Le navi da crociera, questi mezzi-grattacieli galleggianti, non sfuggono alle tragiche contraddizioni della società capitalistica

La Costa Concordia, naufragata sugli scogli di fronte al porto dell’isola del Giglio, ne è l’ennesima dimostrazione

(«il comunista»; N° 123-124; novembre 2011 - febbraio 2012)

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Nella notte di venerdì 13 gennaio, la Costa Concordia, una delle ammiraglie della flotta di navi da crociera della prima compagnia d’Europa, appunto la Costa Crociere, ha urtato lo scoglio affiorante delle “Scole”, di fronte al porto dell’isola del Giglio, nell’arcipelago toscano. Una falla lunga una settantina di metri, all’altezza della sala macchine, si è aperta sul fianco sinistro, la Concordia ha imbarcato acqua (la chiusura stagna degli scompartimenti non era stata effettuata!), lo scoglio le fa fare perno su se stessa e, del tutto ingovernabile, si inclina sul suo fianco destro; si adagia sul fondo roccioso profondo una quarantina di metri, ma su uno scalino di 80 metri che, col mare agitato, può diventare pericolosissimo provocando l’inabissamento della nave. Ad una settimana dal naufragio la nave è ancora appoggiata sul fianco e per circa metà è fuor d’acqua, cosa che nella notte del naufragio ha permesso alla gran parte delle 4.200 persone a bordo, tra passeggeri ed equipaggio, di abbandonare la nave sulle scialuppe o gettandosi in mare.

Per una settimana si sono rincorse mille voci, mille versioni differenti sull’accaduto; dov’erano e che cosa stavano facendo il comandante e i suoi ufficiali?, e perché, avvenuto l’impatto con lo scoglio e accortisi della falla, è passata più di un’ora prima che venisse dato l’effettivo allarme e l’ordine di abbandonare la nave: ore 21.42 l’impatto con lo scoglio, ore 22.58 l’ordine di abbandonare la nave. Ma ci si deve fare più di una domanda e non solo la più logica: come mai la nave si trovava così vicina agli scogli, perfettamente segnalati su tutte le carte nautiche, tanto da andarsi ad incagliare? Ma anche: come mai uno scoglio, strisciando sulla fiancata della nave, ha potuto averla vinta su un mastodonte di 114.500 tonnellate di stazza? La moderna tecnica di costruzione di questi mezzi-grattacieli galleggianti non dovrebbe assicurare robustezza in caso di incidente in mare? E perché il comandante, pur dopo aver comunicato il “guaio” alla propria compagnia di navigazione, ha atteso più di un’ora per dare l’allarme e, infine, l’abbandono nave?

Il cielo era limpido, la strumentazione di bordo funzionava perfettamente, ai motori e al timone nessun problema; dunque, come mai la nave era così vicina alla scogliera? La risposta è stata immediata: è consuetudine, per le navi da crociera – anche se dovrebbero navigare ad oltre 5 miglia dalle coste – quando passano vicino alle isole, come appunto il Giglio, Capraia ecc., ma anche Ischia, Capri, La Maddalena o alle coste tirreniche e liguri, di fare quello che, nel gergo introdotto proprio dai comandanti delle navi da crociera, si chiama l’”inchino”, ossia passare a poche centinaia di metri dall’isola o dal tratto di costa, incrociate sulle rotte della crociera, suonando le sirene per “salutare” gli abitanti del luogo, il sindaco del paese, un vecchio comandante in pensione o i familiari di qualcuno dell’equipaggio, e per far scorrere sulla schiena dei crocieristi il brivido che inevitabilmente arriva quando un mastodonte di 50, 80, 100 o 130 mila tonnellate attraversa una lingua di mare così vicina alla costa, o alle abitazioni come a Venezia, da poter sentire le parole e le grida di chi “saluta” dalla terra ferma.

L’inchino è la bravata che molti comandanti di navi hanno fatto e fanno per dimostrare la propria abilità a chi viaggia sulla loro nave e a chi sta a terra e vede coi propri occhi transitare a poche centinaia di metri dalla sponda un vero e proprio grattacielo galleggiante. Lo “spettacolo”, di notte, è ancor più suggestivo, soprattutto con tutte le luci della nave accese. Il comandante precedente della Costa Concordia, l’ammiraglio Mario Terenzio Palumbo, di cui Francesco Schettino era allievo, ha scritto anche un libro (“La mia vita da uomo di mare”, Editrice Innocenti, 2008) nel quale racconta la sua “invenzione”: il passaggio ravvicinato all’Isola del Giglio, il famoso inchino. Non risulta che la compagnia di navigazione abbia mai vietato ai comandanti queste manovre, anzi, pare che in alcuni casi le abbia addirittura sollecitate per aumentare l’orgoglio dei comandanti e stupire i passeggeri con uno “spettacolo” che nessun’altra crociera offre!

La disgrazia della Concordia ha fatto conoscere questa consuetudine a tutto il mondo, una bravata che è costata finora 12 morti, decine di feriti, e ancora una ventina di dispersi per i quali si fanno sempre più deboli le speranze di ritrovarli in vita. Ma, oltre alla perdita di tutti i bagagli dei crocieristi e della nave che non è più riparabile, è presente il pericolo enorme di inquinamento del mare, che in parte è già avvenuto per la dispersione in acqua di tutti i rifiuti, gli oli motore, i solventi e l’enorme quantità di prodotti chimici di ogni tipo di cui è dotata la nave da crociera, che concentra su 292 metri di lunghezza e 36 di larghezza, su 17 ponti e sulle stive, tutto ciò che può servire ad una cittadina di più di 4200 persone in viaggio per 8 giorni, inquinamento che, da un momento all’altro, può aumentare a dismisura a causa della possibile dispersione in mare delle 2380 tonnellate di gasolio che la nave ha ancora in corpo, visto che era appena partita dal porto di  Civitavecchia.

Come ormai tutti sanno dai media di mezzo mondo, il comandante della Concordia è accusato di omicidio colposo plurimo, disastro e di aver abbandonato la nave quando c’erano ancora molti passeggeri da mettere in salvo; mentre la compagnia di navigazione lo scarica incolpandolo di tutto, levandogli anche l’assistenza legale. Dalle testimonianze dirette dei passeggeri e di alcuni membri dell’equipaggio, dai filmati e dalle telefonate registrate, emerge il profilo di un comandante-guascone, che comandava la Concordia come fosse una Ferrari, al quale non mancava certo esperienza di navigazione; ma la sicumera con cui comandava la nave, l’esagerata sicurezza della propria abilità e della tecnica moderna dell’ammiraglia della flotta, lo hanno spinto a battere il record dei record, che nessun altro comandante era riuscito a raggiungere: passare a 150 metri dal porto dell’Isola del Giglio! Record raggiunto!, ma al prezzo di 16 morti accertati, una ventina di dispersi e una nave affondata col pericolo di un inquinamento ambientale di proporzioni gigantesche!

Ma non si tratta solo di una bravata.

I 68 minuti di ritardo nel dare l’abbandono nave, in realtà, hanno aggravato enormemente la situazione mettendo in serio pericolo la salvezza di tutti i passeggeri e dell’equipaggio: i morti e i dipersi lo testimoniano. Dopo l’impatto con lo scoglio, e l’apertura della falla, vi è stato un black out elettrico che ha messo in allarme i passeggeri, ma, tornata la luce, poteva sembrare che tutto fosse sotto controllo ed è questo che all’equipaggio è stato ordinato di dire, anche quando è arrivato l’ordine di indossare i giubbotti salvagente. Ciò che emerge chiaramente è l’assoluta  inadeguatezza dell’intera linea di comando della nave e la mancanza di una disciplinata gestione dell’emergenza, che è stata ancor più grave quanto più il comandante continuava a dichiarare anche alla capitaneria di Livorno che tutto era “sotto controllo”, che non c’era “nessun problema”. La capitaneria di Livorno – allertata alle 22.30 da una telefonata dei carabinieri di Prato a loro volta avvertiti dal familiare di un passeggero che la Concordia aveva seri problemi – controlla la situazione con la sua strumentazione e “vede” la Concordia fuori rotta; si mette in contatto con il comandante della Concordia e intuisce dal tono delle sue risposte che la situazione è molto più grave di quanto lui riferisce, tanto da  sollecitargli, ad un certo punto, la dichiarazione di “distress”, ossia il “mayday”. L’abbandono nave viene finalmente dichiarato e l’evacuazione inizierà venti minuti dopo nella più totale confusione. Ed è in questa confusione che il comandante e i suoi ufficiali si mettono in salvo, lasciando praticamente al personale d’equipaggio rimasto a bordo, non adeguatamente diretto e preparato a situazioni d’emergenza di questo tipo, il compito di aiutare i passeggeri a mettersi in salvo.

Diversi fattori hanno giocato un ruolo negativo nella vicenda, e il comportamento del comandante-guascone ha certamente avuto un peso non indifferente nell’incidente e nella mancata direzione dell’abbandono nave. Ma non si può non prendere in considerazione il fattore-base di ogni disgrazia di questo tipo, cioè il fattore economico.

Innanzitutto la corsa a costruire navi dal tonnellaggio enorme; la Costa Crociere, che fa parte del gruppo americano Carnival Corp. & Plc, leader mondiale delle crociere, ha una flotta di 15 navi in servizio (esclusa la Concordia), e ne ha in progetto un’altra per ottobre 2014, la nuova ammiraglia, di 132.500 tonnellate di stazza, che sarà costruita da Fincantieri a Marghera. Veri e propri “mezzi grattacieli galleggianti”, come li abbiamo chiamati nel 1956 all’epoca dell’affondamento dell’Andrea Doria (1), questi mastodonti del mare sono costruiti con lo stesso concetto con cui, ad esempio, lo sono i sempre più numerosi centri commerciali che assediano le città, indirizzati soprattutto al divertimento e al lusso, o semi-lusso: vi si deve trovare di tutto, dai ristoranti ai centri per lo shopping, dalle palestre alle piscine, dai centri benessere alle terme, dai campi polisportivi ai simulatori dei Gran Premi di automobilismo, e le conference room, gli internet point, le playstation entertainment e chi più ne ha più ne metta, e tutto disposto in un immenso labirinto stratificato fino a 17 ponti, come nella Concordia, in cui sistemare più di 4000 persone in 1500 cabine. Le navi da crociera, a seconda della loro grandezza, possono portare da 800-1000 persone alle quasi 5000, come previsto per la nuova ammiraglia della Costa; insomma, sono delle cittadine galleggianti nelle quali gli abitanti temporanei vengono bombardati 24 ore su 24 da ogni tipo di “svago”, di “servizio”, di “offerta” affinché sborsino più denaro possibile nei pochi giorni della crociera. Gli è che, il mezzo-grattacielo galleggiante viene costruito con gli stessi criteri con cui viene costruita qualsiasi merce nella società capitalistica – nave, aereo, treno, automobile, casa ecc. – , ossia risparmiando il più possibile sui materiali da costruzione, sul personale, sulla manutenzione, sulla sicurezza sul posto di lavoro e, naturalmente, spremendo il più possibile non solo i proletari dei cantieri che costruiscono la nave, ma anche i proletari che lavorano come personale navigante e che su quella nave, in navigazione, ci passano dai 5 ai 7 mesi, con pochissime pause negli scali.

A proposito dell’Andrea Doria, vanto tecnologico dell’epoca, progettata con un tonnellaggio inferiore (di “sole” 29 mila tonnellate) a quello dei transatlantici italiani, tedeschi, inglesi, francesi, ma di buona velocità: quando l’urto con la nave rompighiaccio svedese Stockholm la fece colare a picco, si mise in evidenza immediatamente la fragilità dello scafo dell’Andrea Doria. “Evidentemente è la Doria che si è scassata - si legge nell’articolo citato del 1956 - probabilmente risultata troppo fragile in tutta la sua ossatura, nelle costolature e nei dorsali. (...) Ma la mania della tecnica moderna è orientata nel fare economie sulle strutture, usando profili leggeri, sotto il pretesto di materiali sempre più moderni e di resistenza miracolosa, garantiti più da una pubblicità sfacciata e dalle lunghe mani che dalle prove dei burocratizzati laboratori e istituti ufficiali di controllo non solo sulle navi. Come avviene per le costruzioni e le macchine terrestri, la nave che ci dà la tecnica recente ed evoluta è meno solida di quella di mezzo secolo fa. La superba unità ha quindi sbandato, e si è affondata, in tempi contrari a tutte le norme e le attese degli esperti. Poteva essere l’ecatombe, col mare agitato o con meno frequenza di navi vicine” (2). Nel  luglio 1956, quando l’Andrea Doria affondò al largo dell’isola di Nantucket (New York), erano passati 44 anni dall’inabissamento del famoso Titanic di oltre 50 mila tonnellate di stazza e che non riuscì nemmeno a terminare il suo viaggio inaugurale; oggi, gennaio 2012, sono passati altri 56 anni, e dal Titanic fanno 100, ma i criteri capitalistici di costruzione per le macchine terrestri, navali o aeree, sono sempre gli stessi e, se sono cambiati, lo sono stati in peggio; e la dimostrazione è negli affondamenti delle navi come nei disastri aerei o nei deragliamenti dei treni, per non parlare dei morti, dei feriti e degli invalidi provocati dagli incidenti automobilistici, nei crolli delle case e negli “infortuni” sul lavoro!

Come per il Titanic o per l’Andrea Doria, gli ingegneri hanno lesinato sull’acciaio ma “non sull’architettura decorativa e di lusso”, e tutti hanno potuto leggere nelle cronache del naufragio della Concordia quanto scintillanti e preziose fossero le decorazioni di questa nave che ospitava, inoltre, opere d’arte in quadri e sculture che davano all’ambiente quel tocco di lusso che sarebbe rimasto per sempre nella memoria, nei filmati e nelle foto dei crocieristi. “Uno dei sintomi del decadere mondiale della tecnica – si legge ancora nell’articolo citato del 1956 – è che l’architettura uccide l’ingegneria” (3). D’altra parte, basta andare a sfogliare le pagine nel sito della Costa Crociere (o di una qualsiasi altra compagnia di navigazione), per vedere come il “prestigio”, la “decorazione”, la “luminosità”, lo “sfarzo” siano il leit motiv del viaggio in nave. Ma continuiamo a leggere il nostro articolo del 1956: “Troppi saloni, piscine, campi di vari giochi, troppi ponti sopra l’acqua – eh! l’inimitabile linea, la sagoma slanciata delle navi italiane! – troppo volume, peso, spesa nell’opera morta, ossia in quel mezzo ‘grattacielo’ che sta al di sopra della linea di galleggiamento, sfinestrato e sfolgorante di luci, ove si bea la classe di lusso. Tutto a danno dell’opera viva, che è lo scafo a contatto con l’acqua, dalla cui vastità e saldezza dipende la stabilità, la facoltà di galleggiamento, di raddrizzamento dopo le sbandate, di resistenza ai colpi di mare, agli urti colle montagne di ghiaccio, e a quelli eventuali con navi di paesi ove l’acciaio costa di meno, non solo, ma forse la tecnica è meno venduta alla politica affaristica... finora. Tutto ciò, brontolano i veterani del mare, è a danno della sicurezza. Lusso più o meno cafone, o sicurezza delle vite umane trasportate, ecco l’antitesi. Ma può una tale antitesi fermare la Civiltà, il Progresso? Quando tuttavia non è sicura la terza classe, né l’equipaggio, nemmeno la classe superiore, dai favolosi prezzi di passaggio, lo è. Vi supplisce la retorica sui ritrovati moderni, l’alta tecnica, la decantata inaffondabilità, a prova di ghiaccio, a prova di scoglio, a prova di Stockholm!” (4).

La Concordia, di cui al varo è stata decantata l’alta tecnica applicata a materiali di ultima generazione, del valore di 500 milioni di euro, non ha passato la prova dello scoglio!

E lo scoglio dell’isola del Giglio ha messo in evidenza, per l’ennesima volta, la fragilità reale dell’opera viva, dello scafo. Mentre per la costruzione delle petroliere e delle navi cisterna, dopo incidenti a iosa che hanno inquinato tutti i mari, è d’obbligo ormai il secondo scafo; per le navi passeggeri, e quindi per le navi da crociera, il secondo scafo non è obbligatorio: porterebbe via troppo spazio alle cabine, e alle sale motori! Lo spazio, anche in questo caso, è denaro!... D’altra parte, e sono i tecnici navali che lo dicono, riferendosi a termini non consueti per la gente comune: raggio metacentrico, momento di raddrizzamento, doppia carena che, in poche parole, significano capacità di non inclinarsi, di non capovolgersi e di resistere agli urti (5). “Il disastro di ieri – scrive Il Fatto Quotidiano – mette sotto processo i grattacieli del mare (tutti, non solo la Costa Concordia): alti fino a 70 metri, come palazzi di 25 piani. La parte emersa è enormemente più grande di quella immersa. La nave è più comoda, più spaziosa, ma meno stabile”. E, riportando le parole di un esperto navale, sottolinea che “una nave da crociera di ultima generazione ha un raggio metacentrico di un metro. Un decimo di una nave militare”, dunque il suo stesso progetto prevede di costruirla con minore stabilità, e l’altezza più grande della parte emersa rispetto a quella immersa espone la nave molto più al vento: navi più belle, scintillanti e lussuose, ma dalla scarsissima sicurezza! Questo è il capitalismo.

La borghesia trova sempre i capri espiatori per giustificare le disgrazie la cui causa di fondo non è mai il comportamento dell’individuo, per quanto investito di responsabilità di comando: egli non è che un veicolo del movimento generale che la società del capitale – la società che ha trasformato tutto in merce e in profitto capitalistico, compresi i comportamenti umani – imprime ad ogni attività del vivente lavoro, sottoponendo le sue condizioni alla legge del lavoro morto, del capitale costante, appunto del profitto capitalistico assicurato soltanto dalla dittatura sociale del capitale. E’ contro questa dittatura sociale, e politica, del capitale che le forze dell’unica classe portatrice del vero progresso umano – la classe dei lavoratori salariati, dei proletari moderni – deve lottare per liberare il vivente lavoro della specie umana dalle catene del modo di produzione capitalistico e dalle sue tragiche contraddizioni.

23 gennaio 2012

 


 

(1)   Cfr. Drammi gialli e sinistri della moderna decadenza sociale. Tecnica rilasciata ed incurante, gestione parassitaria e predona, “il programma comunista”, n. 17/1956, raccolto poi, con altri articoli e “fili del tempo” nel volume dallo stesso titolo, edito da Iskra edizioni, Milano 1978.

(2)   Ibidem.

(3)   Ibidem.

(4)   Ibidem.

(5)   Come riportato da “Il Fatto Quotidiano” del 15/1/2012.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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