Dal pantano democratico non verrà mai fuori la soluzione dei gravi problemi di sopravvivenza del proletariato.

La lotta di classe è l'unica via d'uscita!

(«il comunista»; N° 129; febbraio-aprile 2013)

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Le elezioni politiche tenutesi alla fine di febbraio hanno dato un risultato che quasi tutti i media considerarono inaspettato: assieme ai due schieramenti abituali - centrosinistra con perno il PD e centrodestra con perno il PDL - è emerso un nuovo soggetto politico, il Movimento 5 Stelle, con a capo il comico trasformatosi in politico Beppe Grillo, con quasi 8,7 milioni di voti.

Il conteggio finale ha dato una "vittoria di Pirro" al PD e allo schieramento di centrosinistra (poco più di 10 milioni di voti) con una manciata di voti in più rispetto al PDL e al suo schieramento (poco più di 9,9 milioni di voti), presentando così nell'orizzonte parlamentare tre partiti ciascuno con un peso per tale (alla Camera il  centrosinistra è al 29,55%, il centrodestra al 29,18% e il M5S al 25,55%) da non permettere a nessuno dei tre di avere una sostanziosa maggioranza parlamentare capace di far da base a quel "governo forte"che tutte le cosiddette "parti sociali" auspicavano data la situazione economica e politica del paese.

Il metodo democratico, che secondo la borghesia è il metodo migliore per risolvere tutti i problemi di un paese, ha fatto così il primo sgambetto a se stesso e alle forze che lo praticano e lo difendono: nessun vero vincitore?, niente governo... Ma un paese come l'Italia, con il peso che rappresenta nell'Unione Europea e nel mondo, la cui crisi potrebbe mettere in pericolo la stabilità dell'euro e degli attuali equilibri europei, non può restare senza governo per troppo tempo. I tentativi fatti dal segretario del PD Bersani, incaricato dal presidente della repubblica a proporre un governo che avesse la possibilità di ottenere la fiducia in parlamento, sono miseramente falliti: i suoi tentativi di alleanza con il M5S (i cosiddetti "grillini") hanno prodotto solo un avvitamento del PD su se stesso, innescando il precipitare di una crisi interna già in essere da tempo, mentre Grillo continuava impeterrito a sbattere la porta in faccia a qualsiasi proposta anche se infiorata con gli argomenti della "grave responsabilità" che le forze politiche dovevano condividere data la crisi che "il paese" doveva superare e con l'esaltazione di un "cambiamento" che l'elettorato, si diceva, aveva fortemente richiesto proprio con il voto agli outsiders del M5S. Il PDL, ossia Berlusconi, che per convenienza politica del momento non aveva interesse ad affossare il tentativo del presidente della repubblica di promuovere un governo prima della vicina scadenza del suo mandato e nessun interesse ad addossarsi la responsabilità di tornare nel giro di pochi mesi nuovamente alle elezioni, continuava a lanciare la proposta di un "governo di larghe intese", ossia di un governo PD-PDL con l'appoggio del partito di Monti.

Il balletto governo-sì, governo-no, governo di coalizione contro il centrodestra o governo di minoranza, governo tecnico o governo politico è finito come doveva finire: avvicinandosi sempre più la fine del mandato del presidente Napolitano I e l'elezione del nuovo capo dello Stato,  l'esautoramento di Bersani da qualsiasi altro tentativo di formare il governo si confondeva con le nuove manovre per l'elezione del capo dello Stato. Toccava al PD, e quindi a Bersani, proporre la candidatura di un  personaggio che fosse gradito alle forze parlamentari, e soprattutto al PDL visto che il mancato accordo con il M5S per la formazione del governo metteva in discussione anche un eventuale accordo sul candidato alla presidenza della repubblica.

Prima la candidatura da parte del PD di Marini, cattolico ex sindacalista ed ex presidente del Senato,  gradito ma non troppo al PDL, e poi la candidatura, sempre da parte del PD, di Prodi, già ex premier per due volte ed ex commissario europeo, impallinati entrambi dalle stesse fronde interne del PD, hanno rappresentato il secondo sgambetto della democrazia a se stessa. La candidatura di Rodotà, professore universitario, ex deputato del PDS e "garante per la protezione dei dati personali", oltre che sostenitore del diritto di accesso libero ad internet, è stata opposta dal M5S, e dal partito di Vendola, a quella di qualsiasi altro personaggio della "vecchia politica"; ma tale candidatura, strumentalmente infilata negli ingranaggi delle manovre parlamentari, non poteva avere, e non ha avuto, successo. Il meccanismo della democrazia parlamentare può anche incepparsi, ma inserendovisi, portando nuove energie, non si può che lubrificarne il funzionamento.

Lo scontro di manovre sottobanco e di interessi di bottega delle varie correnti dei partiti parlamentari portavano la situazione postelettorale in situazione di stallo, pericolosa per la stessa tenuta economica del "sistema Italia" che già nell'ultimo periodo del governo Berlusconi era stato attaccato, proprio per l'incertezza delle sue misure economiche e politiche, dai famosi "mercati" ossia dai centri finanziari speculatori più potenti al mondo, e che con il governo Monti - accentuando drammaticamente la pressione fiscale soprattutto sulla classe operaia e sugli strati inferiori della popolazione - era riuscito a rimontare nella "fiducia" degli stessi "mercati".

Dalla situazione di stallo la classe borghese dominante chiedeva di uscire alla svelta: Confindustria, Confcommercio, Confartigianato, l'Associazione delle banche, la Chiesa cattolica, i sindacati e le svariate associazioni economiche e sociali rappresentanti i più diversi e particolari interessi premevano affinché le forze politiche parlamentari prendessero finalmente una decisione e la finissero con la logorante melina senza risultati. E dato che l'elezione del capo dello Stato restava l'ultima spiaggia su cui i partiti parlamentari si dovevano necessariamente misurare e su cui si arenavano o dalla quale ripartivano, ma con le ossa rotte, PD, PDL e Monti sono tornati al Quirinale implorando Napolitano I di rinunciare al suo rifiuto per l'età avanzata di ricandidarsi ad un nuovo mandato presidenziale. L'Italia prima di tutto, il Paese sopra ogni cosa, la salvaguardia delle istituzioni democratiche e parlamentari - Presidenza della Repubblica e Parlamento soprattutto -: ecco che l'ex destro del PCI e socialdemocratico a tutti gli effetti, infaticabile sostenitore del capitalismo moderato e della conciliazione e coesione nazionale, accetta di rimettere nuovamente le sue ultime energie individuali al servizio della classe dominante borghese. Nel tempo in cui da ogni parte si esalta la necessità dell'innovazione, del cambiamento, della rottamazione dei vecchi arnesi della politica parlamentare, ecco che i nuovi e i vecchi arnesi della politica parlamentare, impantanatisi fino al collo in un pasticcio elettorale e parlamentare, si affidano ad un vecchio arnese della socialdemocrazia italiana. Le castagne dal fuoco le fanno togliere ad un politicante al tramonto, ma che ancora è in grado di usare sia l'alta considerazione ottenuta a livello internazionale che l'autorevolezza conquistata all'interno dei confini nazionali.

Sono passati due mesi e si è tornati esattamente al punto di partenza, come se le elezioni non fossero avvenute e il parlamento fosse ostaggio delle solite bande politiche. L'incarico dato da Napolitano II, per riprovare a formare un governo, ad Enrico Letta ha raccolto il consenso del solito terzetto, PD-PDL-Monti. Enrico Letta, da buon democristiano fino al 1994, vicesegretario del partito popolare italiano fino al 2002, ex Margherita fino al 2007 e, dal 2007, nel PD come vicesegretario, e sempre membro della Commissione Trilaterale (1), ha maturato evidentemente una buona capacità negoziale tale da poter rappresentare una buona chance per districare la matassa in cui si sono impigliati i partiti del centrodestra e del centrosinistra. E il 28 di aprile 2013, il nuovo presidente del consiglio incaricato va a presentare al presidente della repubblica il suo governo, fatto di 21 ministri, per la maggior parte più giovani di quelli che li hanno preceduti e fra i quali spiccano ben 7 donne. Questo sarebbe il "cambiamento"!

Il programma del nuovo governo? Non c'è, o meglio il nuovo governo non si è formato su un programma ben definito, ma si è formato sul tentativo di conciliare programmi e interessi diversi e molto spesso in contrasto fra di loro. Basta infatti pensare ai guai giudiziari mai finiti di Berlusconi e agli  interessi delle sue aziende e dei suoi alleati, o agli infiniti episodi di corruzione emersi nelle strutture di tutti i partiti parlamentari, per farsi un'idea di quanto marcio viene sistematicamente coperto, per convenienze variamente incrociate, dalle manovre parlamentari. I problemi del paese, si dice da ogni parte, sono gravi: la recessione va frenata, vanno prese misure per la crescita, va combattuta la corruzione, va affrontato il problema della crescente disoccupazione e del diffuso malessere sociale; insomma non c'è partito che non metta in campo la propria  preoccupazione per la "gravità della situazione, talmente seria che potrebbe mettere in pericolo la stessa sicurezza nelle città, nelle aziende, nella vita di tutti i giorni. Aumentano le aggressioni, i furti, gli atti di violenza non solo della delinquenza consolidata e conosciuta ma anche quelli dovuti a nuovi e sempre più giovani delinquenti e a vere e proprie bande di bulli e di giovanissimi nei quartieri e nelle scuole; aumenta il disagio sociale e peggiorano le condizioni di sopravvivenza di strati sempre più vasti di popolazione, mentre i media sono pronti a segnalare che la mancanza di lavoro non solo per i cinquantenni che vengono sbattuti fuori dalle aziende per "riduzione dell'organico", ma anche per i giovani e giovanissimi che non riescono ad accedere nemmeno ad un primo lavoro anche se mal pagato, è la causa prima dell'aumento della violenza nella società.

Ebbene, la democrazia borghese detta la regola secondo la quale il voto espresso dagli elettori è l'indice più alto di civiltà di un paese grazie al quale le forze politiche premiate dagli elettori hanno il dovere e il diritto di governare, che l'ambito di governo sia il paese, la regione, la provincia o il comune. Da come sono andate le cose, in molti decenni di democrazia repubblicana e parlamentare la situazione della stragrande maggioranza della popolazione non è andata verso l'agognato benessere, bensì verso un lento ma inesorabile peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro. La classe dei lavoratori salariati, del proletariato, quella alla quale i partiti di cosiddetta "sinistra" si sono sempre rivolti chiedendo voti e fiducia perché ne avrebbero rappresentato in parlamento e nella società gli interessi, è stata sistematicamente massacrata da una gragnuola senza fine di misure indirizzate ad estorcere quote sempre più consistenti di tempo di lavoro non pagato, di quello che il marxismo ha chiamato plusvalore, e che i borghesi chiamano profitto capitalistico. A questo losco compito, indispensabile per la vita del capitalismo e della borghesia che ne rappresenta, e difende, gli interessi, ci hanno pensato dalla "resistenza partigiana" in poi, sia i governi di centro che quelli di centrosinistra e di centrodestra, e non vi è alcuna ragione per la quale non ci debba pensare anche il prossimo governo "di larghe intese" Letta.

Larghe intese, nel linguaggio ambiguo della politica borghese, significa, oggi, concordare, se necessario di volta in volta, quella serie di misure ritenute urgenti per tamponare la falla economica apertasi con la crisi internazionale del 2007-2008 - le cui conseguenze si sentono tuttora in Italia come in moltissimi altri paesi - e per mantenere un saldo controllo sociale affinché le masse lavoratrici, occupate e disoccupate, non si ribellino in modo incontrollabile alle loro peggiorate condizioni.

I politicanti attuali, di primo pelo o di lunga esperienza, vogliono far credere, predisponendosi a ridurre le proprie pretese e i propri privilegi, di accogliere "il grido di dolore del paese" e di accingersi a "fare responsabilmente" il loro dovere nel cercare di risolvere i "gravi problemi nei quali sono immersi gli italiani". Tutti uniti nel "dare voce" al popolo elettore, ma per fregarlo meglio!

Ci sono quegli 8 milioni e 700 mila elettori che, votando il Movimento 5 Stelle,  abbandonando in una buona parte i partiti del centrosinistra e del centrodestra a causa della delusione per la loro impotenza, hanno creduto non solo di protestare contro una situazione economica generale rovinosa ma anche di mandare in parlamento una forza politica che non alzasse solo la voce ma che spronasse vigorosamente i politici che hanno in mano le sorti del paese affinché si dessero da fare per tirar fuori dalla crisi in cui sono precipitati interi strati della popolazione. L'illusione delle elezioni, e della democrazia borghese, sta proprio in questa speranza: che i politici che hanno sempre servito le esigenze della conservazione sociale e dell'economia capitalistica, non importa sotto quali vesti si presentavano all'elettorato, prendessero "coscienza" della realtà drammatica attraversata dagli strati subalterni della società e si dessero una mossa. A questa illusione se ne aggiunge un'altra: quella di usare la scheda elettorale come un premio o una lettera di licenziamento. Gridare nelle piazze, come faceva Beppe Grillo durante la campagna elettorale, rivolgendosi ai parlamentari: a casa!, arrendetevi!, era un chiassoso invito a lasciare lo scranno a chi invece dichiarava che avrebbe fatto un miglior lavoro... a favore dei sempre adulati cittadini! In parlamento il Movimento 5 Stelle è andato con 109 deputati e 54 senatori, la grandissima parte molto giovane, ma la loro numerosa e sorprendente presenza che cosa si propone di fare? "Nuove leggi" a favore di coloro che non arrivano alla fine del mese e dei più bisognosi?, "Cambiare" il meccanismo di rappresentanza parlamentare che hanno fortemente criticato?

No, sarebbe un'ambizione troppo alta... Il Movimento 5 Stelle, esso stesso espressione delle illusioni della democrazia cosiddetta diretta, vuole rendere il parlamento un luogo dove vince l'onestà, dove i "cittadini" si autorappresentino e portino le proprie istanze alla discussione; si è dato il compito di "controllare" che i parlamentari degli altri partiti lavorino, facciano il loro dovere di parlamentari affrontando i "veri problemi" del paese, si comportino "onestamente"e non approfittino della loro posizione privilegiata per difendere interessi personali o di bottega. Il loro programma, d'altronde, non è mai stato un programma politico nel senso pieno del termine, né un programma di governo; è stato ed è un elenco di rivendicazioni, all'insegna della Costituzione repubblicana, che esprimono gli interessi di "cittadini" che finora non hanno avuto "voce", che esprimono la cosiddetta "volontà popolare" che - espressa col voto diretto o via internet - avrebbe la qualità intrinseca di essere sempre "nel giusto". In sostanza, è lo stesso terreno calcato dai politicanti che da sempre agitano la volontà popolare come il vessillo sotto il quale "la politica" deve agire. La differenza che i "grillini" presentano rispetto a tutti gli altri? Che loro non sono un partito, ma un movimento di popolo; che, anzi, la forma partito, come la forma sindacato, ossia le forme strutturate  delle organizzazioni  devono essere cancellate perché nel tempo si sono sostituite ai cittadini, al popolo. Niente di nuovo sotto il sole, Mr Grillo: già l'anarchismo, un secolo e mezzo fa, propagandava fra i proletari l'idea che il potere in quanto tale, e ogni forma strutturata di organizzazione, rappresentavano il male, la corruzione, la prepotenza, la sopraffazione, mentre il bene andava cercato nell'individuo che, rivendicando e difendendo la propria "autonomia", grazie alla propria "opinione", alla propria "coscienza", avrebbe sempre saputo orientarsi  per il meglio. L'individuo al di sopra delle condizioni sociali, la "coscienza individuale" al disopra dell'ideologia imperante, il "mondo delle idee" che muove il "mondo materiale": questa la visione di ogni ideologia piccoloborghese, che si basa sulla forza storica e materiale del modo di produzione capitalistico e sul dominio della classe borghese che lo rappresenta per colmare la propria impotenza di mezza-classe e nascondere la propria sudditanza dalla classe dominante borghese. Che questa concezione non avesse nulla di rivoluzionario rispetto all'ideologia borghese, che, anzi, in essa si specchiasse la parte più retriva e meschina della borghesia, cioè la piccolaborghesia, che si nutre di pregiudizi e di superstizioni allo scopo di compensare la propria impotenza economica e storica, è cosa straconosciuta dal marxismo che fin dalle sue origini lanciò la sua più decisa critica contro di essa perché possedeva - e possiede ancor oggi - una qualità negativa di primaria importanza per la conservazione sociale: l'influenza diretta e capillare sul proletariato per deviarlo dal suo cammino di classe verso l'emancipazione sociale, cammino che inevitabilmente travolgerà non solo la classe dominante borghese ma anche gli strati della piccola borghesia.

In verità, il Movimento 5 Stelle non ha mai preteso di essere "rivoluzionario"; ha invece rivendicato di essere sommamente democratico e popolare e il fatto che punti tutto sulle esigenze dell'individuo - esigenze culturali, economiche, sociali, politiche, ludiche, informative e chi più ne ha più ne metta - ne fa un pilastro della conservazione sociale. Perciò, i proletari che hanno cercato in questo movimento di protesta una "risposta" alle loro esigenze immediate, e future, rimarranno per l'ennesima volta delusi e scottati. Se mai i "grillini" fossero andati al governo con il PD di Bersani, il programma di governo sarebbe stato, né più né meno, un programma di rafforzamento della conservazione sociale borghese, e dunque del potere della classe dominante al cui servizio si sarebbero piegati dagli scranni del governo come si stanno piegando oggi dagli scranni dell'opposizione parlamentare.  Rafforzare la democrazia, ridare alla democrazia borghese - logorata da decenni di manovre indecenti, da corruzioni ad ogni livello, da azioni politiche, economiche, sociali e  militari indirizzate costantemente a salvaguardare i profitti capitalistici e non le esigenze di vita della stragrande maggioranza della popolazione - un'apparente lucentezza e vigore, significa esattamente andare contro gli interessi della classe lavoratrice, della classe dei proletari che è l'unica dalla quale i capitalisti, attraverso lo sfruttamento del lavoro salariato, ricavano i loro profitti.

Tenere il proletariato avvinto alle illusioni della democrazia significa mantenerlo incatenato alle leggi del capitale; illuderlo che, per un significativo cambiamento delle sue  condizioni di vita e di lavoro basti mandare certi personaggi piuttosto che altri al parlamento o all'amministrazione locale, significa ingannarlo sistematicamente, deviarlo dagli obiettivi politici che le sue condizioni di schiavitù salariale pongono storicamente con sempre maggiore urgenza.

Il vero cambiamento, per il proletariato, per la parte numericamente maggioritaria della popolazione, non sarà mai raggiunto attraverso il diritto a protestare e a dare alla propria protesta la forma del voto e della rappresentanza parlamentare, ciò vale solo a ribadire le catene che lo costringono a faticare, ad ammalarsi, a morire per arricchire una parte estremamente minoritaria della popolazione, quella borghese appunto.

Il governo Letta muoverà i primi passi quando il giornale che leggete sarà giù uscito, ma non è difficile prevedere che il suo percorso sarà punteggiato da molti trabocchetti come già lo è stato quello del precedente governo Monti. Ha importanza relativa che questo governo duri  6 mesi, due anni o una intera legislatura. Sarà inevitabilmente un governo all'insegna della forza, anche quando vestirà il guanto di velluto, perché l'urgenza che batte alle porte degli interessi di classe borghesi detterà le misure economiche e sociali da prendere, come le ha dettate finora ad ogni governo, che fosse composto dalla destra o dalla sinistra borghese, o da una loro mescolanza.

La situazione generale delle grandi masse proletarie e di una parte consistente di piccola borghesia tocca anche in Italia, dopo la Grecia, il Portogallo, l'Irlanda, la Spagna ed alcuni paesi dell'est Europa come la Romania, livelli di disoccupazione, di abbandono sociale, di emarginazione, di disperazione che cominciano a preoccupare la grande borghesia che tiene ben saldo il potere nelle proprie mani.

In Italia la classe borghese dominante può contare sulla tradizione trasformista dei vecchi mercanti grazie alla quale la via principale d'uscita dalle situazioni più critiche non è mai quella della presa di posizione netta e chiara, ma quella che lascia sempre la porta aperta alla posizione contraria a quella appena presa. Così è avvenuto nella storia delle alleanze politiche e di guerra, così avviene nelle alleanze di governo: ieri legati da "patti di ferro", poi nemici giurati, o al contrario, ieri nemici giurati poi alleati per la vita e per la morte. Basta rifarsi alla prima e alla seconda guerra mondiale e alle posizioni traditrici della borghesia italiana.

Oggi non siamo alla vigilia di una guerra mondiale né nel suo svolgimento per il quale le probabilità di vittoria di uno schieramento rispetto all'altro sono cambiate, ma l'attitudine della borghesia italiana non cambia. Nel balletto osceno degli interessi di bottega e delle convenienze più o meno immediate di un gruppo rispetto ad altri, si è vista la destra berlusconiana sferrare attacchi di ogni genere contro "i comunisti" di D'Alema, Veltroni o Bersani,e nello stesso tempo accordarsi per la Bicamerale ieri e per il governo delle larghe intese oggi; come, d'altra parte, si è vista la sinistra parlamentare del Pci-Pds-Pd lanciare strali e invettive di ogni genere contro il "fascismo risorgente" della destra berlusconiana per poi non toccare minimamente - quando avevano in mano le leve del governo - gli interessi economici e finanziari dei potentati rappresentati dalla rete di relazioni delle holding bancarie finanziarie che legano i centri di potere bancari, mediatici e industriali organizzati più o meno segretamente nelle diverse logge massoniche - dalla più nota P2 alla meno nota P4 - o nelle commissioni della Trilaterale.

I proletari che cosa possono attendersi dal nuovo governo Letta? Esattamente quello che ci si può aspettare da un governo borghese che tende a unire le varie anime della pluricromatica rappresentanza politica degli interessi borghesi in un momento piuttosto critico per l'economia capitalistica non solo nazionale, ma internazionale.

La grande richiesta di ringiovanimento del personale politico, di "rottamazione" dei vecchi arnesi della politica, che saliva dalle sfere più periferiche dei partiti parlamentari, doveva essere prima o poi esaudita. E le recenti elezioni politiche con i risultati, ampiamente previsti, di stallo tra forze con peso elettorale simile, hanno alla fine ridato fiato ai personaggi che meglio di altri, in Italia, sanno governare dando un colpo al cerchio e uno alla botte: i democristiani che, nel loro curriculum vitae, se devono per forza presentarsi come ex-democristiani in quanto il partito DC formalmente non esiste più, possono vantare competenze e relazioni di tutto rispetto, avvalorate dalla Chiesa di Roma che, in Italia, ha sempre un peso particolare.

Il fatto è che la classe dominante borghese ha bisogno di un governo che sappia difendere al meglio i suoi interessi sia all'interno che all'esterno dei confini nazionali e, contemporaneamente, sappia gestire il controllo sociale poiché la prolungata situazione di crisi economica, producendo un drammatico peggioramento nelle condizioni di sopravvivenza di larga parte della classe lavoratrice, avverte il pericolo di tensioni sociali incontrollabili.

Ma la borghesia italiana attualmente può stare tranquilla: il proletariato è ancora legato mani e piedi al carro degli interessi borghesi, sia economici che politici e il fatto che i partiti parlamentari o i movimenti-partito come il M5S riescano ancora ad ingannarlo con l'illusione di poter migliorare la sua situazione attraverso il dibattito parlamentare, e il fatto che i sindacati ufficiali, nati collaborazionisti e perseveranti nel collaborazionismo interclassista anche quando "alzano la voce" e "minacciano" di... portare in piazza centinaia di migliaia di lavoratori, dimostrano che il proletariato è ancora prigioniero delle illusioni della democrazia e disarmato dal punto di vista di classe sul terreno della difesa immediata delle sue condizioni di vita e di lavoro e, tanto più, sul terreno della lotta di classe.

La classe borghese dominante ha lunga esperienza di potere e sa trarre anch'essa lezioni dalla storia delle lotte fra le classi.

E sa che il peggioramento continuo delle condizioni di esistenza delle masse proletarie se, da un lato, le schiaccia in una impotenza economica e fisica ricattate come sono dalla perdita del posto di lavoro e del salario, dall'altro esse possono trovare la forza per ribellarsi a questa situazione solo unendosi sul terreno dello scontro di classe. Lo scontro di classe e lo scontro sociale non sono la stessa cosa. Lo scontro sociale può essere solo la manifestazione della rabbia accumulata nel tempo per aver perso un livello decente nelle condizioni di esistenza, la manifestazione di disagio e disperazione per essere precipitati nella miseria e nella fame, ed esaurirsi per l'assenza di un'organizzazione che abbia il compito di tenere viva la causa comune dei proletari e lavorare per unificare le forze proletarie intorno a rivendicazioni di classe che sono le uniche che hanno la forza di superare la divisione fra gruppi, categorie, settori e nazionalità e di combattere la concorrenza fra proletari.

Lo scontro di classe fra proletariato e borghesia non avviene per effetto della cospirazione di piccoli gruppi o per automatismi sociali per i quali più aumenta il disagio sociale e più le masse proletarie prenderebbero "coscienza" della necessità di organizzarsi a difesa dei propri interessi comuni contro gli interessi comuni della classe borghese; né tantomeno per decisione di organizzazioni politiche che di dedicano a studiare piani "rivoluzionari" a tavolino in attesa del "grande giorno" in cui con una sola spallata il proletariato farà cadere il potere della classe nemica.

Lo scontro di classe esiste da quando la borghesia nascente ha preso il potere contro le vecchie classi storiche dell'aristocrazia nobiliare, dei feudatari e del clero ad essi legato, ed ha instaurato il proprio potere sull'intera società basandolo sul modo di produzione capitalistico che funziona e si sviluppa solo attraverso il dominio del capitale sul lavoro salariato. Questo dominio, economico e quindi politico, della classe dei capitalisti sulla classe del proletariato - e quindi sull'intera società - esprime fin dalle origine della società borghese l'antagonismo fra capitale e lavoro salariato, fra interessi del capitale e interessi del lavoro salariato. La classe borghese capitalistica, per continuare a dominare sulla società, deve schiacciare la classe del proletariato nelle condizioni di classe subalterna, di classe dominata, di classe al servizio del capitale. L'interesse generale della classe proletaria è di resistere e lottare contro il dominio sociale della borghesia, mentre l'interesse generale della borghesia è di mantenere la classe proletaria nelle condizioni di schiavitù salariale, schiacciandone ogni resistenza e ogni ribellione. Lo scontro di classe è fatto congenito con la società divisa in classi, con la società capitalistica; e la borghesia, in ogni paese, in ogni azienda, esercita il suo dominio economico, sociale e politico attarverso la forza, attraverso la violenza che storicamente si concentra nello Stato e nelle sue più diverse istituzioni (non si tratta solo di polizia ed esercito, ma anche del fisco, della burocrazia ecc.).

La borghesia che, per il potere che concentra nelle sue mani, esercita di fatto una dittatura di classe, non ha interesse a dominare sistematicamente attraverso la violenza aperta, attraverso la repressione di qualsiasi dimostrazione di resistenza e di lotta da parte delle classi subalterne, e del proletariatio in primo luogo. La storia le ha insegnato che ottiene risultati molto più efficaci se, grazie alle gigantesche risorse economiche accumulate nel corso del suo sviluppo economico e finanziario, utilizza una parte di queste risorse a corrompere alcuni strati del proletariato e le sue organizzazioni di difesa. I sindacati operai, un tempo repressi e vietati dal potere borghese - e visto che la borghesia non avrebbe mai potuto far scomparire la lotta della classe proletaria in difesa delle sue condizioni specifiche di esistenza - sono poi stati tollerati , legalizzati e, infine, nella gran parte dei paesi, assorbiti più o meno completamente nelle istituzioni statali.

Questa evoluzione storica dimostra che nella lotta fra le classi la borghesia ha avuto la possibilità e l'intelligenza di utilizzare nei suoi metodi di governo sia le forme di dittatura aperta e dichiarata, sia le forme di dittatura mascherata e attenuata che corrispondono in sostanza alle forme della democrazia. Nello sviluppo della lotta fra le classi, la contrapposizione fra proletariato e borghesia non si è svolta solo sul terreno economico immediato, ma anche sul terreno più generale e politico. Di fronte ai partiti borghesi sono nati i partiti operai e anch'essi, nello loro evoluzione storica, hanno subito uno svolgimento simile a quello dei sindacati, ossia sono stati oggetti di divieto, repressione, tolleranza, legalizzazione e, infine, assorbimento nel metodo democratico di governo espletato attraverso il parlamentarismo, il ministerialismo fino all'assunzione in toto e apertamente delle responsabilità governative al servizio della borghesia capitalistica. Inutile dire che tale evoluzione non è stata lineare e senza contraccolpi; la ragione va sempre cercata nelle condizioni materiali di fondo della società borghese, ossia nell'antagonismo di classe che contrappone in particolare il proletariato alla borghesia. La borghesia, per ottenere un risultato a suo favore, per influenzare a proprio vantaggio in modo decisivo i partiti operai, ha utilizzato contemporaneamente sia la divisione di interessi che la concorrenza fra proletari inevitabilmente esprime, sia i metodi repressivi contro gruppi o partiti che resistevano sulla linea di classe, sia la corruzione economica e politica attraverso privilegi e vantaggi sociali ai capi e alle organizzazioni, rendendoli forze opportuniste.

Lo scontro di classe, ribadiamo, è costante, vive in permanenza perché le sue basi materiali, economiche e sociali, non sono mai cambiate: il modo di produzione capitalistico si sviluppa certamente, ma sempre sulle stesse basi materiali, con le stesse leggi economiche e non può essere trasformato in qualcosa di diverso. E sviluppandosi, esso aumenta il peso schiacciante sulla società e, in particolare, sul proletariato perché solo dal proletariato estorce il plusvalore: senza lavoro salariato non ci sarebbe capitalismo, ma per superare e abolire il lavoro salariato bisogna superare e distruggere il capitalismo, non c'è altra via. Il capitalismo non si esaurisce da solo, continuerà la sua marcia storica fino a quando il proletariato non troverà la forza rivoluzionaria per fermarlo, e potrà farlo solo vincendo con la sua rivoluzione di classe la borghesia dominante. Bene, questa prospettiva storica non è sconosciuta alla borghesia. L'ha già assaggiata nel passato: nel 1848, in Europa, all'epoca delle sue stesse rivoluzioni antifeudali, nelle quali si erano innestati i  primi movimenti rivoluzionari del proletariato; nel 1871, durante la guerra franco-prussiana, quando con la Comune di Parigi il proletariato, pur nell'isolamento e sotto assedio da parte di entrambi gli eserciti, francese e prussiano, osò dare il famoso "assalto al cielo"; nelle rivoluzioni in Russia e nell'Europa centrale del 1917 e 1919 quando la vittoria proletaria a Mosca diede la spinta alle lotte rivoluzionarie nel mondo e fece toccare con mano alle borghesie imperialiste d'Europa e d'America quale gigantesca forza storica era rappresentata dal movimento del proletariato rivoluzionario guidato dal partito comunista. La borghesia internazionale dovette unirsi e decuplicare la sua forza per resistere all'offensiva proletaria e affrontare un periodo storico in cui il suo dominio politico e sociale aveva corso il pericolo più grande.

E, per l'ennesima volta, la spinta di classe e rivoluzionaria del proletariato fu frenata e infine vinta non soltanto dalla forza economica e militare della borghesia internazionale, ma dalla cooperante azione capillare e intossicante dell'opportunismo socialdemocratico portato alla sua massima efficacia nel deviare e paralizzare la lotta proletaria dal  nazionalcomunismo di marca staliniana.

Da quella cocente sconfitta il proletariato europeo e mondiale non si è più rialzato. Non ci si deve nascondere la realtà: le devastanti distruzioni che caratterizzarono la seconda guerra imperialistica aprirono un nuovo periodo di espansione capitalistica - a dispetto di coloro che immaginavano già allora che il capitalismo non avesse più la forza di espandersi. L'aver coinvolto le grandi masse proletarie nella partecipazione alla guerra a fianco delle rispettive borghesie nazionali, diede al capitalismo, come sistema mondiale, altri decenni di vita. La combinazione tra i metodi di aperta dittatura repressiva e torturatrice delle opposizioni mescolati con il metodo della collaborazione interclassista e i metodi della democrazia parlamentare e della legalizzazione delle organizzazioni sociali e politiche più diverse, produsse effetti vantaggiosi per le classi borghesi, tanto da ereditarne le esperienze per applicarli nelle forme più adegiate, paese per paese, nei nuovi cicli economici del dopoguerra.

Ma, per quanti sforzi possa fare la politica borghese, per quanto possa elevarsi ad alti gradi di raffinatezza e di astuzia, il sistema economico su cui si fonda non le concede molte alternative: il dominio economico della borghesia è difeso dal suo dominio politico e sociale, e può essere messo in pericolo dall'unica classe antagonista esistente nella società moderna, il proletariato. Perciò, tutto ciò che concorre a mantenere il proletariato sul terreno della conciliazione e della conservazione sociale, contribuisce a mantenere la classe del proletariato nella condizione di classe per il capitale. Finché il proletariato rimane in questa condizione non si riconoscerà mai come classe autonoma e solidale, non avrà il coraggio di contare sulle sole sue forze e non avrà la percezione fisica che la solidarietà di classe è il risultato di una rottura sociale verticale in cui lo scontro di interessi di classe si materializza in uno scontro organizzato di classe contro classe.

La borghesia, d'altra parte, pur godendo degli effetti estremamente positivi per il suo potere dati dalla collaborazione fra le classi che le forze dell'opportunismo sindacale e politico le assicurano, sa che le tensioni sociali, provocate dalle sempre più forti contraddizioni fra la miseria crescente che colpisce le grandi masse del proletariato e la spropositata ricchezza sociale appropriata nelle poche mani dei capitalisti, prima o poi spingono le masse proletarie a combattere per la propria sopravvivenza, sia come individui che come classe sociale. Se l'unione fa la forza vale per le frazioni borghesi di un paese, e le borghesie dei diversi paesi, ogni volta che il loro potere viene scosso dalla lotta proletaria, l'unione fa la forza vale anche per i proletari ma in un'unica direzione, quella di classe. Ed è la direzione verso la quale la borghesia, e tutte le forze di conservazione sociale che la sostengono, dall'opportunismo sindacale e politico alla chiesa, cercheranno sempre di impedire che ci si diriga il proletariato, con le illusioni della democrazia e con la repressione della polizia, con le pratiche della collaborazione interclassita e con i ricatti economici ai diversi livelli.

I proletari, a loro volta, non hanno alternative davanti a loro. Se non vogliono continuare a trascinare la propria vita e la vita dei propri figli nelle condizioni di schiavi, dipendendo dalla sorte che le leggi del mercato riservano alle piccole, medie e grandi aziende capitalistiche, devono rompere con le pratiche e i metodi della collaborazione fra le classi, riconquistando una propria indipendenza nella difesa degli interessi immediati e futuri di classe. Ciò significa combattere l'individualismo e la concorrenza fra proletari, combattere in difesa esclusiva dei propri interessi di classe, combattere contro le condizioni generali di schiavitù salariale nelle quali sono immersi fin dalla nascita e contro ogni oppressione che le classi borghesi esercitano sul proletariato e sugli strati sociali intermedi al solo scopo di imporre quotidianamente il proprio dominio di classe.

E' d'altra parte una realtà da molto tempo, soprattutto per i proletari dei grandi paesi capitalisti che dominano sul mercato mondiale, che i proletari hanno perso i legami con la tradizione di classe delle generazioni proletarie dell'inizio del secolo scorso. Ciò significa che la riconquista dei metodi e dei mezzi di lotta classisti, come quella degli obiettivi più alti legati all'emancipazione del proletariato dal lavoro salariato, non può avvenire con l'apporto dell'esperienza vissuta dalle generazioni operaie precedenti. I proletari di oggi e di domani devono e dovranno fare esperienza diretta, in un certo senso ricominciando da zero. Una memoria del passato glorioso delle sue lotte sociali e rivoluzionarie non è in ogni caso perduta, perché vive nel lavoro che i comunisti rivoluzionari, pur ridotti ad un pugno di militanti, continuano a fare affinché la prospettiva di classe non scompaia dall'orizzonte visibile.

I proletari dovranno lottare strenuamente, anche nelle proprie file, contro le illusioni e i pregiudizi piccoloborghesi che si sono depositati sulle loro menti e nelle loro abitudini quotidiane; dovranno riconquistare il terreno della lotta di classe attraverso sacrifici notevoli e dure sconfitte. Ma non avranno scelta. La strada dell'emancipazione dalla schiavitù salariale, dalla società capitalistica che sfrutta ogni risorsa umana e naturale ai fini esclusivamente mercantili e di profitto, è una strada ardua, difficile, irta di osatcoli sia materiali che ideologici, ma è una strada segnata storicamente dall'evoluzione delle stesse società umane che dalle prime associazioni comunistiche primitive sono passate a società più organizzate ed evolute, dallo schiavismo al feudalesimo al capitalismo: tutte società divise in classi e l'ultima delle quali, la società capitalistica, grazie alle rivoluzioni tecniche, alla semplificazione sociale e alla mondializzazione delle condizioni sociali di produzione e di vita, a far da base ad uno storico superamento di ogni divisione sociale in classi contrapposte.

La borghesia capitalistica, per mobilitare ai fini della sua rivoluzione antifeudale le masse proletarie e contadine, si rifece ai concetti della democrazia dell'antica Grecia. ossia al concetto di un popolo che si autogoverna attraverso l'elezione di suoi rappresentanti. Nell'epoca della Grecia antica il popolo che aveva potere di eleggere i suoi rappresentanti era solo la parte minoritaria, quella non schiava; nell'epoca borghese il potere di eleggere i rappresentanti nelle istituzioni che hanno il compito di governare è esteso a tutto il popolo, schiavi salariati compresi che sono la componente maggioritaria della popolazione. Ma questa estensione, se rispetto alla precedente società feudale ha rappresentato effettivamente la partecipazione alla vita politica delle classi inferiori che sotto il feudalesimo non avevano alcun diritto politico, si è trasformata nel tempo da fattore di progresso politico e sociale a fattore di inganno e di degenerazione politica e sociale. E ciò è dovuto non a mancanza di leggi adeguate alla vita sociale o a scelte politiche imposte da gruppi di potere contrari alla democrazia, ma all'evoluzione stessa della sovrastruttura politica basata sulla struttura economica capitalistica.

Più si sviluppa il capitalismo, più la forza economica e finanziaria si concentra in mani sempre più ristrette; e più questi centri di potere economico e finanziario, estesi in tutti i settori economici e oltre i confini delle nazioni nelle quali sono nati e si sono sviluppati, si ingrandiscono, più la necessità di controllo politico e sociale nei vari paesi e sulle classi subalterne si fa pressante. La democrazia borghese che vorrebbe essere il sistema che rappresenta meglio di qualsiasi altro la mediazione degli interessi di tutti gli strati che compongono la popolazione di un paese, si scontra fin dalle origini con le leggi dell'economia capitalistica che rappresentano invece la dittatura economica del capitale - e dei possessori di capitale - sull'intera società. La dittatura del capitale sulla società si esprime attraverso la dittatura di classe della borghesia, e su questo fondamento si instaurano i governi della borghesia che, prendendo la forma della democrazia variamente rappresentativa, adeguano in un periodo dato la necessità di governo e di controllo sociale con i metodi che appaiono più idonei a difendere gli interessi della classe dominante borghese e del capitalismo nazionale.

Come abbiamo già detto, e ripetuto nei decenni di vita del nostro movimento politico, il metodo democratico è una forma di governo borghese che ha lo stesso scopo e le stesse finalità di qualsiasi altro metodo non democratico - oligarchico, di dittatura miliare, fascista o stalinista -  e cioè la conservazione sociale e la difesa degli interessi capitalistici nazionali.

Si possono scorgere certamente le differenze tra il governo Letta di oggi e il governo Berlusconi di ieri, tra il governo della cancelliera Merkel e il governo di Hollande o di Sarkozy, di Obama o di Bush. Ma sono differenze di superficie, atte soltanto a dare risposte adeguate ai diversi umori delle masse nel rispettivo paese cambiando personale politico ma senza cambiare di fondo le politiche in difesa degli interessi della borghesia nazionale.

Il proletariato, intossicato da decenni dal veleno democratico e individualista, può anche credere che un presidente della repubblica nero come Obama possa rappresentare un vero cambiamento nella società americana, ma quello che è cambiato davvero è il colore della pelle del presidente non la politica del presidente. In Irak e in Afghanistan gli orrori della guerra capeggiata dalle forze armate a stelle e strisce non sono così diversi dagli orrori  vissuti in Vietnam o in Cambogia: Obama, Bush, Kennedy, presidenti diversi, ma egualmente voci dell'imperialismo yankee.

Il democratico di sinistra Letta diverso dal destro Berlusconi? Sì, non ci sono dubbi, per età, comportamento personale, relazioni. Ma il suo compito a capo del governo, oggi, non differisce da quello che aveva Berlusconi nel '94 o nel 2001: la crisi economica pone ad ogni governo borghese gli stessi problemi di fondo e la differenza sta caso mai nella profondità e nella durata della crisi economica, non nelle capacità specifiche dei governanti.

All'epoca della crisi del 1975, che aveva caratteri internazionali incisivi e, per la prima volta dalla fine della seconda guerra imperialistica, aveva scosso non poco le cancellerie di mezzo mondo, il Pci di Berlinguer corse a dare il proprio sostegno al governo Moro nella forma della "solidarietà nazionale" e grazie alla teorizzazione del "compromesso storico" tra PCI e DC. A quasi quarant'anni di distanza, durante i quali le vicende politiche italiane hanno travolto i vecchi partiti cosiddetti "ideologici" cancellandoli e sostituendoli con partiti molto più simili e intercambiabili, il compromesso storico e la solidarietà nazionale offerta in parlamento da Berlinguer si sono traformati in materia plastica adattabile ad ogni evenienza e dalla durata variabile a seconda delle esigenze. Il personale politico, sempre rispettoso della Costituzione e della democrazia, si fa eleggere ma risponde - come già ieri - non ai cittadini-elettori, ma ai centri di potere che governano il mondo. Ieri l'attaccamento dell'Italia all'Alleanza Atlantica, e quindi gli USA da cui l'Italia dipendeva, oggi l'attaccamento all'Unione Europea, dalle decisioni della quale i governi italiani dipendono: che cosa è cambiato? Sono cambiati i rapporti internazionali, nel senso che sono diventati sempre più stretti, sempre più interdipendenti, e questo è normale per un'economia che è sempre più dipendente dal mercato internazionale.

Il proletariato si sente dire da tempo che le sue condizioni di vita e di lavoro dipendono dal mercato internazionale e dalle decisioni dell'Europa che vuole maggior rigore nei conti pubblici. I sacrifici che gli vengono imposti, quindi, non sono altro che la conseguenza della crisi dei mercati internazionali, resa più pesante dal troppo rigore che l'Europa chiede ai governi. Per l'ennesima volta, perciò, si dimostrerebbe che il buono o il cattivo andamento dell'economia capitalistica non dipenderebbe dalle misure che ogni governo prende per il proprio paese, ma dai "mercati internazionali", i mercati intesi sia come sbocco delle merci nazionali che come entità finanziaria che viaggia al di sopra di ogni controllo possibile. Insomma, l'economia capitalistica, sviluppandosi, diventa sempre più incontrollabile! A che pro allora i sacrifici chiesti ai proletari? Se i sacrifici che il governo borghese impone ai proletari non servono, né nel breve né nel lungo periodo, a risolvere i problemi della sopravvivenza dei proletari, a che servono? Se non servono ai proletari, servono ai capitalisti, servono a risolvere i problemi del profitto capitalistico.

   Non sappiamo quanto tempo ci vorrà perché i proletari si rendano conto che inseguire le illusioni che la democrazia borghese diffonde a piene mani significa soltanto impantanarsi sempre più in una palude in cui vincono esclusivamente gli alligatori dell'alta finanza. E' certo che molti proletari non si fidano più dei politici o, meglio, dei politicanti; le continue scoperte di corruzione a tutti i livelli e di degeneranti comportamenti degli strati privilegiati della società, dagli affaristi ai politicanti, dai preti ai burocrati, fanno precipitare ancor più nell'impotenza e nella disperazione strati non insignificanti di proletari disoccupati e di piccoloborghesi rovinati dalla crisi, dai quali la malavita pesca manovalanza nelle sue molteplici forme.

Un argine alla demoralizzazione sociale e alla disperazione viene offerto dalle associazioni religiose che si danno un gran da fare nel campo della musica, dello sport, della cultura, dell'assistenza, del volontariato, dell'integrazione degli stranieri portando anch'esse, sotto queste diverse forme, acqua al mulino della conservazione borghese. Mentre i partiti opportunisti e i sindacati tricolore si occupano dei grandi problemi "del paese", la chiesa si occupa del territorio e della vita quotidiana: tutti uniti a dare il proprio contributo perché "il paese" riprenda fiducia in se stesso, il proprio contributo perché "ognuno faccia la sua parte", perché "ognuno si prenda le sue responsabilità"!

Non sarà facile per il proletariato sbarazzarsi di questo enorme edificio di falsi obiettivi e di traguardi ingannevoli. Ma dovrà farlo se non vuole continuare a sputare sangue per ingrossare le tasche dei capitalisti, morendo di fame e di fatica, oggi, e domani in una guerra a far carne da cannone.

La difesa delle condizioni di esistenza non può che cominciare dall'organizzazione proletaria di classe, anche solo su rivendicazioni elementari: l'importante è che siano unificanti e che i mezzi e i metodi di lotta utilizzati siano adeguati alla lotta. Se non si è in grado al momento di lottare per un aumento del salario, si lotta perché non diminuisca; e se il salario non viene erogato si lotta perché sia versato al più presto. Se non si è in grado al momento di lottare per la dominuzione della giornata lavorativa, si lotta perché non aumenti; se non si riesce a lottare contro gli straordinari, si lotta perché vengano pagati di più. Si lotta contro i licenziamenti, certo, ma da soli non si riesce quasi mai a vincere e allora bisogna allargare la lotta ad altri operai di altri settori, delle fabbriche vicine o delle città vicine: è difficile coinvolgere gli operai della stessa fabbrica, figuriamoci di altre fabbriche e di altre città, ma la lotta operaia deve puntare a superare i confini entro i quali i padroni e gli stessi sindacati collaborazionisti la vogliono mantenere.  I proletari devono ricominciare a lottare come facevano più di un secolo fa: unirsi contro il padrone e organizzarsi fuori dalla fabbrica, fuori dai posti di lavoro, in luoghi dove incontrare altri operai, i fratelli di classe di altre fabbriche, di altri settori e dove organizzare la solidarietà di classe a sostegno della lotta, dove unire occupati e disoccupati, nativi e migranti, giovani e anziani, donne e uomini. Se l'unione fa la forza, bisogna cominciare ad unirsi combattendo l'individualismo e la concorrenza fra proletari!

Al di fuori di ogni demagogica rivendicazione, i proletari devono ritrovare la forza di classe nella propria lotta. Ma la forma della  lotta non è indifferente, deve basarsi su metodi e mezzi di lotta che rispondano effettivamente alla difesa degli interessi proletari di classe, e perché quei metodi e mezzi siano adeguati non possono essere concilianti con gli interessi dell'azienda o addirittura del paese perché il vantaggio andrebbe solo ai padroni e al sistema di sfruttamento di cui fanno parte. Come lo sciopero, qualsiasi altra forma di lotta operaia deve incidere sugli interessi padronali, deve provocare un danno ai padroni. Allora la forza proletaria comincerà ad essere un elemento di rottura della conciliazione sociale, comincerà a rappresentare un polo classista intorno al quale organizzare forze proletarie più ampie. Allora, la prospettiva di movimento autonomo e indipendete del proletariato comincerà a prendere forma, comincerà a presentarsi sul terreno dello scontro di classe come vettore di obiettivi più generali e di carattere politico. Il tempo dell'incontro tra il proletariato in lotta sul terreno di classe e il suo partito di classe sarà finalmente maturo e allora il programma rivoluzionario di cui il proletariato come classe storica è il portatore sarà finalmente il suo grande obiettivo storico.

La borghesia dovrà fare i conti non con schiavi piegati alle sue esigenze e che, di tanto in tanto, si ribellano per poter faticare un po' meno e magiare un tozzo di pane in più, ma con un esercito proletario dai contorni di classe ben definiti. L'epoca del risveglio di classe del proletariato si aprirà alla soluzione rivoluzionaria per la quale il proletariato di tutti i paesi dovrà contare sul partito comunista rivoluzionario, su un partito che avrà saputo mantenere nel tempo la coerente linea di classe e l'intransigente difesa del marxismo, sola teoria in grado di leggere il futuro perché sa interpretare la storia come nessun'altra teoria abbia mai fatto. La democrazia borghese, di fronte all'ergersi del movimento proletario rivoluzionario in tutta la sua potenza, mostrerà inesorabilmente la sua vera funzione storica: ingannare le masse proletarie per deviarle dal loro cammino di classe verso l'abbattimento dello Stato borghese e la conquista del potere politico per farla finita una volta per sempre con il sistema di sfruttamento più atroce che sia mai esistito nella storia delle società umane. Il proletariato, colpendo a morte il centro nevralgico del dominio borghese, aprirà la strada all'emancipazione della specie da ogni oppressione di classe, da ogni mercantile rapporto sociale, da ogni abbrutimento della specie umana. 

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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