, da un lato, il processo di sviluppo capitalistico espande a tutte le attività umane e in tutto il mondo l’economia capitalistica, trasformando masse di contadini e di artigiani in proletari da impiegare nelle fabbriche e nelle aziende capitalistiche, dall’altro, proprio lo sviluppo capitalistico nelle tecniche produttive e la ricerca spasmodica di profitto dallo sfruttamento della forza lavoro, riduce il bisogno estensivo di forza-lavoro espellendo masse sempre più numerose dai processi produttivi sempre più semplificati e automatizzati. Più si sviluppa il capitalismo, più aumenta la disoccupazione; la miseria sociale delle grandi masse proletarie, invece di ridursi, si allarga. Il disagio sociale cresce e si trasforma in disperazione. Il lavoro, che prima dava un salario stabile con cui vivere, si precarizza, diventa sempre più insicuro, fino a svanire, mentre una minoranza di capitalisti accumula sempre più ricchezza sociale sottraendone quote sempre più consistenti alla stragrande maggioranza della popolazione, e in particolare alle masse proletarie. La rabbia degli strati sociali del proletariato, non più rassicurati come un tempo, da un tenore di vita decente dovuto all’espansione capitalistica, è espressione di un lento e inesorabile peggioramento delle loro condizioni di esistenza dovuto alle crisi cicliche che erodono via via i salari, i risparmi e le piccole sicurezze conquistate con gli ammortizzatori sociali. La forbice tra capitalisti e proletari si allarga, la distanza diventa siderale, mentre la crisi toglie sicurezza e reddito anche a strati piccoloborghesi che in precedenza godevano del privilegio di vivere su quote di profitto capitalistico a loro destinate nel commercio, nella piccola produzione e nei servizi, proletarizzandone una parte sempre più larga.

Le manifestazioni di questo disagio crescente non sono tutte dello stesso tipo; i proletari di fabbrica tendono ad utilizzare metodi e mezzi di lotta tradizionalmente legati alle forme sindacali, mettendo al centro il salario, il posto di lavoro e la sicurezza sul lavoro, mentre gli strati piccoloborghesi tendono a manifestare il loro disagio attraverso proteste genericamente lanciate contro il governo della città o del paese che non li tutela abbastanza, e in genere, per avere più forza, cercano di trascinare nella loro protesta i proletari mettendo in primo piano la difesa di “diritti democratici” che, nella loro visione, sono condivisibili da tutti proiettando in questo modo il loro interclassismo sulle masse proletarie. Ed è esattamente questo interclassismo che caratterizza le manifestazioni degli “indignati”, mettendo in evidenza la loro duplice funzione oggettiva: l’impotenza reale nei confronti del potere borghese verso il quale sono rivolte le proteste, e la paralisi del movimento proletario trascinato nelle forme e negli obiettivi di manifestazioni che non scalfiscono nemmeno di un millimetro la solida corazza del potere borghese. Queste manifestazioni, però, proprio per la loro congenita impotenza, possono offrire, talvolta, agli strati piccoloborghesi più rovinati e agli strati di sottoproletariato, come il 15 ottobre a Roma, un vuoto che si riempie di violenza individuale, di rabbia da sfogare immediatamente, di rivalsa nei confronti dei simboli di un potere economico a loro negato e nei confronti della polizia che lo difende. Immersi essi stessi nell’interclassismo più deteriore, quei gruppi di arrabbiati e disperati, sfogano sì il bisogno di esternare tutto il loro disagio di vita attraverso la violenza di strada, ma nei fatti non danno alcun contributo reale alla riorganizzazione classista del proletariato.

Questo perché il proletariato, per uscire dalla sudditanza perenne al capitale e alle sue leggi, non deve imboccare una strada che lo porta ad una dipendenza dal capitale e dalla borghesia ancor più forte, sebbene mascherata, di quanto non lo sia oggi – come è la strada dell’interclassismo, nelle forme pacifiche e riformistiche o nelle forme di protesta violenta – ma deve imboccare la strada della riorganizzazione di classe e della lotta classista che mette al centro della sua ribellione la difesa esclusiva dei suoi interessi immediati a livello economico come a livello sociale. Questo è il terreno della lotta di classe contro gli effetti della crisi capitalistica, non contro le cause, lotta per la quale il proletariato dovrà imboccare la strada della lotta politica rivoluzionaria, ossia di una lotta ad un livello superiore che, per raggiungere la quale, non è pensabile che salti a piè pari la fase della lotta immediata di difesa delle condizioni di esistenza nella quale fa esperienza, si abitua a organizzarsi e difendersi dalle forze della conservazione borghese, militari o civili che siano.

Per lottare “contro la crisi economica capitalistica” è del tutto vano, perciò, gridare “la crisi non la paghiamo noi”: se il “noi” si riferisse al proletariato, è solo con la vittoria rivoluzionaria attraverso la quale, abbattuto il potere dittatoriale borghese, si instaura il potere politico dittatoriale del proletariato, che si può cominciare a mettere mano alla trasformazione economica esautorando con la violenza di classe del potere proletario ogni borghese da attività economiche, politiche, sociali o militari, instradando quindi la società verso la distruzione del modo di produzione capitalistico e la sua trasformazione in modo di produzione socialistico e, infine, comunistico. Ma oggi, che il proletariato deve ancora riconquistare il terreno classista della lotta di difesa immediata, non è certo all’odine del giorno la rivoluzione. Se il “noi” si riferisse, invece, agli strati sociali piccoloborghesi o genericamente popolari in cui confondere anche il proletariato, allora la lotta contro la crisi capitalistica sarebbe sconfitta prima ancora di cominciare, e non perché essi non fossero in grado di scendere in piazza, manifestare, scontrarsi con la polizia, o agire con coraggio anche solo a mani nude, ma perché sarebbe una lotta senza un profilo di classe nettamente distinto dalla classe dominante borghese e ad essa antagonista nei fatti oltre che nelle parole.

Il governo, attraverso il ministro dell’interno Maroni, ha ovviamente approfittato della situazione creatasi a Roma per lanciare un’iniziativa di repressione non solo immediata ma anche a lunga scadenza. Le misure particolarmente restrittive in termini di partecipazione a manifestazioni di piazza sarebbero: fermo preventivo, arresto differito, obbligo per gli organizzatori di manifestazioni di dare garanzie economiche preventive in vista di eventuali danni a terzi, ulteriori tutele legali civili e penali per i poliziotti, ulteriori tipologie di reati associativi collegati alle violenze di piazza, uso delle armi da parte dei poliziotti in casi determinati ecc. I governi borghesi hanno a disposizione già una quantità impressionante di leggi per reprimere ogni atto di ribellione all’ordine costituito, ma sembra che non bastino mai: sono talmente scoperti i nervi del potere borghese quando si tratta di controllo sociale, che la repressione già esistente sembra non bastare mai. Il castello degli inganni che la democrazia mantiene in piedi per illudere le masse proletarie che i loro “diritti” possono essere esercitati, a condizione di rispettare i “diritti altrui” (ossia il diritto dei capitalisti a sfruttare al massimo il lavoro salariato, a gettare sul lastrico i lavoratori che risultano in sovrappiù, a chiudere aziende perché “poco produttive”, a costringere al lavoro nero una massa sempre più numerosa di lavoratori giovani e meno giovani, sottopagato, saltuario, precario e alla disoccupazione, a cacciare di casa chi non riesce a pagare l’affitto o la rata del mutuo, o il diritto delle forze dell’ordine a sottrarsi alle proprie responsabilità tutte le volte che spaccano teste ai manifestanti, o un arrestato muore dopo qualche giorno passato in questura ecc.), trova sempre un ampio arco di forze politiche, sindacali e sociali pronto a condannare come un sol uomo “ogni atto di violenza” messo in atto da coloro che vengono definiti con sicumera “delinquenti” e “criminali vestiti di nero”.

Sono passati dieci anni dal luglio 2001, quando a Genova, durante le manifestazioni contro il G8, la polizia si distinse per aver aggredito sistematicamente il corteo dei pacifisti, per aver massacrato di botte tutti i presenti nella scuola Diaz nella famosa notte di sangue, distruggendo tutto ciò che trovava a portata di mano, per aver dato sfogo al proprio sadismo e al proprio odio di corpo sui malcapitati arrestati e portati alla caserma di Bolzaneto: allora, gruppi di black bloc che distrussero vetrine, bancomat, incendiarono macchine e si scontrarono con la polizia, ebbero una stranissima “libertà di movimento”, come se dovessero funzionare da solido pretesto per reprimere l’intero movimento anti-G8... Allora, le manifestazioni terminarono con la morte del giovane Carlo Giuliani, ucciso da un carabiniere rimasto intrappolato nel proprio blindato che sparò ad altezza d’uomo. Da allora, però, i poliziotti l’hanno fatta franca e i loro dirigenti hanno fatto carriera...

Il 15 ottobre a Roma ci poteva nuovamente “scappare il morto”...: così dice il ministro di polizia. In realtà, anche questa tardiva preoccupazione fa parte dei pretesti con i quali la borghesia dominante vuol far passare un incrudimento delle leggi relative al fermo di polizia e all’ ulteriore restrizione delle “libertà di manifestazione pubblica”, e ciò non tanto in vista di altre manifestazioni di “indignati” e di pacifisti organizzate col tam tam telematico come coacervo di mille piccoli organismi votati al solo girotondo protestario e inconcludente, quanto in vista di scioperi e di lotte di segno chiaramente proletario e di classe!

Al potere borghese va benissimo che le manifestazioni di protesta stiano nei confini della “festa democratica”, dell’indignazione morale, della protesta dei poveri che una volta ogni tanto alzano la voce contro i ricchi; perfino Draghi, ex governatore della Banca d’Italia e prossimo capo della BCE, ha espresso pubblicamente comprensione per la protesta degli “indignati” che non vedono un futuro mentre i governi hanno speso e spendono miliardi per salvare le banche, sollecitando ad esempio il governo italiano a darsi velocemente un piano economico “per la crescita”. Il tema è proprio questo: di fronte alla crisi capitalistica, che è crisi di sovraproduzione di merci e di capitali, i poteri borghesi non sanno trovare altre risposte che non siano legate alla “crescita” – cioè all’incremento della produzione, da cui traggono nuovi profitti – e dunque riavviando lo stesso meccanismo economico che ha prodotto la crisi di sovraproduzione e che è destinato a ricreare, nel breve, una nuova situazione di crisi in una spirale senza sbocchi. Ma la crescita produttiva nell’economia sviluppata, nella fase imperialista del capitalismo, può avvenire solo a costo di abbattere ancor più i costi della forza-lavoro impiegata, sia in termini di salario reale che in termini di costi sociali. I capitalisti, come è ampiamente dimostrato dal salvataggio delle banche da un crac generalizzato, lottano contro gli effetti della crisi di sovraproduzione, e quindi contro la caduta tendenziale del saggio medio di profitto, col solo modo che conoscono:  mangiandosi l’uno con l’altro ma, soprattutto, abbattendo il costo del lavoro salariato, dunque abbattendo i salari, le pensioni – che sono salari differiti – e una parte consistente di spese sociali (soprattutto gli ammortizzatori sociali) generalizzando e approfondendo ancor più la miseria delle classi lavoratrici; e pazienza se ci vanno di mezzo anche strati di piccola borghesia, di piccoli produttori e commercianti i quali, rovinati dalla crisi capitalistica, precipitano e precipiteranno ancor più nelle condizioni di povertà andando ad ingrossare le file delle masse proletarie portando con sé, però, le abitudini, le superstizioni, le visioni falsate e le ambizioni di rivincita sociale tipiche della piccola borghesia che è costituzionalmente legata, come un’appendice, al capitalismo nel quale soltanto può sperare di vivere dei privilegi che dà lo sfruttamento del lavoro salariato.

I proletari hanno interessi completamente opposti: pur subendo gli effetti più drammatici della crisi capitalistica, anche quando questa crisi sbocca nella guerra guerreggiata, essi possono contare su una tradizione di lotta classista che le generazioni proletarie passate hanno contribuito a formare e che hanno lasciato in eredità alle successive generazioni proletarie. Molti decenni di opportunismo riformistico, di collaborazionismo politico e sindacale, hanno seppellito le tradizioni delle lotte anticapitalistiche del primo quarto del XX secolo, lotte che hanno visto il proletariato, europeo soprattutto, protagonista della più grande vetta finora raggiunta dal movimento di classe: la rivoluzione russa d’Ottobre e la costituzione dell’Internazionale Comunista, partito mondiale del proletariato. Il proletariato di oggi non conosce e non utilizza quelle tradizioni classiste, impregnato com’è di democratismo e di estremismo ribellistico. Ma le condizioni materiali in cui il capitalismo lo schiaccia sempre più vanno a premere con sempre maggior forza contro le pareti di un controllo sociale da parte borghese che si fa più difficile; condizioni materiali che mettono sempre più in evidenza le forti contraddizioni in cui si dibatte la società capitalistica, spinta inesorabilmente dal suo stesso sviluppo e dalle sue inevitabili crisi, verso il tracollo economico e sociale al quale la borghesia imperialista dei paesi dominanti il mercato mondiale risponderà con la guerra mondiale, la terza in ordine cronologico. La borghesia è una classe poco intelligente dal punto di vista storico perché il modo di produzione su cui poggia il suo potere e il suo dominio sociale è un modo di produzione transitorio, che, dopo aver sviluppato al massimo la sua potenzialità rispetto ai modi di produzione precedenti, entra in crisi continue non riuscendo più a fare progredire la società verso un futuro di benessere economico e sociale. La sua intelligenza  è usata al solo fine di conservare il potere contro le classi proletarie che lo mettono in pericolo, al solo scopo di amministrare le proprie ricchezze a fini propri e non certo a fini di “bene comune”, al solo scopo di agire con destrezza nella lotta di concorrenza con le borghesie degli altri paesi in un mondo in cui i contrasti economici, politici, diplomatici, militari sono sempre più acuti.

Di fronte alla crisi finanziaria scoppiata nel 2007 in America coi titoli subprime, poi trasferitasi nella rete bancaria di tutto il mondo facendo fallire numerose banche in tutti i paesi e rovesciatasi sull’economia reale mettendo al tappeto l’economia dei maggiori paesi industrializzati, la borghesia ha adottato in tutti i paesi un’unica ricetta: salvare le banche con massicci interventi statali, togliere perciò risorse statali agli ammortizzatori e alle spese sociali, affrontare la recessione economica con il licenziamento di lavoratori del settore pubblico che si aggiungevano – e si aggiungono – ai licenziamenti nel settore privato, aumentare il dispotismo sociale e aziendale militarizzando in modo più o meno evidente la vita sociale. Possono alcune manifestazioni, sebbene molto partecipate, ma pacifiche e protestatarie, mettere paura alla borghesia dominante? Possono alcuni gruppi di ribelli estremisti, votati a spaccare vetrine o incendiare macchine, far cambiare il corso dell’economia capitalistica e le decisioni dei poteri borghesi in tema di austerità e di repressione? La Grecia ne è un esempio: il governo Papandreu, pur sottoposto da due anni a manifestazioni, scioperi, scontri tra operai e polizia, tra manifestanti di qualsiasi provenienza sociale e polizia, continua imperterrito a legiferare in termini di lacrime e sangue, licenziando e abbattendo sempre più salari e pensioni; e lo fa nonostante l’ostilità dei sindacati, dei partiti di opposizione parlamentare e di una parte dei membri dello stesso Pasok, il partito di maggioranza. Certo è che l’opposizione dei sindacati e dei partiti di minoranza non è mai stata un’opposizione di classe, e tanto meno rivoluzionaria. Il collaborazionismo sindacale e politico, se da un lato si adatta alle esigenze del capitalismo nazionale piegando ad esse il proletariato, dall’altro tende a salvare la sua influenza e il suo ruolo di controllore delle masse proletarie dando alla propria “opposizione” una coloritura più forte a seconda del grado di tensione che si sviluppa nel conflitto sociale; ma la sua sostanziale collaborazione interclassista non cambia. E così è in tutti gli altri paesi, in Italia come in Spagna, in Francia come in Germania o in Gran Bretagna, negli Stati Uniti piuttosto che in Israele, in Canada piuttosto che in Australia.

L’abisso dal quale deve risalire il proletariato, e nel quale le forze dell’opportunismo politico e sindacale l’hanno fatto precipitare, è profondo, non bisogna nasconderlo. Risalire sarà già uno sforzo notevole, perché vorrà dire scrollarsi di dosso non solo le false certezze di ieri ma anche le vere incertezze di oggi. Ma non basterà, perché l’obiettivo non potrà essere quello vagheggiato dai movimenti interclassisti sul “bene comune”, sulla “ecosostenibilità economica”, sulla “ripartizione più equa” della ricchezza sociale, sull’applicazione dei “diritti sanciti dalla costituzione repubblicana” ecc., ma sarà quello di riconquistare l’unico terreno su cui si gioca la soluzione delle contraddizioni sociali del capitalismo, il terreno della lotta di classe, aperta, dichiarata, accettata fino alle sue conseguenze ultime.

La lotta di classe del proletariato è la risposta alla lotta che la classe borghese svolge ogni minuto di ogni giorno per mantenere e difendere il suo dominio sulla società, dominio fatto di appropriazione incontrastata della ricchezza sociale prodotta dal lavoro salariato, di sfruttamento sistematico della forza-lavoro salariata schiacciata in condizioni di una vera e propria schiavitù moderna, di accumulazione di ricchezza da èarte dell’infima minoranza borghese e capitalista e di miseria crescente da parte della stragrande maggioranza di proletari e di contadini poveri, di mercificazione di qualsiasi relazione umana, di corruzione e malaffare sempre più dilagante, di crisi sempre più devastanti e di guerre sempre più cruente.

Ma la lotta di classe non cade dal cielo: è il risultato di molti tentativi di lotta che i proletari, nelle più diverse situazioni, sono spinti e si convincono a fare; è il risultato di un’esperienza che i proletari devono rifarsi direttamente, riorganizzandosi intorno ad interessi che rappresentino l’esclusiva difesa delle loro condizioni di vita e di lavoro senza tener conto anticipatamente delle compatibilità sociali, delle possibilità o meno che l’azienda o lo Stato possano o meno concedere quanto viene richiesto, superando le diffidenze tra lavoratori del pubblico e lavoratori del privato, tra lavoratori autoctoni e lavoratori immigrati, tra giovani in cerca di lavoro e anziani non ancora espulsi dal lavoro, tra maschi e femmine, tra manovali e operai specializzati, tra operai e impiegati, tutte diffidenze instillate negli anni dalle forze della conservazione sociale e della conciliazione tra le classi per dividere e mettere i proletari in concorrenza tra di loro. La lotta di classe non è l’atto di violenza immediata con cui ci si scarica della rabbia individualmente accumulata nel tempo, ma è l’organizzazione di difesa di interessi proletari collettivi che prevede anche la difesa violenta di fronte all’attacco delle forze della conservazione borghese, legali o illegali che siano. La lotta di classe è la lotta in difesa del salario e del posto di lavoro fatta con mezzi di classe, a partire dallo sciopero ad oltranza senza limiti di tempo prefissati e difeso con picchetti e servizi d’ordine proletari contro ogni azione di sabotaggio che non mancherà perché la lotta di classe proletaria è la risposta alla “guerra di classe” che la borghesia conduce contro i proletari su tutti i piani – dalle misure antiproletarie sul salario, sulle pensioni, sulle tasse, sui ticket ecc., alle misure di repressione sociale – e che non troverà mai una risposta adeguata nelle belanti richieste di negoziazione e di conciliazione di cui sono campioni i collaborazionisti di ogni risma.

Al di fuori della riconquista del terreno di classe, al di fuori della riorganizzazione classista dei proletari non vi è che la sconfitta sistematica e il precipitare sempre più nell’abisso della schiavitù salariale, della miseria, della fame e della vita sacrificata, in pace e in guerra, al dio capitale!

 

 

Partito comunista internazionale

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