Turchia, Brasile, Egitto: la crisi economica e le pesanti differenze sociali spingono i proletari, i sottoproletari e gli appartenenti alle classi medie a rivoltarsi contro una società che aggrava sempre più le loro condizioni di esistenza quotidiana. La via d’uscita non sarà mai quella della democrazia e dell’interclassismo, ma quella della lotta di classe proletaria, anticapitalistica e perciò antiborghese!

(«il comunista»; N° 130-131; aprile - luglio 2013)

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I movimenti sociali protagonisti delle massicce e violente rivolte di piazza in Turchia, in Brasile, in Egitto, si ribellano, come già altri in passato, agli effetti disastrosi sul piano dell’esistenza quotidiana provocati dalle sempre più gravi contraddizioni sociali della società capitalistica che colpiscono sia in paesi che hanno conosciuto una veloce crescita economica – come la Turchia e il Brasile – sia in paesi che subiscono effetti particolarmente negativi della crisi economica mondiale – come l’Egitto. Questi movimenti hanno storie, origini, andamenti e sviluppi anche molto diversi gli uni dagli altri, e le situazioni in cui si producono non sono esattamente le stesse. Ma hanno aspetti comuni e, certamente, origini profonde comuni poiché dappertutto vige lo stesso modo di produzione, il modo di produzione capitalistico, che sta alla base della società presente sotto ogni cielo e che, in periodo di crisi diffusa come l’attuale, tende ad acuire le proprie contraddizioni congenite che vanno a concentrarsi – soprattutto nei paesi di recente e selvaggia industrializzazione e della periferia dell’imperialismo – quasi “naturalmente” sulle condizioni di esistenza del proletariato e degli strati più deboli della società, aggravandole.

Dei fatti di Turchia, Brasile ed Egitto, non avendo contatti diretti in quei paesi, conosciamo solo quanto descritto dai media e ne parliamo dovendoci rifare a quanto si può leggere nei giornali o si può rintracciare nelle più diverse corrispondenze in internet. Ma, pur non potendo contare su informazioni dirette e di prima e sicura mano, non possiamo non prendere posizione di fronte a movimenti sociali di questa portata. Sappiamo bene che i media internazionali si nutrono normalmente di tutto ciò che può far notizia e può far vendere giornali e servizi televisivi per aumentarne l’audience; succede con il calcio e altri sport, con il gossip sui cosiddetti personaggi dello spettacolo o della politica, con tutto ciò che fa o non fa il tal governo o il tal partito, e succede ovviamente anche in occasione di guerre, scontri armati, contrasti di confine, urti diplomatici, violenze di ogni tipo. Ma i media sono sempre dei prodotti commerciali che rispondono alla ferrea legge del profitto capitalistico, alla legge della convenienza del momento e ai rapporti che i diversi media cercano di avere o che mantengono con i poteri forti (economici, finanziari, politici, militari) in virtù dei quali scatta sempre, ad un certo punto, la difesa degli interessi di classe di cui essi sono espressione più o meno zelante. Dopo aver gridato dalle prime pagine notizie, quasi sempre trattate superficialmente anche se di grande portata, riguardanti scontri e movimenti di piazza in località e paesi che, per quanche motivo, sono stati catapultati al centro dell’attenzione mediatica – il Brasile con la sua Confederation Cup e con le sue ambizioni di sede dei prossimi Campionati mondiali di calcio e delle prossime Olimpiadi, o la Turchia, per il suo ruolo rispetto alla guerra in Siria e per le trattative con la UE per poterne far parte, o l’Egitto per il semplice motivo che è il paese arabo più importante alle porte dell’Europa mediterranea e la cui “destabilizzazione” avrebbe effetti immediati negativi anche in Europa – capita così che questi fatti, per i media, perdano “interesse” e non se ne parli più. Di quel che è successo o succede alle masse che si sono mobilitate, ai familiari dei morti e dei feriti, agli incarcerati, alla vita di stenti nella quale quelle masse sono riprecipitate, non ne parlano perché questi argomenti non hanno “valore commerciale” e, quindi, non “fanno notizia”, non “fanno vendere” o, semplicemente, non conviene rendere pubblici fatti e situazioni che potrebbero diffondere la sfiducia e il disgusto per la società dove la vita degli esseri umani non conta e non conterà mai come invece gli affari o l’indice di borsa!

 

In Turchia

 

Stavamo completando il numero speciale del nostro foglio “il proletario” sulle stragi di lavoratori nel mondo (1) quando hanno cominciato ad arrivare le prime notizie che riguardavano la centralissima Piazza Taksim, e in particolare il Gezi Park che è al suo interno, nella parte europea di Istanbul, al di qua del ponte sul Bosforo: il 28 di maggio, una cinquantina di “ambientalisti” hanno  iniziato un sit-in pacifico al Gezi Park protestando contro la volontà del governo di distruggerlo per far posto ad un edificio nel quale si prevedono un centro commerciale e appartamenti di lusso e ad una moschea.

Gli “ambientalisti” non protestavano per la prima volta contro la distruzione del Gezi Park; già ad aprile avevano manifestato, ma per la prima volta, avvicinandosi il probabile inizio dei lavori e la costruzione del cantiere, avevano deciso di occupare il parco in difesa anche della decisione dell’ente comunale di Istanbul (2nd Cultural Heritage Conservation District Board of Instanbul) che, alla fine di varie istanze presentate dalle associazioni di architetti urbanisti, ingegneri, intellettuali e artisti, aveva rigettato il progetto di “riqualificazione di piazza Taksim” che avrebbe distrutto il Gezi Park. Il governo Erdogan, non tenendo in nessun conto la decisione del comune di Istanbul, ha fatto annullare questa decisione da parte di un’istituzione pià alta, l’High Council of Cultural Heritage Protection, dando il via ai lavori. Il 31 maggio la polizia interveniva in modo estremamente brutale – sparando  lacrimogeni ad altezza d’uomo, usando spray  e cannoni d’acqua con sostanze urticanti – mandando in ospedale una dozzina di manifestanti e arrestandone una sessantina. E’ stata come una scintilla. Nella serata e nella nottata si sono aggiunti altri manifestanti, e gli scontri con la polizia hanno continuato per tutta la notte e la mattina seguente, con i poliziotti che cercavano di impedire che i manifestanti della parte asiatica di Istanbul, attraversando il ponte sul Bosforo, si unissero a quelli del Gezi Park. Il giorno dopo e i giorni a seguire, i manifestanti andavano aumentando fino a diventare migliaia, e non solo ad Istanbul; le proteste si sono estese ad altre città, Ankara, Antalya, Izmir, Antiochia per  citare le più importanti. Come ha reagito il governo di Erdogan ad un movimento di protesta dai contorni certamente interclassisti, e quindi indefiniti, come questo, ma che andava ingrossandosi di giorno in giorno coinvolgendo tutti gli strati sociali?

All’inzio, inviando la polizia per sgomberare il sit-in, poi per impedire che ai manifestanti del Gezi Park si unissero altri manifestanti, poi intervenendo brutalmente per scoraggiare il movimento di protesta con migliaia di poliziotti e minacciando l’intervento anche dell’esercito. Ma il movimento di protesta, nonostante le botte, i feriti, gli arrestati, i morti (alla fine di giugno se ne contano ufficialmente 6), continuava e si prolungava per non meno di tre settimane con strascichi anche all’inizio di luglio. Questo movimento è animato dai più diversi strati sociali, ma soprattutto dalla piccolo borghesia e da strati di una recente aristocrazia operaia che trascinano con sé anche strati di proletari e sottoproletari che, in piazza e nelle strade, si trovano fianco a fianco con commercianti e professionisti che rivendicano il “diritto al paesaggio” (in difesa del Gezi Park, “unico polmone verde della Istanbul europea”) e il “diritto” a dire la propria opinione sui cambiamenti della città che abitano; si trovano fianco a fianco con le tifoserie del Galatasaray, del Fenerbaçhe e del Besiktas (normalmente avversarie negli stadi), e poi con kemalisti, anarchici, nazionalisti, islamisti di sinistra e curdi: insomma un coacervo di componenti della società che hanno trovato in questa protesta, nella reazione violenta della polizia e nelle dure prese di posizione del governo Erdogan, motivi per esprimere tutte le insoddisfazioni e il disagio che vivono, chi per timore di perdere i privilegi sociali raggiunti e i bei quartieri in cui risiedono – come i borghesi e i piccoloborghesi che strepitano per dire “la loro” e per essere “consultati” –, chi sul piano dell’opposizione politica contro il pericolo di islamizzazione troppo pesante di una repubblica che è sempre stata laica, come i kemalisti e i nazionalisti, e chi come, i curdi, che cercano negli ultimi tempi una difficile “pacificazione” con i turchi ma che affiancano i manifestanti in funzione soprattutto anti-polizia, o chi come quei proletari che si sono aggregati a questo movimento di protesta nell’illusione di potersi ribellare con più forza ad un governo autoritario senza dover passare attraverso i sindacati ufficiali e le complicazioni burocratiche in tema di  sciopero. Questo strano affiancamento non produrrà mai un unico movimento, questo è certo; d’altra parte l’interclassismo, che ha una funzione precisa nei confronti del proletariato in difesa della conservazione borghese, non è altrettanto efficace nei confronti di frazioni borghesi avverse. Le differenze sociali e politiche tra islamici, kemalisti, nazionaliti, curdi, sono troppo profonde per essere superate solo in virtù di una situazione particolare in cui il loro disagio sociale e le loro insoddisfazioni hanno trovato un temporaneo avversario comune nel partito e nel governo islamista di Erdogan; partito che, d’altra parte, ha preso il 50% dei voti alle ultime elezioni e può contare su di una base sociale piuttosto importante nel paese.

Qualche dato sull’ultimo decennio dello sviluppo capitalistico turco può aiutare a comprendere la situazione di turbolenza sociale che si è creata.

La Turchia all’inizio degli anni 2000 presenta una situazione economica disastrosa, tanto da doversi mettere nelle grinfie del FMI per ottenere ulteriori e sostanziosi prestiti (16,5 mld $ nel 2002) alle abituali condizioni strangolatrici che molti altri paesi hanno già conosciuto; in poche parole a fronte di misure da parte dei governanti turchi di lacrime e sangue soprattutto per i proletari e gli strati più poveri della popolazione (liberalizzazioni e privatizzazioni – autostrade, ponti, aeroporti, dighe e perfino le lotterie (2) – per ottenere maggiore efficienza e produttività del lavoro, massima flessibilità e sfruttamento del lavoro salariato). I governanti turchi dell’epoca, nel garantire agli Stati Uniti una strategica alleanza militare e politica visti gli interessi americani nell’area mediorientale (si stavano preparando alla guerra contro l’Iraq), erano protagonisti di pesanti scandali di corruzione tanto da aver perso molta della loro “credibilità” di fronte agli investitori stranieri. Nelle elezioni del novembre 2002 il partito di Erdogan, l’AKP, fondato solo 4 anni prima, di tendenza islamica di centrodestra, batteva di molte lunghezze il concorrente CHP, di tendenza laica e di centrosinistra, andando a vincere. Con leader e personale politico non coinvolti negli scandali di corruzione, l’AKP ed Erdogan rappresentavano il cambio di guardia necessario. Erdogan, dunque, va al potere ed utilizza con grande maestria l’influenza dell’islam moderato per far passare le misure richieste dal FMI come “soluzione” perché il paese non finissse in bancarotta e per puntare su di un progresso economico che il paese avrebbe potuto agguantare a condizione di piegare le grandi masse ai diktat del FMI. Erdogan, per tre mandati di seguito vince le elezioni, nonostante le misure di lacrime e sangue e nonostante le pesanti battute d’arresto dell’economia del paese a causa delle crisi, come nel 2008-2009. Per quanto la Turchia sia una repubblica a regime parlamentare fin dal 1923, continua ad essere un paese sotto tutela delle forze armate, come i colpi di stato militari del 1960, del 1971  e del 1980 dimostrano.

Se paragoniamo alcuni dati economici del 1999 e del 2011, vediamo alcune differenze. Nell’arco di dodici anni il PNL per abitante passa da 3.160 a 10.522 dollari Usa, il PNL complessivo passa dal -5% al + 8,5%; l’inflazione cala dal 64,9% al 6,5% ma nel 2012 torna al livello dell’8,5%; l’analfabetismo diminuisce dal 14,8% al 9,2%. Gli addetti all’agricoltura passano dal 45% della popolazione attiva, nel 1997, al 25% nel 2011, ma l’agricoltura resta per la Turchia un settore economico basilare, nonostante la sua arretratezza; le statistiche ufficiali dichiarano che esso provvede ancora alle necessità alimentari interne e a buona parte delle sue esportazioni e, nonostante il notevole calo degli addetti all’agricoltura, questo settore continua a rappresentare uno dei motori più importanti dell’economia turca, tanto da portare la Turchia, per la produzione agricola, dal quarto posto in Europa nel 2003 al primo posto nel 2012. Le note dolenti, però, non mancano: la disoccupazione, nel 1997, toccava il 7,3% ufficiale, ma considerando che la struttura economica turca è costituita soprattutto da piccole e piccolissime aziende, con una larga parte di lavoratori in nero, sia in agricoltura che nell’industria e nei servizi, è ragionevole pensare che la disoccupazione reale fosse più vicina e oltrepassasse il 15%, mentre nel 2011, pur ingrossandosi considerevolmente le città (Ankara e Instanbul in particolare) con un afflusso notevole dalle campagne e dalle regioni interne dell’Anatolia, la disoccupazione ufficiale è aumentata toccando il 9,2% (la disoccupazione reale, quindi, sarà certamente molto più alta): ciò significa che la concorrenza tra proletari è aumentata considerevolmente, tanto più se si considera che gli investimenti stranieri in questo decennio sono enormente aumentati grazie alle condizioni di estrema flessibilità del lavoro e di alta potenzialità di sfruttamento del proletariato turco. Secondo i dati Eurostat 2011 (3), la settimana lavorativa media è tra le più alte in Europa (53 ore!), il tasso di assenza per malattia è tra i più bassi (4,6% annuo nell’ultima rilevazione), la sicurezza sul lavoro è tra le peggiori in assoluto (ufficialmente vi sono più di 4 morti al giorno!), il costo del lavoro – rispetto all’istruzione e alla professionalità della manodopera – è tra i più bassi, toccando il salario minimo quota 300 € al mese!, e la rigida  regolamentazione degli scioperi, e di organizzazione sindacale, contribuisce a rendere il mercato del lavoro turco molto appetibile per gli investitori stranieri.

In Turchia l’organizzazione sindacale è legale, come ogni democrazia borghese vuole, ma è stretta da tali e complicati obblighi e divieti di legge che ne limitano enormemente l’organizzazione e l’attività. Su una popolazione attiva di circa 26 milioni e mezzo (dati 2011), secondo le leggi vigenti soltanto poco più di 5 milioni di lavoratori hanno “diritto” ad iscriversi ad un sindacato (4). In Turchia i sindacati sono divisi tra le confederazioni del settore privato – le principali delle quali sono TÜRK-Iª, HAK-Iª e DISK – che insieme rappresentano più di 3 milioni di iscritti, di cui più di 2 milioni e 200 mila appartengono al TÜRK-IÞ, e le confederazioni del settore pubblico – le principali delle quali sono MEMUR-SEN, Türkiye KAMU-SEN e KESK (5) che insieme rappresentano poco più di 1 milione di iscritti. Esistono anche leggi che vietano il lavoro minorile (al di sotto dei 15 anni di età), ma, come in tutti i paesi del mondo, le leggi scritte sotto la pressione delle lotte delle masse proletarie e per convenienza formale sono aggirate costantemente, anche alla luce del sole. Così è per il lavoro nero, che in Turchia è diffusissimo, come per il lavoro minorile soprattutto nel settore tessile (6). La legge, chiudendo gli occhi di fronte a casi così vistosi di illegalità, è allo stesso modo blanda e sorda di fronte ai numerosi casi in cui i lavoratori vengono licenziati per il semplice motivo di essersi iscritti al sindacato, come ad esempio all’azienda Desa, che produce capi per marchi del lusso (Prada, Mulberry, Nicole Fahri, Luella, Samsonite, Aspinalls) dove nel marzo del 2009 sono state licenziate 44 operaie perchè si erano iscritte al sindacato; o alla Ismaco, azienda a capitale olandese che produce camicie con il marchio Ermenegildo Zegna, dove, alla fine di dicembre 2012, 4 dipendenti aderenti al sindacato Deri-Is (affiliato alla Industrial ALL Global Union) che cercavano di sindacalizzare i compagni di lavoro per avere più forza nel rivendicare aumenti di salario che da tre anni l’azienda non accordava e per combattere contro il peggioramento continuo delle condizioni di lavoro, sono stati dapprima minacciati e intimiditi e alla fine licenziati. O come è successo alla DHL Turchia, filiale turca della tedesca DHL, che ha licenziato 20 lavoratori per aver tentato di riunirsi nei magazzini dell’azienda. Ma il caso più eclatante è quello della Turkish Airlines, azienda che ha licenziato 305 dipendenti per aver preso parte ad azioni di protesta contro una proposta di legge mirante a vietare del tutto gli scioperi (7). E ai licenziamenti fanno da contraltare gli arresti: è stato il caso di 22 membri del Kesk, un sindacato di insegnanti ritenuto vicino al curdo PKK, rei di aver capeggiato proteste e scioperi per aumenti di salario e per una maggiore sicurezza del lavoro (8).

Ogni governo borghese, per attirare capitali dai mercati internazionali nel proprio paese, è spinto a piegare, con ogni mezzo, il proletariato nelle condizioni di flessibilità e di adattabilità alle esigenze di profitto affinché gli investimenti siano redditizi. Questo vale per la Turchia come per il Bangladesh, per la Germania come per gli USA o l’Italia; vale per ogni paese. E l’unico vero ostacolo può essere rappresentato solo da settori del proprio proletariato che non accettano di esser schiavizzati fino alla fame o alla morte. Per questo la classe dominante borghese ha bisogno di avere come “controparti” organizzazioni sindacali che siano in grado di influenzare i propri iscritti a favore della collaborazione interclassista pur lasciando loro un certo margine di radicalità per poter influenzare anche quella parte di proletari che, a differenza della massa, spingerebbero la propria combattività e la propria propensione alla lotta ben oltre i limiti dei negoziati o gli scontri episodici con la polizia. E finora, va detto, le classi dominanti non solo in Turchia, ma in tutti i paesi, hanno potuto contare sull’attività di sindacati collaborazionisti, veri e propri strumenti indispensabili per il controllo del proletariato organizzato.

Le condizioni di vantaggio per i capitalisti nazionali e stranieri hanno posto la Turchia nella situazione di rappresentare un vero e proprio affare per il capitale internazionale; quindi non è per caso che gli investimenti stranieri in Turchia siano aumentati notevolmente nell’ultimo decennio: da 1,8 mld/dollari Usa del 2003 a 15,9 mld/dollari Usa del 2011, toccando, nel periodo, la quota più alta nel 2007 con 22 mld/dollari Usa; ne hanno beneficiato in particolare il settore manifatturiero e il settore dei servizi (intermediazione finanziaria soprattutto, e poi il settore immobiliare e la sanità privata). Inutile dire che gli investimenti esteri in Turchia provengono soprattutto dai paesi della UE, dagli Stati Uniti e dai paesi del Vicino e Medio Oriente (9). E’ evidente che i capitali sono attratti in Turchia non solo dalle performance economiche che il paese offre, ma soprattutto per la grande libertà di sfruttamento del proletariato e del territorio; si consideri poi, che ai bassi salari si aggiunge la massa enorme di proletari sfruttati nelle più diverse forme di precariato e nell’economia sommersa (alcuni dati OCSE parlano di questo settore dell’economia come di un valore che potrebbe aumentare del 40% il PIL ufficiale) e non solo proletari adulti, ma bambini: secondo lo stesso Ministero del Lavoro, nel 2004, i bambini compresi tra i 12 e i 14 anni, inseriti nel mondo del lavoro, erano 469.000, ma secondo il sindacato turco DISK vi sarebbero, nel 2011, 1,6 milioni di bambini al lavoro, tra i sette e i quindici anni (10).

Per un decennio abbondante, dunque, la Turchia ha vissuto una crescita economica importante, classificandosi al 17° posto nella lista degli Stati per Prodotto Interno Lordo, con un PIL per abitante di 10.522 $Usa nel 2011 contro i 3.160 $Usa del 1998. La sua crescita economica si abbina alla posizione geostrategica tra Europa e Medio Oriente, cosa che la colloca nella situazione di potenza regionale dalla quale non si può prescindere per tutto ciò che avviene nella vasta regione che dai Balcani va ad est verso il Caucaso e a sud-est verso il Maro Rosso, il Golfo Persico e l’Oceano Indiano. Di questo nuovo rango, la Turchia di Erdogan, e dei suoi successori, è perfettamente consapevole tanto da permettersi di bisticciare con il parlamento UE, di cui ambisce di diventare membro, e con la Germania (che è il paese al primo posto nell’interscambio commerciale turco) riguardo i metodi repressivi utilizzati per “normalizzare” la piazza e farla finita con le proteste.

Ebbene, con la crescita economica si è creata e sviluppata una classe media che, ai primi forti contraccolpi della crisi economica che ha colpito anche la Turchia, ha trovato nelle proteste ambientaliste per il Gezi Park un veicolo per esprimere il proprio disagio, la propria paura di perdere i privilegi ai quali cominciava ad abituarsi e, soprattutto, la propria paura di precipitare nelle condizioni di vita proletarie. A queste proteste, alle quali spontaneamente si sono aggregati i più diversi strati sociali che si oppongono ad una islamizzazione, anche se lenta e non violenta, della società turca, si sono aggiunte le reazioni da parte di gruppi sociali che si sentono sempre più esclusi dai “benefici” della crescita economica e che si rivoltano contro la corruzione, la repressione poliziesca e, naturalmente, soprattutto per quanto riguarda i proletari, contro l’autoritarismo governativo che impedisce la libera organizzazione sindacale e la libera attività politica e sociale. Le illusioni generate dalla modernizzazione della società turca, in termini di democrazia, portate dalla “libertà di mercato” e dalla “libera iniziativa privata”, sono evidentemente ancora molto forti e, in assenza di un movimento di classe del proletariato, si indirizzano quasi automaticamente nel nazionalismo e nel laicismo nei quali anche i proletari, senza prospettive di classe, cadono facilmente.

Nella situazione descritta vi è però, dialetticamente, un elemento positivo per nulla favorevole al proletariato: è il fatto che la società turca si è industrializzata, e necessariamente procederà a svilupparsi ancor più su questa strada. Ciò significa che una parte di contadini sono diventati forzatamente dei proletari, dei senza riserva, andando ad ingrossare le città e l’esercito di forza lavoro proletaria; ciò significa che la società turca si “proletarizza” e che la crisi economica, che fa da contraltare alla crescita economica in cicli relativamente brevi, proletarizzerà sempre più anche la Turchia, accumulando energie sociali che un domani faranno saltare tutti i tappi di pace sociale, di collaborazione fra le classi, di interclassismo che la borghesia si ingegna continuamente a costruire e ad attivare.

I proletari turchi che da anni, nonostante i superdivieti di organizzazione sindacale e di sciopero, sfidano continuamente la classe dominante e la polizia lottando per far riconoscere, con la forza della lotta, il diritto di sindacalizzarsi e di scioperare in difesa delle proprie condizioni di esistenza, possono anche illudersi oggi che la strada da percorrere per ottenere soddisfazione a queste richieste sia quella che porta ad una “vera democrazia”, ad una “democrazia diretta”, ma sarà lo stesso sviluppo del capitalismo all’interno dei confini della patria di Atatürk e i metodi di governo della borghesia dominante che li metteranno di fronte alla necessità di gettare alle ortiche le illusioni sulla democrazia per abbracciare le prospettive di classe che la storia delle lotte proletarie ha indicato da molto tempo e che il marxismo ha codificato nella teoria della rivoluzione proletaria, nella teoria dell’emancipazione proletaria che non può avvenire se non abbattendo il potere borghese, spezzando la sua macchina statale e instaurando, al posto della dittatura borghese, la dittatura proletaria. Queste prospettive di classe non sorgono spontaneamente dalle lotte immediate del proletariato di oggi o di domani, ma fanno parte del patrimonio storico condensato nel comunismo rivoluzionario e posseduto dal partito di classe, unica vera guida del proletariato al fine della sua emancipazione totale dal lavoro salariato e, quindi, dal capitalismo.

Finché i proletari si faranno abbacinare dalle illusioni democratiche che le forze politiche e sindacali dedite all’interclassismo e alla collaborazione fra le classi somministrano loro costantemente, non saranno mai in grado di vedere il loro futuro di classe e rimarranno eternamente prigionieri del pantano in cui l’opportunismo li mantiene. Rompere con il collaborazionismo interclassista diventa quindi una priorità, e si può iniziare a strappare questo maledetto patto di pacificazione con i capitalisti e il personale politico al loro servizio organizzandosi per combattere la concorrenza fra proletari mettendo al centro delle proprie rivendicazioni esclusivamente gli interessi di classe proletari, fuori da ogni compatibilità con l’economia aziendale o nazionale, fuori da ogni dipendenza da preventivi accordi o negoziati di vertice. I capitalisti, per accumulare più profitti possibile e combattere la concorrenza sul mercato, devono, con l’aiuto dello Stato, sfruttare al massimo la forza lavoro proletaria in patria e negli altri paesi, perciò fanno una guerra a tutto campo pur senza dichiararla “ufficialmente”: turni di lavoro massacranti, salari da fame, licenziamenti, disoccupazione che avanza, ricatti continui sul posto di lavoro e nella vita quotidiana, burocrazia sempre più arrogante e pesante, sperequazioni sociali, repressione, mancanza di prevenzione delle malattie professionali, assenza di misure di sicurezza sul lavoro, morti “bianche”, morti sulle strade, morti in guerra: sono tutti atti di guerra della classe borghese contro la classe del proletariato. Il proletariato non può affidarsi, per difendersi efficacemente da questi attacchi continui, a metodi e mezzi che sono impotenti già in partenza: petizioni, referendum, lettere aperte, schede elettorali, accordi di vertice tra organismi sindacali, associazioni padronali e governo che non hanno altri obiettivi se non quelli di difendere il profitto capitalistico. Il “diritto” lo si ottiene con la forza, con la forza della lotta, decisa, intelligente, indipendente, di classe! Altre vie non ci sono, come dimostrano quasi duecento anni di storia da quando i primi gruppi proletari iniziarono nel 1821 in Francia a lottare per se stessi, e i quasi cent’anni dalla vittoriosa rivoluzione proletaria d’Ottobre in Russia!   

 

In Brasile

 

A una settimana dall’inizio delle manifestazioni di protesta ad Istanbul e in molte città turche, che presero il via dalla brutale repressione della polizia in  piazza Taksim, le cronache annunciano che un altro movimento di protesta sta salendo dal più grande e importante paese dell’America del Sud, il Brasile.

Il 6 giugno, dopo che le autorità locali della megalopoli San Paolo avevano deciso di aumentare il prezzo del trasporto pubblico – da 2,85 reais a 3,20 (ossia 1,12 euro al cambio attuale) – il Movimento Passe Livre (11) è sceso in piazza rivendicando l’azzeramento immediato dell’aumento, azione che il MPL attua, dalla sua fondazione nel 2005, ogni volta che le autorità locali decidono di alzare il prezzo del trasporto pubblico. Ma, questa volta, il movimento di protesta si è esteso rapidamente a Rio de Janeiro e poi alle altre città grandi, medie e piccole, nei diversi Stati del paese, coinvolgendo masse sempre più numerose, fino a qualche milione di abitanti, di proletari e sottoproletari soprattutto. Qualcuno potrà anche sorprendersi che scoppi una rivolta di strada, e che questa rivolta duri settimane, a causa dell’aumento della tariffa dei mezzi pubblici di 0,35 reais, che equivalgono a 12 centesimi di euro. Ma questa è la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso, e che in Brasile si ripresenta ciclicamente da tempo. Un giornale borghese come El Pais, sostiene che, rispetto al salario minimo di 678 reais (circa 238 euro) la spesa per il trasporto mensile, con un viaggio di andata e uno di ritorno per 6 giorni alla settimana, supera i 200 reais al mese (70,17 euro), il 30% del salario! (12). Se poi si aggiunge che i mezzi pubblici, gli unici che i proletari si possono permettere, si guastano frequentemente, che la manutenzione delle strade, a parte quelle del centro e dei quartieri residenziali, non esiste e che, ogni giorno, i proletari per raggiungere il posto di lavoro e per tornare a casa impiegano dalle 3 alle 4 ore, si capisce facilmente che il problema del trasporto pubblico è un nervo sempre scoperto; si capisce anche come su questo problema, sebbene episodicamente, i proletari siano disposti a partecipare alle inziative di protesta del MPL e non sempre fermandosi alla protesta pacifica e impotente.

Ma il MPL ha acquisito una certa considerazione, e a ragione, anche da parte dei governanti nazionali che, finora, hanno sempre demandato ai prefetti il compito di reprimere o di negoziare coi movimenti sociali; ora, la stessa presidente Dilma Rousseff, il 24 giugno scorso, dopo tre settimane di proteste e di scontri con la polizia in tutte le città più importanti del Brasile, ha convocato al Palácio do Planalto, il palazzo del governo, assieme ai governatori e ai prefetti, anche quattro rappresentanti del MPL per cercare di calmare e stemperare le manifestazioni di rivolta. Inutile dire che nell’incontro la presidente ha  ribadito che il legittimo “diritto di protestare” non esclude la condanna di “ogni atto di violenza e di vandalismo”... da parte dei manifestanti, s’intende, perché la polizia è ovviamente “autorizzata” ad usare la violenza contro i manifestanti inermi e, meglio, se isolati, come è stato documentato costantemente da video amatoriali! Ciò che la presidente ha proposto ai sindacati e alle organizzazioni che alimentano le manifestazioni di protesta, come il MPL, è stato un “grande patto per migliorare i servizi pubblici” (13), pur mantenendo gli impegni presi per l’organizzazione dei Mondiali di calcio del prossimo anno e per le Olimpiadi del 2016. Ma queste, anche ai rappresentanti del MPL, sono apparse come parole al vento perché per un efficace miglioramento dei servizi pubblici (istruzione, sanità, trasporto) ci vorrebbero i miliardi di dollari che sono stati destinati ai prossimi Mondiali di calcio.

 Quanto costerà al Brasile organizzare i Mondiali? E’ prevista una spesa totale di circa 33 miliardi di reais, cioè 15,1 miliardi di dollari, (l’85% da fondi pubblici del governo federale, degli stati e delle città, il resto dall’imprenditoria privata) che serviranno non solo per la ristrutturazione degli stadi adattandoli a competizioni sportive di questa portata e per la costruzione di nuovi stadi, ma anche per tutte le infrastrutture legate alle vie di comunicazione con stazioni ferrovarie, porti e aeroporti, per gli aeroporti stessi (previsti una trentina di cantieri) e per la viabilità urbana (previsti 50 progetti) (14) senza contare i servizi di sicurezza. Naturalmente questi piani di investimento prevedono la conclusione dei lavori in tempo utile per i Mondiali del 2014; ma lo stesso ministro delle città, Aguinaldo Ribeiro, dichiara che non meno di 15 opere di mobilità urbana sulle 22 in corso in 5 città che ospiteranno i mondiali di calcio non saranno pronte nel 2014. Inoltre la situazione è peggiorata a causa di diversi casi di corruzione che, ad esempio per il maestoso stadio di Rio, il Maracanà, hanno rivelato un giro di tangenti tra criminalità e politica (sembra di leggere notizie che riguardano l’Italia...) (15).

E’ stato calcolato che a causa delle nuove infrastrutture da realizzare nelle diverse città saranno non meno di 170.000 gli abitanti, soprattutto proletari, ad essere sfrattati; che fine faranno, poi, non è dato sapere. Nello stesso tempo, mentre i vari governi brasiliani, federale statale e municipale, pensavano a gestire questo fiume di denaro, l’inflazione saliva, il costo della vita aumentava, i salari rimanevano al palo, il precariato e la disoccupazione aumentavano; il tutto condito con una corruzione mai debellata (dopo 9 mesi di governo Rousseff ben 7 ministri hanno dovuto dare le dimissioni per corruzione!) e con la delinquenza in aumento. Ce n’era abbastanza perché l’aumento del biglietto dei mezzi pubblici fungesse da scintilla per far esplodere la rabbia degli strati sociali più colpiti da una situazione che, pur in crescita economica e con un livello di vita aumentato, non ha portato loro alcun beneficio. Abbiamo già visto che la media del salario minimo, sebbene si sia alzata sotto i governi di Lula prima e di Dilma Rousseff poi, resta comunque insufficiente rispetto al costo della vita che invece continua ad aumentare.

E’ indubitabile la crescita economica che ha portato il Brasile addirittura a superare la Gran Bretagna nella classifica delle economie più importanti del mondo, secondo i dati di PIL utilizzati normalmente in tutte le statistiche. Il Brasile, sia per il FMI, che per la Banca Mondiale che per la CIA, nel 2011 è diventata la 6° potenza economica mondiale. Un indice che dà un’idea della crescita economica è dato, ad esempio, dal PNL/ab.: nel 2000 era di 4.630 $Usa, nel 2011 è stato di 12.789 $Usa, mentre la popolazione totale passava da 166,2 milioni di abitanti (con una popolazione attiva di 77,7 milioni) a 190,4 milioni di abitanti (con una popolazione attiva di 99,7 milioni). Ciò che è radicalmente cambiato nel tempo, dal 1950 in avanti, e non poteva che essere così, è il fatto che la marcia dello sviluppo capitalistico ha seguito le strade già conosciute da altri paesi: industrializzazione e massiccio inurbamento di masse di contadini espropriati o affamati, proletarizzazione crescente di una parte preponderante della popolazione, introduzione della meccanizzazione in agricoltura favorita dalle grandi estensioni di terreno coltivabile, accumulazione della ricchezza da parte del famoso 10% della popolazione, miseria crescente per la gran parte della popolazione costituita dal proletariato urbano e rurale, dai contadini diseredati e dal sottoproletariato. Ciò non toglie che lo sviluppo capitalistico abbia alzato il tenore di vita di una parte della piccola borghesia urbana e di una parte del proletariato ad occupazione più stabile, più istruito e impiegato con professioni tecniche specializzate tanto da formare uno strato di quella che il marxismo ha chiamato aristocrazia operaia che per posizione sociale, mentalità, abitudini e pregiudizi è molto vicina alla piccola borghesia  tanto da potersi confondere con essa condividendo aspettative, illusioni, atteggiamenti sociali. Se nel 1950 il 63% della popolazione attiva era impiegata nell’agricoltura, il 17% nell’industria e il 20% nei servizi, oggi le proporzioni sono ben diverse: in agricoltura lavora il 15% della popolazione attiva, la quota  impiegata nell’industria è cresciuta andando al 20%, mentre il grosso dell’occupazione, il 65%, riguarda i servizi. Ma l’agricoltura, come comparto economico e produttivo, mantiene un peso rilevante in Brasile tanto da costituire fonte vitale per le esportazioni; i prodotti alimentari costituiscono infatti il 31,1% delle esportazioni brasiliane (dato 2010) (16). Il Brasile, pur essendo un fortissimo produttore agricolo, per dar da mangiare ai brasiliani deve importare derrate alimentari; solo nel capitalismo si affama una parte della propria popolazione per fare profitti e immagazzinare valuta pregiata con le esportazioni.  

Va detto che il governo di Lula prima, e poi il governo di Dilma Rousseff, utilizzando una parte delle risorse provenienti dalla notevole crescita economica e dalle esportazioni, hanno introdotto degli ammortizzatori sociali (17) indirizzati ad attenuare la gravissima situazione di povertà assoluta che colpiva soprattutto le zone rurali, ossia circa 36 milioni di persone (il 19% della popolazione brasiliana) dedite ad un’agricoltura di pura sussistenza. Il problema è che i sussidi trasferiti alle famiglie povere per la loro sussistenza non hanno cambiato il fatto che l’1% dei proprietari terrieri possieda il 40% dei terreni coltivabili, che l’8,2% dei proprietari terrieri produca l’84,9% dei prodotti agricoli brasiliani, che la maggior parte della terra sia in mano a grandi multinazionali che destinano al mercato estero i loro prodotti, che la produzione della soia – che in determinati territori è praticamente una monocoltura per la quale si è avviata una deforestazione selvaggia e si fa ampio uso delle biotecnologie, ossia degli OGM – usata sia per l’alimentazione del bestiame sia per la produzione di biocarburanti, abbia sottratto terreno alle aree rurali, mantenendo e aggravando la situazione di povertà dei 3,7 milioni di piccole aziende contadine, a conduzione familiare, in grado di produrre, anche a causa di tecniche agricole vecchie e inadeguate, soltanto il 4% della produzione agricola brasiliana (18); il che fa capire che il Paa di cui Lula e la Rousseff vanno tanto fieri, non risolve, se non temporaneamente, il problema della povertà endemica delle zone rurali o delle favelas che continuano a far da corona alle megalopoli brasiliane...

 Le manifestazioni di protesta in Brasile, coincidendo con il torneo calcistico chiamato Confederations Cup che vi si è tenuto dal 15 al 30 giugno scorsi, hanno ottenuto una risonanza mondiale proprio perché gli occhi dei media di tutto il mondo erano puntati sulle partite della  Confederations Cup, alla quale partecipavano le squadre nazionali di 8 paesi, quale anticipo dei  Mondiali di calcio del prossimo 2014.

Un luogo comune, che però ha un fondamento reale, vuole che i brasiliani vivano soprattutto per il samba e il calcio, e non c’è dubbio che la musica e lo sport siano utilizzati da molto tempo non solo come fonte di profitti e flusso di corruzione ai più diversi livelli economici e politici, ma anche come efficaci diversivi alla sempre potenziale reazione violenta che le masse proletarie, povere, diseredate ed emarginate, possono esprimere episodicamente per dare sfogo a situazioni di vita del tutto intollerabili. Quando i governanti brasiliani, da dieci anni espressi dal Partido dos Trabalhadores, hanno convinto la Fifa ad assegnare al Brasile la sede del Campionato del Mondo di calcio del 2014, e quindi della Confederations Cup di quest’anno, non immaginavano certo di trovarsi di fronte ad una estesa rivolta proprio degli strati sociali più poveri che si immedesimano nelle vittorie calcistiche della Seleçao e che costituiscono in buona parte la loro base elettorale.

Come un incendio scoppiato improvvisamente in un luogo, la protesta contro l’aumento delle tariffe dei mezzi pubblici mentre si investono miliardi di reais per gli stadi e per infrastrutture che le grandi masse non potranno mai utilizzare, e contro i tagli all’istruzione, alla sanità e ai servizi pubblici in generale, si è estesa rapidamente in tutte le grandi città brasiliane. Che sia stata una protesta partita dal basso, che ha coinvolto spontaneamente le masse dalla vita quotidiana disagiata e difficile, non c’è dubbio. Come non vi è dubbio che ampi strati proletari vi abbiano partecipato dapprima al di fuori dei sindacati e successivamente con i sindacati che non avevano più la faccia di restarne fuori, per esprimere anche la loro rabbia e soprattutto di fronte alla violenta repressione poliziesca. Così, alle manifestazioni di strada della piccola borghesia, degli studenti, del proletariato urbano e del sottoproletariato delle favelas, si sono aggiunti, all’inizio di luglio. gli scioperi dei metalmeccanici e nei trasporti pubblici, nelle scuole e negli ospedali, a San Paolo, a San Jose dos Campos, a Rio e a Salvador de Bahia, Porto Alegre, Belo Horizonte, Curitiba, Florianopolis, Fortaleza, Manaus, scioperi con cui i lavoratori, mettendo da parte le varie fedi calcistiche e non tenendo conto degli appelli del “grande” ma ricco Pelé a smetterla con la “confusione e gli scontri di strada” per non disturbare lo svolgimento delle partite della Confederations Cup, rivendicano migliori condizioni di lavoro (19). Che il Brasile abbia vinto per la quarta volta la Confederations Cup, sembra proprio che non abbia importato un granché alle grandi masse: le proteste continuano, nonostante in molte città le autorità locali abbiano deciso di ritirare gli aumenti del trasporto pubblico, dando in questo modo partita vinta al movimento di protesta. Ciò significa che le condizioni di vita delle larghe masse non sono per nulla migliorate grazie ai risultati stupefacenti che da dieci anni l’economia brasiliana ha raggiunto: del miglioramento di vita hanno beneficiato solo gli strati superiori della società, la classe borghese, innanzitutto, e quegli strati di classe media che si sono formati nel tempo all’ombra della burocrazia federale, statale e municipale, al seguito della nuova imprenditoria privata e delle multinazionali dell’agroalimentare, della metalmeccanica, della petrolchimica e della finanza.

La classe borghese brasiliana, in questo ultimo decennio, nelle sue frazioni meno reazionarie e conservatrici, ha puntato, sostenendolo, sul PT di Lula e di Dilma Rousseff, certa di poter avere le mani libere per approfittare della situazione mondiale per la quale le difficoltà economiche in cui si dibattevano le economie imperialiste occidentali potevano tramutarsi in occasioni di crescita e di sviluppo per il Brasile attirando dagli Stati Uniti e dall’Europa parte dei capitali sovrabbondanti che non trovavano sbocco sufficiente per i loro investimenti. Di contro, quelle frazioni borghesi non si opponevano alle riforme che Lula voleva attuare per togliere, almeno in parte, dall’estrema povertà milioni di brasiliani, proteggendo in questo modo una parte non indifferente della sua base elettorale, ma soprattutto per favorire i consumi interni alzando i salari, facilitando il credito, foraggiando quegli ammortizzatori sociali che avrebbero consentito di tacitare le esigenze primarie di vita delle masse proletarie urbane  e forzatamente urbanizzate. Si è così sviluppata in modo selvaggio un’economia basata sul petrolio e sul carburante vegetale, sull’allevamento intensivo del bestiame e sulla produzione per l’esportazione, deforestando e distruggendo parte del territorio, cosa che ha espulso dalla campagna molti contadini che si sono riversati nelle città, proletarizzandosi forzatamente, facendo sorgere gigantesche favelas intorno a Rio, a San Paulo e molte altre capitali.

Il PT di Lula e Rousseff, d’altra parte, ha già dimostrato di saper affrontare situazioni di tensione sociale e di lotte proletarie, sostenuto nella sua azione di governo dal 2003 dalle due grandi organizzazioni sindacali, la Centrale Unica dei Lavoratori (CUT) e Forza Sindacale (Força Sindical) e ciò ha consolidato la fiducia che una parte della borghesia ripone in esso.  Le Monde Diplomatique di luglio 2013 riporta alcune notizie interessanti a questo riguardo. Vi si legge quanto segue, a proposito del governo Rousseff di coalizione di centrosinistra guidata dal PT: “Nel 2012, di fronte al più grande sciopero degli statali in un decennio, non ha ceduto alle rivendicazioni. Dopo 107 giorni di conflitto ininterrotto, è riuscita a imporre il suo piano di riadeguamento dei salari: i sindacati esigevano aumenti dal 40 al 50% e una rivalutazione delle carriere; sarà invece del 15% scaglionato su tre anni, mentre l’inflazione si avvicinava al 6% nel 2012. Unica concessione: l’apertura di trattative per il pagamento dei giorni di sciopero. Per contro, tre corpi dell’esercito brasiliano hanno ottenuto un aumento dello stipendio del 30%”. E i sindacati come hanno reagito? “Scontente, quattro delle cinque centrali più importanti del paese – alcune delle quali vicine alla destra – Força Sindical, Nuova Centrale, Unione generale dei lavoratori (Ugt) e Centrale dei lavoratori e delle lavoratrici del Brasile (Ctb), hanno firmato un documento molto critico. Assente al momento della riunione, la Cut si è alla fine accodata. Insieme, i sindacati hanno organizzato una marcia di protesta il 6 marzo scorso a Brasilia” (20). Qualche mese dopo, la tensione che covava nel sottosuolo sociale è emersa e ha generato l’ondata delle proteste che hanno interessato le maggiori città brasiliane.

Le manifestazioni di protesta hanno visto marciare insieme una piccola borghesia che tenta di resistere alla sua proletarizzazione, un proletariato che grida al Partito del Lavoro e quindi, oggi, al governo, di non ritirare le promesse fatte e di tenere in piedi gli ammortizzatori sociali introdotti migliorando i servizi pubblici invece di tagliarli, e un sottoproletariato che si muove per disperazione e che tenta, vista l’occasione, di uscire dal suo abisso.

La situazione creatasi potenzialmente era, ed è, esplosiva; paradossalmente non a causa di una crisi che fa precipitare all’improvviso le grandi masse nella miseria e nella vita di stenti, ma a causa di un benessere economico che avvantaggia in modo significativo quasi esclusivamente gli strati minoritari della popolazione: grandi borghesi, borghesi delle classi medie, aristocrazie della burocrazia e aristocrazie operaie. L’improvvisa estensione delle proteste e delle rivolte di strada (i manifestanti hanno attaccato anche i municipi e i parlamenti nelle capitali dei vari stati) ha certamente colto di sorpresa il Pt e la presidente Dilma Rousseff, e in un certo senso anche la polizia non avezza alle grandi manifestazioni di piazza. Ma la brutalità degli interventi della polizia non ha mai oltrepassato certi limiti (come invece fecero polizia e carabinieri italiani durante le manifestazioni contro il G8 a Genova nel luglio 2001), come se vi fosse un ordine superiore a non eccedere, dato che ogni eccesso avrebbe gettata benzina sul fuoco; non sono mancati, però, episodi di vandalismo alla black block di fronte ai quali la polizia non è mai intervenuta direttamente, lasciando questi gruppi liberi di agire – come a Genova nel luglio 2001 – ma utilizzando le loro azioni come giustificazione della repressione delle manifestazioni, giustificazioni che gli esponenti politici della coalizione di governo non hanno mancato di usare a piene mani per intimorire le masse.

L’ondata di protesta che ha scosso anche il Brasile terminerà probabilmente con qualche risultato per i proletari: finché la crescita economica lo permetterà ci saranno briciole da distribuire alle masse, anche in termini di cancellazione dell’aumento del prezzo del trasporto pubblico. Ma è certo che la marcia impressa dal giovane, ma vorace, capitalismo brasiliano alla macchina sociale produttrice di profitto non si fermerà, come non si ferma in Cina, in India, in Russia, in Sudafrica che costituiscono quel gruppo di paesi che per i loro tassi di crescita economica sono invidiati dai paesi di vecchio capitalismo, ma che di tanto in tanto vengono anch’essi scossi da scioperi e ondate di protesta tali da riuscire a rompere la coltre di silenzio sotto la quale le proteste vengono mantenute, a dimostrazione che la vita del proletario è schiacciata dallo sfruttamento capitalistico sotto ogni cielo.

 

In Egitto

 

Dell’Egitto ci siamo occupati spesso come partito sia nel passato che attualmente. E’ un paese importante per tutta l’area mediorientale, per l’area mediterranea, e quindi europea,  e per gli equilibri/squilibri internazionali nell’ambito delle alleanze e dei contrasti interimperialistici. Ce ne siamo occupati, in particolare, negli anni 1955-56 e poi nei periodi successivi, come in occasione delle grandi lotte proletarie del 1977, e successivamente fino al febbraio 2012 in corrispondenza ancora delle lotte operaie e della loro repressione (21).

E’ dai numerosi scioperi operai del periodo 2004-2008 (22) – solo nel 2007, secondo l'Egyptian Workers and Trade Union Watch, se ne sono tenuti 580 – e dalle lotte di strada successive in seguito alle quali, nel 2011, si pose fine alla trentennale gestione del potere di Mubarak, che monta un movimento di protesta e di opposizione al governo borghese che quest’anno, di fronte all’ennesima crisi economica, si è allargato a tal punto da investire con insistenza non solo il Cairo o Porto Said, Alessandria o il centro tessile di al-Mahalla al-Kubra, ma moltre altre città, destabilizzando in modo repentino il nuovo governo, legittimamente gestito dai Fratelli Musulmani e dal suo rappresentante Morsi che hanno vinto le prime elezioni democratiche che si sono tenute in Egitto.

Una volta ancora, come nel 1977 e nel 2008, la rivolta delle masse è partita dall’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità, il pane innanzitutto (e perciò sono sempre state chiamate “rivolte del pane”). L’Egitto deve acquistare all’estero “metà del suo grano, ed importa metà del suo fabbisogno alimentare” e il pane, al mercato, “costa 50 piastre, ovvero 70 centesimi di euro”; intanto “sono aumentati anche i prezzi degli ortaggi come zucchine, pomodori, cipolle e patate” che fanno parte del cibo quotidiano dei proletari; unaltro problema è costituito dalle “bombole di gas che sono fatte oggetto di contrabbando dalla Libia e Gaza: il gas per cucinare è sempre più difficile da reperire”. In un paese “che per il 40% vive con meno di 1 euro e mezzo al giorno” - si parla dunque di circa 35 milioni di abitanti! - è chiaro che anche un minimo rialzo dei prezzi dei generi di prima necessità possa provocare reazioni molto violente (23). Qualche dato in più fa comprendere meglio la situazione generale.

L’inflazione, secondo il FMI, quest’anno ha avuto un rialzo che ha toccato il 10,9%, superando il dato del 2010; il cosiddetto tasso medio di povertà, relativo al 2010-2011 ha raggiunto il 25,5%, mentre nelle campagne sale al 69%. La disoccupazione giovanile è altissima: 4 su 5 sono senza lavoro. I dati ufficiali del governo egiziano sottolineano che i salari sono aumentati mediamente del 20% su base settimanale, ma non dicono che i dipendenti pubblici (tra cui l’esercito) nel 2001 hanno avuto un aumento salariale dell’80% e i dipendenti del settore privato, ossia la stragrande maggioranza dei lavoratori egiziani (la forza lavoro nazionale è di circa 27 milioni) sono diminuiti dello 0,5% (24)! D’altra parte la crisi economica, l’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari sui mercati internazionali, e la bassa produttività dell’economia nazionale costringono i governanti egiziani a ricorrere a prestiti, normalmente presso il FMI e la Banca mondiale. Anche il governo dei Fratelli Musulmani che ha sostituito l’oligarchia legata a Mubarak, fedelissima di Washington, si è rivolto nuovamente agli Stati Uniti – si sa da sempre che l’esercito egiziano è praticamente finanziato dagli Stati Uniti e l'esercito passa per una forza “neutrale” che, se deve “scegliere”, sta dalla parte del “popolo” - film che tutto il mondo ha visto quando si è trattato di detronizzare Mubarak e il suo clan avviando le prime elezioni democratiche d’Egitto; film ripetuto a un anno e mezzo di distanza quando si è trattato, per mantenere il controllo sociale e i forti legami con gli Stati Uniti, di destituire il nuovo presidente Morsi messo alle corde dall’ennesimo movimento di rivolta per il pane. Ricorrere ad investimenti dall’estero è una cosa, ricorrere ai prestiti è tutt’altra cosa: là si lubrifica il meccanismo di produzione di profitto capitalistico, qua si aumenta il debito pubblico dello Stato che è costretto a fornire sussidi necessari alla vita di larghe masse proletarie e contadine. E se uno Stato aumenta il proprio debito pubblico, si mette sempre più nelle mani dei capitali stranieri; l’Egitto non fa eccezione, e gli Stati Uniti, in primis, ne godono, tanto da non sollevare drammi di fronte alle rivolte sociali che hanno spinto i generali a destituire Morsi e a provvedere ad un cambio della guardia. 

Mentre per i movimenti sociali che hanno scosso Turchia e Brasile i media internazionali si sono dati un gran da fare per propagandare l’idea che fossero stimolati e guidati dalle rispettive “classi medie” rivendicanti più diritti, più democrazia, meno autoritarsimo, più partecipazione, nel caso dell’Egitto hanno trovato più difficoltà a imbastire la stessa operazione. Certo non è mancata la sottolineatura che il metodo democratico, introdotto dopo la caduta di Mubarak, aveva dato un risultato legittimo anche se a molti occidentali poteva non piacere visto che la vittoria elettorale era andata ad una forza islamica, per quanto attualmente moderata, come i Fratelli Musulmani; e i continui viaggi dei loro esponenti negli Stati Uniti segnalavano che anche gli americani stavano accettando questa “svolta” proprio perché moderata. Ma i fatti economici di base sono più forti di qualsiasi propaganda, e quando una popolazione di milioni di persone è ridotta alla fame, nemmeno l’islam moderato può fare miracoli. Non v’è dubbio che la politica dei Fratelli Musulmani sia stata – e non poteva che essere così – di stampo reazionario e autoritario. Ma avrebbe potuto proseguire per anni se la situazione economica delle grandi masse non fosse disastrosa. L’Egitto proletario ha messo in campo nuovamente la sua forza, ancora purtroppo molto confusamente e intossicata dal democratismo tipico degli strati piccoloborghesi che della “neutralità” dell’esercito hanno fatto un mito. Spesso si è sentito parlare di “rivoluzione”, ieri a proposito della cosiddetta “primavera araba”, oggi delle manifestazioni pacifiche di milioni di persone; ma di rivoluzione non si è mai trattato. La rivoluzione imporrebbe un potere politico completamente diverso, indirizzato a rivoluzionare da cima a fondo la società, e combatterebbe contro ogni tipo di resistenza alzata dalle classi e dagli strati sociali interessati a difendere il vecchio sistema sociale, e perciò per ottenere un risultato la rivoluzione non può che essere violenta, basata su precise organizzazioni, con un programma di governo coerente con il rivoluzionamento della società. Ma se la società continua a basarsi sullo stesso modo di produzione, il capitalismo, sugli stessi meccanismi di mercato, sulle stesse leggi del profitto capitalistico, che rivoluzione vi può mai essere? Lo sconvolgimento degli apparati di potere corrisponde alla loro completa rottura provocata da una classe sociale che ha la forza di sostiturli con apparati che rispondono ad un indirizzo del tutto opposto a quello dell’economia capitalistica e, quindi, del potere politico di segno borghese. Questa classe sociale è il proletariato, ma fino a quando non sarà organizzato in associazioni classiste e guidato per la conquista del potere dal suo partito di classe – che non può essere che comunista rivoluzionario – non avrà mai la forza di prendere il potere come classe; al massimo avrà la forza di costringere la classe borghese, che, come classe dominante detiene già il potere nelle proprie mani, a cambiare personale politico, andando a pescare nuove facce e nuovi politici dalle forze sempre di conservazione sociale, ma che non si sono macchiate di corruzione o di fatti criminali particolarmente odiosi, e che possono essere accettati perché borghesi dalla faccia pulita, come il premio nobel 2005 per la pace El Baradei, o portare con sé un patrimonio di consensi dalla maggioranza del popolo e, soprattutto, dal proletariato. Le forze opportuniste e collaborazioniste che accedono alla cosiddetta “stanza dei bottoni” provengono, in genere, da quelle forze di conservazione che normalmente si definiscono democratiche, “di sinistra”, socialdemocratiche, riformiste o di centrosinistra, che hanno l’aria di combattere l’autoritarismo, come Dilma Rousseff in Brasile, o direttamente dalle forze armate come a suo tempo Gheddafi, Nasser o al-Assad, inneggiando al buon nome della patria, alla indipendenza dalle potenze straniere e alla difesa dell’economia nazionale.

Il nuovo governo che si instaurerà al Cairo avrà gli stessi compiti che aveva il governo Morsi e dovrà far stringere la cinghia a milioni di proletari e contadini egiziani come aveva già fatto il governo Mubarak, e dopo di lui il governo Morsi. Ciò significa che l’inferno per gli operai, come è stato definito l’Egitto dalla borghesissima Organizzazione Internazionale del Lavoro, continuerà ad essere un inferno e che i proletari egiziani dovranno tirare delle lezioni vitali dalle loro lotte e dai metodi e mezzi di lotta utilizzati finora. I borghesi, anche se oggi non lo danno ancora a vedere, temono che la situazione egiziana esploda – e ciò significherebbe far eplodere l’intero Medio Oriente, con le conseguenze immaginabili a livello internazionale, vista l’importanza del petrolio e delle vie di comunicazione fra Occidente e Oriente. Secondo alcuni esperti di economia, l’Egitto è passato da un coefficiente di richio 259 del dicembre 2010 a 900 nel giugno 2013; e la Russia, che ha anch’essa un occhio di riguardo ai paesi del Medio Oriente, attraverso Putin, dichiara che “l’Egitto precipiterà come la Siria nella guerra civile” (25). Naturalmente non si può prendere per oro colato quel che affermano Putin o Obama, ma queste dichiarazioni esprimono contemporaneamente il timore che in una zona di vitale importanza per l'imperalismo come il Medio Oriente  – dove già insistono elementi di forte destabilizzazione come la guerra civile in Siria, le mire espansionistiche dell’Iran, la sempre irrisolta questione “palestinese”, e che solo un anno e mezzo fa è stato attraversato da forti ed estese mobilitazioni sociali che hanno toccato tutti i paesi del Nord Africa e parte dei paesi mediorientali – scoppino incendi sociali difficilmente controllabili e nella quale, negli ultimi 40 anni, il proletariato è diventato sempre più numeroso acquisendo, anche se a fatica, esperienze di lotta e di organizzazione, come le nuove associazioni sindacali nate in Egitto dopo la caduta di Mubarak stanno a dimostrare.

Non ci facciamo illusioni; sappiamo che la borghesia ha molte armi a disposizione, sia sul piano economico e militare sia su quello politico e ideologico. Ma non è invincibile, anche se tutte le forze piccoloborghesi lo sostengono propagandando nelle file proletarie l’interclassismo, cioè la conciliazione fra le classi, come unico modo per attenuare la voracità capitalistica e per convincere la classe dominante a concedere qualcosa di più alle masse sfruttate.

Ma la storia insegna che le forze sociali, giunte ad un certo punto dei loro contrasti di classe, sprigionano gigantesche energie, chi per conservare il potere, chi per strapparlo di mano a chi lo detiene e distruggerlo. In questa società borghesi hanno tutto da perdere, i proletari non hanno nulla da perdere se non le catene che li imprigionano nello sfruttamento del lavoro salariato, in Egitto come i Italia, in Germania come in Cina, Negli Stati Uniti come in Brasile o in Turchia, in Russia come in Sudafrica.

 

La spontaneità delle masse non rivoluzionerà mai la società: ci vuole la guida rivoluzionaria del partito di classe

 

La spontaneità delle masse che reagiscono alle loro intollerabili condizioni di vita, in una situazione di forte tensione sociale, non produce automaticamente la lotta evolventesi in lotta proletaria di classe, ma può prendere pieghe diverse, non solo conservatrici ma anche reazionarie e, in definitiva, antiproletarie. In assenza di organizzazioni e organismi di classe proletari, e in assenza dell’influenza del partito di classe sulle avanguardie del proletariato, la spontaneità delle masse è indirizzata inevitabilmente verso la collaborazione interclassista e a questo provvedono i partiti “dei lavoratori”, o “del lavoro” che dir si voglia, e i sindacati gialli, riformisti, insomma collaborazionisti, che hanno, entrambi, il compito di controllare che le masse proletarie non prendano la strada della lotta di classe, la strada della lotta che si fonda sull’inconciliabilità di interessi fra proletariato e borghesia e che, proprio per questa inconciliabilità, deve utilizzare fondamentalmente mezzi e metodi completamente opposti ai mezzi e ai metodi propagandati e usati dalle forze riformiste, dalle forze della collaborazione fra le classi, dalle forze della conservazione sociale. Nella situazione di tensione sociale la protesta,  fosse anche di segno proletario, se non è condotta sul terreno dello scontro di classe, sbocca inevitabilmente nell’illusione di bastare a se stessa rimettendo nelle mani della borghesia e dei suoi luogotenenti la “soluzione” dei problemi che hanno provocato la protesta. Come in un circolo vizioso, le proteste democratiche, pacifiste e legittime, anche attuate in modo episodicamente violento e pur cadenzate dagli scontri di piazza con le forze di polizia, non si elevano mai al livello della soluzione dei problemi che le hanno generate, ma esauriscono, prima o poi, la forza propulsiva che le ha lanciate lasciando il campo alle forze organizzate della conservazione sociale. E questo la classe dominante borghese lo sa molto bene; il lungo dominio di classe la mette nelle condizioni di internazionalizzare anche le esperienze di governo nelle diverse epoche e nei diversi paesi e ciò le consente, nonostante la spietata guerra di concorrenza mercantile e finanziaria che occupa quotidianamente ogni borghesia nazionale contro tutte le altre, di condividere metodi e pratiche utili a mantenere il controllo delle masse proletarie. Alcuni di questi metodi e di queste pratiche fanno capo alla politica riformista, ossia alla politica della conciliazione degli interessi fra le classi che, nello sviluppo storico delle lotte fra proletariato e borghesia e del loro andamento, si è evoluta nella politica della collaborazione fra le classi, politica che il fascismo ha imposto con la forza, anche contro frazioni borghesi dissidenti, e che la democrazia post-fascista ha ereditato con piena soddisfazione.

Non è perciò sorprendente, per noi, incalliti marxisti, osservare che il proletariato, non solo dei paesi di vecchio capitalismo ma anche di quelli di giovane capitalismo – il Brasile è uno di questi ultimi –, sebbene la sfiducia nei partiti politici sia molto diffusa data la costante dimostrazione da parte loro di essere parte integrante dei sistemi di corruzione ad ogni livello, è comunque condizionato dalla politica collaborazionista che anima quei partiti, politica che lo influenza anche quando agisce al di fuori dei partiti, o contro di essi  perché l’intera società è permeata da un clima sociale, da abitudini, mentalità, ideologia, rapporti che diffondono pratiche sociali interclassiste e attitudini collaborazioniste non solo nelle organizzazioni ma anche negli individui. Spezzare questo pesante involucro ideologico in cui il proletariato è imprigionato, rompere con le pratiche quotidiane di interclassismo che condizionano i diversi rapporti di lavoro, sociali e fra individui, non sarà per nulla semplice per i proletari perché l’ideologia borghese della promozione sociale e dell’individualismo e la pratica quotidiana di interclassismo poggiano su fatti materiali solidi: gli ammortizzatori sociali, per quanto non siano così abbondanti e diffusi come nelle economie capitalistiche superavanzate d’America e d’Europa, che giocano sempre un ruolo di collante sociale, agiscono a favore della conciliazione fra le classi e della conservazione borghese perché appaiono contrastare le differenze sociali e la concorrenza fra proletari che, invece, con lo sviluppo capitalistico tendono ad aumentare acutizzando sempre più le contraddizioni sociali e i contrasti di classe. Per quanto facciano i borghesi, e i loro servi collaborazionisti ben collocati nelle istituzioni, per corrompere il proletariato con la democrazia e con promesse di un futuro “benessere”, ma spingendolo nell’oggi a sacrificarsi sempre più sotto lo sfruttamento capitalistico e costringendolo ad un reale peggioramento delle condizioni di esistenza, non riusciranno mai a eliminare le contraddizioni di un sistema di produzione e di distribuzione che dipende dal profitto capitalistico. Queste contraddizioni rinnoveranno continuamente i fattori di crisi nella società, e porteranno ciclicamente le masse proletarie a lottare per sopravvivere, a lottare per non morire di fatica, di fame, di guerra.

L’opportunismo, che da molto tempo ha preso le caratteristiche dell’aperto collaborazionismo con la classe dominante in ogni paese, trasformando i vecchi partiti “operai” e i sindacati “operai” in strumenti di controllo delle masse proletarie alla diretta dipendenza della classe dominante e del suo Stato, non si limita più a criticare la società borghese e il modo di produzione capitalistico proponendo al proletariato la via riformista e gradualista per una emancipazione dallo sfruttamento capitalistico che in realtà si allontana sempre più dall’orizzonte visibile. L’opportunismo si è integrato negli ingranaggi non solo della gestione economica delle aziende ma anche in quelli della gestione economica, politica, sociale e militare dello Stato borghese.

L’evoluzione del collaborazionismo democratico non poteva che sboccare nella teorizzazione dell’alleanza fra proletariato e borghesia: esso ha ragione di esistere, ed ha successo, a condizione che questa alleanza frutti dei vantaggi immediati e duraturi agli interessi borghesi ma porti anche qualche limitatissimo vantaggio ai proletari. La schiavitù salariale in cui economicamente il proletariato è costretto dalla forza poliitca e militare della borghesia, trova la sua nobilitazione nell’esaltazione della conciliazione fra le classi, nella pratica quotidiana del collaborazionismo. Sostanzialmente la condizione del proletariato è sempre quella di perenne prigioniero delle galere capitalistiche: galere nel senso proprio, ossia luoghi di pena e di condanna definitiva per i lavoratori salariati visti solo come muscoli e cervello al servizio del buon andamento dell’economia aziendale e dell’economia nazionale o come carne da cannone tutte le volte che la concorrenza tra capitalismi nazionali sfocia in conflitto di guerra!

Ma il proletariato è l’unica classe sociale che ha la possibilità e l’energia storica per contrastare il prolungarsi della vita del capitalismo, per combattere lo sfruttamento capitalistico ed eliminarlo dalla faccia della terra, interrompendo definitivamente l'enorme spreco di tecnica produttiva e la gigantesca distruzione di capacità pratiche e intelletuli dell’uomo.

Dovrà ripartire inevitabilmente dalla lotta immediata a difesa degli interessi elementari di classe in cui possono riconoscersi tutti i proletari senza distinzione di categoria, livello professionale, settore economico, età, sesso, nazionalità, religione o razza.

Dovrà riconoscersi come classe per sé, e non più solo classe per il capitale, con un proprio programma storico di rivoluzione dell’intera società, programma che la stessa storia delle lotte di classe del proletariato mondiale ha condensato nel comunismo rivoluzionario e che costituisce il nucleo fondamentale dell’attività del partito di classe, di quel partito comunista che Marx ed Engels, fin dal Manifesto del 1848, indicavano come l’organo indispensabile per il proletariato di tutto il mondo per seppellire definitivamente il modo di produzione capitalistico basato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo a fini esclusivi di valorizzazione del capitale e sostituirlo con un modo di produzione che ha per finalità la soddisfazione non delle esigenze di mercato, ma le esigenze di vita dell’uomo.

 


 

(1) Vedi “il proletario”, Speciale giugno 2013, supplemento a “il comunista” n. 129, www.pcint.org.

(2) Cfr. Istituto nazionale per il commercio estero. Nota congiunturale, aprile 2011.

(3) Cfr. Eurostat, Retribuzioni e costo del lavoro (dati di novembre 2011) – Statistiche sulle retribuzioni minime (dati di agosto 2011)

(4) Vedi CES, Confederazione europea dei sindacati, www.etuc.org/IMG/pdf_TURKISH_3I.pdf

(5) Le tre confederazioni sindacali del settore privato sono tutte affiliate alla CES, mentre per il settore pubblico solo la KESK è affiliata al CES; ciò non vuol dire che le altre organizzazioni non siano sindacati collaborazionisti. I dati dei rispettivi iscritti sono del 2009, forniti dal Ministero del Lavoro e della Sicurezza sociale turco; vedi www.etuc.org/IMG/pdf_TURKISH_3I.pdf . Le imposizioni di legge per iscriversi al sindacato sono ad esempio queste: ogni proletario che intenda iscriversi deve “recarsi da un notaio per autenticare cinque copie del modulo di domanda, che viene poi trasmesso al sindacato. Occorre poi inviare una copia del modulo al Ministero del Lavoro e della Sicurezza sociale”, misura che rappresenta “un vero deterrente all’adesione ai sindacati” (vedi: www. etuc.org/ IMG/ pdf_TURKISH_3I.pdf dal quale sono ripresi anche i dati successivi). Per i dipendenti pubblici non è necessaria la procedura presso il notaio, ma l’adesione è di fatto impedita perché illegale per molte categorie ritenute “strategiche” per l’economia del paese. Inoltre, la legge non riconosce la contrattazione collettiva né nel privato né nel pubblico, ma solo la contrattazione aziendale che, peraltro, trova un ulteriore ostacolo poiché, per poter iniziare un negoziato con i padroni dell’azienda, il sindacato “deve aver raggiunto un livello di adesione di almeno il 10% nel settore industriale interessato e almeno il 50%+1 sul posto di lavoro”. Quanto al “diritto di sciopero”, si va di male in peggio. Nel settore pubblico (sanità, scuola, trasporti ecc.) è particamente “illegale”. Nel settore privato è praticamente impedito perché le procedure per la sua proclamazione sono rigorose e complicate, o perché considerato illegale, o perché ritenuto lesivo dell’interesse nazionale (come spesso è avvenuto nel settore del carbone e dell’energia in genere, in quello della gomma, del vetro ecc.). Lo sciopero, la sua preparazione, la sua organizzazione e la partecipazione, sono tutti motivi di intervento della repressione statale con arresti e multe anche molto alte, fino a 100.000 lire turche (cioè 43.859,65 euro)! 

(6) Cfr. http://www.balcanicaucaso.org/aree/Turchia/Turchia-lo-sviluppo-ineguale

(7) Vedi http://mondodonna.blogosfere.it/2009/03/prada-licenziate-in-turchia-44-lavoratrici-perche-iscritte-al-sindacato.html e http:// carlogiuliani.fr/ rifondazione-comunista/ ?p=7595 e ancora http:// www.ferpress.it/ ?p=70034

(8) Vedi http://www.lindro.it/politica/2012-06-29/9540-divieto-di-sciopero-in-turchia#sthash.rfbnT6rv.dpuf

(9) Fonti: Banca Centrale Turca e Ministero dell’Economia, http://www.invest.gov.tr/it-it/investmentguide/ investorsguide/Pages/FDIinTurkey.aspx

(10) Vedi http://agoravox.it/Cosa-sta-succedendo-in-Turchia-e,48577.html

(11) Il Movimento Passe Livre (MPL) è un movimento sociale brasiliano fondato al Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre nel 2005. I suoi principi sono: democrazia orizzontale, ogni partecipante ha lo stesso diritto di opinione e lo stesso potere decisionale di ogni altro partecipante; non esistono capi o leader; le responsabilità sono a rotazione su ogni partecipante; apartitico, perciò nessun partito vi può aderire; federalista ed ogni collettivo locale è indipendente dagli altri pur organizzandosi sugli stessi principi generali; i mezzi d’azione sono pacifici, “diretti” e indirizzati a redigere delle leggi di iniziativa popolare, in particolare per trasformare il sistema di trasporto privato in sistema pubblico, e per ottenere un sistema di trasporto pubblico senza esclusioni sociali. Organizza manifestazioni contro l’aumento delle tariffe del trasporto pubblico fin dalla sua fondazione, ottenendo in alcuni casi, come nel 2006, in diverse città, la cancellazione degli aumenti di tariffa, anche se temporanea.

(12) Cfr.http://internacional.elpais.com/internacional/2013/06/12/actualidad/1371000636_370579.html

(13) Cfr. http://ultimosegundo.ig.com.br/politica/2013-06-24/dilma-recebe-mpl-governadores-e-prefeitos-para-discutir-manifestacoes.html

(14) Cfr. http://internazionale.it/news/da-sapere/2013/06/19/quanto-costa-organizzare-i-mondiali/

(15) Vedi http://www.meridianionline.or/2013/02/05/il-brasile-infrastrutture-sicurezza-mondiali/

(16)Cfr. http://www.deagostinigeografia.it/wing/schedapaese.jps?adpaese=026#  e http:// pangeanews.net/ politica/brasile-4-milioni-di-posti-di-lavoro-in-2-anni

(17)Si tratta in questo caso soprattutto di programmi di assistenza diretta alla popolazione delle zone rurali, come la Bolsa Familia, che si occupa di sostegno diretto al reddito delle famiglie più povere, con un budget complessivo nel 2012 di 7,7 miliardi di dollari, ampliato nel 2013 a 8,6 mld , o il Programa de aquisição de alimentos (Paa), per l’acquisto di prodotti agricoli dai contadini (cfr. http:// www.meridianionline.org/ 2013/03/08/poverta-brasile-settore-agricolo/).

(18) Cfr. Economia del Brasile, Wikipedia, 15 giugno 2013 e http:// www.meridianionline.org/ 2013/03/08/poverta-brasile-settore-agricolo/

(19) Vedi http://www.internazionale.it/news/brasile/2013/07/11ancora-scioperi-e-proteste-in-tutto-il-paese/

(20) Cfr. “Un paese ritrova il gusto della piazza”, Le Monde diplomatique, Luglio 2013.

(21) Vedi, per comprendere le origini delle tensioni sociali odierne, soprattutto i seguenti articoli pubblicati ne “il programma comunista”: “Crisi del Medio Oriente” (nn. 20 e 21/1955); “Le Alsazie-Lorene del Medio Oriente” (n. 23/1955); “Il terremotato Medio Oriente” (nn. 7, 8 e 13/1956); “Suez, vertenza fra ladroni” (n. 18/1956); “Egitto-Le lotte delle masse operaie e contadine alla luce dello sviluppo capitalistico” (nn. 7, 8 e 9/1977). Mentre per i fatti più recenti ci si può riferire agli articoli: La “primavera araba” è finita, le illusioni di cambiamento si sono liquefatte e di fronte alle masse proletarie e proletarizzate dei paesi arabi resta la realtà del potere capitalistico, del tallone di ferro degli Stati borghesi e dell’imperialismo.La via d’uscita è solo nella lotta proletaria di classe!” del 20/7/2011, “Egypt amidst bloody military repression, Islamist reaction and workers’ struggles” del 6/2/2012, e dell’attuale “La “La destitution du gouvernement Morsi n’est pas une victoire des prolétaires et des masses exploitées egyptiennnes. La victoire ne sera obtenue que par la lutte prolétarienne de classe contre le capitalisme!” del 7/7/2013,  in www.pcint.org nella sezione “Prises de position”.

(22) Secondo un rapporto sul mondo del lavoro egiziano riportato da « Solidarity with Worker’s Rights in Egypt », tra il 2004 e il 2008, 1,7 milioni di operai e manovali hanno partecipato a 1.900 scioperi. Tale notizie è ripresa da Nena News, in http://www.infoaut.org/index.php/blog/precariato-sociale/item/2048-egitto-lotta-opraia-al-canale-di-suez

(23) Cfr.  http://news.supermoney.eu/economia/2013/07/la-situazione-economica-dell-egitto-oggi-dati-economici-sempre-piu-gravi-0021955.html#

(24) Cfr, Limes, 11/6/2013, in http://temi.repubblica.it/limes/limmobilismo-di-obama-in-egitto-e-un-mito-da-sfatare/47727?printpage=undefined

(25) Cfr. http://news.supermoney.eu/economia/2013/07/la-situazione-economica-dell-egitto-oggi-dati-economici-sempre-piu-gravi-0021955.html#

 

 

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