Arduo lavoro di difesa delle linee programmatiche, politiche, tattiche e organizzative del Partito nella vitale critica marxista dell'imperialismo capitalista, nel bilancio dinamico del movimento comunista internazionale

e nella prospettiva della futura ripresa della lotta di classe

Riunione Generale di partito, Milano 7-8 dicembre 2013

(«il comunista»; N° 133; Novembre 2013 - Gennaio 2014)

 Ritorne indice

 

 

Il Partito Comunista Internazionale nel solco delle battaglie di classe della Sinistra Comunista e nel tormentato cammino della formazione del partito di classe

 

Il tema trattato riparte dagli argomenti esposti nel resoconto della RG precedente e pubblicato nei numeri 128 e 129 di questo giornale.

In questa occasione si sono volute prendere, sinteticamente, in considerazione le circolari di partito del periodo 1966-1971 per rilevare come, in parallelo con quanto veniva pubblicato nella stampa di partito, ma con l'intento giustamente di dirigere l'azione dei gruppi sindacali e delle sezioni di partito in questo campo, le posizioni errate prendevano sempre più piede. Come accade spesso, il resoconto scritto è più esteso del rapporto tenuto alla riunione; e così è anche per questo.

Dobbiamo rilevare che le contraddizioni non mancavano, poiché, tutte le volte che ci si rifaceva alle classiche posizioni del partito sul terreno delle lotte immediate, ci si richiamava direttamente alle posizioni del Partito Comunista d’Italia del 1921-22 ma saltando a piè pari il bilancio che nel dopoguerra il partito aveva fatto e che aveva definito chiaramente nelle proprie tesi del 1951-52 – come se questo bilancio avesse un’importanza secondaria –. Ciò permetteva, oggettivamente, di “dimenticare” la valutazione fatta già nel 1949 sui “sindacati tricolori”, e di assumere la posizione di “difesa della CGIL rossa” come se tale caratteristica “di classe” fosse messa in pericolo per la prima volta dalla ventilata unificazione con CISL e UIL.

 

La giusta lotta contro le deleghe, ma inserita nella lotta in difesa di una CGIL falsamente "rossa"

Top

 

Avevamo già messo in evidenza, attraverso gli articoli nella stampa di partito, come il processo di sviluppo delle posizioni errate avvenne con una certa gradualità, all’inizio impercettibilmente e poi, man  mano, con sempre più evidenza fino appunto alla rivendicazione conclamata della “difesa della CGIL rossa”. In tutto questo graduale cedimento alle posizioni sbagliate, molte attività di partito in campo sindacale sono state comunque corrette, come ad esempio la lotta contro le deleghe e le commissioni paritetiche. L'introduzione delle deleghe e delle commissioni paritetiche avrebbe, nel disegno delle confederazioni tricolori, contribuito certamente a facilitare l’unificazione dei tre grandi sindacati ufficiali.

Con le “deleghe” i sindacati concordavano con le associazioni padronali che ogni azienda raccogliesse direttamente le iscrizioni dei lavoratori ai diversi sindacati, trattenendo la quota di iscrizione sulla busta paga. In questo modo i sindacati, da un lato, si assicuravano amministrativamente e preventivamente le somme corrispondenti alle iscrizioni e, dall’altro, documentavano direttamente ai padroni e ai vertici aziendali quali e quanti lavoratori facevano parte di questo o di quel sindacato o non facevano parte di alcun sindacato e, da un altro lato ancora, ogni sindacato documentava agli altri sindacati, sulla base della stessa fonte (le dirigenze aziendali), il proprio peso all’interno delle aziende e del settore economico di appartenenza, regolando in questo modo il numero dei posti da occupare non solo nelle “commissioni paritetiche d’azienda”, ma anche in tutte le istituzioni alle quali i sindacati partecipavano fino alle delegazioni incaricate di negoziare con i vertici delle associazioni padronali e del governo. Con le deleghe, l’azienda aveva in mano l’esatta situazione dei propri dipendenti riguardo la loro collocazione sindacale e poteva decidere di privilegiare, intimidire o punire il tale o il tal altro lavoratore a seconda del suo comportamento nei confronti dell’azienda. La Fiat ha dato magnifica dimostrazione di questo potere, anche recentemente, quando ha deciso di licenziare i sindacalisti della Fiom che davano fastidio per il solo fatto di non essersi genuflessi completamente ai suoi desiderata.

Con le “commissioni paritetiche”, l’obiettivo era che, in ogni azienda, i sindacati – in quanto rappresentanti di “una delle parti” coinvolte nell’andamento economico dell’azienda – avrebbero partecipato “di diritto” ad ogni decisione aziendale che riguardasse l’organizzazione del lavoro, dunque l’organizzazione dello sfruttamento del lavoro salariato in funzione del bene dell’azienda, accettando di far dipendere perciò ogni sia pur minima esigenza dei lavoratori dalla loro individuale produttività, dai costi di produzione, dalla redditività delle diverse attività aziendali in funzione dei profitti preventivati ecc.

Mentre le “deleghe” hanno avuto successo e sono tuttora l’unico mezzo per iscriversi al sindacato, le “commissioni paritetiche” ebbero vita breve. Per quanto assomigliassero vagamente alle commissioni delle Corporazioni fasciste, che avevano il compito di tutelare soprattutto l’economia aziendale piegando le esigenze dei lavoratori alle esigenze dei padroni, non ebbero successo soprattutto perché, nel sistema democratico e di progressiva e sempre più stretta collaborazione da parte dei sindacati operai con i vertici aziendali e con i padroni, le occasioni di accordarsi fra padronato, governo e vertici sindacali fuori dal controllo diretto degli operai erano moltissime, rendendo in questo modo le “commissioni paritetiche” superflue. Esse potevano avere un ruolo, anche nei confronti degli operai, e sempre di carattere collaborazionista, perché avrebbero costituito l’unico organismo sindacale presente in azienda (come un tempo le “Commissioni Interne”, che erano sì portatrici delle richieste operaie nei confronti dell’azienda, ma nello svolgimento del loro compito fondamentale che era “quello di concorrere e mantenere normali i rapporti tra i lavoratori e la Direzione dell'azienda per il regolare svolgimento dell'attività produttiva, in uno spirito di collaborazione e di reciproca comprensione”, secondo l'art. 3 dell'Accordo interconfederale  per la costituzione e il funzionamento delle Commissioni Interne, 18.4.1966). Ma con l’istituzione delle Sezioni Sindacali d’azienda (SAS) da parte delle confederazioni sindacali ufficiali (nate per attirare al proprio interno i “commissari di reparto” e i “delegati di linea” sorti spontaneamente dalle lotte nelle grandi fabbriche al di fuori delle commissioni interne e degli apparati sindacali ufficiali) e, successivamente, dopo la costituzione da parte dei proletari più combattivi dei Consigli di fabbrica (Cdf) come espressione diretta dei lavoratori in lotta ma anch’essi in seguito attirati nell’alveo degli istituti ufficiali dei sindacati come loro rappresentanti nelle aziende, il sindacato stesso non aveva più un gran bisogno delle “commissioni paritetiche” perché la loro funzione poteva essere svolta in parte dai Cdf (poi a loro volta trasformati nelle RSU) e in parte dagli incontri con i vertici aziendali e con i rappresentanti delle associazioni padronali.

Ebbene, all’epoca, il partito lanciò una dura lotta contro le deleghe e contro le commissioni paritetiche. Contro le deleghe, laddove era presente con i propri militanti e i propri gruppi sindacali, il partito rivendicò la raccolta delle iscrizioni al sindacato CGIL con i collettori di fabbrica, come era stato fatto fino ad allora, mettendosi anche a disposizione nella funzione di collettore e rifiutando per primo di firmare la delega. Quando il sindacato minacciò di espellere chi non firmava la delega, i compagni portarono avanti la lotta andando a versare le rispettive quote di iscrizione direttamente nella sede del sindacato, partecipando alle assemblee operaie come “iscritti” anche se il sindacato aveva negato loro la tessera. Questa lotta ebbe qualche risonanza, nelle maggiori fabbriche dove i compagni del partito erano presenti, come ad esempio all'Olivetti di Ivrea, alla Lanerossi di Piovene Rocchette o all'Italsider di Bagnoli, ma dopo un certo tempo non ci fu più un seguito fra gli operai e la rivendicazione dell’iscrizione al sindacato attraverso i collettori e non attraverso l’azienda esaurì la sua portata.

Nel settembre del 1967, di fronte all'esigenza di centralizzare in modo ordinato tutta un'attività sindacale che stava diventando, anche su continuo stimolo da parte centrale, sempre più capillare, venne creato l'Ufficio sindacale centrale (USC) la cui base di lavoro e organizzativa veniva individuata provvisoriamente nella sezione di Firenze che assunse di fatto il compito di far funzionare questo nuovo organo aggregato al Centro del partito. L'USC, si dirà nella circolare del 14.9.1967, “dovrà, col tempo, espletare le stesse funzioni che nel 1921-22 erano devolute al Comitato Centrale Sindacale del Partito Comunista d'Italia, nella forma e con la denominazione che il corso organico dell'attività del partito imporrà”. E, tra i vari compiti che questo nuovo organo del partito doveva svolgere, doveva raccogliere  e ordinare la documentazione sulla situazione e sulle strutture sindacali in tutti i paesi, soprattutto in quelli dove esistevano nostre sezioni, sugli scioperi e sulle agitazioni, sui contratti ecc., disciplinare l'attività di tutte le sezioni e i gruppi sindacali, e “collaborare col Centro nel redigere comunicati e direttive congiunti, manifesti e volantini locali e generali... ”, oltre ad “intervenire prontamente in appoggio, con opportune direttive, alle sezioni impegnate in una battaglia che, legata all'insieme delle nostre posizioni e in particolare alla denuncia della progettata unità sindacale 'bianca' e delle deleghe come primo passo verso di essa e quindi verso il completo assoggettamento del sindacato operaio al padronato e allo Stato”. Questo tipo di intervento, si afferma con forza, “assume il valore di una 'trincea di partito' da difendere a denti stretti e senza risparmio di forze”. Queste direttive  e il loro tono rivelano chiaramente una sorta di urgenza, sullo sfondo di un allarme storico che giustificava la pressione sulle sezioni e sui compagni affinché dessero il meglio delle loro energie in una lotta eroica che doveva essere d'esempio per il proletariato. Il grande obiettivo era diventato quello di impedire alla CGIL di unificarsi con CISL e UIL, impedire l'unificazione bianca, che veniva equiparata al sindacato fascista - “di regime”, si dirà -. Ma perché questo obiettivo rappresentasse nel partito un fine così decisivo per il quale fosse necessario impegnare tutte le forze di partito, bisognava che la “posta in gioco” fosse molto alta:  la difesa della CGIL in quanto sindacato “di classe“ dall'attacco concentrico di tutte le forze di conservazione borghesi, diventava così la “trincea di partito”. Pur non dicendolo in modo aperto, si diffondeva nel partito la sensazione che non si doveva perdere l'occasione di difendere la CGIL rossa dalla sua distruzione perché il proletariato avrebbe perso una volta ancora la sua organizzazione immediata di classe e il partito avrebbe perso l'ambito privilegiato della sua azione verso la classe operaia in un periodo storico che si prevedeva carico di potenzialità rivoluzionarie.

 

Tensioni sociali e crisi mondiale incipiente

Top

 

Va ricordato, infatti, che il nostro partito, nel 1955, attraverso gli studi sul corso dell'economia mondiale, aveva previsto, per il 1975, lo scoppio di una crisi capitalistica mondiale (crisi che avvenne, come tutti sanno) che avrebbe innestato una crisi sociale che il partito prevedeva, allora, oggettivamente rivoluzionaria e alla quale il partito avrebbe dovuto arrivare pronto non solo dal punto di vista teorico e politico, ma anche dal punto di vista dell'azione pratica e, quindi, dell'influenza reale sul proletariato. Gli anni che precedevano il fatidico 1975 venivano, così, in qualche modo recepiti come gli anni in cui poteva effettivamente verificarsi il famoso appuntamento con la storia: crisi capitalistica mondiale e rivoluzione internazionale!

D'altra parte, in quegli anni, di fronte ad una insistente propaganda pacifista e di "coesistenza pacifica" tra il sistema sociale capitalista in contrasto con quello erroneamente supposto socialista - che le borghesie e le forze opportuniste di ogni paese diffondevano a piene mani - la realtà economica e sociale faceva emergere, invece, contrasti e conflitti di ogni genere: nei paesi capitalisticamente arretrati, i moti e le lotte anticoloniali, iniziati già nell'immediato secondo dopoguerra, si sviluppavano costantemente abbracciando gli interi continenti dell'Africa, dell'Asia e dell'America Latina;  nei paesi industrializzati dell'Occidente gli operai delle grandi fabbriche e del pubblico impiego scendevano in sciopero, in difesa delle loro condizioni di esistenza, talvolta debordando dai confini imposti dalle forze del collaborazionismo sindacale e politico e cercando di organizzarsi anche spontaneamente in forme inevitabilmente primitive e poco durature. Le contraddizioni economiche e sociali nei paesi industrializzati si stavano acutizzando, provocando la mobilitazione sia degli strati piccoloborghesi impauriti da un possibile peggioramento del loro tenore di vita e dei loro privilegi sociali, sia delle masse proletarie che subivano un aumento forsennato dello sfruttamento in termini di intensità lavorativa senza un corrispettivo elevamento del loro tanto promesso benessere. I movimenti studenteschi che caratterizzarono il “Sessantotto”  esprimevano, per l'appunto, il disagio di una folta schiera di piccola borghesia che annusava il pericolo di interruzione di un graduale e progressivo processo di elevazione della tanto agognata “promozione sociale”. I contrasti sociali e i conflitti armati che punteggiavano ogni area del mondo venivano affrontati da questi strati sociali con la tipica visione dell'idealismo e del democratismo che riconduce ogni possibile  “soluzione”  alla  “presa di coscienza individuale” dalla quale far discendere l'azione da svolgere per  “cambiare le situazioni”. E allora si capisce l'innamoramento di questi strati nei confronti di concetti e di obiettivi come la “rivoluzione culturale” in salsa cinese, la  “guerriglia” alla Che Guevara, la “immaginazione al potere” alla Cohn Bendit ecc. E non potevano mancare teorizzazioni sulle “nuove”  classi, come gli studenti, i tecnici, o il loro opposto, la scomparsa delle classi e la contemporanea rigenerazione del “popolo”  inteso come massa unitaria anelante ad un suo protagonismo storico. In campo politico fiorivano così molteplici raggruppamenti, movimenti e partiti che tentavano di distinguersi l'uno dall'altro, a sinistra dei tradizionali partiti stalinisti e oltre alle più vecchie correnti trotskiste, identificandosi in correnti filo-russe, filo-cinesi, filo-albanesi, filo-jugoslave, filo-castriste, filo-guevariste ecc., ma tutte, volenti o nolenti, figlie dello stalinismo e della teoria del “socialismo in un solo paese” con le varianti inevitabili delle “vie nazionali al socialismo”; ed oltre alle più tradizionali correnti anarchiche, identificandosi in posizioni autonomiste ed antipartito.

Come da tradizione, il partito portò la sua critica e la sua lotta contro ogni teorizzazione che si piccava si aggiornare il marxismo o di superarlo, continuando con costanza e tenacia, nelle riunioni generali come nelle riunioni di sezione e nella stampa di partito, gli studi sulla questione cinese e sul corso dell'economia russa e mondiale, sull'imperialismo e i contrasti inter-imperialistici e sulla storia della Sinistra comunista d'Italia e, naturalmente, sul grande tema dei rapporti fra partito e classe ripubblicando documenti del Partito Comunista d'Italia del 1921 e 1922 sia in merito alle direttive in campo sindacale sia in merito al contrasto dell'offensiva fascista contro il proletariato e le sue organizzazioni di difesa immediata (1).

 

Situazione meno sfavorevole?

Top

 

Lo sfondo economico e sociale, in una certa misura, pur non dichiarandolo apertamente, veniva equiparato ad una situazione meno sfavorevole di quanto effettivamente fosse; lo si deduce proprio dall'insistenza con cui le direttive centrali di intervento in campo sindacale premevano sull'intera rete delle sezioni. E pur dichiarando che il partito non si doveva aspettare particolari risultati dai suoi sempre più frequenti interventi in fabbrica e fuori dalle fabbriche, il fatto di riuscire in determinate località (come Ivrea, Mestre, Trieste, Forlì, Schio ecc.) a raccogliere una certa simpatia e seguito da parte di proletari per la battaglia contro le deleghe e contro l'opportunismo dei vertici sindacali, dava alle sezioni la sensazione di seguire l'unica linea tattica possibile e correttamente impostata. Quasi nessuno aveva da ridire sul fatto che col termine sindacato rosso, o di classe, non si dovesse intendere semplicemente un sindacato che organizza operai - come in realtà era la CGIL -, ma una organizzazione sindacale che nel suo statuto e nella sua linea politica fondamentale rivendica l'azione di difesa operaia sul terreno immediato contro il capitalismo e le sue esigenze, separata del tutto dalle istituzioni borghesi e dallo Stato borghese, predisposta all'uso dei mezzi e dei metodi della lotta di classe, perciò non pacifici e legalitari, inconciliabili con la pace sociale e la collaborazione fra le classi.

La CGIL, organizzando sindacalmente proletari, era ed è certamente un sindacato operaio, ma un sindacato tricolore; sulle ceneri della vecchia Confederazione Generale del Lavoro, questo sì sindacato rosso e perciò distrutto dal fascismo, la CGIL, nata sul finire della seconda guerra mondiale per opera delle forze opportuniste e collaborazioniste, sotto gli auspici della stessa borghesia nazionale diventata democratica  e resistenziale dopo essere stata fascista, e sotto la sorveglianza, e il beneplacito, delle forze militari anglo-americane - dunque delle forze imperialiste che stavano vincendo la guerra - non poteva che nascere come sindacato tricolore, come sindacato operaio sottomesso alle esigenze del capitalismo nazionale (a quell'epoca, alle esigenze della ricostruzione postbellica) e strutturato anche formalmente, quindi non solo per statuto, perché fosse adatto al processo di integrazione nello Stato.

Il nostro partito lo aveva ben compreso da subito e l'aveva chiarito nel più volte richiamato “filo del tempo” del 1949 intitolato “Le scissioni sindacali in Italia” (2).  In esso si afferma decisamente che la CGIL, ossia il sindacato che, nella scissione del 1949, “rimane coi socialcomunisti di Nenni e Togliatti non si basa su di una autonomia di classe. Non è una organizzazione rossa, è anche essa una organizzazione tricolore cucita sul modello Mussolini”. Più chiaro di così! Questo fatto poteva essere considerato come un episodio momentaneo, caratteristico solo dell'Italia, e in ogni caso reversibile? No. Un altro brano del “filo del tempo” citato, affrontando il periodo del fascismo, afferma: “I sindacati fascisti comparvero come una delle tante etichette sindacali, tricolore contro quelle rosse gialle e bianche, ma il mondo capitalistico era ormai mondo del monopolio, e si svolsero nel sindacato di stato, nel sindacato forzato, che inquadra i lavoratori nell'impalcatura del regime dominante e distrugge in fatto e in diritto ogni altra organizzazione. Questo gran fatto nuovo dell'epoca contemporanea non era reversibile, esso è la chiave dello svolgimento sindacale in tutti i grandi paesi capitalsitici. Le parlamentari Inghilterra e America sono monosindacali e i sindacati nelle loro gerarchie servono i governi quanto in Russia”.

Si dirà: ma tutte le costituzioni democratiche ammettono la libertà di organizzazione sindacale, e in tutti i paesi capitalistici dopo la fine della guerra sono nate da scissioni, come in Italia, o ex novo, diverse organizzazioni sindacali. Perciò lo “svolgimento sindacale” avrebbe potuto prendere strade diverse ed essere “reversibile”. Lo stesso “filo del tempo” risponde senza alcuna titubanza: le successive scissioni del monosindacato o anche le eventuali organizzazioni sindacali che potevano nascere grazie alla libertà di organizzazione prevista dalle costituzioni democratiche, “non interromperanno il procedere sociale dell'asservimento del sindacato allo stato borghese, e non sono che una fase della lotta capitalista per togliere ai movimenti rivoluzionari di classe futuri la solida base di un inquadramento sindacale operaio veramente autonomo”, autonomo non dai partiti, si intende, ma dalle istituzioni borghesi e, soprattutto, dallo stato borghese.

 

Quali direttive d'azione?

 Top

 

Quanto alle direttive che il Centro del partito aveva emanato in campo sindacale alla rete organizzativa, a proposito della battaglia contro le deleghe, risultò poi, in effetti, che per il Centro era più importante iscriversi al sindacato, e al sindacato CGIL, che non con quale  mezzo iscriversi.

Nella circolare del 3 ottobre 1967, dedicata ai “Punti fermi dell’azione sindacale del partito”, è ripresa la valutazione del tutto sbagliata della CGIL come sindacato di classe; si legge infatti:

“(...) ancora una volta va considerato ormai fuori discussione che il partito esplica la sua attività nel sindacato operaio di classe, oltre che sui posti di lavoro, e che di conseguenza tutti i compagni in condizione utile devono iscriversi ai rispettivi sindacati di categoria aderenti alla CGIL...”; e, al punto 6) della circolare, si precisa che “i punti cardine elevati a questioni di principio come nel 1921-22, devono essere la generalizzazione e unificazione delle vertenze, delle agitazioni e degli scioperi; la difesa dell’organizzazione sindacale contro gli sforzi congiunti del padronato, del suo apparato statale e dell’opportunismo di aggiogarla agli interessi della produzione nazionale e di inserirla nei meccanismi dello Stato”.

Al punto 7) della stessa circolare si ribadisce che “il partito ha già assunto una precisa posizione di avversione a qualunque unificazione sindacale che distrugga il carattere di classe dei sindacati. In questo senso, il partito intende sviluppare una lotta contro le gerarchie sindacali della CGIL con ogni mezzo disponibile, non tanto pensando con ciò di poter impedire la realizzazione della 'unità bianca', che dipende oggi in gran parte dal grado di combattività delle masse, quanto mirando a suscitare nella classe fermenti anche ideali che permettano agli operai di apprezzare i compiti rivoluzionari del partito, e siano utili in un prossimo avvenire per passare a quell'offensiva di classe che le contraddizioni economiche obiettivamente preparano”.

Alcuni passaggi fanno davvero venire i brividi: dopo aver risottolineato che l'unificazione sindacale avrebbe distrutto il carattere di classe (!) della CGIL, e lanciato l'indicazione della lotta contro le gerarchie sindacali - per scalzarle ovviamente, immaginando che la loro sconfitta avrebbe riconsegnato al proletariato un'organizzazione classista depurata dai vertici opportunisti - ci si contraddice immediatamente affermando che dalla lotta contro le gerarchie sindacali - e quindi  “in difesa della CGIL rossa!” - il partito non si aspetta l'impedimento 'all'unificazione bianca', ma la possibilità di suscitare nella classe fermenti anche ideali, in grado di portare gli operai  nel prossimo avvenire dal terreno della difensiva al terreno dell'offensiva di classe, insomma alla rivoluzione. Ben mascherata, ma questa visione è tatticista e volontarista: dal suscitare fermenti ideali al suscitare la lotta di classe, il passo è breve! 

L’attività di partito in campo sindacale era indirizzata ormai con questo orientamento e tutte le sezioni, non solo italiane, venivano sollecitate a rafforzare i propri interventi a livello sindacale secondo queste direttive.

Alcuni episodi di grandi lotte proletarie sono indicativi, in effetti, di un fermento combattivo che attraversava i proletariati di diversi paesi, dai duri scioperi dei portuali inglesi nel dicembre 1967 agli scioperi dei lavoratori del rame e dei portuali americani dell'aprile 1968, al grande sciopero generale dei proletari francesi del maggio 1968; in Italia molti erano gli scioperi che impensierivano i sindacati tricolore, dalla Fiat alla Marzotto alla cantieristica e alla scuola. Il clima sociale generale stava effettivamente surriscaldandosi e, inevitabilmente, le forze opportuniste, politiche e sindacali, dovevano intervenire per spegnere focolai di combattività che avrebbero potuto fare da base ad una solidarietà operaia gravida di sviluppi in diretto contrasto con la conciliazione sociale propagandata e perseguita dai sindacati collaborazionisti. Le classiche armi della frammentazione delle lotte, della cosiddetta articolazione delle lotte, e del confinare le lotte nell'ambito delle categorie e dei settori economici separati uno dall'altro, venivano usate in Italia come in Francia, in Inghilterra come in America, a dimostrazione che i metodi collaborazionisti non differiscono da paese a paese.

Nonostante il controllo dei bonzi sindacali sulle masse sindacalizzate, le tensioni non diminuivano e spesso, in una fabbrica o in un'altra, i proletari rompevano la disciplina sindacale che voleva il "negoziato con le controparti" prima della lotta. La situazione generale sembrava cambiare: alle tempeste economiche che si stavano profilando all'orizzonte sembrava si accompagnassero tempeste sociali di grande portata, e nel partito ci si convinceva sempre più che le condizioni della lotta operaia stavano diventando oggettivamente più favorevoli alla ripresa della lotta di classe. La tattica intrapresa, quindi, verso i proletari organizzati in Italia nella CGIL e in Francia nella CGT, appariva corretta, richiedendo inoltre strumenti di intervento più efficaci: dopo la costituzione dell'Ufficio Sindacale Centrale, ci voleva un organo specifico attraverso il quale documentare l'attività dei gruppi comunisti e dei gruppi sindacali di partito nei sindacati e far giungere le indicazioni e gli orientamenti di lotta ai proletari in generale.

Il foglio mensile di intervento e di agitazione sindacale “Spartaco” venne così trasformato, nel luglio 1968, in un periodico dipendente dall’Ufficio Centrale Sindacale chiamato “Sindacato Rosso” (come il periodico del 1921-22 diretto dal PCdI);  nel 1969 uscirà il supplemento in lingua francese intitolato “Pour un syndicat de classe” con l’intento di omogeneizzare gli interventi in campo sindacale in Francia, soprattutto, e in Svizzera, all’orientamento dato per le sezioni italiane.

Perché cambiare il titolo della testata da Spartaco a Sindacato Rosso? Perché il nome Spartaco richiamava il simbolo della lotta degli schiavi contro lo schiavismo e dava sì l'idea di gran combattente, ma destinato alla sconfitta?; mentre il titolo Sindacato Rosso, con cui si riprendeva la gloriosa testata del 1921, avrebbe rappresentato meglio l'obiettivo organizzativo che si voleva raggiungere, in collegamento con la tradizione classista del proletariato italiano? L'annuncio dato nella circolare del 14 aprile 1968 recita: “La necessità di dare un maggior coordinamento al lavoro sindacale già in corso, e di rendere martellante [sottolineatura nostra, NdR] e centrata la stampa dedicata ad esso, ci ha suggerito di varare quanto prima un'edizione, separata dal giornale, dell'attuale 'Spartaco' da affidare alle cure del Centro sindacale e da distribuire mensilmente su scala più larga: esso prenderà il nome glorioso di 'Il Sindacato Rosso' con l'aggiunta, fra parentesi, di 'Spartaco', per fornire già nel titolo una chiara nostra direttiva di fondo. L'organo sarà concepito e realizzato in modo da essere veramente organo di partito - [come se Spartaco... non lo fosse stato, NdR] - nel senso pieno della parola, cioè tale da riflettere nelle questioni 'economiche' tutte le posizioni programmatiche e politiche nostre”.

Dunque, il partito si predisponeva a lavorare, anche organizzativamente, a difesa di un sindacato rosso, che in realtà non esisteva,  minacciato di scomparire se l'unificazione con CISL e UIL fosse andata in porto, e alla costituzione di un'ala rivoluzionaria, guidata dal partito, come unica risorsa per avere successo in quella difesa e per riportare la CGIL ad una tradizione di classe che, in realtà, non possedeva per nulla perché, dalla sua origine, si fondava non sugli statuti e sui principi della lotta di classe che stavano invece alla base della Confederazione Generale del Lavoro distrutta dal fascismo, ma sui principi della collaborazione di classe tipici dei sindacati tricolore. Inevitabile, quindi, che le posizioni programmatiche e politiche di partito richiamate e difese per anni relativamente alla questione dei rapporti tra partito, classe e sindacato operaio, venissero di fatto deviate.

L'unificazione sindacale tra CGIL, CISL e UIL, perseguita dalle forze politiche e sindacali riformiste e collaborazioniste, avrebbe rappresentato certamente un avanzamento, come sosteneva il partito, nel processo di integrazione dei sindacati operai nello Stato borghese; questo processo di integrazione nello Stato borghese, come non fu interrotto nel 1949 dalla scissione che fece nascere dall'unica Confederazione generale sindacale italiana costituita nel 1944 il sindacato democristiano (CISL) e poi quello repubblicano (UIL), così non sarebbe stato interrotto nemmeno dalla loro eventuale riunificazione. Che poi questa riunificazione non sia mai avvenuta realmente non lo si deve certo all'opera di opposizione "rivoluzionaria"svolta dal partito in seno alla CGIL. Nei rapporti di forza tra le molteplici forze di conservazione sociale e le reazioni di un proletariato incapace di riconquistare con decisione il terreno della lotta classista rompendo con i mille vincoli che lo legavano alle sorti dell'economia nazionale e delle esigenze produttive capitalistiche (in particolare la rete degli ammortizzatori social), la classe dominante trovò più conveniente mantenere le associazioni sindacali divise fra di loro che non riunirle in un unico grande sindacato. In questo modo, non solo si alimentavano i fattori di concorrenza e di divisione fra i proletari organizzati, ma si forniva costantemente materiale utile alla menzogna democratica illudendo i proletari di poter "scegliere" l'organizzazione che più appariva utile a rappresentare i loro interessi di categoria e individuali.

Resta il fatto, comunque, che la CGIL all'epoca doveva registrare una certa riluttanza da parte di non pochi operai all'unificazione con i sindacati apertamente padronali CISL e UIL. La stessa Rinascita, settimanale del PCI dell'epoca, non nascondeva che “uno strato non trascurabile” di operai non era d'accordo con la politica di unificazione sindacale della CGIL e, tirando le somme dal referendum sulla cosiddetta unità sindacale, affermava: “Le ragioni di quanti esprimono perplessità o ostilità si riassumono sostanzialmente nel timore che il costo dell'unità sia troppo alto, che l'unità si traduca in una attenuazione della combattività e delle posizioni classiste del sindacato” (3). A parte il demagogico riferimento alle posizioni classiste del sindacato CGIL che il PCI utilizzava costantemente, gli opportunisti di allora non si nascondevano che questa operazione incontrava  anche l'ostilità da parte di strati non trascurabili di loro iscritti.

 

I comunisti rivoluzionari lavorano anche nei sindacati reazionari

Top

 

Per svolgere attività di partito all'interno, e all'esterno, di un sindacato come la CGIL non era necessario identificarlo come sindacato “rosso”; stabilito che, tra le attività di intervento verso la classe operaia, il partito comprende anche l'attività all'interno dei sindacati nella misura in cui questa attività è consentita dagli statuti o tollerata, e rilevato il reale processo di formazione e di sviluppo del sindacato tricolore, come aveva già fatto, il partito doveva definire una tattica di intervento, dentro e fuori del sindacato, che gli consentisse di prendere contatto con gli operai sia attraverso la propaganda degli obiettivi, dei mezzi e dei metodi di lotta classisti, sia partecipando alle lotte operaie e agli scioperi, sia intervenendo nelle assemblee sindacali in qualità di proletari comunisti rivoluzionari o di rappresentanti operai quando eletti dagli operai stessi. Tale attività andava e va fatta in ogni caso, dentro e fuori del sindacato ufficiale nella misura in cui tale attività sia oggettivamente e fisicamente possibile; sapevamo, e sappiamo, che all'interno del sindacato tricolore tale attività non è mai stata bene accetta,  ma è stata sempre contrastata o impedita.  In assenza, però, di sindacati rossi, quindi in assenza di organizzazioni operaie classiste, questa attività all'interno dei sindacati tricolore e reazionari era ed è forzatamente limitata e costretta, spesso, ad essere episodica e saltuaria. Il partito non ha mai avuto il compito di “costruire” sindacati operai di classe, anzi, nella tradizione della Sinistra comunista vi è sempre stata la lotta contro coloro che credevano che, per non far cadere l'organizzazione sindacale operaia sotto l'influenza e la direzione opportunista, si dovesse costruire sindacati comunisti, come se questa fosse la ricetta risolutiva.

Il sindacato operaio è una organizzazione di difesa economica e immediata che accoglie operai di tutte le categorie, di tutti i settori, di tutte le età, di tutte le nazionalità, quali che siano le loro idee politiche e religiose; caratteristica, questa, che, in prospettiva, fa da base ad una tendenziale unificazione della classe proletaria in quanto lavoratori salariati; e può diventare un punto di forza della lotta operaia di classe se si utilizzano metodi, mezzi e obiettivi di lotta classisti, in difesa esclusiva degli interessi dei lavoratori salariati. Solo grazie a questa lotta, che ha le caratteristiche della lotta di classe, è possibile che maturi nel proletariato la coscienza del contrasto antagonistico tra classe operaia e classe borghese. Ed è solo grazie all'intervento del partito comunista rivoluzionario nelle lotte di difesa immediata del proletariato e nelle sue organizzazioni di difesa immediata - le associazioni economiche dei lavoratori salariati, i sindacati per l'appunto, ma non solo - con la sua opera di propaganda e con la sua attività pratica di orientamento classista e unificante, che il proletariato giunge a comprendere che la lotta operaia sul terreno economico non è sufficiente a risolvere l'antagonismo sociale tra proletari e borghesi, e che è necessario elevare la lotta operaia a lotta di classe, al livello politico, tra tutta la classe operaia e tutta la classe borghese. Perciò, per il sindacato operaio, secondo i comunisti rivoluzionari, non ha senso rivendicare che sia “autonomo” dai partiti, ma deve invece esserlo dalle associazioni padronali, dallo Stato borghese e dalle sue ramificate istituzioni locali.

Sostenere che tra le attività del partito di classe non rientra la costruzione di sindacati rossi non vuol dire escludere che i militanti comunisti, attraverso la propaganda comunista e la partecipazione alle lotte operaie non possano anche contribuire con altri gruppi di operai alla formazione di organismi di lotta a carattere classista. Ciò, in periodo di assenza pluridecennale di sindacati rossi, può diventare una necessità pratica, obiettiva. I comunisti rivoluzionari sono e saranno sempre propositivi nei confronti degli operai, e in particolare dei proletari più avanzati, rispetto a tutto ciò che contribuisce a far crescere e sviluppare nei proletari l'esperienza diretta della lotta, dei suoi obiettivi, della sua organizzazione, della sua difesa sul terreno dell'antagonismo di classe, nella consapevolezza che l'obiettivo principale dell'attività dei comunisti rivoluzionari nella classe e nelle sue organizzazioni di difesa immediata è quello di importare nelle file proletarie la teoria del comunismo, ossia le finalità della lotta per l'emancipazione della classe proletaria dal giogo capitalista.

I comunisti rivoluzionari, d'altra parte, non possono non partire dal determinismo economico in forza del quale i lavoratori salariati, subendo i rapporti dell'economia e della vita sociale capitalistica che diventano ad ogni momento intollerabili, sono spinti a cercare di superarli. “Attraverso complesse vicende, coloro che di quei rapporti sono le vittime - si legge nel citato Partito e azione di classe, 1921 - vengono constatando la insufficienza delle risorse individuali in questa lotta istintiva contro condizioni di malessere e di disagio comuni a gran numero di individui, e sono spinti ad esperimentare le forme di azione collettiva, per aumentare con l'associazione il peso della propria influenza sulla situazione sociale che ad essi viene fatta”. Sappiamo, da sempre, che le associazioni sindacali operaie, come ogni organismo immediato, sono sottoposte all'influenza costante delle forze di conservazione borghese.  Dopo la lunga stagione apertasi con la vittoria rivoluzionaria in Russia nell'ottobre 1917 e con lo sviluppo della lotta rivoluzionaria in Russia e a livello mondiale, le classi borghesi, non solo nell'esperienza fascista in Italia e nazista in Germania, ma anche e soprattutto nelle esperienze delle grandi democrazie imperialiste negli USA, in Inghilterra, in Francia, nei paesi scandinavi e in Svizzera, adottarono una pratica generale, di stampo squisitamente totalitario, che divenne quella di “attrarre il sindacato operaio fra gli organi statali, sotto le varie forme del suo disciplinamento con impalcature giuridiche” (4).  La controrivoluzione borghese - di cui è parte integrante lo stalinismo con la sua opera di falsificazione del marxismo e di distruzione dell'Internazionale Comunista e, quindi, dei partiti comunisti rivoluzionari che ne erano membri - ha accelerato e allargato il processo di assoggettamento dei sindacati nello Stato borghese. Ma ciò non toglie che gli stessi rapporti  dell'economia e della vita sociale capitalistici non riproducano in permanenza le contraddizioni sociali che generano l'antagonismo tra gli interessi proletari e gli interessi borghesi e che, nello sviluppo di quelle contraddizioni, i proletari siano spinti a riconquistare il terreno dello scontro di classe ripercorrendo - sebbene costretti a ripartire da zero a causa della devastante vittoria della controrivoluzione borghese - il processo di formazione di associazioni di difesa economica più efficaci e rispondenti ai bisogni della difesa dei loro interessi immediati. E' lo sviluppo reale delle contraddizioni economiche e sociali della società divisa in classi che porterà inevitabilmente il proletariato a lottare come classe, nonostante gli sforzi con cui le classi borghesi si adoperano per allontanare il più possibile questo appuntamento con la storia.

D'altra parte, non si può certo prescindere dalla situazione reale in cui è precipitato il proletariato in tutti i paesi, e soprattutto nei paesi industrializzati. La grande difficoltà con cui i proletari, pur organizzati nei sindacati, cercano di difendersi dagli attacchi costanti alle loro condizioni di esistenza anche solo sul terreno elementare della difesa immediata del salario e delle condizioni di lavoro, è considerata dai comunisti rivoluzionari come il risultato dell'azione convergente della classe borghese dominante e delle forze del collaborazionismo politico e sindacale che influenzano ancora in modo determinante il proletariato e le sue organizzazioni. La potente pressione del capitalismo maturo sulle condizioni economiche e di vita quotidiana aumentando la concorrenza fra proletari ed una altrettanto potente pressione delle forze opportuniste e collaborazioniste politiche e sindacali  che, forti della rete di ammortizzatori sociali impiantata in ogni paese dalle classi dominanti borghesi, e forti del riconoscimento ufficiale come unici rappresentanti della classe lavoratrice con cui padroni e Stato borghese negoziano e concordano, anche in sede legislativa, le condizioni di sfruttamento dei proletari, hanno prodotto e continuano a produrre un micidiale ripiegamento del proletariato in una estrema sudditanza rispetto a qualsiasi condizione i capitalisti e il loro Stato centrale lo costringano per difendere più efficacemente i loro interessi di classe.  Mentre il principio e il metodo democratico influenzano idealmente il proletariato illudendolo di poter ottenere dei risultati politici e sociali a proprio beneficio, gli ammortizzatori sociali, costituendo una specie di garanzia economica e sociale, formano oggettivamente una reale barriera contro cui vanno ad infrangersi le spinte elementari di lotta che muovono i proletari contro le condizioni di sfruttamento esistenti. Gli ammortizzatori sociali, nel tempo, pur subendo nei periodi di crisi economica tagli consistenti, continuano a costituire una “gamma di misure riformiste di assistenza e previdenza per il salariato” creando “un nuovo tipo di riserva economica che rappresenta una piccola garanzia patrimoniale da perdere, in un certo senso analoga a quella dell'artigiano e del piccolo contadino”; il salariato “ha dunque qualche cosa da rischiare, e questo lo rende esitante ed anche opportunista al momento della lotta sindacale e, peggio, dello sciopero e della rivolta” (5). Già Marx, Engels e Lenin avevano rilevato questo fenomeno relativamente alle cosiddette aristocrazie operaie, fenomeno che con lo sviluppo del capitalismo mondiale si è sviluppato incessantemente. Niente di nuovo, dunque, sotto il sole!

Il ripiegamento del proletariato dalla lotta di classe non è, quindi, dovuto soltanto alla sconfitta rivoluzionaria degli anni Venti del secolo scorso e alla vittoria devastante, in Russia, prima, e poi nel mondo, della controrivoluzione borghese di cui la controrivoluzione staliniana era parte integrante; è dovuto anche all'iniziativa delle classi borghesi dominanti che, dopo il pericolo occorso negli anni Venti a causa del movimento comunista rivoluzionario, e soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, adottarono un “nuovo metodo pianificatore di condurre l'economia capitalistica, costituendo, rispetto all'illimitato liberismo classico del passato ormai tramontato, una forma di autolimitazione del capitalismo”, metodo che “conduce a livellare intorno ad una media l'estorsione del plusvalore” (6). Se non ci fosse stata quella autolimitazione del capitalismo grazie alla quale livellare ad una media l'estorsione di plusvalore, non ci sarebbero state le risorse per costituire l'utile rete di ammortizzatori sociali in difesa della conservazione sociale borghese.

E' da questo abisso che il proletariato deve risalire, e non ci sono espedienti o stratagemmi particolari che possano accelerarne la risalita. Non per questo deve essere sospesa l'azione paziente e sistematica del partito verso la classe proletaria non solo a livello di propaganda generale dei principi della rivoluzione comunista, ma anche a livello di intervento pratico e diretto nelle lotte e nelle organizzazioni di difesa imediata del proletariato, sebbene nelle dimensioni modeste che la realtà sociale permette. “Gli eventi, non la volontà o la decisione degli uomini, determinano così anche il settore di penetrazione delle grandi masse, limitandolo ad un piccolo angolo dell'attività complessiva. Tuttavia il partito non perde occasione per entrare in ogni frattura, in ogni spiraglio, sapendo bene che non si avrà la ripresa se non dopo che questo settore si sarà grandemente ampliato e divenuto dominante”; questo si legge nelle nostre Tesi caratteristiche, ma subito dopo esse giustamente precisano: “Per accelerare la ripresa di classe non sussistono ricette bell'e pronte. Per fare ascoltare ai proletari la voce di classe non esistono manovre ed espedienti, che come tali non farebbero apparire il partito quale è veramente, ma un travisamento della sua funzione, a deterioramento e pregiudizio della effettiva ripresa del movimento rivoluzionario, che si basa sulla reale maturità dei fatti e del corrispondente adeguamento del partito, abilitato a questo soltanto dalla sua inflessibilità dottrinaria e politica” (7). La reale maturità dei fatti: ecco ciò che il partito allora non ha avuto la lucidità teorica e politica di valutare pienamente.

I comunisti rivoluzionari sanno, in forza dei bilanci dinamici delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni tirati dal partito, che la lotta di classe del proletariato per sfociare nella rivoluzione proletaria e comunista deve poter contare su un movimento rivoluzionario generale “nel quale siano presenti questi fondamentali fattori: 1) un ampio e numeroso proletariato di puri salariati; 2) un grande movimento di associazioni a contenuto economico che comprenda una imponente parte del proletariato; 3) un forte partito di classe, rivoluzionario, nel quale militi una minoranza di lavoratori ma al quale lo svolgimento della lotta abbia consentito di contrapporre validamente ed estesamente la propria influenza nel movimento sindacale a quella della classe e del potere borghese” (8).

Credere di poter ottenere una valida ed estesa influenza sul movimento operaio organizzato nei sindacati, influenza contrastata ed impedita dal rapporto di forze ancora estremamente favorevole all'opportunismo e al collaborazionismo, attraverso la "conquista di sindacati di classe", inesistenti, da parte del partito rivoluzionario, non poteva che portare inevitabilmente a deviazioni di tipo sindacalista, operaista, volontarista, movimentista o, per reazione, a deviazioni di tipo attendista. Né, per quella via sarebbe risultato efficace il contrasto di un'altra deviazione che ha interessato il nostro movimento negli anni di formazione del partito nel secondo dopoguerra, e cioè quella secondo cui si negava al sindacato operaio in quanto tale, cioè in quanto associazione immediata di difesa economica proletaria, la funzione di costituire la struttura organizzata del proletariato potenzialmente influenzabile non solo dalle forze opportuniste e borghesi, ma anche dal partito di classe; deviazione che negava l'utilità per il movimento rivoluzionario di quel “grande movimento di associazioni a contenuto economico che comprenda una imponente parte del proletariato”, che è il secondo fattore, appena ricordato nelle tesi del 1951, la cui presenza è fondamentale perché la lotta di classe guidata finalmente dal partito comunista rivoluzionario possa effettivamente sfociare nella rivoluzione e vincerla.

Forse non è superfluo ricordare che i sindacati economici hanno, rispetto al partito politico, il carattare di una più completa identità di interessi materiali e immediati, grazie alla quale è possibile l'organizzazione di grandi masse di proletari e una vera unità di organizzazione ma che, solo se orientata dal partito comunista rivoluzionario con finalità storiche di classe, diventa una base decisiva non solo per la lotta di classe contro la borghesia dominante sul terreno immediato, ma anche per la rivoluzione proletaria e comunista.

“Se nelle varie fasi del corso borghese: rivoluzionaria, riformista, antirivoluzionaria - si legge al punto 5 delle tesi di partito dell'aprile 1951 (9) -, la dinamica dell'azione sindacale ha subito variazioni profonde (divieto, tolleranza, assoggettamento), questo non toglie che è indispensabile organicamente avere tra la massa proletaria e la minoranza inquadrata nel partito un altro strato di organizzazioni per principio neutre politicamente ma costituzionalmente accessibili a soli operai, e che organismi di questo genere devono risorgere nella fase di avvicinamento della rivoluzione”.

Si credeva, negli anni che precedevano il fatidico 1975, di essere entrati nella “fase di avvicinamento della rivoluzione”? Una buona parte dei compagni erano convinti che effettivamente si fosse entrati in quella fase, e soffriva di un presunto ritardo con cui il partito si stava presentando a quell'appuntamento: ritardo nell'organizzazione interna, ritardo nell'influenzamento di una parte non infinitesima di proletari, ritardo nello sviluppo della rete organizzativa del partito stesso in altri paesi che non fosse l'Italia dove aveva avuto origine la corrente di Sinistra comunista  da cui discendevamo. L'attivismo innestato in campo sindacale denunciava una specie di frenesia con cui il partito cercava, con atti di volontà e con espedienti organizzativi, di recuperare il ritardo di cui soffriva.

 

I “Comitati di difesa del sindacato di classe”

Top

 

Nella circolare successiva del 29 aprile 1970 (tradotta poi in francese il 15 maggio 1970), a firma abbinata del Centro e dell'USC, si legge: “La lotta contro le deleghe è stata la prima battaglia contro le direzioni sindacali. L’obiettivo, però, era e resta marginale. Gli operai non sono riusciti a calcolare la portata corporativistica delle deleghe e, ad eccezione della Olivetti e di qualche altro caso sporadico, rari sono quelli che si sono opposti. La questione della delega si esaurisce in un gesto, nello spazio angusto di un secondo. Gli operai invece hanno bisogno di traguardi che li mobilitino per un certo tempo, in cui possa effettuarsi l’indispensabile rodaggio della lotta”. E, nonostante nella circolare si dichiari che “non si tratta di inventare degli obiettivi, degli scopi” perché questi “devono essere indicati dalle condizioni reali”, si afferma subito dopo, visto che “la CGIL decide la distruzione dei sindacati di classe”, che al partito non resta che “proporre alla classe non solo il programma storico ed obiettivi limitati, ma la prospettiva della traduzione in obiettivi pratici generali, quali appunto la difesa o la ricostituzione del Sindacato di Classe, delle premesse programmatiche”. Argomento, quest’ultimo, utilizzato per giustificare la nascita dei “Comitati di difesa del Sindacato di Classe” che il partito da quel momento lancia alla classe operaia. Questi “Comitati di difesa”, si legge nel documento interno di partito, “vogliono essere gli organi per la rinascita della CGIL; utili a costituire la prima rete del Sindacato di Classe qualora la CGIL dovesse sfaldarsi (...) L’opportunismo uccide i sindacati operai, noi comunisti ricomporremo, scindendo e sabotando i sindacati corporativi, il sindacato di classe, entro il quale si realizzerà l’unità proletaria”.

Capovolgimento completo delle posizioni storiche del partito riguardo il rapporto tra partito e classe, tra partito e associazioni economiche operaie: con il pretesto che l’opportunismo, con l’unificazione di CGIL-CISL-UIL, vuole distruggere il “sindacato di classe“, si introduce in realtà come novità assoluta un nuovo compito del partito, quello di costituire (o ricostituire) il “sindacato di classe” – pur continuando a dichiarare che i “Comitati di difesa” non intendevano sostituirsi ai sindacati organizzati nella CGIL – per di più non sull’onda di un forte ed esteso movimento di lotte classiste (che non c’è stato all’epoca né ci sarà successivamente), ma su iniziativa degli operai comunisti militanti e simpatizzanti del partito! Si stava precipitando nelle posizioni e nelle pratiche dei gruppuscoli di estrema sinistra che il partito aveva sempre criticato aspramente compresa la disinvoltura con cui costituivano comitati, collettivi, coordinamenti e sindacati “alternativi”. Inutile dire che, in un appena velato delirio organizzativistico, nel descrivere il rapporto tra “Partito” e “Comitati di difesa del Sindacato di Classe”, e immaginando che quei “Comitati di difesa della CGIL” sarebbero sorti numerosi grazie alla nostra propaganda e ad un supposto spontaneo disgusto da parte delle masse operaie verso l’unificazione della triplice sindacale, ci si dava questa prospettiva: “ ai ‘Comitati’ aderiscono i singoli militanti del partito e, là dove esistono, i gruppi sindacali e di fabbrica comunisti, la cui collocazione è a 'sinistra' nel caso che non siano da noi diretti; ovvero ne assumono la direzione, dando ai ‘Comitati’ l’indirizzo politico del partito. I compagni e i gruppi, quindi, lavorano nei ‘Comitati’ per sottoporli all’influenza diretta del partito. I ‘Comitati’ saranno degli ottimi centri di reclutamento, di propaganda e di agitazione comunista, fino al limite di inquadrare tutti gli effettivi negli organi sindacali e di fabbrica del partito, ed infine nel partito medesimo”! Ci si dava l'obiettivo, dunque, di aumentare il numero di adesioni al partito attraverso lo specifico lavoro sindacale, in una specie di automatismo virtuoso messo in moto dalla costituzione di una formula organizzativa particolare, appunto i “Comitati di difesa del Sindacato di Classe”!

Nel maggio dello stesso anno 1970, il partito produrrà un paio di documenti, uno di valutazione politica dei descritti “Comitati di difesa” (primo documento intitolato I Comitati di difesa del Sindacato di Classe), e uno come piattaforma per la costituzione dei “Comitati” (secondo documento intitolato Programma costitutivo dei Comitati di difesa del Sindacato di Classe). In questi documenti si definisce in modo netto che, per noi, questi “Comitati” sono organismi rivoluzionari organizzati all’interno, e all’esterno, della CGIL per combattere i vertici collaborazionisti della CGIL e per riportare la stessa CGIL alle tradizioni di classe della vecchia CGdL. In pratica, la CGIL, non più considerata – nel suo insieme, in quanto apparato e struttura sindacale – come un sindacato tricolore inserito in un processo di assorbimento nelle istituzioni statali, ma sindacato di classe,  viene salvata come struttura (di classe) ma opposta ai suoi vertici (opportunisti e collaborazionisti) contro cui bisogna lottare per  poterla recuperare alla sua tradizione classista passando per una via obbligata: impedire la sua unificazione con CISL e UIL e cambiarne i vertici “con una direzione scrupolosamente fedele ai principi del sindacato classista (...) che derivano dagli Statuti e dal programma costitutivo della CGdL (Confederazione Generale del Lavoro) prima che fosse distrutta dal fascismo”.

In particolare, lanciando la parola d’ordine della costituzione dei “Comitati di difesa del Sindacato di Classe” si intende “organizzare disciplinatamente i lavoratori per lottare, consapevoli e uniti, contro il sindacalismo bianco, padronale, statale. Di conseguenza, i ‘Comitati’ agiscono come l’ala rivoluzionaria del proletariato nei sindacati tradizionali” (dal Programma costitutivo dei Comitati di difesa del Sindacato di Classe, citato).

Dando una valutazione del tutto sbagliata della CGIL, considerata come sindacato “rosso” invece che “tricolore”, e valutando l’unificazione con CISL e UIL come una sua trasformazione in sindacato “di regime”, quindi “tricolore”, era inevitabile che ne discendesse un piano tattico volontaristico e “ultimatista”: difendere il sindacato “di classe” dal piano di unificazione voluto dai vertici opportunisti e riportare la CGIL – grazie al cambio dei vertici, cambio ottenuto con una lotta politica interna, ed esterna, alla CGIL stessa – ad una tradizione classista che non avrebbe mai perso nonostante la distruzione da parte del fascismo del vecchio sindacato rosso (la CGdL) e la costituzione nel dopoguerra del nuovo sindacato operaio tricolore (la CGIL) organizzato direttamente dalle forze del collaborazionismo politico e sindacale legate al CLN e alla resistenza partigiana in salsa piccista e socialista.

Per superare questo errore teorico, politico e tattico doveva scoppiare all’interno del partito una crisi molto profonda che lascerà conseguenze negative per molto tempo, ripresentandosi negli anni successivi su diverse questioni, dalla questione nazionale-coloniale alla questione dei rapporti fra partito e altri movimenti politici, dalla questione tattica generale alla questione organizzativa interna. Cose di cui ci occuperemo nel seguito di questo lavoro. La crisi che nel partito fu definita “fiorentina” – perché la crisi trovò il suo epicentro nella sezione di Firenze che aveva avuto il ruolo di formare l’Ufficio Sindacale Centrale del partito – in realtà coinvolse compagni e sezioni in più parti d’Italia, e anche in Svizzera e in Francia. Chiamarla semplicemente “fiorentina” è stato e sarebbe un errore, poiché le posizioni sbagliate sulla questione sindacale, certamente nate e sviluppatesi in particolare nella sezione fiorentina, sono state fatte proprie dal centro stesso del partito. Il partito, in effetti, si attendeva dalla crisi incipiente dell’economia capitalistica e dai notevoli fermenti di lotta (1968-1969, l’autunno caldo ecc.) non solo interni alle organizzazioni sindacali ma anche esterni ad esse, molto più di quanto quella stessa crisi poteva produrre sul terreno del movimento reale delle masse proletarie; si attendeva un distacco più netto di quanto in realtà avvenne tra proletari che spingevano alla lotta e riformismo sindacale e politico e, quindi, una ripresa della lotta classista che tendesse ad approfondirsi e ad allargarsi quasi inevitabilmente.

Nel marzo 1971 il partito esce con un manifesto intitolato: “Per il decennio della ripresa della lotta rivoluzionaria di classe”. In questo manifesto, richiamando la crisi in cui il capitalismo mondiale sta cacciandosi, con il conseguente aumento di disoccupazione, licenziamenti ecc. e di lotte con cui i proletari reagivano in America come in Europa, e ribadendo il concetto di separazione tra direzioni sindacali e proletari, si insiste nell’accusare le direzioni sindacali di aver “preferito abbandonare la dura lotta in difesa delle condizioni di lavoro e di esistenza delle grandi masse dei salariati, per abbracciare la facile e per esse produttiva connivenza con le direzioni aziendali, coi governi, con lo Stato, e per proteggere l’economia nazionale e la democrazia”; e che “essendosi rifiutate di travolgere, sotto la direzione del comunismo rivoluzionario, il capitalismo agonizzante, ne hanno dovuto ereditare l’insegnamento corporativo e fascista, tentando di trasformare le organizzazioni classiste dei proletari da organi per la lotta rivoluzionaria di classe in organi di difesa del regime presente”. Le sottolineature sono nostre, per evidenziare gli errori grossolani che vi sono contenuti. Le direzioni sindacali della CGIL, cioè del sindacato tricolore, non avevano davanti a loro una scelta di fronte alla quale “hanno preferito abbandonare” la lotta classista “per abbracciare” il collaborazionismo: esse sono nate, come è nato il sindacato CGIL, già collaborazioniste, e non avevano scelto di abbandonare la lotta classista poiché erano parte integrante delle forze collaborazioniste già rodate nello stalinismo e pronte perciò a riorganizzare gli operai in sindacati fin dalla nascita collaborazionisti. Dunque, le direzioni sindacali non si sono “rifiutate di travolgere il capitalismo agonizzante”, ma erano la lunga mano della politica collaborazionista in campo sindacale e, perciò, non hanno “dovuto ereditare l’insegnamento corporativo e fascista” perché ne erano naturalmente gli eredi proprio per il loro congenito collaborazionismo. Che poi esse avessero l’obiettivo di “trasformare le organizzazioni classiste dei proletari in organi di difesa del regime presente”, non è nemmeno vero: esse non fecero nemmeno questa fatica, visto che le organizzazioni classiste erano state già distrutte dal fascismo. Lo stalinismo, caso mai, fece di tutto perché i proletari non si riorganizzassero sul terreno classista; li riorganizzò in sindacati tricolore, accettati dal nuovo Stato repubblicano giuridicamente come istituzioni, e basati su un impianto di normative e di ammortizzatori sociali, questi sì ereditati direttamente dalla politica sociale del fascismo, in modo da tacitare, finita la guerra, le esigenze elementari dei proletari, costituendo in questo modo quella specie di riserva materiale che legava i lavoratori salariati all’economia capitalistica fin dalla sua fase di ricostruzione postbellica.

Non stiamo dicendo cose nuove, ma ripetendo concetti che fannno parte del bilancio che il partito aveva già formulato nelle sue tesi del dopoguerra, tesi che in quegli anni il partito di ieri aveva del tutto dimenticato sostituendole con nuove valutazioni e nuove tattiche.

Dicevamo che il partito, all’epoca, si attendeva una ripresa classista da parte del proletariato sull’onda delle lotte che certamente si sviluppavano in molti paesi occidentali – tra l’altro in un perido in cui, in concomitanza, continuavano anche le lotte di liberazione nazionale in diversi paesi dell’Africa e dell’Asia – ma che, pur rompendo la pace sociale e mettendo a dura prova il controllo che le forze opportuniste avevano sulle masse proletarie, non riuscivano a rompere con le pratiche democratiche, legalitarie e dilatorie messe in atto dalle forze opportuniste per decenni. Il manifesto, citato sopra, si lancia in un saluto per “le lotte ‘selvagge’, gli scioperi ‘non autorizzati’ ed ‘illegali’, della classe operaia” considerandoli come i primi episodi come “sintomi della crisi incipiente del regime capitalista, a garanzia dell’attestarsi proletario, in un domani non lontano, sul fronte della rivoluzione comunista” (sottolineature nostre). E anche qui, a parte il fatto di attendersi in un domani “non lontano” che il proletariato fosse pronto alla rivoluzione comunista, si cade in un ulteriore errore teorico: la crisi economica del capitalismo non coincide necessariamente con la crisi del regime capitalista. Quest’ultima questione, insieme a quella del sindacato tricolore, saranno le questioni che faranno nascere nel partito dubbi e discussioni, inducendo molti compagni, e il centro stesso, a riprendere in mano seriamente le questioni teoriche e la verifica delle posizioni, assunte dal partito in quegli anni, con le sue tesi fondamentali, dando così l’avvio ad un netto colpo di barra che rimetterà il partito sulla giusta rotta marxista.

Il seguito sarà oggetto della prossima riunione generale del partito, dando a questo tema una continuità di trattazione in modo da avanzare nel lavoro di bilancio delle crisi che il partito ha attraversato nella sua storia trentennale.

 


 

(1) Diamo qui un brevissimo cenno su alcuni temi trattati tra il 1965 e il 1968,  in particolare nelle riunioni generali di partito, notando che, nello stesso periodo in cui si ribadivano e si definivano con coerenza le posizioni marxiste e della tradizione della Sinistra comunista, il partito, sul piano tattico e di intervento, stava scivolando per poi cadere decisamente in posizioni del tutto sbagliate in campo sindacale. A cavallo tra il 1964 e il 1965 escono, nel "programma comunista", le "Tesi sulla questione cinese", seguite nel 1966 da uno studio sulle Contraddizioni della "Cina borghese" (nn. 19-22/1966), da un articolo intitolato "Rivoluzione culturale: rivoluzione borghese" (nn. 11, 12, 13, 14/ 1967); all'inizio del 1965 escono le "Considerazioni sulla organica attività del Partito quando la situazione generale è storicamente sfavorevole" (n. 3). In tutto il periodo si susseguono le trattazioni sull'economia delle maggiori potenze imperialistiche e sull'economia russa, sulla guerra del Vietnam, sulla "questione militare", sull'economia marxista trattando, in particolare, gli argomenti del VI capitolo inedito del Capitale di Marx (nn. 5, 6 e 19/1966), la questione della caduta tendenziale del saggio di profitto (n. 13/1967), e la teoria marxista della moneta (nn. 5, 6, 7, 8, 10, 12, 14, 15 e 16/1968). E, a fronte dei problemi di organizzazione sorti nel partito che in quegli anni si stava sviluppando anche in altri paesi, escono le "Tesi sul compito storico, l'azione e la struttura del partito comunista mondiale, secondo le posizioni che da oltre mezzo secolo formano il patrimonio storico della Sinistra comunista" (n. 14/1965), note come "Tesi di Napoli" perché presentate alla riunione generale di partito a Napoli, seguite dalle "Tesi supplementari a quelle di Napoli (luglio 1965) nel compito storico, l'azione e la struttura del Partito comunista mondiale" (n. 7/1966), note come "Tesi di Milano" perché presentate alla riunione generale di partito a Milano.

Il tema della Storia della Sinistra verrà svolto trattando il magnifico "discorso di Trotsky sulla politica economica russa", tenuto al IV congresso dell'I.C. nel 1922 (nn. dal 6 al 12 del 1966), e sulla questione dell'imperialismo, il rapporto su "Imperialismo e antimperialismo nella concezione rivoluzionaria marxista" uscirà nei nn. 13, 14, 15, 16 e 18 del 1966. Al tema del sindacato vengono dedicate due trattazioni: "Vent'anni di controllo opportunista dei sindacati" (nn. 7, 8, 10, 11, 13/1966 tra programma e spartaco) e "Partito e sindacati nella classica visione marxista" (n. 10/1966 di spartaco, per poi proseguire nel programma comunista nei nn. 14, 16, 17, 18, 19,22/1966). Il tema dell'attività del partito sul terreno immediato e in campo economico, si riprende nella riunione generale di Firenze dell'aprile-maggio 1967 la questione del "Partito rivoluzionario e azione economica" sviluppando le sintetiche tesi di partito del 1951- Teoria e azione nella dottrina marxista - (nn. dall' 11 al  15/1967), facendola seguire da una serie di materiali del PCdI del 1921-22 nel movimento sindacale e nella classe operaia (sul fronte unico sindacale, sull'Alleanza del Lavoro ecc.). Un importante lavoro su "Il Partito di classe di fronte all'offensiva fascista, 1921-1924" (nn. 17, 18, 21, 22/1967, e 1, 2 e 3/1968) dove si dimostra la coerente ed efficace attività del partito diretto dalla Sinistra comunista, ai suoi esordi, contro il fascismo sia sul piano dell'iniziativa politica che su quello della difesa economica del proletariato e delle sue organizzazioni immediate (camere del lavoro, leghe, sedi sindacali, cooperative ecc.). Altri lavori interessanti furono dedicati, ad esempio, alla critica della tanto in voga all'epoca e presunta "pianificazione democratica" (nn. 19 e 29/1968) collegandoli alle tesi del 1952 su "il programma rivoluzionario immediato" e alla critica della scienza borghese, "Marxismo e scienza borghese" (nn. 21 e 22/1968). Nel 1969 e 1970 si darà molto spazio  alla ripresa di materiali della Sinistra e dell'IC sul rapporto fra partito e organismi di classe, con l'intento di ribadire una  continuità (in verità, presunta) tra le posizioni assunte negli anni Venti dalla Sinistra comunista e le posizioni assunte dal partito in quel torno di tempo in cui si considerava la CGIL come un sindacato "di classe" e l'iniziativa del partito, per difenderla dall'unificazione con CISL e UIl e dalla sua completa integrazione nelle istituzioni statali, come un'iniziativa urgente e necessaria alla quale dedicare tutte le forze del partito.

(2) Il "filo del tempo" intitolato "Le scissioni sindacali in Italia" è stato pubblicato nell'allora unico giornale di partito, "battaglia comunista", nel nr. 21 del 25 maggio - 1 giugno 1949.

(3) Vedi "Rinascita", nr. 9 del 1967, citato nell'articolo "La funzione antiproletaria dell'unità sindacale che si sta cucinando fra vertici bonzeschi", Spartaco, nr. 7, 13-27 aprile 1967.

(4) Vedi "Analisi dei fattori oggettivi che pesano sulla ripresa del movimento operaio",  "Bollettino interno" del 26 dicembre 1950.

(5) Vedi "Partito rivoluzionario e azione economica", punto 7, parte II delle tesi raccolte sotto il titolo "Teoria e azione nella dottrina marxista",  riunione di Roma, 1 aprile 1951, in "Partito e classe", cit., p. 124.

(6) Vedi "Forza violenza e dittatura nella lotta di classe", parte III, Regime borghese come dominazione, in "Partito e classe", cit., p. 97.

(7) Vedi "Tesi caratteristiche del partito", dicembre 1951, parte IV, Azione di partito in Italia e altri paesi al 1952, in "In difesa della continuità del programma comunista", nr. 2 della serie "i testi del partito comunista internazionale", Firenze 1970, p. 163

(8) Vedi "Partito rivoluzionario e azione economica" punto 8, in Teoria e azione nella dottrina marxista, seconda parte, (Tesi della Sinistra, 1951) pubblicato in "Partito e classe", cit., pp. 124-5.

(9) Vedi "Teoria e azione nella dottrina marxista" punto 5, (Tesi della Sinistra, 1951) pubblicato in "Partito e classe", cit., p. 119; le parole: indispensabile organicamente, le abbiamo sottolineate noi.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

Top

Ritorne indice