Arduo lavoro di difesa delle linee programmatiche, politiche, tattiche e organizzative del Partito nella vitale critica marxista dell'imperialismo capitalista, nel bilancio dinamico del movimento comunista internazionale e nella prospettiva della futura ripresa della lotta di classe.

Riunione Generale di partito, Milano 15-16 dicembre 2012

(«il comunista»; N° 128; novembre 2012 - gennaio 2013)

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- Corso dell’imperialismo

- Il Partito Comunista Internazionale nel solco delle battaglie di classe della Sinistra Comunista e nel tormentato cammino della formazione del partito di classe

 

 

Lo scorso dicembre, nelle giornate di sabato e domenica 15 e 16, si è tenuta, come ogni anno, la riunione generale di partito d'autunno. Erano previsti due rapporti, nella giornata di sabato: 1) il Corso dell’imperialismo, e 2) la Storia del partito comunista internazionale (continuazione del lavoro precedente già  raccolto nel I° volumetto inserito nel sito del partito); mentre, nella giornata di domenica, sono stati affrontati i diversi aspetti legati all’attività delle sezioni e, in particolare, alla stampa di partito. Il lavoro è stato intenso e proficuo, incoraggiando continuità e dedizione all'attività di partito nonostante l'esile compagine fisica da noi rappresentata oggi nel solco della formazione del partito comunista rivoluzionario, forte e compatto di domani.

La nostra battaglia è la continuazione diretta e decisa della lotta che il partito di ieri - "partito comunista internazionale/programma comunista" - ha condotto non solo sul piano della difesa della teoria marxista contro ogni attacco revisionista e deviante e contro ogni cedimento alle illusioni immediatiste ed espedientiste volte ad "accelerare" ed "estendere" l'influenza del partito sulle masse proletarie ancora immerse nel democratismo e nel collaborazionismo interclassista, ma anche contro ogni faciloneria tattica e organizzativa con la quale si  immaginava di saltare gli ostacoli materiali che la storia delle lotte di classe - con le sue rare vittorie e le sue numerose sconfitte - poneva, e pone, sul corso di sviluppo estremamente accidentato del movimento di emancipazione del proletariato mondiale. Stanno passando trent'anni dalla crisi esplosiva che mandò in mille pezzi l'organizzazioni del partito, crisi alla quale abbiamo dedicato e dedichiamo forze ed energie al fine di non dimenticare le vitali lezioni che dal corso di sviluppo del partito e dalle sue crisi era ed è necessario tirare.

 

Il nostro lavoro non doveva e non deve limitarsi a custodire e ribadire le tesi di partito, non doveva e non deve limitarsi a ripubblicare i vecchi, e "sacri", testi; tantomeno vantare una "eredità" e una "continuità" del tutto formale e bugiarda col partito di ieri sulla base di dichiarazioni del tutto verbali o per il fatto di possedere, dopo averle carpite furbescamente o legalmente, testate del vecchio partito di ieri. L'attività di un partito come il nostro partito comunista internazionale non è un'attività produttiva o commerciale sottosposta alla legge della proprietà privata, e tantomeno della proprietà intellettuale, che si vende o si compra, o si eredita per via parentale o azionaria. La si alimenta e se ne assicura la continuità nel tempo e nello spazio attraverso un lavoro collettivo caratterizzato dalla fermezza dottrinaria, dalla certezza della posizioni politiche che ne discendono, da una prassi coerente con l'impianto teorico e programmatico generale e da una rosa di norme tattiche predefinita e conosciuta che chiamiamo piano tattico. La si alimenta e se ne assicura la continuità nel tempo e nello spazio senza rincorrere le variazioni della cosiddetta attualità, e senza far dipendere la giustezza delle posizioni programmatiche e politiche generali da situazioni contingenti o "impreviste", nella certezza che solo i grandi svolti storici possono determinare la necessità di un eventuale cambio di tattica.

 Non è certo inutile, a questo proposito, richiamare un importante passo da un testo fondamentale di partito, la Struttura economica e sociale della Russia d'oggi, proprio riguardo al tema della tattica (ediz. il programma comunista, 1976, Premessa, cap. 3, pagg. 54-55):

"Indubbiamente la nostra lotta è per l'affermazione, nella attività del partito, di norme di azione 'obbligatorie' del movimento, le quali devono non solo vincolare il singolo e i gruppi periferici, ma lo stesso centro del partito, al quale in tanto si deve la totale disciplina esecutiva, in quanto è strettamente legato (senza diritto a improvvisare, per scoperta di nuove situazioni, di ciarlataneschi apertisi 'corsi nuovi') all'insieme di precise norme che il partito si è dato per guida dell'azione.

"Tuttavia non si deve fraintendere sulla universalità di tali norme, che non sono norme originarie immutabili, ma norme derivate. I princìpi stabili, da cui il movimento non si può svincolare, perché sorti - secondo la nostra tesi della formazione di getto del programma rivoluzionario - a dati e rari svolti della storia, non sono le regole tattiche, ma leggi di interpretazione della storia che formano il bagaglio della nostra dottrina. Questi princìpi conducono nel loro sviluppo a riconoscere, in vasti campi e in periodi storici calcolabili a decenni e decenni, il grande corso su cui il partito cammina e da cui non può discostarsi, perché ciò non accompagnerebbe che il crollo e la liquidazione storica di esso. Le norme tattiche, che nessuno ha il diritto di lasciare in bianco né di revisionare secondo congiunture immediate, sono norme derivate da quella teorizzazione dei grandi cammini, dei grandi sviluppi, e sono norme praticamente ferme ma teoricamente mobili, perché sono norme derivate dalle leggi dei grandi corsi, e con esse, alla scala storica e non a quella della manovra e dell'intrigo, dichiaratamente transitorie.

"Richiamiamo il lettore ai tanto martellati esempi, come quello famoso del trapasso nel campo europeo occidentale dalla lotta per le guerre di difesa e di indipendenza nazionale, al metodo del disfattismo di ogni guerra che lo Stato borghese conduce. Bisognerà che i compagni intendano che nessun problema trova risposta in un codice tattico del partito. Questo deve esistere, ma per sè non scopre nulla e non risolve nessun quesito; le soluzioni si chiedono al bagaglio della dottrina generale e alla sana visione dei campi-cicli storici che se ne deducono".

 

Il metodo del nostro lavoro, dunque, che si tratti di valutare il corso dell'imperialismo e definire i rapporti di forza fra le classi e la loro variazione, di criticare la politica e l'economia borghese o di individuare le mille varianti dell'opportunismo e di lottare contro di esse, di indirizzare l'azione del partito nel proletariato e nella società o di fare il bilancio del corso di sviluppo del partito e delle sue crisi, non risponde ad una "generica più o meno scettica attesa di avvenimenti che vengano con  impreviste novità e svolte a segnare al movimento la nuova strada", come affermato nella Struttura, ma ad "un continuo confronto degli accadimenti  storici con la precedente 'attesa' e 'previsione' che il partito, nella sua viva organizzazione e partecipazione alla azione storica, è in grado di trarre, sia pure tra continue lotte, dalla teoria che ne costituisce la caratteristica e la piattaforma".

In questo, sostanzialmente, si distingue l'attività del partito marxista rivoluzionario da ogni altra organizzazione politica o altro movimento che si autodefinisce marxista. Il richiamo alla questione della tattica è utile anche per la questione organizzativa poiché, per il partito, anche in questo campo d'azione, le norme organizzative - "che nessuno ha il diritto di lasciare in bianco né di revisionare secondo congiunture immediate" - sono norme derivate, nel senso che il centralismo organizzativo cui risponde il partito di classe deriva dai princìpi rivoluzionari della dittatura di classe esercitata dal partito unico di classe che ha il compito di guidare il proletariato, a livello mondiale, non solo alla rivoluzione e nella rivoluzione, ma anche nella dittatura e nella trasformazione economica dell'intera società. La storia del movimento comunista internazionale e della lotta fra le classi che ha portato alla vittoriosa rivoluzione comunista in Russia e, successivamente, alla sconfitta della rivoluzione proletaria mondiale, e quindi anche in Russia, ha insegnato che non solo il principio democratico ma anche il metodo e la prassi della democrazia non sono utili al progresso della lotta per l'emancipazione del proletariato dal capitalismo, anzi sono estremamente dannosi e perciò vanno rigettati oltre che in teoria e nel programma del comunismo rivoluzionario anche nella prassi organizzativa che deve caratterizzare il partito di classe e la sua attività.

La formula del centralismo democratico, derivata da un periodo storico in cui il proletariato era principalmente impegnato nella "lotta per le guerre di difesa e di indipendenza nazionale", doveva necessariamente decadere nel periodo storico successivo, ossia nel periodo storico in cui l'azione del proletariato doveva essere quella del "disfattismo di ogni guerra che lo Stato borghese conduce". A questo risultato giunse prima di ogni altra corrente, la Sinistra comunista d'Italia, proponendo all'Internazionale Comunista di abbandonare la formula del "centralismo democratico", viziata congenitamente dal metodo borghese della maggioranza numerica e da una prassi democratica attraverso la quale le illusioni della democrazia borghese sarebbero rientrate nel partito di classe anche se cacciate sul piano dei princìpi generali, e di adottare la formula del "centralismo organico" che aveva la caratteristica di superare lo stadio della formula solo organizzativa poiché faceva derivare la disciplina organizzativa del partito dalla  condivisione non solo del programma generale del partito ma anche delle sue norme tattiche e dei suoi criteri organizzativi. I termini della questione organizzativa venivano in un certo senso ribaltati: per ottenere l'azione disciplinata dell'intera compagine di partito, si partiva non da un'adesione dei militanti sul piano solo ideale o solo d'azione, confidando di raggiungere l'unità d'azione e l'omogeneità di vedute attraverso successive tappe democratiche dalle quali si attendeva l'indirizzo da seguire decretato da una maggioranza di voti in appositi congressi, ma da una omogeneità organica dell'attività complessiva del partito da parte di militanti che aderivano al partito perché condividevano pienamente ogni aspetto dell'attività del partito, da quello teorico e ideale a quello pratico d'azione.

Non è un caso che la gran parte delle crisi che hanno colpito il nostro partito di ieri siano state dovute non tanto a deviazioni  sul piano teorico generale, o del  programma, quanto a deviazioni sul piano della tattica piuttosto che su quello dei criteri organizzativi.

 

Ma ora passiamo al resoconto del temi trattati nella riunione generale di dicembra scorso.

 

 

 

Corso dell’imperialismo

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Lo svolgimento del tema - di cui qui diamo un resoconto riassuntivo - ha riguardato soprattutto la ripresa degli aspetti fondamentali della critica del marxismo messi costantemente in evidenza nei lavori di partito, collegando a questa impostazione i fatti più recenti relativi all’ultima crisi capitalistica iniziata nel 2007, approfonditasi nei successivi due anni e presente ancora oggi.

Il compagno relatore ha voluto mettere a confronto la crisi del 1973-1975 con la crisi del 2007-2012, sottolineandone le caratteristiche e le differenze, ricordando inoltre quel che il partito – rispetto alla prevista crisi capitalistica del 1975 – si augurava che succedesse, riallacciandosi a quanto il partito ha sostenuto all’epoca.

Negli anni che precedevano la prevista crisi generale del capitalismo del 1975, ci si augurava che in seguito ad essa, per gli effetti che questa avrebbe provocato inevitabilmente sulle condizioni generali di esistenza delle masse proletarie, si aprisse un ciclo di lotte che si sarebbero indirizzate sul terreno della lotta di classe e, quindi, nel suo sviluppo, la crisi si sarebbe trasformata in crisi rivoluzionaria. Mentre la previsione della crisi economica del 1975 rispondeva a criteri di indagine marxista basata sui dati di sviluppo delle contraddizioni del capitalismo mondiale e dei contrasti crescenti tra le diverse potenze imperialistiche, la previsione della contemporanea crisi sociale (e quindi della possibile crisi rivoluzionaria) rispondeva più ad una speranza che ad una previsione scientifica; questo era tanto vero che, negli anni che precedettero la crisi del 1975, nella stampa di partito furono pubblicati articoli con i quali si metteva in guardia i compagni perché non cadessero nella falsa posizione secondo la quale la crisi sociale (e quindi rivoluzionaria) seguisse automaticamente la crisi capitalistica. Si metteva in risalto, inoltre, il fatto storicamente documentato che i marxisti hanno spesso previsto la crisi rivoluzionaria più vicina di quanto effettivamente fosse poi avvenuta e che ciò non doveva essere considerato un errore della previsione scientifica del marxismo sulla crisi generale e finale del capitalismo, ma una anticipazione di quanto necessariamente e storicamente avverrà in virtù della quale il partito di classe deve preparare le proprie forze ad essere pronte sia dal punto di vista teorico-programmatico che tattico-organizzativo a cogliere al meglio i fattori positivi della ripresa della lotta di classe e a combattere con più chiarezza e vigore ogni deviazione, ogni cedimento, ogni titubanza che le forze di conservazione borghese e dell’opportunismo, attraverso la loro costante e capillare attività, insinuano nelle file proletarie e nel partito stesso. Si metteva in risalto, egualmente, quanto sosteneva Trotsky a proposito della capacità del capitalismo e della classe borghese di moltiplicare enormemente la loro forza di resistenza alla catastrofe della società capitalistica: quanto più si avvicina storicamente la fine del capitalismo, tanto più le forze sociali di conservazione e, in primo luogo, la borghesia dominante, aumentano la loro forza utilizzando qualsiasi mezzo e metodo atti a prolungare la loro esistenza.

Perciò il partito di classe, nel solco dell’esperienza storica della rivoluzione bolscevica e dei bilanci dinamici tratti dalla Sinistra comunista d’Italia rispetto alla controrivoluzione borghese e staliniana, doveva e deve aumentare saldezza e coerenza teorica, basi indispensabili per rafforzare il partito di fronte ai complessi e ardui compiti non solo di direzione rivoluzionaria in situazione storicamente favorevole, ma di preparazione rivoluzionaria anche nelle situazioni, di lungo periodo, storicamente sfavorevoli.

Nel confronto fra la crisi del 1973-75 e la crisi del 2007-12, si sono messi in evidenza due aspetti di fondo: a) nel 1975 sono entrati in crisi i paesi capitalisti occidentali e solo in forma molto attenuata i paesi del blocco sovietico; b) nella crisi ultima si sono avute un’estensione e una intensità molto più grandi di quel che successe nel 1975. Ma ci sono altri aspetti non secondari da tener presente, e che riguardano lo sviluppo del capitalismo successivo al 1975: c) il crollo dell’URSS e del suo blocco di paesi (all’epoca capitalisticamente già evoluti) ha aperto di fatto un nuovo mercato al capitalismo occidentale più sviluppato; d) un altro sbocco ai capitali occidentali è stato rappresentato poi dalla Cina contribuendo in modo significativo a fronteggiare la caduta tendenziale del saggio medio di profitto. Riguardo alla Cina, va detto che lo sviluppo capitalistico in questo paese lo si deve più alla delocalizzazione di capitali occidentali investiti laggiù che allo sviluppo di un capitalismo cinese autoctono; la “concorrenza” che la Cina fa ai paesi occidentali, in realtà, è la concorrenza del capitale impiantato in Cina con i capitali originari di altri paesi, in specie di paesi occidentali. Ciò spiega, in parte, anche la “velocità”, e la diseguaglianza tra le diverse regioni del paese, con cui il capitalismo cinese si è sviluppato negli ultimi vent’anni.

Il partito ha considerato la crisi capitalistica del 1975 come una crisi mondiale rilevando la sua caratteristica principale nella simultaneità in tutti i paesi avanzati d’Occidente (Giappone compreso); per il peso mondiale dei paesi capitalisti avanzati occidentali non era sbagliato considerare la loro crisi come una crisi mondiale, anche se, come abbiamo rilevato, quella crisi non colpì allo stesso modo anche i paesi del blocco sovietico (Cina compresa). In effetti, a differenza delle crisi cicliche capitalistiche precedenti al 1975, che colpivano in particolare un paese avanzato o un piccolo gruppo di paesi avanzati mentre gli altri continuavano la loro crescita economica -  compensando in questo modo le défaillances dei paesi in crisi -, la crisi del 1975 ha rappresentato la prima grande crisi simultanea del capitalismo avanzato dalla fine della seconda guerra imperialista (graficamente, la tendenza verso questa crisi è stata rappresentata da un andamento delle economie produttive principali del mondo sempre più convergente verso lo zero e il segno negativo, formando una specie di imbuto dal quale restavano meno coinvolte le economie, come già detto, dei paesi del blocco sovietico).

Resta il fatto che di quella crisi economica e sociale il proletariato dei paesi avanzati non ebbe la forza di approfittare per riconquistare il terreno della lotta di classe, cosa che gli impedì anche di collegare il proprio movimento di lotta – intossicato com’era fino alle midolla dal riformismo collaborazionista – ai moti e alle rivoluzioni coloniali che avevano messo per quasi un ventennio in seria difficoltà la tenuta delle vecchie potenze imperialiste europee, Gran Bretagna e Francia soprattutto, uscite già indebolite dalla seconda guerra imperialistica mondiale.

La crisi del 2007-2012 è stata presentata come una crisi del credito ma, in realtà, è stata anch’essa una crisi di sovrapproduzione che il sistema del credito ha continuato a finanziare per anni, ma che non poteva finanziare per l’eternità. E su questo piano va sottolineata un’altra differenza con la crisi del 1975, e cioè che ora i capitalisti hanno ottenuto in ogni paese l’intervento massiccio e diretto dello Stato centrale a sostegno delle grandi aziende e delle grandi banche dimostrando un volta di più la tesi marxista secondo la quale non solo lo Stato centrale non è al disopra delle classi, ma è sempre più asservito al capitale.

Fra gli altri fattori determinanti nell’affrontare la crisi del 2007-2012 c’è anche la riunificazione tedesca che ha rafforzato la posizione economica della Germania, orientandola, d’altra parte, sempre più verso il centro Europa  e l’Est. La riunificazione della Germania è stato un tema al quale il partito ha dedicato del lavoro, mettendo in risalto come essa rispondeva ad una tendenza profonda del capitalismo tedesco in vigoroso sviluppo già dagli anni successivi alla fine della seconda guerra imperialista mondiale (imbrigliato dall’occupazione militare dei vincitori della seconda guerra imperialista mondiale, ma non spezzato), e ad un interesse dell’imperialismo mondiale a mantenere sotto un controllo “fidato” un proletariato con un grande passato rivoluzionario e potenzialmente risvegliabile alla lotta di classe sottoposto com’era agli scossoni economici e sociali provocati dall’implosione del sistema di controllo del blocco sovietico.

Non è da oggi che seguiamo con attenzione le contraddizioni e i contrasti che si sviluppano in Europa sotto la coltre di un europeismo di facciata e i tentativi reali di gestione degli effetti della crisi da parte dei vari governi borghesi. Si riscontra per l’ennesima volta, anche di fronte a questa ultima crisi capitalistica, la contraddizione più forte fra la tendenza alla centralizzazione capitalistica e la tendenza al decentramento, tra la forza centripeta dei grandi capitali e la forza centrifuga dei capitali minori, medi e piccoli. Politicamente, dal punto di vista borghese, le diverse  tendenze contrastanti vengono rappresentate dagli “europeisti” rigorosi (Germania, Olanda, Finlandia ecc), dagli europeisti “tolleranti” (Francia, Italia, Spagna ecc.), dagli europeisti “pentiti” (come la Grecia), dagli europeisti “mai convinti” (come la Gran Bretagna), a seconda degli interessi di ciascun capitalismo nazionale e dei rapporti di forza esistenti tra i diversi paesi. L’Europa è, in effetti, un coacervo di forze centripete e centrifughe destinato ad esplodere – come è già avvenuto nel 1914 e nel 1939 – in forza di contrasti che non sono risolvibili all’interno del modo di produzione capitalistico se non adottando misure di carattere economico, sociale e politico destinate a loro volta a far da base a crisi ancor più violente, estese e profonde.

Il capitalismo, nonostante la profondità della crisi attuale, è riuscito ad imporre e ad imporsi misure con le quali sta riuscendo a superare temporaneamente la crisi; ma – giusta la critica marxista – le stesse misure prese per “superare” la crisi sono quelle che alimentano i fattori di crisi future. Le misure drastiche prese in occasione di questa crisi hanno colpito in modo violento le grandi masse proletarie non solo chiudendo fabbriche e aziende in ogni settore economico e gettando sul lastrico migliaia e migliaia di proletari, ma andando anche a cancellare una buona parte degli ammortizzatori sociali – d’altra parte già intaccati da tempo – grazie ai quali erano stati tacitati i bisogni elementari delle grandi masse, facendo così da base materiale alla politica riformista e di collaborazione interclassista delle forze dell’opportunismo di ogni paese.

Queste misure, d’altra parte, non hanno colpito solo le grandi masse proletarie occupate nelle aziende dei capitalisti privati; hanno colpito anche una parte consistente dei proletari finora considerati “più protetti”, quelli del settore pubblico (sanità, istruzione, trasporti ecc.), e una parte significativa delle classi medie, della piccola borghesia. La profondità della crisi capitalistica la si deduce non solo dai dati economici della produzione, degli investimenti, dei salari e dei consumi, ma anche dalla necessità da parte della classe borghese dominante di colpire tendenzialmente tutti gli strati sociali, certo a partire dalle classi lavoratrici, con l’intento di sottoporre l’intera società ad un regime di controllo sociale e di sacrifici che solo una forza politica centralizzatrice può garantire alla classe dominante. Se i proletari subiscono un peggioramento delle loro specifiche condizioni di esistenza, gli strati di piccola borghesia subiscono una vera e propria proletarizzazione, una caduta negli inferi.

In tutti i paesi colpiti dalla crisi, il regime politico governativo – che sia cosiddetto di destra o cosiddetto di sinistra – tende ad adottare praticamente lo stesso programma economico, di maggiore austerità, di maggiore flessibilità della forza lavoro, di maggiore competitività delle aziende, di maggiore produttività del lavoro, di tagli degli ammortizzatori sociali e quindi, alla fin fine, di peggioramento delle condizioni di esistenza delle grandi masse proletarie. Queste misure costituiscono la sola soluzione che i governi borghesi sono in grado di adottare e, nei rapporti di forza fra i diversi paesi, i governi delle economie più forti impongono le misure più drastiche ai governi delle economie più deboli anche a costo di schiacciare paesi interi, come è successo alla Grecia. La crisi economica porta inevitabilmente alla guerra economica, sia essa tra aziende concorrenti, fra trust o fra capitalismi nazionali, e che una guerra economica di grande spessore sia in pieno svolgimento non c’è alcun dubbio, come ha dimostrato fin dall’inizio l’intervento dello Stato centrale per salvare le grandi aziende e le grandi banche.

Ma l’andamento della crisi attuale non è stato e non è quello di una sua caduta a precipizio e, per quanto le condizioni di lavoro e di vita delle grandi masse proletarie stiano notevolmente peggiorando, la borghesia dominante non è ancora giunta a schiacciare brutalmente il proletariato nelle condizioni di non potersi sollevare nella lotta per difendersi da queste condizioni brutali. E’ stato un andamento lento, con alti e bassi, ad altalena, e questo allunga nel tempo la crisi, ma permette a molti capitalisti di intervenire anche sul terreno della loro concorrenza senza giungere allo scontro militare. Ciò però dà, obiettivamente, tempo al proletariato di fare esperienze di lotta sul terreno dell’antagonismo di classe, esperienze di organizzazione della propria lotta immediata in difesa esclusiva dei propri interessi di classe; tempo al proletariato per esprimere attraverso i suoi elementi più combattivi la necessità di riconquistare mezzi, metodi e obiettivi di lotta classisti, e al partito la possibilità di penetrare negli spiragli che la crisi economica e sociale apre e aprirà inevitabilmente, per importare nelle file proletarie non solo la teoria marxista e le grandi finalità rivoluzionarie di classe, ma anche la stessa necessità di battersi sul terreno della lotta di classe, riorganizzandosi in associazioni economiche rosse per lottare, sotto la guida del partito di classe, contro l’intera classe borghese.

Il fatto che la classe borghese dominante, di fronte all’andamento lento, ad altalena, della crisi della sua economia e della sua società, utilizzi il tempo per intervenire in maniera per lei più proficua sul terreno della concorrenza con le borghesie degli altri paesi, e che questo intervento consista principalmente nell’estorsione più violenta ancora del plusvalore dal lavoro salariato, non va considerato come una mossa che anticipa una contromossa automatica del proletariato in senso contrario, ossia nella direzione di contrastare quell’intervento violento della classe borghese con altrettanta violenza di classe da parte proletaria.

Quando diciamo che lo stesso tempo che la borghesia utilizza per attrezzarsi a battere la concorrenza sul mercato mondiale senza giungere allo scontro militare, sia utilizzato dal proletariato per lottare sul terreno di classe e riorganizzarsi come classe antagonista al capitale, non vogliamo sostenere che il proletariato sia già nelle condizioni di riconquistare la sua caratteristica classista e che sia quindi in procinto di riorganizzarsi con metodi e mezzi di classe. Il proletariato, nei suoi reparti più avanzati, sarà in grado di esprimere effettivamente e durevolmente una tendenza classista sul terreno della lotta immediata solo dopo che nelle sue file si saranno spezzati i legami che lo vincolano al collaborazionismo, alla pace sociale, al legalitarismo, alle illusioni democratiche; e questi legami non si spezzeranno grazie ad una cosiddetta “presa di coscienza” antiriformista, ma a causa di scontri materiali e fisici sulle insostenibili condizioni di vita proletarie di fronte alle quali la borghesia non avrà briciole da distribuire a tutti e si affiderà sistematicamente alla più cruda e brutale repressione.

 

Alla fine del rapporto, il compagno relatore illustrava alcuni grafici relativi  al tasso di crescita del Pil dei maggiori paesi, al flusso dei capitali, alle esportazioni/importazioni, ai salari ecc. a conferma di quanto esposto, e che verranno utilizzati nel rapporto esteso che verrà pubblicato in seguito.

 

 

 

Il Partito Comunista Internazionale nel solco delle battaglie di classe della Sinistra Comunista e nel tormentato cammino della formazione del partito di classe

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Il secondo rapporto ha riguardato la continuazione del lavoro già avviato sulla Storia del nostro partito, attraverso il suo sviluppo e le sue crisi. Dal punto di vista cronologico si è inteso riprendere il lavoro dagli anni Sessanta (anni ai quali giunge la prima parte dello studio, pubblicata nel sito del partito), mentre dal punto di vista delle questioni si è voluto incentrare l’attenzione sulla questione “sindacale” poiché questa è stata una delle questioni più discusse e dibattute all’interno del partito sia dal punto di vista dell’impostazione che da quello della tattica da applicare nei confronti delle organizzazioni sindacali esistenti e nei confronti dei proletari. Va da sé che per noi ogni “questione tattica” è legata a tutte le altre poiché il nostro impianto programmatico non prevede questioni fra di loro separate né tantomeno autonome dall’impianto generale nel quale, d’altra parte, rientrano tutte le tesi di cui il partito si è dotato partendo dai bilanci dinamici delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni inseriti nella indispensabile restaurazione dottrinaria del marxismo e messi a base della sua ricostituzione nel secondo dopoguerra.

Abbiamo preso le mosse dal ribadimento delle posizioni di partito sulla questione “sindacale” fissate in articoli e tesi per poi seguire lo sviluppo dell’attività del partito in questo campo e le successive posizioni maturate strada facendo; abbiamo visto come dalle posizioni ferme e chiare di impostazione politica che il partito espresse negli anni della restaurazione teorica, programmatico-politica e tattica, si passò, in un primo tempo impercettibilmente e poi sempre più dichiaratamente, a posizioni zoppicanti, generiche e infine sbagliate, tanto che portarono il partito a scivolare sulla strada della tattica opportunistica e, attraverso di essa, del completo abbandono delle sue tesi fondamentali.

Una delle prime questioni da chiarire per il partito che si stava ricostituendo nel secondo dopoguerra intorno al lavoro di restaurazione teorica e di bilancio del movimento operaio e comunista degli anni gloriosi delle lotte rivoluzionarie e della rivoluzione bolscevica e degli anni della sconfitta e della controrivoluzione staliniana, è stata quella di definire con grande chiarezza i caratteri del capitalismo nel suo stadio imperialistico, nella sua dinamica economica e sociale e nella sua sovrastruttura politica e ideologica, rimettendo in piedi in modo fermo la critica marxista su democrazia e fascismo, sullo Stato e sulle forme organizzative del movimento operaio a livello sindacale e partitico, sul “vecchio” e “nuovo” opportunismo, oltre che, ovviamente, sui fondamenti dell’economia marxista. Nel 1946, nel Tracciato d’impostazione, si ritrovano tutti gli elementi di base che servono per sviluppare la critica marxista su tutte le questioni fondamentali di fronte alle quali il partito di classe si trovava a dare risposte definite, chiare, inequivocabili, in piena coerenza con le battaglie di classe della Sinistra comunista d’Italia e con il marxismo. Una delle questioni di base che il partito doveva affrontare, per affilare al meglio le armi della critica, era quella dell’opportunismo; tale tema fu sviluppato in una quantità enorme di articoli e di rapporti alle riunioni generali e dobbiamo anche a questo lavoro insistente, sistematico, coinvolgente tutti i possibili aspetti di teoria, programma, linea politica, tattica e di organizzazione – lavoro che trova le sue linee dorsali nelle tesi di partito, nella lunga serie dei “fili del tempo”, oltre che nei rapporti tenuti nelle riunioni generali – se il partito è riuscito nel corso del suo sviluppo e delle sue crisi interne a contrastare l’influenza di posizioni sbagliate e a ritrovare le posizioni corrette.

Tra le questioni più ardue e ostiche, e sulle quali era – ed è – più frequente essere impigliati nelle contraddizioni della società capitalistica, e più facile cadere in errore, primeggia inevitabilmente la questione dei rapporti fra partito e classe, e quindi la cosiddetta “questione sindacale”.

Il relatore, intendendo riprendere le posizioni del partito fin dai primi bilanci e dalle prime definizioni per seguire poi lo sviluppo dell’attività del partito in questo campo e valutare la coerenza o meno delle posizioni prese nel tempo rispetto all’impianto generale posto a base dell’attività stessa del partito, ha iniziato rifacendosi al “filo del tempo” dal titolo Le scissioni sindacali in Italia, pubblicato su “battaglia comunista” n. 21 del 1949 (ripubblicato poi nell’opuscoletto del 1975 intitolato Punti di orientamento e direttive pratiche di azione sindacale) nel quale, oltre a sintetizzare bene, nella loro evoluzione storica, laecaratteristiche dei sindacati rossi, gialli e bianchi del periodo pre-fascista, si definiscono chiaramente i caratteri dei sindacati fascisti e dei sindacati post-fascisti, che chiamammo tricolore.

I sindacati rossi, chiamati così da amici e nemici, associavano solo lavoratori salariati, “di tutti i partiti e di tutte le credenze, sulla base della loro attività lavorativa nelle fabbriche e nei poderi”. La loro origine, ad esempio in Italia, va cercata nei propagandisti del partito socialista che erano, nello stesso tempo, organizzatori (e non funzionari) sindacali. In tempi successivi “altri partiti oltre il socialista scendono nell’agone sindacale con propositi non solo di concorrenza ma di contrattacco sociale”; sono i repubblicani che organizzano i grassi mezzadri della Romagna (ricca regione agricola), contro cui lottano i braccianti per un salario meno magro, e che danno vita “a leghe e Camere del Lavoro che chiamammo gialle in contrapposto alle rosse socialiste”. Dove domina la frazionatissima proprietà, ad esempio nel Veneto, prevalgono i preti: “Quando non basta più il pulpito e il circolo cattolico appena meno buio e silenzioso della sacrestia, vediamo fondare la Camera del Lavoro bianca. Se riunisca sindacati, mutue o consorzi di agricoltori per comprare concime non è facile a dire, talvolta ha la targa comune addirittura a quella della Banca Cattolica”. E così, in Italia, abbiamo “tre Confederazioni sindacali, sebbene con diverso peso regionale: rossa, bianca e gialla”. Con il sopraggiungere della prima guerra mondiale, la Confederazione del Lavoro, sebbene sempre diretta da elementi socialisti di destra, “resistette senza scissioni nella opposizione alla guerra pur rifiutando di proclamare lo sciopero generale nelle giornate di ubriacatura patriottica del maggio 1915”.

Alla stessa corrente dei socialisti riformisti di destra e degli interventisti appartenevano i fascisti mussoliniani che si posero l’obiettivo di fondare anch’essi i propri sindacati che, in un primo tempo, “comparvero come una delle tante etichette sindacali, tricolore contro quelle rosse, gialle e bianche”, ma che nel mondo capitalistico che era ormai il mondo del monopolio, “si svolsero nel sindacato di stato, nel sindacato forzato, che inquadra i lavoratori nell’impalcatura del regime dominante e distrugge in fatto e in diritto ogni altra organizzazione”, e in questo caso andava anche bene chiamare i sindacati fascisti, sindacati neri.

L’epoca contemporanea, afferma il “filo del tempo” che stiamo citando, ha quindi presentato un gran fatto nuovo – lo svolgimento del sindacato operaio nel sindacato di stato – che “non era reversibile”, concludendo che “esso è la chiave dello svolgimento sindacale in tutti i grandi paesi capitalistici”! Tale valutazione era stata, d’altra parte, già anticipata in un “filo del tempo” precedente (pubblicato senza titolo, ma titolato da noi Il corporativismo capitalistico è bipolare, febbraio 1949) in cui si affermava che quello svolgimento corporativistico – che nulla aveva a che vedere con il corporativismo del medioevo che inquadrava esclusivamente gli artigiani e i garzoni di bottega, ma non le classi dominanti – era “un processo sostanziale del modo di ordinarsi del regime capitalistico che con questi inquadramenti coatti tende alla soppressione dei sindacati autonomi e all’abolizione dello sciopero”, dopo che l’organizzazione degli interessi economici degli operai salariati si era resa storicamente inarrestabile, e che “la legge, come altra volta rammentavamo, dovette ammettere il principio sindacale, che si estese a tutte le categorie e finalmente divenne arma degli stessi gruppi capitalistici”. In sostanza, “il modernissimo tipo di ordinamento”, cioè il capitalismo, “non solo vuole riconoscere ma introdurre costituzionalmente nello Stato questi organismi associativi” e questo “è un prodotto originale del mondo capitalistico e non ha nulla a vedere col ritorno alle corporazioni”.

La tendenza storica alla centralizzazione monopolistica del capitale e la parallela centralizzazione politica non sono state interrotte dalla vittoria delle democrazie sul fascismo: la democrazia post-fascista eredita dal fascismo la tendenza alla centralizzazione, ed eredita dal fascismo, in particolare, la politica sociale con tutto il castello di ammortizzatori sociali utile per il controllo del proletariato. Se il fascismo è stato il solo vero possibile erede del riformismo, la democrazia post-fascista è stata la sola vera possibile erede del fascismo. Questo aspetto, insieme ad altri collegati, è stato affrontato nella Riunione Generale del dicembre 2011 dedicata per l’appunto al sindacalismo fascista e di cui, pur poco per volta, abbiamo iniziato la pubblicazione nella stampa di partito: cosa che continuerà dal prossimo numero del giornale.

La costituzione della Confederazione Generale Italiana del Lavoro (la CGIL), risorta grazie alla sconfitta del fascismo e quindi del suo sindacato unico e forzato, proprio perché realizzata sulla base del CLN resistenziale, non era considerata dal partito un’organizzazione rossa – come voleva farsi passare, mistificando una filiazione dalla vecchia CGL socialista e rossa – ma era un’organizzazione tricolore “cucita sul modello Mussolini”, cosa che non è cambiata con le successive scissioni e il distaccarsi dei democristiani (che formarono la CISL) e poi dei repubblicani e socialdemocratici (che formarono la UIL). La tendenza era e rimane irreversibile, qualunque formazione sindacale diversa sorgesse e sorga da ulteriori scissioni poiché lo svolgimento sindacale in tutti i grandi paesi capitalisti non poteva e non può essere diverso.

Ci fu una corrente nel partito di allora – quella che, per stringere il brodo, chiamiamo “dameniana” – che, da questa tesi, trasse la conclusione secondo cui il partito non aveva più alcun interesse ad intervenire nel sindacato poiché questa organizzazione non sarebbe più stata una possibile cinghia di trasmissione del partito rivoluzionario verso la classe proletaria –; il sindacato sarebbe stato sempre e comunque organismo dello Stato a direzione esclusivamente borghese e impermeabile all’azione e all’attività classista e sostenne, perciò, la tesi che il partito non avrebbe avuto più il problema di tracciare una “tattica sindacale” perché i suoi militanti non avevano alcun compito da svolgere nei sindacati ormai dati per semplici apparati statali. Il partito, secondo questa tesi, avrebbe avuto il compito di tracciare solamente una “tattica di intervento politico” attraverso la costituzione di propri e diretti “gruppi comunisti” nelle fabbriche, organismi squisitamente politici e rivoluzionari ai quali si sarebbe dovuto affidare il compito di funzionare essi stessi come “cinghia di trasmissione” tra il partito e la classe, finendo in questo modo per esprimere una posizione che negava a priori, e per principio, un potenziale valore classista alla lotta immediata del proletariato, se condotta con mezzi e metodi classisti e per obiettivi classisti, e che negava la necessità e la possibilità del partito di influenzare e dirigere la classe nel movimento rivoluzionario alla condizione che la maggioranza della classe fosse organizzata in associazioni economiche nelle quali il partito avesse potuto svolgere la sua attività, influenzarle e prenderne la direzione.

La posizione che prese il partito fu, invece, quella ridefinita nelle tesi del 1951 (Partito rivoluzionario e azione economica), delle quali basta qui ricordare il punto 4 (“I sindacati, da chiunque diretti, essendo associazioni economiche di professione, raccolgono sempre elementi della medesima classe. E’ ben possibile che gli organizzati proletari eleggano rappresentanti di tendenze non solo moderate ma addirittura borghesi, e che la direzione del sindacato cada sotto l’influenza capitalista. Resta tuttavia il fatto che i sindacati sono composti esclusivamente da lavoratori e quindi non sarà mai possibile dire di essi quello che si dice del parlamento, ossia che sono suscettibili solo di una direzione borghese”), il punto 6, alla lettera c , “[...] nelle complesse vicende di questi totalitarismi borghesi, non fu mai adottata l’abolizione del movimento sindacale. All’opposto, fu propugnata e realizzata la costituzione di una nuova rete sindacale pienamente controllata dal partito controrivoluzionario, e, nell’una o nell’altra forma, affermata unica e unitaria, e resa strettamente aderente all’ingranaggio amministrativo e statale. Anche dove, dopo la seconda guerra, per la formulazione politica corrente, il totalitarismo capitalista sembra essere stato rimpiazzato dal liberalismo democratico, la dinamica sindacale séguita ininterrottamente a svolgersi nel pieno senso del controllo statale e della inserzione negli organismi amministrativi ufficiali. Il fascismo, realizzatore dialettico delle vecchie istanze riformiste, ha svolto quella del riconoscimento giuridico del sindacato in modo che potesse essere titolare di contratti collettivi col padronato fino all’effettivo imprigionamento di tutto l’inquadramento sindacale nelle articolazioni del potere borghese di classe. Questo risultato è fondamentale per la difesa e la conservazione del regime capitalista appunto perché l’influenza e l’impiego di inquadrature associazioniste sindacali è stadio indispensabile per ogni movimento rivoluzionario diretto dal partito comunista”); il punto 7 (“... E’ indubitabile che mentre la teoria marxista della crescente miseria si conferma per il continuo aumento numerico dei puri proletari e per l’incalzante espropriazione delle ultime riserve di strati sociali proletari e medi, centuplicata da guerre, distruzioni, inflazione monetaria ecc., e mentre in molti paesi raggiunge cifre enormi la disoccupazione e lo stesso massacro dei proletari; laddove la produzione industriale fiorisce, per gli operai occupati tutta la gamma delle misure riformiste di assistenza e previdenza per il salariato crea un nuovo tipo di riserva economica che rappresenta una piccola garanzia patrimoniale da perdere, in certo senso analoga a quella dell’artigiano e del piccolo contadino; il salariato ha dunque qualche cosa da rischiare, e questo [...] lo rende esitante ed anche opportunista al momento della lotta sindacale e peggio dello sciopero e della rivolta”), e il punto 8 (“Al di sopra del problema contingente in questo o quel paese di partecipare al lavoro in dati tipi di sindacato ovvero di tenersene fuori da parte del partito comunista rivoluzionario, gli elementi della questione fin qui riassunta conducono alla conclusione che in ogni prospettiva di ogni movimento rivoluzionario generale non possono non essere presenti questi fondamentali fattori: 1) un ampio e numeroso proletariato di puri salariati; 2) un grande movimento di associazioni a contenuto economico che comprenda una imponente parte del proletariato; 3) un forte partito di classe rivoluzionario, nel quali militi una minoranza dei lavoratori ma al quale lo svolgimento della lotta abbia consentito di contrapporre validamente ed estesamente la propria influenza sul movimento sindacale a quella della classe e del potere borghese. [...] Le linee generali della svolta prospettiva non escludono che si possano avere le congiunture più svariate nel modificarsi, dissolversi, ricostituirsi di associazioni di tipo sindacale; di tutte quelle associazioni che ci si presentano nei vari paesi sia collegate alle organizzazioni tradizionali che dichiaravano fondarsi sul metodo della lotta di classe, sia più o meno collegate ai più diversi metodi e indirizzi sociali anche conservatori”).

Tale impostazione è ribadita in modo definitivo nelle Tesi caratteristiche del partito (1951) presentate nella Riunione Generale del settembre 1951 a Firenze, in particolare nei punti 10 e 11 della “Parte IV. Azione di partito in Italia e altri paesi al 1952”, dove si afferma che (punto 11): “Il partito non sottace che in fasi di ripresa non si rafforzerà in modo autonomo, se non sorgerà una forma di associazionismo economico sindacale delle masse. Il sindacato, sebbene non sia mai stato libero da influenze di classi nemiche e abbia funzionato da veicolo a continue e profonde deviazioni e deformazioni, sebbene non sia uno specifico strumento rivoluzionario, tuttavia è oggetto d’interessamento del partito, il quale non rinuncia volontariamente a lavorarvi dentro, distinguendosi nettamente da tutti gli altri raggruppamenti politici. Il partito riconosce che oggi può fare solo in modo sporadico opera di lavoro sindacale, e dal momento che il concreto rapporto numerico tra i suoi membri, i simpatizzanti, e gli organizzati in un dato corpo sindacale risulti apprezzabile e tale organismo sia tale da non avere esclusa l’ultima possibilità di attività virtuale e statutaria autonoma classista, il partito esplicherà la penetrazione e tenterà la conquista della direzione di esso”.  Anche sulla base di queste tesi, nel 1951/1952 si consumò la prima e decisiva grande scissione del “partito comunista internazionalista” dalla quale sorse il nostro partito di ieri.

L’attività di carattere sindacale, per quanto sporadica e portata avanti da forze limitatissime del partito, ebbe sempre una grande importanza per il nostro movimento perché costituiva uno dei pochi terreni immediati per entrare concretamente “in contatto con la classe operaia”. Per quanto poche fossero le forze che costituivano il partito in quegli anni, tra i militanti del partito vi erano molti operai, molti compagni della vecchia guardia del ’21 erano operai, quindi l’attività di carattere sindacale del partito non era dovuta ad una “volontà”, esterna alle fabbriche, di penetrarvi all’interno, ma ad una necessità concreta dei militanti di partito di intervenire in fabbrica, nelle assemblee sindacali e nelle lotte portando le risposte del partito alle necessità della lotta proletaria, alle necessità di organizzare la lotta di difesa immediata sul terreno di classe con obiettivi, mezzi e metodi classisti contrastando l’ideologia, la politica e l’opera dell’opportunismo fin nelle sue radici immediate; insomma, seguendo con coerenza le indicazioni delle tesi di partito, fuori da ogni forma di attivismo, di espedientismo e dalle illusioni di facili successi.

Nella stampa di partito e nelle circolari interne, tale impostazione veniva continuamente ribadita, anche per continuare a combattere contro gli eventuali residui di posizioni sbagliate – sopra ricordate – che avevano albergato nel partito per diversi anni e che nel 1952 si espressero nella scissione.

Il relatore fornì una serie di citazioni dalla stampa di partito e dalle circolari a documentazione della continuità delle posizioni corrette del partito. Ad esempio, la circolare del 4.5.1962.  intitolata “Punti di principio e di organizzazione per il lavoro del partito in generale e di ogni singola sezione negli organismi economici proletari e nelle lotte rivendicative”, nella quale si dava, insieme alla direttiva ai propri militanti di:

“entrare a far parte del sindacato unitario per agitare in esso – in quanto abbracciante soli proletari di qualunque origine, di qualunque fabbrica, di qualunque localizzazione geografica – i principi del marxismo rivoluzionario, le parole di battaglia del Partito di classe e denunziare in ogni occasione il tradimento dei partiti opportunisti [il PCI e il PSI] che tale sindacato [la CGIL] controllano, nella prospettiva, legata a congiunture favorevoli per ora lontane, di conquistarne la direzione”,

anche quella di battersi:

“per la ricostituzione del sindacato unitario di classe, ricostituzione che si avvererà nella misura in cui, sotto l’ispirazione e direzione del Partito rivoluzionario marxista, esso darà ai proletari organizzati – spinti, dalla forza delle cose e da una dura esperienza di decennali sconfitte, a muoversi su un piano di completa autonomia dai partiti borghesi e dal loro Stato – una chiara e inequivocabile direzione di classe, contro le multicolori centrali di origine e di impostazione padronale, mai attraverso, o per effetto, di mercanteggiamento con queste ultime”.

In tale circolare si sottolinea anche la necessità di combattere la tesi dell’apoliticità del sindacato, sulla scorta delle posizioni mille volte ribadite da Lenin e dalla Sinistra comunista d’Italia.

Ribadendo che:

“il lavoro e la lotta nel seno delle associazioni economiche proletarie è una delle condizioni indispensabili per il successo della lotta rivoluzionaria, insieme alla pressione delle forze produttive contro i rapporti di produzione e alla giusta continuità teorica e organizzativa e tattica del partito politico” (Riunione generale di Roma, 1 aprile 1951),

si riafferma, ritracciando la prospettiva di classe dell’attività del partito nei sindacati operai, che:

“il perno del nostro intervento, che è inseparabilmente di critica teorica politica e di indirizzo pratico, è oggi più che mai l’inflessibile denunzia del carattere controrivoluzionario delle lotte e agitazioni separate, disorganiche, parziali, divise nello spazio e nel tempo, contenuto nei limiti della fabbrica, rispettose della legalità, e la rivendicazione della loro massima estensione, continuità e compattezza, con tutto ciò che una simile presa di posizione di principio implica nei riflessi degli attuali metodi ‘scientifici’ di lotta di settore, di fabbrica, di reparto, a cronometro, al contagocce ecc. Il capovolgimento di questa politica sindacale e il ritorno ai metodi tradizionali di lotta nelle agitazioni e negli scioperi non è un problema tecnico, ma politico”.

Non entrando nel merito di piattaforme di lotta sindacale da contrapporre a quelle delle centrali sindacali tricolori, si affermava comunque che “al centro delle nostre parole d’ordine ‘rivendicative’ – organicamente collegate alle già dette questioni di principio”, ci dovevano essere “quelle tradizionali della riduzione generale e indiscriminata dell’orario di lavoro e dell’aumento generale del salario, quest’ultimo in modo tuttavia che i salari inferiori crescano più dei superiori e si riduca quindi il grave scarto tra le remunerazioni dei non qualificati e quelle dei qualificati”; si metteva così per l’ennesima volta al centro delle nostre parole d’ordine la battaglia contro la concorrenza fra proletari.

La necessità di formulare una piattaforma sugli scopi generali del movimento operaio e delle sue lotte sul terreno economico e immediato era comunque sentita dal partito, che si mise al lavoro “per studiare, per poi farne oggetto di critica dettagliata da portare a conoscenza degli operai, le clausole dei contratti nazionali di categoria che riflettono la subdola e canagliesca politica di disgregazione e svirilizzazione del movimento operaio e delle sue organizzazioni economiche immediate”, ed anche a questo scopo veniva lanciata l’iniziativa di pubblicare un Bollettino mensile nazionale, da allegare al giornale di partito, che si chiamerà Spartaco e che uscirà come “Bollettino centrale di impostazione programmatica e di battaglia dei Comunisti Internazionalisti aderenti alla CGIL”, in seguito, dal novembre 1965, indicato come “Pagina di impostazione programmatica e di battaglia dei militanti del partito comunista internazionalista – poi, internazionaleiscritti alla Confederazione Generale del Lavoro”. Ora, già in questa differente denominazione va notato che il riferimento non è più agli iscritti “alla CGIL” (Confederazione Generale Italiana del Lavoro), ma agli “iscritti alla CGL” (Confederazione Generale del Lavoro): dalla vera sigla fu cancellato, arbitrariamente, il riferimento “Italiana”, come se al partito fosse bastato cancellare questo specifico riferimento tricolore perché quel sindacato non fosse più considerato, appunto, tricolore, ma ... rosso, come rossa era effettivamente la CGL prima che fosse distrutta dal fascismo!

La crisi economica del 1963-64 fu il pretesto per il capitalismo italiano di passare al blocco dei salari e ai licenziamenti, chiamando i sindacati tricolore ad una vera e propria “offensiva” a difesa della “prosperità economica del paese” e propagandando la necessità di fare “sacrifici” oggi per un “benessere” futuro. Le “riforme di struttura” e la cosiddetta “programmazione democratica” che dovevano vedere la collaborazione tra capitalisti e proletari, ovvero tra Stato borghese centrale, associazioni padronali, partiti opportunisti e sindacati tricolore (eccolo il corporativismo capitalistico), venivano agitate come la summa della soluzione per superare la crisi capitalistica. La chiamata dei borghesi trovò la risposta dei sindacati tricolore, come è ovvio per questi sindacati, mistificanti la difesa dei “diritti” dei lavoratori, negli scioperi al contagocce, fabbrica per fabbrica, reparto per reparto ecc., e nell’iniziativa che avrebbe dovuto portare, ad un certo punto, all’unificazione sindacale tra CGIL, CISL e UIL, formando idealmente un’unica grande “controparte” in grado di controllare ancor più capillarmente la massa proletaria per conto della conservazione borghese.

Ebbene, nel partito, all’epoca, attraverso il lavoro sindacale e la sua rappresentazione sulla stampa – inizialmente su Spartaco – cominciarono ad insinuarsi valutazioni e posizioni meno rigorose, più duttili, più sfumate, partendo proprio dalla valutazione della CGIL. Su Spartaco, ad esempio, nel nr. del febbraio 1965, nell’articolo “In vista del congresso CGIL. Il bilancio fallimentare della politica controrivoluzionaria delle centrali sindacali e la linea programmatica e tattica del Partito Comunista Internazionale”, al punto 16, a proposito dell’unità sindacale tra CGIL, CISL e UIL, si afferma:

“La decantata unità sindacale perseguita dai capi CGIL con le Centrali bianche e gialle, CISL e UIL, espressione di aperti interessi padronali, non effettuandosi né potendosi effettuare sulla base di un programma di interessi generali comuni a tutti i proletari, mira piuttosto all’obiettivo della creazione di un’unica organizzazione sindacale controrivoluzionaria che imprigioni tutti i salariati; allo stesso modo che ieri l’unica organizzazione sindacale, la CGIL, fu spezzata dalla costituzione della CISL e dell’UIL nell’intento di fiaccare il più rapidamente possibile le resistenze naturali degli operai, dividendo il fronte proletario. Il ritorno all’unità proletaria o significa – come ora – l’abbandono completo da parte della CGIL di ogni parvenza di classe, ovvero – come noi auspichiamo – sarà il prodotto della crescente mobilitazione di classe dei salariati decisi a ritrovare un’unica organizzazione compatta ed invincibile, il cui presupposto è la sostituzione dei capi traditori con dirigenti fedeli agli interessi operai”.

La CGIL, qui, ma anche in precedenza, non viene mai definita sindacato tricolore, come sarebbe stato ovvio e necessario, in perfetta continuità con la giusta valutazione del 1949; parlando della CGIL ci si riferisce soltanto alla sua “direzione controrivoluzionaria”, mentre quando si parla di CISL e UIL non si ha timore di chiamarli sindacati bianchi e gialli. Di più, nella CGIL si comincia a scorgere una “parvenza di classe” che in un certo senso giustificava la direttiva del partito di lavorarvi dentro, cosa che il partito aveva deciso di fare comunque, già con le tesi del 1951, senza bisogno di agganciarsi ad una presunta “parvenza di classe”, ma dichiarando apertamente che si trattava di un sindacato tricolore, quindi collaborazionista, ma al quale aderiva la stragrande maggioranza della classe operaia e non era vietata né virtualmente né statutariamente l’attività dei comunisti internazionalisti.

Abbiamo già evidenziato l’equivoco ritocco nella sigla (CGL al posto di CGIL) contenuto nella dicitura che definisce Spartaco dal novembre 1965. In questo stesso numero, nell’articolo di fondo intitolato “Feticci da abbattere perché rinascano la lotta di classe e il sindacato rosso”, in mezzo ad una serie corretta di critiche all’opera controrivoluzionaria dei sindacati su quelli che vengono giustamente considerati feticci – come le riforme di struttura e i contratti nazionali e, ancor più, i contratti aziendali – ritroviamo un’altra frase con la quale il partito sembra scoprire per la prima volta che le direzioni sindacali (non solo della CISL e della UIL, ma anche della CGIL) si predispongono a “divenire servi dello Stato capitalista” allo scopo di “soffocare ogni fermento di ripresa rivoluzionaria nella classe e nelle associazioni proletarie”, come se la CGIL non fosse già nata serva dello Stato capitalista (e perciò la si chiamò sindacato tricolore) - di uno Stato che non era più fascista, ma democratico e repubblicano, cosa che non mutava per nulla la sua funzione fondamentale di difensore degli interessi della classe dominante borghese -, e come se fossimo già entrati nel periodo di “fermento di ripresa rivoluzionaria” quando invece il periodo che si stava attraversando era ancora profondamente controrivoluzionario. Ma leggiamo il brano:

“Le bonzerie sindacali che dirigono le organizzazioni economiche operaie, perseguendo la attuale politica forcaiola di riformismo utopistico, si abilitano in realtà a soffocare ogni fermento di ripresa rivoluzionaria nella classe e nelle associazioni proletarie; si dispongono insomma a divenire servi dello Stato capitalista”.

Nello Spartaco del gennaio 1966, all’interno del manifesto intitolato “Per la mobilitazione generale della classe proletaria contro la massiccia ed unitaria offensiva padronale”, dopo aver criticato l’unità sindacale cui lavoravano CGIL, CISL e UIL, e la loro politica circa i contratti nazionali, le lotte articolate, dopo aver richiamato i proletari a considerare il loro nemico storico, la classe borghese dominante, come appunto un nemico contro cui lottare senza risparmio di energie, e dopo aver criticato a fondo la politica e la pratica opportuniste dei sindacati CGIL, CISL e UIL, si riassumono i punti generali ritenuti indispensabili di un programma rivendicativo di classe cui il partito richiamava i proletari (Aumento senza eccezioni del salario base, Radicale diminuzione della giornata di lavoro a parità di salario, Salario integrale ai disoccupati), e si termina con queste rivendicazioni specificamente riguardanti la CGIL:

“in aperta contrapposizione a quelle agitate dalle Centrali sindacali opportuniste, il nostro partito vi chiama allo sciopero generale, prima ed elementare manifestazione di classe,

“- per impedire che i vostri sindacati si trasformino totalmente in organi corporativi;

“- per ricondurre la CGIL sul cammino della tradizione gloriosa del Sindacato Rosso;

“- per farne il polo di attrazione e il centro di mobilitazione generale ed unitario del proletariato delle città e dei campi!”.

Qui prima si parla genericamente di tutti i sindacati senza distinguere, come in precedenza si faceva, tra i sindacati dichiaratamente padronali (CISL e UIL) e il sindacato operaio sebbene a struttura e direzione tricolori (CGIL); questo se, da un lato, potrebbe essere giustificato poiché la loro politica riguardo le masse salariate non si distingue un granché da un sindacato all’altro (anzi, in diversi casi è la politica collaborazionista tracciata dalla CISL ad influenzare la politica della CGIL), dall’altro si esaspera il valore dello “sciopero generale” come se fosse l’unica risposta a livello immediato [“prima ed elementare manifestazione di classe”!] che i proletari hanno a disposizione. Alle lotte parziali viene negato, di fatto, ogni valore di classe, anche se fatte con obiettivi, mezzi e metodi classisti, e soprattutto viene negata l’attività dei militanti operai di partito sul piano immediato più vicino e naturale per i proletari disabituati da qualche decennio a lottare sul terreno classista, e si affida alla lotta “per ricondurre la CGIL sul cammino della tradizione gloriosa del Sindacato Rosso” l’unica prospettiva “di classe” su cui i proletari, e il partito, devono puntare, come se la CGIL non solo contenesse ancora una “parvenza di sindacato di classe”, ma avesse le sue radici nella tradizione di classe perfettamente integre e come se, perché la CGIL torni alla tradizione classista, bastasse richiamare gli iscritti all’antica tradizione di classe che in realtà era stata distrutta una prima volta dal fascismo e una seconda volta dalla democrazia post-fascista e resistenziale. Ci si era dimenticati che la CGIL era nata non su basi classiste, ma su basi interclassiste e che non era possibile fare leva su un suo classismo inesistente; come ci si era dimenticati che i sindacati del dopoguerra avevano ereditato dal fascismo l’impianto corporativo per cui il problema non era quello di impedire che si trasformassero in organi corporativi, ma quello, caso mai, di lottare al loro interno sapendo perfettamente che razza di sindacati erano, ma con l’obiettivo di  influenzare i proletari iscritti perché utilizzassero, contro le direttive del bonzume sindacale, mezzi e metodi di lotta classisti e per obiettivi immediati a difesa esclusiva degli interessi proletari. Inoltre, date le caratteristiche collaborazioniste e quindi tricolori della CGIL, anche ammesso che la pressione proletaria avesse portato la direzione della CGIL a proclamare uno sciopero generale – come d’altra parte era già avvenuto più di una volta nel ventennio trascorso del secondo dopoguerra – che valore poteva mai avere quello sciopero generale se non il valore di una bruciante sconfitta?

Intanto escono volantini di partito in appoggio alle lotte operaie in cui si continua ad inneggiare allo sciopero generale (“Compagni! Da questa offensiva generale del capitale, coperta e mascherata dal governo borghese, ci si può difendere in modo efficace soltanto opponendo una controffensiva generale: Uniti con tutte le categorie operaie in uno sciopero generale che paralizzi completamente l’economia capitalista! E’ così che le aziende dovranno scendere a patti per l’aumento dei salari, la riduzione d’orario a parità di salario” - volantino di partito distribuito in occasione delle agitazioni degli operai edili nel dicembre 1965, pubblicato su Spartaco, gennaio 1966)  e ci si lancia contro il metodo delle lotte articolate e disperse, cosa giusta e corretta in generale, ma sprecata  e deviante se lanciata come semplice slogan che di per sé dovrebbe “superare” l’abitudine concreta e materiale delle lotte operaie parziali (“Contro le trattative e gli scioperi articolati, per lo sciopero generale di tutta la classe operaia senza limiti di tempo fino alla vittoria! W la classe operaia! W il sindacato rosso! W gli operai edili!”, conclude il volantino appena citato).

A proposito dello sciopero generale, un colpo di barra a sinistra che tenta di rimediare alla genericità e ad una falsa intepretazione di questa grande rivendicazione, lo si trova nell’articolo “Perché lo sciopero generale” apparso nello Spartaco di febbraio 1966, nel quale si afferma chiaramente che non è indifferente il tipo di organizzazione sindacale che organizza lo sciopero generale:

“Certamente il ritorno al metodo della lotta generale – che in realtà non è mai sostanzialmente esistita – sotto la guida di questi partiti e di queste Centrali sindacali, per la difesa della democrazia, dell’economia nazionale, locale  ed aziendale, e della patria domani in una vera minaccia di guerra fra stati, non approderebbe ad alcuna vittoria proletaria, non costituirebbe una conquista della classe operaia, non contribuirebbe alla presa di coscienza da parte delle classi lavoratrici dell’intima e reale natura dello Stato democratico e repubblicano, sarebbe un’ennesima e più grave sconfitta dei lavoratori”.

Richiamando, perciò, in generale la critica alla “libertà” e alla “democrazia” per le quali i proletari sono stati irreggimentati nella lotta resistenziale antifascista, e la critica alle centrali sindacali collaborazioniste che intervengono immediatamente ad ogni anche timida voce operaia contraria alla loro politica e alla loro pratica frammentazionista, l’articolo afferma:

“Lo sciopero generale del proletariato non può che avere il significato di abbandono della politica controrivoluzionaria, di tradimento, dei falsi partiti operai, delle dirigenze sindacali. E’ perciò un’importante conquista del proletariato che in essa ritroverà la coscienza della propria forza invincibile. E, in quanto conquista, presuppone la lotta, una lotta tremenda su due fronti, contro il padronato borghese e contro i partiti opportunisti e il sindacalismo democratico. Lotta che è indispensabile per uscire da questo stato di soggezione, di schiavitù e di oppressione, dei lavoratori. E’ una dura lotta alla quale il proletariato non può rinunciare se non vuol ribadire con le sue stesse mani le catene che lo tengono avvinto da quasi cinquant’anni alle sorti disumane e sanguinose del capitalismo”.

Viene, dunque, messo in risalto il fatto importante che all’interno del movimento sindacale, e del proletariato nel suo complesso, si dovrà scatenare una lotta, dura, tremenda, contro i partiti falsamente comunisti e socialisti e contro il sindacalismo democratico (va notato che anche qui si preferisce utilizzare il termine democratico riferito al sindacalismo attuale piuttosto che tricolore, come se ci si volesse svincolare da una valutazione troppo rigorosa; il termine “sindacalismo democratico”, idealmente, tiene in vita il concetto non solo del sindacalismo giallo e bianco ma anche quello di sindacalismo rosso che verrà successivamente ripreso appiccicandolo erroneamente alla CGIL di cui già si erano riscontrate “parvenze di classe” e per la quale si è lanciata la parola d’ordine di ricondurla “sul cammino della tradizione gloriosa del Sindacato Rosso”). Ma, a fianco di questo articolo di fondo, sullo stesso numero di Spartaco viene ripubblicata la parte finale del manifesto “Per la mobilitazione generale della classe proletaria contro la massiccia ed unitaria offensiva padronale”, citato prima, che, rivolgendosi ai proletari, riprende il lancio di uno sciopero generale “per impedire che i vostri sindacati si trasformino totalmente in organi corporativi; per ricondurre la CGIL sul cammino della tradizione gloriosa del Sindacato Rosso; per farne il polo di attrazione e il centro di mobilitazione generale ed unitario del proletariato delle città e dei campi”.

Questo modo molto meno rigoroso del solito di svolgere la valutazione dei sindacati tricolore, e della CGIL in particolare, non impediva al partito di proseguire nel ribadimento di una battaglia molto intensa contro ogni forma di opportunismo e di collaborazionismo sia sul terreno più generale politico che su quello immediato e sindacale; e non impediva di riprendere la corretta impostazione del rapporto tra partito e classe come nel lavoro intitolato “Partito e sindacati nella classica visione marxista” la cui pubblicazione iniziò nel numero del giugno 1966 di Spartaco per proseguire poi nelle pagine del “programma comunista” (nei numeri 14,16,17,18,19,22 del 1966), in cui si riportavano le posizioni marxiste su questo tema lungo il corso storico di sviluppo del movimento sindacale operaio e del movimento comunista, fino al secondo congresso di Roma del PCd’I (1922) in cui la sinistra comunista ribadiva nettamente la necessità dell’intervento dei comunisti nei sindacati per conquistare un’influenza determinante sui proletari organizzati e, quindi, la loro direzione. Tra i tanti, un passo contenuto in questo lavoro, non di secondaria importanza, va a nostro avviso sottolineato. Vi si afferma quanto segue:

“Sarebbe grave errore ritenere che la partecipazione dei comunisti alle organizzazioni economiche del proletariato intesa come formazione in seno di tali organizzazioni di gruppi comunisti, sia una posizione ‘tattica’, una ‘mossa’ per conquistare pure e semplici adesioni alla politica del partito comunista. La partecipazione dei comunisti ai sindacati e alle lotte economiche del proletariato è una necessità implicita nel carattere operaio del partito comunista, e assolve alla funzione fondamentale del partito di classe di guidare le masse proletarie all’abbattimento del potere capitalistico. Quella falsa concezione è tipica di raggruppamenti politici che nel presente marasma, in cui regna assoluta l’ignoranza e la confusione delle idee, sostengono che il ‘nuovo’ corso del capitalismo avrebbe superato la funzione dei sindacati, cosicché essi postulano la sostituzione dei sindacati tradizionali con altre forme di organizzazione operaia, più ‘avanzate’ e ‘rispondenti’ alle ‘nuove’ necessità della lotta (...). Finché esisterà il capitalismo, e anche dopo il suo abbattimento nel periodo di trasformazione economica in cui le classi borghesi, politicamente battute, continueranno tuttavia a sopravvivere per un certo tempo nel processo di lacerazione sistematica delle forme di classe, i sindacati operai sono l’organizzazione elementare indispensabile del proletariato, e il partito comunista ha il dovere di dirigerne l’azione (Lenin)”.

E, contro le posizioni che sostengono l’autonomia del sindacato dai partiti, si riafferma che: “Attribuire, poi, ai sindacati autonomia e indipendenza significherebbe ravvisare nella loro politica una coscienza che spetta solo al partito; come il ritenere superata la necessità per la classe di organizzarsi sulla base delle spinte economiche fa supporre che la classe abbia completamente percorso tutto l’arco storico che la separa dal comunismo pieno, in cui non vi sarà più bisogno di organizzazioni di difesa di classe, in quanto la stessa classe proletaria non esisterà più, insieme a tutte le altre classi, come espressioni della ‘preistoria’ dell’umanità”.

Nell’aprile del 1966 le associazioni padronali e i sindacati tricolore firmarono un nuovo accordo sulla costituzione e il funzionamento delle “Commissioni Interne e dei Delegati d’impresa”, accordo che seguì quelli sui licenziamenti individuali e sui licenziamenti collettivi (in cui per la prima volta si introduce il concetto di licenziamento per “giusta causa”). La funzione delle Commissioni Interne e dei Delegati d’impresa è ribadita nell’articolo 3 di questo accordo: “Compito fondamentale delle C.I. e del Delegato d’impresa è quello di concorrere a mantenere normali i rapporti tra i lavoratori e la Direzione dell’azienda per il regolare svolgimento dell’attività produttiva, in uno spirito di collaborazione e di reciproca comprensione” (citiamo dall’articolo di fondo di Spartaco del maggio 1966, intitolato “La politica controrivoluzionaria dei sindacati ha fatto delle Commissioni Interne gli strumenti della pace sociale tra lavoro e capitale”). Le Commissioni Interne, in Italia, videro la luce durante la guerra 1915-18, sono perciò, come gli stessi sindacalisti affermarono, “figlie della guerra, ossia dell’imperativo bellico di incrementare al massimo la produzione industriale”. Esse avevano compiti ben precisi: evitare il dilagare di agitazioni operaie, risolvere sul luogo stesso del lavoro e nel momento in cui sorgono le controversie fra lavoratori e datori di lavoro, e portare quei miglioramenti tecnici che l’esperienza dei lavoratori suggerisce (vedi l’articolo Vent’anni di controllo opportunista sui sindacati operai, in Spartaco, maggio 1966, articolo che fa parte di uno studio pubblicato in “programma comunista” e “Spartaco” nei nn. 7, 8, 10, 11, 13/1966): compiti che rispondono esclusivamente alle esigenze della classe dominante borghese e, quindi, alla collaborazione di classe fra operai e padroni. E tale impostazione, dopo la parentesi totalitaria del fascismo con le sue corporazioni, fu ripresa nell’accordo dell’agosto 1944 (pubblicato ne Il Lavoratore di Palermo il 25-8-1944*) aggiornandola alla fase della “nuova democrazia” e della “ricostruzione post-bellica” in cui, secondo i bonzi a capo della CGIL – preteso “sindacato nuovo” perché “costruttivo” – grazie alle Commissioni Interne “l’operaio comincia a non essere più una macchina di lavoro, comincia a partecipare coscientemente alla vita della fabbrica. E’ l’inizio di quel processo rivoluzionario che trasforma il salariato in produttore”!

Non va dimenticato che la crisi economica capitalistica del 1964 – rispetto alla quale i proletari avevano dimostrato di possedere un alto grado di combattività ed una spinta ancora forte alla lotta che i sindacati tricolore hanno sistematicamente spezzato, frammentato e spento attraverso gli scioperi cosiddetti “articolati”, superpreannunciati e indirizzati verso obiettivi immediati che rispondevano più alle esigenze della produzione aziendale che alle esigenze di vita proletarie – è stata, per il padronato, il pretesto per sferrare una vera e propria offensiva antioperaia finalizzata a recuperare produttività e competitività, classici miti del capitalismo per “superare la crisi”. Il padronato doveva dare in cambio ai sindacati operai qualcosa che potesse servire loro per mantenere il controllo sui proletari, e il nuovo accordo sulle Commissioni Interne andava esattamente in questa direzione: i sindacati tricolore propagandarono questo accordo come una vittoria operaia, poiché i loro rappresentanti avrebbero potuto discutere con i padroni, in ogni azienda e allo stesso “tavolo”, i problemi degli operai e controllare che gli accordi aziendali e quelli dei contratti di lavoro venissero effettivamente applicati. Inutile dire che questo accordo non faceva che mettere nero su bianco in modo più dettagliato e univoco – oltretutto legando ancor più le mani ai “rappresentanti dei lavoratori” – la collaborazione di classe fra operai e padroni.

Il partito, ovviamente, continuò la sua battaglia contro ogni forma di collaborazione interclassista, e a maggior ragione contro queste forme più capillari, ma anche in questo caso assunse una posizione equivoca poiché alla dura critica sulla costituzione e sul funzionamento delle C.I. fece seguire un’ indicazione contraddittoria che apriva la strada ad altri scivoloni:

“Le Commissioni Interne, come pure i Sindacati, potranno essere strumenti del proletariato allorché la direzione di questi organi passerà dalle mani dell’opportunismo a quelle del comunismo rivoluzionario, cioè passerà da una politica di appoggio agli interessi del capitalismo ad una politica di tutela dei soli interessi contingenti e storici della classe sfruttata”.

Solo poche righe prima l’articolo affermava che:

“più che cambiare le teste delle C.I., più che delegare uomini diversi dagli attuali, è condizione assoluta cambiare le basi su cui poggiano le Commissioni Interne, cioè cambiare l’indirizzo dei Sindacati respingendo la loro politica di pacifismo sociale, di concordia tra capitale e lavoro. Non può bastare la sostituzione dei dirigenti odierni, se nel contempo non muta la loro politica. La questione non è mai stata e non è di uomini; è una questione di indirizzo”.

Il vero problema che si poneva, dunque, era quello dell’indirizzo: o è di classe o è interclassista. A differenza dell’organizzazione generale del sindacato che, per motivi di opportunismo rispetto ad una tradizione “rossa” carpita allo scopo di influenzare le masse proletarie in generale, aveva interesse a non presentarsi come  diretta emanazione del collaborazionismo interclassista integrato nello Stato, si affidava ora agli organismi aziendali, come le Commissioni Interne, il compito di assumere anche nella forma organizzativa la funzione dichiaratamente non solo collaborativa con le esigenze dell’azienda ma di soggezione statutaria alle esigenze dell’azienda, dunque agli interessi padronali. Perciò le C.I., in quanto tali, non avrebbero mai potuto essere trasformate in strumenti di difesa del proletariato, come in seguito, ancor meno, le cosiddette “Commissioni Paritetiche”, più indirizzate ancora verso le vecchie corporazioni fasciste; mentre ci si poteva porre ancora l’obiettivo di conquistare l’influenza della maggioranza dei proletari iscritti ai sindacati tricolore e, sulla base di condizioni storiche favorevoli al movimento rivoluzionario, porre l’obiettivo di conquistarne la direzione, non era per nulla utile alla lotta proletaria porsi l’obiettivo di “conquistare la direzione” di apparati specifici e per di più aziendali come le Commissioni Interne: si sarebbe dovuto contrastare e combattere non solo la loro “politica collaborazionista”, ma la loro stessa costituzione e funzione in quanto appunto organi specifici della collaborazione fra le classi. Sarà la stessa base proletaria più combattiva, in un periodo successivo, a non dare più alle Commissioni Interne alcuna fiducia, costituendo al di fuori e, spesso, contro la bonzeria sindacale, nuovi organismi espressione della loro lotta e dei loro interessi immediati, i Comitati di Lotta, i Consigli di Fabbrica, i Coordinamenti dei Comitati di Lotta, decretando praticamente la fine delle C.I. Ma di questo parleremo a suo tempo.

Sempre in merito alle C.I., e alla partecipazione o meno dei militanti operai di partito alle liste per eleggere i candidati “delegati d’impresa”, il fondo del “programma comunista” n. 13 del 14-28 luglio 1966, riprende i criteri generali che guidano il partito nell’attività sindacale al fine di inquadrare meglio il problema. L’articolo, che si intitola per l’appunto Criteri generali per l’attività del partito nel campo delle lotte rivendicative e nelle organizzazioni sindacali operaie, richiama quanto già detto sulle

“funzioni apertamente controrivoluzionarie delle C.I., sorte durante la guerra per indurre i salariati, non schierati sul fronte del fuoco, a collaborare con le direzioni aziendali per l’intensificazione degli sforzi produttivi, mettendo da parte non solo ogni questione politica di classe, ma anche economica e rivendicativa. Le C.I. si fecero allora promotrici della parola d’ordine: tutto per la vittoria!”, e ribadisce che:

“Tale funzione di ‘collaborazione con le direzioni aziendali’, accolta negli statuti delle C.I., impedisce a questi organi di rappresentanza operaia di svolgere la pur minima attività di classe, già fortemente debilitata dal carattere aziendale delle C.I., che ne irretisce ancor più la congenita propensione corporativa”. Bene, ora si trattava di passare alla conclusione e giustamente si afferma che:

“Il partito non è contrario ad organismi rappresentativi della classe operaia, indipendentemente dalla corrente politica che li dirige; ma decide di svolgere la sua azione rivoluzionaria in quelli che, per lo meno, anche se solo nelle intenzioni (finalità statutarie), ammettono l’indipendenza e l’autonomia degli interessi della classe operaia da quelli capitalistici”. Ma, subito dopo, si ammette la possibilità di utilizzare, a certe condizioni, le Commissioni Interne come rappresentanze solo operaie e solo volte alla difesa degli interessi operai: “Le C.I. potranno essere oggetto di attenzione, ed essere anche obiettivi da conquistare per il partito, allorché i rapporti di forze saranno tali da assegnare a tali rappresentanze una funzione di lotta aperta e senza quartiere in difesa dei proletari”. La contraddizione che rileviamo sta nel fatto che si era appena affermato che le C.I., proprio per loro statuto, svolgono una funzione di collaborazione con le direzioni aziendali che “impedisce a questi organi di rappresentanza operaia di svolgere la pur minima attività di classe”: il rovesciamento dei rapporti di forze richiesto per occuparsi, o conquistare, da parte del partito questi organismi aziendali – ammesso e non concesso che dovessero essere questi l’oggetto di interesse del partito rivoluzionario – non risiedeva certo nella lotta azienda per azienda o reparto per reparto, ma poteva essere il risultato soltanto della ripresa della lotta di classe, cosa che non solo non era all’orizzonte visibile in quegli anni (e purtroppo nemmeno nei decenni successivi) ma che non si sarebbe presentata se non dopo numerosi strappi e lacerazioni all’interno del proletariato fra i suoi strati più avanzati e combattivi e gli strati più arretrati e succubi dei collaborazionisti e dei padroni. Con rapporti di forza favorevoli allo sviluppo della lotta di classe, e quindi allo sviluppo dell’influenza del partito rivoluzionario sul proletariato, le “rappresentanze operaie solo volte alla difesa degli interessi operai” si sarebbero imposte sulle ceneri di organismi come le C.I. e non sulla loro “trasformazione interna” variandone semplicemente la “funzione”. In ogni caso, all’immediato, si afferma che “il partito non presenta, oggi, liste di candidati alle elezioni per le C.I., ma intende servirsi di riunioni, assemblee e comizi operai per diffondere le sue posizioni programmatiche e di battaglia, per svolgere la sua critica spietata contro l’opportunismo che imperversa tra le file operaie”.

Si passa poi, nello stesso articolo, a definire la differenza tra l’organismo Commissione Interna e l’organizzazione Sindacato, e qui si tratteggia un passo ulteriore verso posizioni che successivamente emergeranno come posizioni sbagliate. Leggiamo:

“Diverso atteggiamento, invece, va tenuto nei confronti del Sindacato. Il partito considera la CGIL come l’unica organizzazione in Italia che, oltre ad organizzare la maggior parte dei lavoratori – fra cui la stragrande maggioranza dei salariati industriali e agricoli – conserva ancor oggi e malgrado la sua nefasta direzione politica una parvenza di classe. Cioè, la CGIL possiede quei presupposti di base che consentono al partito comunista rivoluzionario di svolgere la sua opera di penetrazione e organizzazione politica delle masse sindacalmente organizzate. Le altre centrali, specialmente CISL e UIL, negano pregiudizialmente di essere ‘sindacati di classe’, e su tale punto si compiacciono di differenziarsi dalla CGIL, contro cui, anzi, dal giorno della loro costituzione, originata dalla scissione del 1947**, conducono una crociata anti-comunista per indurla a buttare alle ortiche anche l’ultimo rimasuglio ‘di classe’ rimastogli addosso”. Oltre al ribadimento della “parvenza di classe” che la CGIL conserverebbe ancora, va notato che questa parvenza di classe la si sostanzia con una affermazione che porterà a sbagliare molto seriamente di lì a poco, dicendo che la CGIL “possiede qui presupposti di base che consentono al partito comunista rivoluzionario di svolgere opera di penetrazione e organizzazione politica delle masse sindacalmente organizzate”.

In realtà i “presupposti di base”, oggettivi, non sono per nulla favorevoli all’attività del partito comunista rivoluzionario poiché la CGIL si è costituita su basi chiaramente e dichiaratamente collaborazioniste; se statutariamente la CGIL non impedisce l’attività delle correnti politiche al suo interno, noi sappiamo che non lo poteva fare perché si doveva differenziare dal sindacato fascista e perché al suo interno, prima della scissione del 1948, quando la CGIL era effettivamente un sindacato unitario, al suo interno agivano realmente varie correnti politiche: stalinista, socialista, socialdemocratica, repubblicana, democristiana, cosa che lo statuto della CGIL non poteva negare. Il partito aveva valutato la CGIL come sindacato tricolore proprio per le sue basi costitutive, ossia per l’impianto collaborazionista cui rispondeva; ma il partito vi interveniva fondamentalmente per quattro ragioni: perché vi era organizzata la stragrande maggioranza dei lavoratori salariati, perché vi erano organizzati solo salariati, perché lo statuto non impediva l’attività pratica e politica dei comunisti rivoluzionari, perché andava combattuta anche nelle file del proletariato organizzato la battaglia contro l’opportunismo e le false tradizioni “di classe” a cui la CGIL si richiamava stravolgendole completamente, come d’altra parte faceva il PCI quanto al marxismo e alla rivoluzione comunista. Perciò i presupposti di cui il partito poteva approfittare per il suo intervento all’interno dell’organizzazione sindacale andavano cercati nella presenza degli operai iscritti e nella forma statutaria del sindacato ma non in un supposto classismo che non c’era.

L’articolo prudentemente accenna ad un’altra considerazione: date le caratteristiche della CGIL “non significa che la CGIL debba essere considerata come la centrale ‘ideale’ e che, nella dinamica del processo rivoluzionario risponda anche domani ai presupposti necessari alla preparazione della rivoluzione, o conservi anche le attuali ‘apparenze’. Non si può escludere che la CGIL abbandoni anche queste caratteristiche statutarie ‘di classe’ in omaggio ad una riunificazione sindacale che avrebbe, nelle intenzioni dei suoi promotori, la funzione di frenare la radicalizzazione dei proletari. In tal caso, ma solo in esso, potrebbe imporsi la costituzione di un sindacato di classe, nei modi e nelle forme che le condizioni reali della lotta esprimeranno”. E qui si mescolano due posizioni che fanno a pugni tra di loro: la prima, che non ritiene la CGIL il sindacato ideale in cui lavorare per trasformarlo in sindacato di classe; la seconda, che ritiene che la CGIL avrebbe la funzione di “frenare la radicalizzazione dei proletari” solo se procedesse alla riunificazione coi sindacati gialli e bianchi. Mentre la prima cosiderazione – una volta precisato che le sue caratteristiche “di classe” avrebbero dovuto non rimanere limitate agli articoli dello statuto ma si sarebbero dovute realizzare attraverso una dura lotta interna da parte dei proletari iscritti contro le politiche e le pratiche del collaborazionismo interclassista – potrebbe essere corretta; la seconda è del tutto fuori registro: in quanto sindacato tricolore, la CGIL dalla sua stessa costituzione ha la funzione di frenare e deviare la radicalizzazione dei proletari, per la quale funzione non era necessario che si riunificasse con i due sindacati che nel 1948-49 si erano scissi da essa. Ed ecco il punto: dalla sua costituzione nel 1944 la CGIL è un sindacato tricolore, concetto che continua a non venire citato nella stampa di partito di quegli anni.

Tra i criteri generali per l’attività del partito nelle lotte immediate e nella CGIL, nell’articolo si afferma che il partito, ovviamente, prevede l’intervento dei propri militanti organizzati nei gruppi comunisti grazie ai quali i proletari apprendono “con il programma, le direttive rivoluzionarie per l’azione anche immediata, nel molteplice e vasto campo delle rivendicazioni e della difesa economiche”. E’ grazie a questa attività dei gruppi comunisti – “organi diretti e dipendenti dal partito stesso, da questo incaricati di svolgere opera di propaganda politica nelle organizzazioni economiche, sui posti di lavoro, tra le masse organizzate sindacalmente e non, con lo scopo immediato di suscitare simpatie e adesioni all’azione promossa o proposta dal partito nel campo delle lotte rivendicative” – che il partito entra “in un primo fertile e necessario contatto con la classe, nel quadro della sua elementare organizzazione, con quella parte, cioè, del proletariato che possiede almeno la coscienza istintiva di essere l’unico strato produttivo della società”. Dall’attività dei gruppi comunisti del partito sul terreno dell’azione immediata non si aspetta la formazione di nuovi sindacati, bensì simpatie e adesioni “suscettibili di elevarsi al programma globale del partito man mano che le lotte operaie si intensificano, si estendono, si radicalizzano e si unificano”; i militanti rivoluzionari, dunque, non lavorano per dividere l’organizzazione sindacale al fine di creare sindacati che sarebbero in realtà non sindacati “di classe” ma “di partito”, ma si caratterizzano per “una inesorabile lotta contro la politica controrivoluzionaria delle centrali sindacali e contro gli apparati burocratici dei sindacati” e per una “mobilitazione costante contro i partiti politici dell’opportunismo che spadroneggiano nei sindacati stessi, nelle organizzazioni proletarie e nell’intera classe”.

In questo articolo si sente il bisogno di richiamarsi alle tesi storiche della Sinistra comunista sull’attività dei comunisti nelle lotte immediate del proletariato e nei suoi sindacati, e si sceglie un passo delle Tesi di Lione del 1926, sul quale non si può che essere d’accordo, passo che in realtà fa un richiamo generale all’azione dei militanti di partito e dei gruppi comunisti (Progetto di tesi per il III congresso del PCd’I presentato dalla Sinistra, Lione 1926, I. Questioni generali, 3. Azione e tattica del partito), dove l’attività del partito viene sintetizzata in tre punti validi in tutti i tempi e in tutte le situazioni; in questo caso ci si riferisce al punto c):

“la partecipazione attiva a tutte le lotte della classe operaia anche suscitate da interessi parziali e limitati, per incoraggiarne lo sviluppo, ma costantemente apportandovi il fattore del loro raccordamento con gli scopi finali rivoluzionari e presentando le conquiste della lotta di classe come ponti di passaggio  alle indispensabili lotte avvenire, denunziando il pericolo di adagiarsi sulle realizzazioni parziali come su posizioni di arrivo e di barattare con esse le condizioni della attività e della combattività classista del proletariato, come l’autonomia e l’indipendenza della sua ideologia e delle sue organizzazioni, primissimo tra queste il partito”.

Dicevamo che il richiamo fatto è di carattere generale, valido in tutti i tempi e in tutte le situazioni, ma non si può tacere il fatto che lo sfondo storico di allora vedeva ancora attivo e influente sulla parte più avanzata e combattiva del proletariato il Partito comunista d’Italia, vedeva ancora l’esistenza di un sindacato rosso come la CGL (senza la I di italiana) non ancora distrutto e sostituito dai sindacati fascisti, e la lotta di classe e rivoluzionaria era ancora viva nelle carni e nei cervelli del proletariato non solo russo o italiano ma mondiale. La situazione del secondo dopoguerra, così ben descritta da molteplici lavori di partito, a cominciare dal Tracciato d’impostazione e dalle Prospettive del dopoguerra in relazione alla Piattaforma del Partito, entrambe del 1946, per quanto riguarda la valutazione dei sindacati “democratici” non doveva lasciare dubbi: nel 1949, nel famoso “filo del tempo” sulle Scissioni sindacali in Italia, da cui abbiamo preso le mosse, era stabilito una volta per tutte che i sindacati del secondo dopoguerra, pur vinto militarmente il fascismo, non sfuggivano alla tendenza generale impressa dal mondo del monopolio capitalistico che, in campo sindacale, si esprimeva attraverso il sindacato di stato che inquadra i lavoratori nell’impalcatura del regime dominante; perciò chiamammo la CGIL sindacato tricolore e non leggemmo in essa alcuna “parvenza di classe”, alcun “presupposto di base” grazie al quale dovesse essere considerata un sindacato “rosso” come da qui a qualche anno il nostro partito di ieri la considererà.

                                            (1 - continua)

 


 

(*) Negli Archivi di Stato relativi all’Archivio Storico della CGIL (Atti e Corrispondenza, 1944-1957), conservati al Ministero per i Beni e le Attività Culturali, la data di tale Accordo, segnalato come “accordo Buozzi-Mazzini per le commissioni interne d’azienda”, viene indicata nel 2 settembre 1943, addirittura prima del fatidico 8 settembre in cui l’Italia cambia fronte di guerra passando dalla parte degli Alleati e un anno pieno prima che Il Lavoratore di Palermo, organo a stampa della CGIL ricostituita, lo rendesse pubblico (25 agosto 1944). L’opportunismo lavora sempre non solo di nascosto, ma tendenzialmente sempre molto in anticipo.

(**) La scissione sindacale, maturata già durante il 1947 ad opera dei dirigenti sindacali democristiani che tendevano a frenare gli scioperi generali che la CGIL su pressione operaia non poteva bloccare del tutto, esplode nel luglio 1948 a causa dello sciopero proclamato dalla CGIL contro l'attentato a Togliatti, sciopero considerato dai democristiani delle ACLI solo “politico” e perciò non di competenza del sindacato. Il nuovo sindacato democristiano, costituitosi ufficialmente nell’ottobre 1948, si chiamerà in un primo momento “Libera CGIL” , e poi, nel maggio 1950, prenderà definitivamente il nome di Confederazione Italiana dei Sindacati Liberi (CISL). Nel giugno 1949 dalla CGIL si staccano anche i repubblicani e i socialdemocratici che fonderanno la FIL, Federazione Italiana dei Lavoratori, per poi prendere il nome di UIL, Unione Italiana del Lavoro, nel marzo 1950.

 

 

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