Sul periodo attuale e i compiti dei rivoluzionari

(«il comunista»; N° 136; Ottobre 2014)

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Per comprendere la situazione storica attuale e i compiti dei rivoluzionari che ne derivano non ci si può fermare all’ultimo decennio e nemmeno all’ultimo trentennio. Lo sguardo dei rivoluzionari deve andare molto più lontano perché per trarre i necessari insegnamenti dalle vicende storiche affrontate dai partiti rivoluzionari e dalle loro stesse crisi, bisogna prendere in considerazione un periodo abbastanza lungo in un quadro che non è nazionale o continentale, ma mondiale. Naturalmente qui ci limiteremo a dare un quadro piuttosto schematico, che riteniamo comunque utile per riportare l’attenzione sugli elementi più importanti.

 

Il secolo XX, dal punto di vista proletario e comunista, è stato caratterizzato dall’ondata rivoluzionaria suscitata dalla prima guerra mondiale di cui le classi borghesi celebrano attualmente il centenario. La vittoria della rivoluzione proletaria in Russia ne è stata l’elemento principale, ma non è stata una vittoria completamente isolata – come fu la Comune di Parigi nel 1871 – perché il periodo che va dall’inizio del secolo fino al 1926, e soprattutto dalla fine della prima guerra mondiale, aveva visto i proletari in Germania, in Italia, in Ungheria e, in generale, nell’Europa centrale scendere in lotta sul terreno rivoluzionario nella prospettiva di conquistare il potere politico e instaurare la dittatura di classe come in Russia. Tali lotte non ebbero successo, ma dalla loro stessa sconfitta i rivoluzionari marxisti hanno tratto insegnamenti preziosi per le lotte successive. Sul piano politico, nello stesso periodo, vi è stata la formazione dei partiti comunisti, provenienti da scissioni più o meno definitive dai vecchi partiti socialisti della Seconda Internazionale che si erano compromessi totalmente, votando i crediti di guerra, con le borghesie nazionali lanciatesi nella preparazione e nello svolgimento della guerra imperialista. Sull’onda delle battaglie di classe delle correnti di sinistra dei partiti socialisti riformisti, della vittoria bolscevica e della formazione dei nuovi partiti comunisti, in rottura con il riformismo e il socialsciovinismo della Seconda Internazionale, nasce la Terza Internazionale, comunemente nota come Internazionale Comunista. Il movimento proletario rivoluzionario, nel congresso dell’I.C. del 1920, raggiunge la sua vetta più alta, ancor oggi riferimento storico indispensabile per la futura ripresa del movimento rivoluzionario comunista.

La sconfitta di quell’ondata rivoluzionaria, dovuta in parte all’azione riformista dei partiti socialisti, in parte alla ripresa economica del capitalismo internazionale, si tradusse nella degenerazione del potere proletario in Russia, nella vittoria del fascismo in Italia e nell’abbandono progressivo delle posizioni correttamente marxiste da parte dell’Internazionale Comunista. Oltre alla repressione in Russia dei militanti comunisti rimasti fedeli alle posizioni comuniste, a livello internazionale questo abbandono fu sancito nel 1926 da due tremende sconfitte di cui l’Internazionale ormai stalinizzata portò la totale responsabilità: il fallimento dello sciopero generale in Gran Bretagna e l’annientamento della rivoluzione cinese. Con il 1926 la controrivoluzione borghese, attraverso lo stalinismo, trionfa in tutto il mondo; i comunisti rivoluzionari vengono perseguiti o eliminati non solo dalle forze di repressione dichiaratamente borghesi, ma anche dallo stalinismo, in Russia e fuori di essa, fino a raggiungere Trotsky in Messico, e i partiti comunisti, nati nel primo dopoguerra dalle scissioni col riformismo, subiscono lo stesso processo degenerativo dell’Internazionale trasformandosi in puntelli dell’ordine borghese costituito, abbracciando la democrazia borghese come proprio faro. La teoria marxista, guida indispensabile della lotta rivoluzionaria del proletariato, maneggiata con maestria ineguagliata da parte di Lenin, dopo una serie di attacchi nella definizione delle linee tattiche e dei criteri organizzativi, e dopo una serie di cedimenti nelle linee politiche sancite dall'Internazionale Comunista nel 1920, subisce l'affondo virulento più disastroso con la teoria staliniana del "socialismo in un solo paese" col suo inevitale portato di falsificazione su tutti i piani, nei principi, nei programmi, nelle linee politiche e tattiche come nei rapporti con gli altri partiti e i sindacati e, ovviamente, nei criteri organizzativi.

Quando all’inizio degli anni Trenta esplode la crisi economica generale del capitalismo, il proletariato di ogni paese avanzato si trovò nuovamente disarmato: dal punto di vista ideologico, politico, organizzativo. In obbedienza delle direttive controrivoluzionarie dello stalinismo, i partiti comunisti si ricongiunsero con la difesa dell’ordine borghese: la loro politica da riformista divenne apertamente di collaborazione di classe. I grandi movimenti di lotta che scoppiarono in seguito alle conseguenze della crisi generale capitalistica (nel 1936 in Francia e in Spagna, grandi lotte operaie negli Stati Uniti) non trovarono risposte politiche di classe, mentre in Germania la politica dello stalinismo condusse il proletariato alla completa paralisi di fronte alla montante vittoria del nazismo. I partiti che pretendevano di rappresentare gli interessi operai spinsero i proletari, in seguito, come nel 1914,  ad aderire alla seconda guerra imperialista, in difesa degli interessi borghesi nazionali sia negli eserciti regolari che nelle formazioni partigiane, una guerra ancora più terribile e distruttrice della prima.

 

TRENT’ANNI DI ESPANSIONE CAPITALISTICA CONTINUA

 

A differenza del primo dopoguerra, non vi è stato nel secondo dopoguerra - e, nelle condizioni in cui il proletariato era stato fatto precipitare, non poteva esserci -  un’ondata rivoluzionaria proletaria. Ciò si spiega, a grandi linee, non soltanto col fatto che i vincitori (USA e URSS), facendo tesoro dell’esperienza storica precedente e sapendo del rischio che potevano passare, decisero l’occupazione militare dei paesi vinti;  e non solo col fatto che tutti i partiti comunisti rivoluzionari avevano subito la completa degenerazione staliniana, ma anche col fatto che non vi sono state prima o durante la guerra delle reazioni proletarie di classe significative che avrebbero potuto servire da esempio e da riferimento per i lavoratori degli altri paesi come era successo con il movimento proletario russo e la rivoluzione in Russia nel 1917. Il difficile periodo dell’immediato dopoguerra per il capitalismo ha potuto in questo modo essere gestito con più tranquillità da ogni borghesia nazionale, sia per il contributo portatole dall’azione dei partiti stalinisti e socialdemocratici, utilizzatori di un linguaggio socialisteggiante ma, in realtà, integrati in ogni paese nei governi di unione nazionale per la “ricostruzione”, sia per l’azione “riformatrice” che i governi borghesi adottarono, ereditandola dal fascismo, per tacitare i bisogni più pressanti delle masse proletarie: tutto ciò nei grandi paesi europei, dalla Germania alla Francia, dalla Gran Bretagna all’Italia, al Giappone e ai paesi dell’est Europa sotto l’occupazione militare sovietica.

E’ importante sottolineare come la potente ricrescita economica del secondo dopoguerra permise alle borghesie imperialiste di accordare ai propri proletari tutta una serie di misure economiche – i famosi ammortizzatori sociali – che migliorarono le loro condizioni di esistenza e ciò impedì ad un proletariato, già sconfitto sul terreno rivoluzionario e in assenza di organizzazioni di difesa economica classiste e della guida politica di un partito di classe, di riprendere la lotta di classe e rivoluzionaria, facilitando invece l’opera di influenzamento e irreggimentazione dei proletari nella collaborazione di classe. Nel trentennio di espansione economica, che seguì alla fine della seconda guerra imperialista, non mancarono nei grandi paesi capitalisti le lotte operaie, anche molto dure; ma gli apparati riformisti e collaborazionisti, molto attenti ad eliminare e isolare i rari militanti rivoluzionari presenti nelle fabbriche, riuscivano ad impedire che la loro azione, per quanto limitata e parziale, potesse guadagnare proseliti nelle file proletarie e diventare minimamente pericolosa per l’ordine borghese.

A livello internazionale questi decenni costituirono un periodo tumultuoso di lotte nazionali nei paesi coloniali, assumendo talvolta la forma di vere e proprie rivoluzioni borghesi, talvolta la forma di accordi più o meno negoziati con le potenze imperialiste, che miravano a mettere fine al vecchio sistema di dominio coloniale. Questi movimenti, il cui obiettivo non superò mai l’orizzonte borghese dell’indipendenza nazionale e della costruzione di un nuovo Stato borghese, sboccarono sulla trasformazione, piùo meno profonda, delle strutture socio-economiche vigenti in quelle regioni e, di conseguenza, in un progresso, variabile a seconda dei paesi, del modo di produzione capitalistico, dunque nella formazione della classe operaia. Un progresso che non impedì l'esplodere di una serie di contrasti tra le varie potenze imperialiste, in primo luogo tra gli USA e l'URSS, aldilà del loro accordo di gestione "condominiale" dell'ordine imperialistico mondiale, in alcune zone del mondo più sensibili per gli interessi imperialistici come il Medio Oriente, l'Estremo Oriente e l'Africa.

Il giovane e poco numeroso proletariato autoctono aveva partecipato a tutte queste lotte; ma, in assenza di una forza proletaria classista nelle metropoli che avrebbe potuto guidarlo sulle posizioni di classe e rivoluzionarie, questo giovane proletariato non poté che seguire gli orientamenti borghesi dominanti in questi movimenti; esso fu mobilitato e utilizzato dalle organizzazioni nazionaliste che capeggiavano queste lotte, organizzazioni tanto più antiproletarie quanto più si proclamavano “socialiste”! I nuovi Stati indipendenti usarono a piene mani la demagogia socialisteggiante per cementare l’unione nazionale, ma non erano che Stati integralmente borghesi, votati allo sviluppo del capitalismo nazionale: la Cina, il Vietnam o Cuba non sono eccezioni alla regola.

La collaborazione di classe nella lotta di emancipazione nazionale e l’assenza di un sostegno classista da parte del proletariato delle metropoli, prigioniero del socialimperialismo di marca staliniana o socialdemocratica, è un fatto storico che inevitabilmehte ha pesato, pesa e peserà negativamente sull’adozione di posizioni classiste e internazionaliste da parte del proletariato di questi paesi. Ma i decenni seguiti alla seconda guerra mondiale hanno visto il capitalismo installarsi e svilupparsi in tutto il pianeta; condannando ineluttabilmente alla rovina e alla proletarizzazione centinaia e centinaia di migliaia di piccoli produttori, questo sviluppo capitalistico ha nello stesso tempo accumulato la materia sociale esplosiva nel mondo intero. Negli stessi paesi capitalisti sviluppati l’espansione capitalistica ha eliminato una gran parte di strati intermedi classici (come i contadini) il cui ruolo conservatore e reazionario è stato un solido appoggio dell’ordine borghese: in Francia o in Italia quasi metà della popolazione, nel 1945, viveva ancora in campagna.

Per la prima volta nella storia, l’area della lotta fra le classi moderne e soprattutto l’arena della futura rivoluzione comunista internazionale diventa potenzialmente mondiale, a differenza del 1848 quando essa non concerneva che una parte dell’Europa occidentale, appena allargata alla Russia e all’Europa centrale nel 1917; e le basi materiali della rivoluzione diventano oggettivamente più salde, dato che questi paesi non erano allora ancora pienamente capitalisti. Questo è un risultato storico eminentemente positivo per l’avvenire.

 

ALTRI TRENT’ANNI CON CICLI DI RECESSIONE E DI RIPRESE ECONOMICHE

 

Il 1975, data della prima grande crisi internazionale del capitalismo dopo la guerra, segnò la fine della sua espansione, in apparenza illimitata, e del miglioramento, in apparenza continuo, delle condizioni di esistenza del proletariato nei grandi paesi capitalisti. Le crisi cicliche, quasi impercettibili in precedenza, grazie anche all’azione “anticiclica” delle spese statali (sociali ed altre), cominciarono a risorgere con forza crescente. Soprattutto con la crisi del 1981-82, i governi borghesi dei grandi paesi capitalisti ruppero con la politica sociale in vigore fino ad allora, rimettendo in causa le modalità precedenti della collaborazione di classe. Iniziato in Gran Bretagna con il governo Thatcher, raggiunti gli Stati Uniti al tempo di Regan, questa curva peggiorativa si generalizzò inesorabilmente negli altri paesi, pur se con ritmo e modi differenti. Le grandi lotte conseguenti alle crisi economiche sboccarono in sconfitte successive di fronte alla determinazione dei poteri borghesi: i grandi scioperi in Polonia, per ragioni economiche soprattutto ma inneggianti alla democrazia, furono spezzati dalla dittatura militare; il grande e prolungato sciopero dei minatori britannici alla fine fallì di fronte alla durezza del governo Thatcher e al rifiuto dei sindacati di generalizzare il conflitto; le lotte dei siderurgici francesi furono soffocate dal nuovo governo socialista; il lungo sciopero ad oltranza degli operai Fiat andò incontro al disastro a causa del micidiale isolamento in cui fu blindato da parte dei sindacati e dei partiti collaborazionisti; il coraggioso sciopero dei “musi neri” russi pur ottenendo formalmente dei risultati si frantumò nel giro di qualche mese nell’illusione di democratizzare l’economia e la società, e vi di questo passo. In Iran la caduta dello Scià sboccò nella costituzione del regime islamista antioperaio di Khomeiny: l’ordine capitalista mondiale riusciva a controllare la situazione, dando un forte “giro di vite” alle condizioni proletarie di esistenza.

Caratterizzato da un ritorno delle tensioni interimperialiste (in seguito all’intervento militare russo in Afghanistan), da difficoltà economiche persistenti in America Latina (il cosiddetto “decennio perduto”) in cui la borghesia ricorse alla “democratizzazione” per mantenere l’ordine, gli anni ’80 sfociarono in una nuova crisi capitalista internazionale. L’effetto senza dubbio più importante fu l’implosione dell’URSS e del bloco dell’Est, minati da un decennio da difficoltà economiche crescenti  (abbattimento del tasso medio di profitto dell’economia coniugato alla caduta brutale degli introiti in valuta pregiata dopo il crollo dei prezzi del petrolio e delle altre materie prime). L’implosione dell’URSS e del suo preteso “campo socialista” si accompagnò, come non poteva non succedere, con manifestazioni di massa e con lotte operaie di grande ampiezza (come lo sciopero dei minatori del Donbass, ricordato sopra). Ma il miraggio democratico dell’Occidente borghese, opulento e liberale, era troppo potente e solo delle piccole minoranze proletarie si incamminarono sulla via della riorganizzazione di classe ma senza successi duraturi. D’altra parte, l’imperialismo occidentale, avido di nuovi mercati e sempre preoccupato di evitare disordini sociali di grande rilevanza, ha potuto investire massicciamente nell’Est europeo per assicurare una “transizione” con il minimo di urti. Questo è vero non soltanto per la Germania Est annessa dalla Germania Ovest, ma anche per altri paesi. Beninteso, questa “transizione” verso la nascita di nuovi Stati non avrebbe potuto realizzarsi in maniera completamente pacifica, come testimoniano le sanguinose guerre che dilaniarono la Jugoslavia e provocarono l’intervento militare dei paesi occidentali.

In generale, in Europa,  questa vasta rioganizzazione della carta geografica capitalistica si realizzò senza che l’ordine borghese fosse rimesso in discussione dalle lotte proletarie, e senza che questi conflitti – che in altre situazioni e in altra epoca avrebbero potuto dare il via ad una guerra mondiale – avessero conseguenze se non “locali”: ciò dimostra ulteriormente, in tutto questo periodo, la potenza perlopiù intatta del dominio capitalista.

Per gli ideologi borghesi, il crollo dell’URSS è stata la “fine del comunismo”; cioè la vittoria definitiva del capitalismo, l’inizio di un “nuovo ordine mondiale” di pace (dopo aver riportato”alla ragione” l’Iraq di Saddam Hussein) e di un nuovo periodo di crescita economica drogata dalle “nuove tecnologie”, in cui le crisi sarebbero scomparse grazie ad una gestione intelligente dell’economia. Secondo gli euforici obiettivi dell’ONU e della Banca Mondiale, la miseria avrebbe dovuto sparire dalla faccia della terra nell’anno 2000...

E’ vero che, grazie alla boccata d’ossigeno dell’apertura dei mercati dell’Est, il capitalismo, alla scala mondiale, ma soprattutto negli Stati Uniti e in Europa occidentale, conobbe un periodo di espansione durato una decina d’anni; ma questa espansione terminò in una nuova crisi, completamente inattesa dagli economisti, chiamata la “bolla informatica” sui mercati finanziari (crisi dovuta in realtà ai primi effetti della recessione economica), e simbolicamente segnata dagli attentati dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle di New York: la crescita capitalistica sfocia sempre su crisi e su sanguinosi conflitti!

La ripresa economica che seguì fu dovuta soprattutto agli Stati Uniti, centro relativamente indebolito ma sempre dominante del capitalismo mondiale, mettendosi in moto su due binari: la ripresa economica del “complesso militar-industriale” (settore di primaria importanza negli Stati Uniti) generata dalla guerra in Afghanistan e poi in Iraq, e il ricorso in grande scala all’economia del credito. La crescita ripartì, dunque, dagli Stati Uniti e, di seguito, negli altri paesi.

Ma questa crescita del tutto drogata, e perciò anemica, terminò brutalmente con lo scoppio nel 2007-2008 di una nuova crisi economica, di intensità senza precedenti dopo quella degli anni Trenta del secolo passato, e le cui conseguenze non possono essere che di grande portata.

A conferma di quanto sostenuto dal Manifesto del 1848 di Marx ed Engels:

Nelle crisi scoppia una epidemia sociale che in tutte le epoche anteriori sarebbe apparsa un assurdo: l’epidemia della sovraproduzione. La società si trova all’improvviso ricondotta a uno stato di momentanea barbarie; sembra che una carestia, una guerra generale di sterminio le abbiano tagliato tutti i mezzi di sussistenza; l’industria, il commercio sembrano distrutti.

E perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio.

Le forze produttive che sono a sua disposizione non servono più a promuovere la civiltà borghese e i rapporti borghesi di proprietà; anzi sono divenute troppo potenti per quei rapporti e ne vengono ostacolate, e appena superano questo ostacolo mettono in disordine tutta la società borghese, mettono in pericolo l’esistenza della proprietà borghese. I rapporti borghesi sono divenuti troppo angusti per poter contenere la ricchezza da essi stessi prodotta.

Con quale mezzo la borghesia supera la crisi? Da un lato, con la distruzione coatta di una massa di forze produttive; dall’altro, con la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento più intenso dei vecchi.

Dunque, con quali mezzi? Mediante la preparazione di crisi più generali e più violente e la diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stesse” (1).

Questi trent’anni hanno visto

 

SUL PIANO ECONOMICO:

 

- una unificazione senza eguali del mercato mondiale con la scomparsa del “campo socialista” e l’apertura della Cina, così come misure meno spettacolari ma tuttavia importanti come l'unificazione dei mercati finanziari, gli sforzi costanti per ridurre le barriere commerciali fra i paesi e la “delocalizzazione” di parti significative degli apparati produttivi dei grandi paesi capitalisti in altri paesi detti "emergenti" o della periferia dell'imperialismo; chiamato “globalizzazione”, o “mondializzazione”, questo fenomeno ha suscitato nei diversi paesi l’opposizione dei settori economici più fragili, opposizione che ha alimentato, sul piano politico, tanto i movimenti detti “altermondialisti” quanto le correnti nazionaliste, e in particolare quelle di estrema destra;

- una tendenza opposta, oggi più debole, per mantenere e per ricostituire delle zone economiche protette: l’ “Europa” ne è l’esempio più riuscito, ma tendenze alla formazione di blocchi economici si ritrovano in tutti i continenti;

- l’indebolimento, in corso da lungo tempo, della potenza economica americana, a favore ora dei paesi detti “emergenti” (ma soprattutto della Cina che appare come il nuovo rivale potenziale degli Stati Uniti su questo piano, alla stregua del Giappone ieri), indebolimento che non scalza il suo predominio politico che appariva quasi assoluto dopo la scomparsa dell’URSS;

- un aggravamento costante, in generale, della concorrenza sul mercato mondiale e sui mercati nazionali sempre più intasati a causa di una sovraproduzione cronica.

 

SUL PIANO DEI RAPPORTI INTER-IMPERIALISTI E INTER-CAPITALISTI:

 

- la scomparsa dell’URSS e del suo “campo” ha significato la fine del condomio russo-americano sul mondo che, durante il periodo detto della “guerra fredda”, ha di fatto impedito che le incessanti guerre locali degenerassero in conflitto mondiale;

- dopo un primo momento di euforia per il crollo dell’URSS, gli Stati Uniti, la sola superpotenza rimasta, sembravano essersi convinti che, a dispetto della loro schiacciante superiorità militare, non avevano la forza di assumersi da soli il ruolo di gendarme del mondo. Ciò vuol dire che, non soltanto delle potenze locali o regionali avevano qualche possibilità in più di conquistare zone di influenza secondo le loro ambizioni (senza urtare le fonti di interessi vitali per gli Stati Uniti) e che i conflitti “locali” avevano più possibilità di scoppiare (compresa l’Europa), ma che questi conflitti, più difficili da controllare da un’unica centrale imperialista, avranno più possibilità di degenerare in guerre più ampie;

- una di queste zone di conflitti potenziali è costituita dai paesi dell’Est Europa che facevano parte del falso “campo socialista”, proprio per la debolezza dei nuovi Stati e dei forti appetiti delle diverse potenze imperialiste. L’interesse particolare della Russia, sminuita al rango umiliante di “nazione emergente” in seguito all’implosione dell’URSS, è dimostrato dalla continua ricerca di riconquistare un posto di primo piano corrispondente alle sue ambizioni imperialiste (e non soltanto regionali), mentre la Germania, dopo la riuscita digestione dell’ormai ex Germania Est, non potrà non rivendicare anch’essa un posto corrispondente ad una forza economica che non cessa di affermarsi in rapporto ai suoi rivali tradizionali (Francia e Gran Bretagna), ma anche rispetto agli Stati Uniti o alla Russia. La Comunità Europea e la zona dell’euro, sotto influenza tedesca, si sono consolidate durante questo periodo al punto da essere in qualche modo vittime del loro successo, mentre i candidati all’ “integrazione europea” non smettono di moltiplicarsi. Tuttavia, la crisi del 2007-2008 ha rivelato senza tema di smentita le contraddizioni interne e la precarietà di questa “unione” di Stati borghesi;

- un’altra “zona delle tempeste” è data – di nuovo! – dall’Asia. La potenza emergente della Cina si scontra con gli Stati più deboli (Filippine, VietNam ecc.), ma anche con il Giappone e gli Stati Uniti; e nel subcontinente indiano la rivalità fra India e Pakistan non cessa di inasprirsi dopo il ritiro dall’Afghanistan delle truppe USA e dei suoi alleati. In questa immensa regione si stanno creando, in realtà, i focolai di un eventuale avvio di una terza guerra mondiale;

- infine, nel corso di questi ultimi decenni, il Medio Oriente è rimasto una regione di permanenti guerre e conflitti dalle ripercussioni internazionali (anche se la Russia, erede dell’URSS, è stata praticamente soppiantata), a causa della posta in gioco dal punto di vista economico e strategico che essa rappresenta per le potenze imperialistiche: chi controlla il petrolio del Medio Oriente controlla la vita di una buona parte del capitalismo mondiale! D’altronde, il sostegno senza incrinature degli Stati Uniti e degli imperialismi occidentali alla politica coloniale israeliana ha impedito la soluzione della questione nazionale palestinese, senza peraltro risucire a spezzare la tenace resistenza delle masse palestinesi (a differenza della borghesia palestinese): questo è un fattore politico di cui devono sempre tener conto le borghesie della regione e non solo della regione.

 

SUL PIANO DELLA POLITICA PROLETARIA E DELLA LOTTA DI CLASSE:

 

-le lotte proletarie, talvolta di grande ampiezza, non sono mancate in questo periodo, ma, salvo qualche eccezione, esse non sono riuscite a portarsi al livello di una lotta autenticamente di classe e, ancor meno, di una lotta rivoluzionaria. L’ “inquadramento” politico e sindacale collaborazionista, benché sia più debole rispetto al periodo precedente, è riuscito comunque a controllare queste lotte senza che gli Stati borghesi, nei grandi paesi capitalisti, abbiano avuto bisogno di ricorrere sistematicamente alla repressione aperta. Queste lotte non sono riuscite, d’altra parte, nemmeno a permettere la costituzione di durature organizzazioni di classe, e ancor meno, la rinascita, anche se a piccola scala, del partito di classe internazionalista e internazionale;

-la fine delle lotte anticoloniali (o anti-apartheid ecc.), ad eccezione della Palestina, ha significato la scomparsa di un obiettivo di lotta nazional-rivoluzionaria comune a più classi (la lotta contro l’oppressione nazionale o razziale ecc.), e quindi la scomparsa di un fondamento oggettivo dell’interclassismo in questi paesi. Le forze borghesi (comprese le forze di “opposizione”) continuano e continueranno ad alimentare questo interclassismo (ad esempio pretendendo che la lotta per l’indipendenza nazionale o l’eguaglianza razziale non sia realmente terminata, o ricorrendo all’idelogia religiosa ecc.) al fine di opporsi all’indipendenza di classe del proletariato. Ma sono e saranno i fatti che mostrano e mostreranno sempre più il carattere menzognero della collaborazione fra le classi, aprendo oggettivamente la via alle possibilità di organizzazione classista del proletariato. L’esempio più chiaro è dato oggi dal Sudafrica.

-la caduta del falso “campo socialista” all’Est e la quasi scomparsa dei rimasugli del movimento staliniano, questo pilastro della contorirvoluzione, ha tolto oggettivamente un ostacolo di prima grandezza alla ricostituzione del movimento di classe proletario e del partito di classe internazionale: è più difficile oggi che non ieri di assimilare il comunismo all’oscena realtà dell’oppressione capitalistica che esisteva sotto quei regimi di falso socialismo. Ma nei paesi in questione il proletariato non ha ancora superato lo choc del brutale aggravamento delle sue condizioni nel periodo tormentato del “passaggio alla democrazia”, né è riuscito a liberarsi del gioco democratico (si veda il caso della Polonia dove non è rimasto nulla dello slancio proletario degli anni ’70 e ’80).

 

CONCLUSIONE: ANCORA TRENT’ANNI DI ATTESA?

 

E’ un azzardo fissare in anticipo date precise per la  realizzazione dei grandi svolti storici. Negli anni ’50, il nostro partito aveva stimato con Bordiga che l’apertura di un periodo rivoluzionario proletario era impossibile prima che scoppiasse una grande crisi economica internazionale all’uscita del periodo di forte espansione capitalistica, e la data approssimativa di questa crisi era stata indicata nel 1975. La crisi economica capitalistica internazionale ebbe effettivamente luogo in quell’anno, ma non sfociò in un periodo rivoluzionario, mentre vi è stato un rafforzamento del dominio capitalistico sul mondo. Alla fine degli anni ’90 noi abbiamo citato l’analisi di economisti americani che, sulla base di un calcolo dei cicli economici, davano il  2020 come la data possibile di un nuovo conflitto mondiale (l’imperialismo statunitense finanzia in permanenza questo genere di studi per tenersi pronto ad ogni eventualità).

Le previsioni degli economiste borghesi posseggono un carattere scientifico molto dubbioso; ma l’analisi e la previsione marxiste permettono di accertare che il capitalismo non potrà attendere ancora trent’anni prima che le sue contraddizioni interne prendano un andamento esplosivo. Tutte le crisi economiche che si sono succedute non hanno potuto essere superate se non preparando una crisi successiva ancora più profonda. La stessa cosa succede, e ad un grado ancor più acuto, alla crisi attuale: essa ha visto una vera e propria esplosione dei deficit di Stato e una contemporanea una valanga di “liquidità” per poter far “ripartire” – ansimando – la macchina economica, senza che i dirigenti capitalisti sappiano come riassorbirla prima ch’essa provochi una nuova crisi!

Il modo di produzione capitalista, come d’altra parte i modi di produzione precedenti, non affonderà da se stesso, senza insurrezioni degli oppressi, senza rivoluzioni; è lo stesso capitalismo che crea le basi materiali internazionali della rivoluzione. Ma, se questa rivoluzione internazionale non ha avuto ancora luogo o se si incaglia, il capitalismo potrà prolungare la sua esistenza per mezzo di una nuova guerra mondiale causando distruzioni così gigantesche da permettere il rilancio di un nuovo ciclo di ricostruzione e di espansione pluridecennale. La scadenza non è immediata; il capitalismo ha avuto la possibilità di impedire che la crisi del 2007-2008 divetasse una nuova crisi come quella degli anni Trenta con uno sbocco dopo pochi anni in una guerra mondiale. Questo “allontanamento” nel tempo, inoltre, preserva la possibilità storica della riapparizione sulla scena del proletariato prima dello scoppio di una nuova guerra generalizzata.

Sia quel che sia, la generazione attuale di militanti rivoluzionari comunisti ha negli anni avvenire la possibilità di realizzare il compito irrinunciabile di lottare per l’organizzazione di classe del proletariato, tanto sul piano della lotta di difesa e immediata quanto sul piano della lotta politica rivoluzionaria, ossia per il partito di classe, a livello nazionale e a livello internazionale, condizione, questa, indispensabile per affrontare, con probabilità di vittoria sul capitalismo, l’era delle tempeste che si avvicina.

 

QUALCHE TRATTO SALIENTE SUL PERIDO ATTUALE

 

Le considerazioni svolte finora, pur nella loro forma un po’ schematica, ci aiutano a tracciare i tratti salienti del periodo attuale apertosi con la crisi internazionale del 2007-2008.

Questa crisi, come abbiamo avuto modo di sottolineare in diversi articoli in questi anni, ha provocato e continua a provocare l’aggravamento delle contraddizioni capitalistiche e degli scontri di interessi fra gli Stati borghesi, mentre, nello stesso tempo, essa tende a mettere in discussione gli equilibri politici e sociali interni, soprattutto degli Stati più fragili.

Per quanto riguarda il primo aspetto, ossia gli equilibri fra gli Stati, si assiste alla moltiplicazione dei focolai di tensioni, anche all’interno di blocchi come l’Unione Europea, e talvolta a guerre dette “locali” ma che, in realtà, vedono l’implicazione dei differenti imperialismi internazionali (i vecchi imperialismi, come quello francese e inglese, confermano la loro aggressività tradizionale, che al governo vi siano partiti “di destra” o “di sinistra”). Questo nuovo disordine mondiale è destinato a durare e ad esasperarsi fin quando una nuova guerra mondiale non trovi una “ripartizione più stabile nel mondo”, oppure la rivoluzionae comunista internazionale non metta fine al capitalismo.

Per quel che concerne il secondo aspetto, ossia il lato sociale della crisi, a causa dell’aggravamento degli attacchi alle condizioni di esistenza proletarie, ma anche contro le masse lavoratrici in generale, per salvare i profitti capitalistici e restaurare le finanze pubbliche, la crisi attuale, più delle precedenti, ha generato e genera dei movimenti sociali in numerosi paesi:

 

1. All’inizio, nel 2007-2008, vi è un’ondata di agitazioni e di moti nei paesi dell’Africa occidentale (ma solo in Guinea queste agitazioni prendono un carattere nettamente operaio con lo sciopero generale che provocò la caduta del regime dittatoriale di Conté malgrado l’azione conciliatrice dei burocrati sindacali); nel 2009 la rivolta in Iran; nel 2011 l’ondata di rivolte nei paesi arabi conosciuta come la “primavera araba”. Nei grandi paesi capitalisti, nel 2011 inizia il movimento cosiddetto “degli Indignati” in Spagna che conosce dei seguiti negli Stati Uniti con il movimento “Occupy” e in altri paesi. Vi è stato poi il movimento della piazza Taksim in Turchia e recentemente i movimenti in Brasile in occasione dei mondiali di calcio, il movimento di piazza Maïdan in Ucraina ecc. Vi sono state, a ondate, lotte operaie dilagate in Asia (Bangladesh, Cambogia e in Cina), in Africa (in Sudafrica in particolare) ecc.

 

2. Questi movimenti hanno, evidentemente, caratteristiche e importanza diverse. Le rivolte nei paesi arabi non sono sfociate in vere rivoluzioni, nel senso marxista del termine, ossia nel rovesciamento della classe dominante, nell’instaurazione della dittatura proletaria e nell’avvio della trasformazione economica dal capitalismo verso il socialismo; vi è stato, piuttosto, il rovesciamento di regimi, o addirittura di clans, ma non certo del capitalismo né del dominio borghese; d’altronde non poteva essere diverso nello stadio di arretratezza del movimento proletario internazionale e di assenza di associazioni economiche classiste e di un influente partito di classe. Ma si può comunque osservare la differenza di carattere dei movimenti fra i paesi dove esisteva già una tradizione di lotta e di organizzazione operaia (Tunisia, Egitto) e paesi dove questa tradizione era ed è del tutto assente. In questi ultimi casi non solo le rivolte sono rapidamente cadute sotto la direzione di forze borghesi rivali tra di loro (talvolta dipendenti direttamente da questo o da quell’imperialismo), ma in generale han finito per essere indirizzate sotto il cappello religioso dell’islamismo, questa forma reazionaria dell’ideologia borghese in particolare nel Medio Oriente attuale: sono i casi soprattutto della Siria e della Libia. Al contrario, nei primi casi, le lotte operaie hanno giocato un ruolo alle volte centrale nell’evoluzione della situazione, dissipando in parte l’influenza islamista e lasciando aperta, a dispetto della vittoria attuale delle forze di conservazione borghese, la possibilità di uno sviluppo futuro della lotta di classe.

 

3. Altrove, i movimenti non hanno assunto questo aspetto insurrezionale, soprattutto in presenza di meccanismi di “ammortizzamento sociale” propri della democrazia borghese (esempio: l’Ucraina di Maïdan), perché le tensioni sociali e politiche erano molto meno forti. Inoltre, quei movimenti hanno avuto una natura più nettamente piccoloborghese. I proletari che vi hanno partecipato l’han fatto a titolo individuale, immersi nell’orientamento tipico piccoloborghese che vi regnava e i cui tratti essenziali erano: rifiuto della lotta fra le classi, interclassismo “popolare” e democratico”, pacifismo, rifiuto di tutto ciò che può evocare la rivoluzioone proletaria – dalle bandiere rosse alle sigle di partiti rivoluzionari o semplicemente “di sinistra” come in Spagna o in Brasile – nazionalismo, tolleranza verso le forze apertamente borghesi o di estra destra (Turchia, Ucraina) ecc.

Il fatto che gli strati piccoloborghesi si mobilitino in periodo di crisi, prima dei proletari, non deve sorprendere; non è un fenomeno nuovo. L’instabilità del loro status sociale li rende molto più sensibili alle scosse provocate dalle crisi, e la minaccia della loro proletarizzazione che aleggia su di loro li rende particolarmente suscettibili spingendoli a mobilitarsi in modo alle volte imponente o violento. Immaginando di difendere “l’interesse generale” del “popolo” e della “nazione”, cioè gli interessi e gli obiettivi che dovrebbero essere comuni a “tutti i cittadini”, eccezion fatta per un pugno di privilegiati (l’un per cento), questi movimenti sono, di fatto, condannati  ad essere sempre recuperati dalla classe dominante borghese, poiché è essa che incarna e difende l’interesse nazionale e generale del capitale. Soltanto una forza proletaria, indipendente di classe, potrà esse in grado di attirarne almeno una parte nei quadri della lotta risolutamente anticapitalistica.

 

4. Nei paesi capitalisti sviluppati, l’indebolimento delle organizzazioni politiche e degli apparati sindacali protagonisti della collaborazione di clase, non potrà che accentuarsi, nella misura in cui i capitalisti esigeranno dai loro valletti riformisti tradizionali la loro più stretta collaborazione per imporre ai proletari peggioramenti sempre più importanti delle loro condizioni di vita e di lavoro. L’indebolimento degli apparati sindacali, in particolare, consiste nel non dare loro, come in tempi di espansione economica, delle “contropartite” in termini di “garanzie” economiche e sociali da ripartire fra le diverse categorie del proletariato, trasformandoli in questo modo sempre più in “gendarmi in tuta” a difesa dell’economia nazionale e aziendale più che in “negoziatori” che ottengono dei risultati per i propri iscritti. Ma i capitalisti hanno, nello stesso tempo, l’esigenza di impedire ai proletari di sfuggire al controllo degli apparati della collaborazione fra le classi per organizzarsi in modo indipendente, e perciò sono interessati a rafforzare l’inclusione, già in essere dal secondo dopoguerra, delle organizzazioni operaie nelle istituzioni statali come parte importante della propria burocrazia.

Il degrado delle condizioni proletarie di vita e di lavoro, però, rende, prima o poi, più facile l’emergere di lotte dure (anche nella forma di moti o di vere e proprie “esplosioni sociali”) così come dei tentativi di organizzazione proletaria indipendente aprendo in questo modo uno spazio all’intervento dei militanti rivoluzionari. Bisogna però essere coscienti che le forze di conservazione borghese dispongono sempre di molteplici leve per controllare e sterilizzare le spinte di lotta proletaria (ricorso all’ideologia pacifista, legalitaria e democratica, al ruolo lasciato ai “nuovi riformisti” di “estrema sinistra”, alle organizzazioni sociali della chiesa, passando attraverso le innumerevoli associazioni e istituzioni messe in piedi e finanziate per creare “legami sociali”, cioè per legare il proletariato all’ordine costituito), senza dimenticare il ricorso alla repressione padronale o poliziesca.

 

5. Una delle armi tradizionali più efficaci della borghesia per controllare il “fronte sociale” e paralizzare la classe operaia, è la divisione fra i lavoratori salariati, aumentando la concorrenza fra di loro – divisione che è la conseguenza “naturale” del modo di produzione capitalistico nel quale la concorrenza generalizzata, la lotta di tutti contro tutti, è la regola. Questa divisione è continuamente alimentata dalla frammentazione del proletariato in mille strati e categorie (compresi gli strati “privilegiati” che costituiscono una “aristocrazia operaia” che forma la base sociale del riformismo e del collaborazionismo fra le classi) seguendo criteri di età, sesso, nazionalità ecc. Essa prende un’acutezza particolare nell’opporre i lavoratori autoctoni agli immigrati e nel relegare una parte considerevole di questi ultimi in situazioni d’eccezione: “sans-papiers”, “clandestini”, lavoratori messi in uno stato di completa soggezione, sottoposti senza limitazioni a subire ogni tipo di sopruso, e minacciati costantemente di espulsione. In periodo di crisi e di guerra economica questa divisione è esasperata dalla propaganda sciovinista e razzista che inneggia al “patriottismo economico” attraverso campagne di mobilitazione anche dei lavoratori per la difesa dell’economia nazionale, regionale o locale, portate avanti dalle forze politiche di destra ma anche, magari mimetizzate da parole generali, come “diritti” e “doveri”, da forze politiche di sinistra. Queste campagne servono in tempo di pace a far accettare dai lavoratori sacrifici sui salari, sulle condizioni di lavoro, sui rischi e sul mantenimento o meno del posto di lavoro, preparandoli al tempo di guerra quando i sacrifici richiesti, e imposti, riguardano la loro vita offerta ad una “patria” che non è mai stata, mai lo è a mai lo sarà, loro.

 

IL COMPITO FONDAMENTALE DEI RIVOLUZIONARI

 

Da quanto detto finora derivano gli orientamenti per i militanti e i proletari d’avanguardia rivoluzionaria, determinati a lottare contro il capitalismo, che possiamo riassumere in questo modo: il compito fondamentale è di operare in ogni circostanza per l’indipendenza di classe del proletariato. Questo vale sia nei paesi capitalisti sviluppati e imperialisti, sia nei paesi della periferia dell’imperialismo.

Ciò significa che nei movimenti di sciopero, nei movimenti più ampi o nelle rivolte in cui i militanti e i proletari d’avanguardia rivoluzionaria partecipano, devono sforzarsi per quanto possibile di mettere sempre l’accento sugli interessi di classe proletari, indirizzando i proletari a raggrupparsi su questa base. Questo implica una lotta politica contro le tendenze piccoloborghesi che sono oggi maggioritarie e le correnti dirigenti che sono alla testa di questi movimenti e che fanno di tutto per impedire l’affermazione e la costituzione di associazioni di classe. Come bisogna, ad esempio, denunciare gli appelli corporativi alla “difesa” dell’azienda nel “proprio paese” contro la sua “delocalizzazione” o alla difesa del “made in Italy”, “made in France” ecc. contro il “made” di qualsiasi altro paese –  e opporsi alla partecipazione alla guerra di concorrenza borghese – così bisogna denunciare gli appelli alla “unione del popolo”, alla difesa dell’economia nazionale o della “sovranità nazionale”e criticare senza esitazioni le organizzazioni che opportunisticamente sostengono i partiti borghesi o piccolo borghesi d’opposizione, e che riprendono gli orientamenti interclassisti nazionalisti e fissano solo obiettivi strettamente borghesi. Bisogna orientare e sostenere le lotte operaie che in pratica spezzino l’unione interclassista, negli scioperi limitati e parziali come nei movimenti di sciopero, di protesta o di rivolta più ampi. In breve, i militanti e i proletari d’avanguardia rivoluzionaria sono tenuti a contribuire alla lotta e all’organizzazione per la difesa esclusiva degli interessi proletari in ogni paese.

L’indipendenza di classe del proletariato è ferocemente combattuta dalle correnti borghesi e piccoloborghesi “democratiche” con l’argomento secondo il quale quell’indipendenza spezzerebbe l’unione necessaria fra le diverse classi per ottenere risultati concreti in materia di “democratizzazione” dello Stato, di conquista e difesa delle libertà pubbliche e dei diritti sociali. Miti, questi, che nascondono la realtà della dittatura borghese e capitalistica sulla società. In realtà, i borghesi e i piccoloborghesi vogliono semplicemente che i proletari non lottino che per gli interessi borghesi e piccoloborghesi e si astengano dal lottare per i loro propri interessi!

Gli interessi borghesi e piccoloborghesi possono benissimo prevedere di “riformare” il capitalismo e il suo Stato; la politica sociale della chiesa di Roma chiede in pratica la stessa cosa. Ma gli interessi di classe del proletariato non si fermano alla tale o tal altra riforma che storicamente ha potuto e può contribuire, in certi paesi e in determinate situazioni, a sviluppare la lotta proletaria di classe, bensì puntano a rovesciare il capitalismo. La lotta di classe del proletariato è inserita nella prospettiva storica del rovesciamento del capitalismo, dunque nella lotta per la conquista del potere politico e l’instaurazione della dittatura proletaria al posto della dittatura borghese, una prospettiva storica che non può essere che internazionale.

L’interesse massimo della classe proletaria di ogni paese è di finirla una volta per tutte con lo sfruttamento del lavoro salariato da parte del capitale, dunque con lo sfruttamento da parte della borghesia della forza lavoro salariata, cioè della classe del proletariato; finchè sopravvivrà il capitalismo sopravvivrà la classe borghese e, quindi, lo sfruttamento del lavoro salariato. La classe proletaria per emanciparsi dallo sfruttamento da parte della borghesia deve procedere in modo inverso: lottare contro la classe borghese per distruggere i mezzi con cui domina la società, innanzitutto lo Stato che ne difende gli interessi generali e particolari con le leggi e con la forza militare; ma questo risultato la classe proletaria non lo potrà mai raggiungere fino a quando non si sarà resa completamente indipendente dagli interessi borghesi che si mimetizzano sotto le forme della “patria”, del “popolo”, della “nazione”, dello “Stato” e delle sue “leggi”: nulla di questo è al di sopra delle classi, nulla è neutro, nulla è di comune interesse fra borghesi e proletari.

Anche per le stesse riforme o concessioni, del tutto parziali, certo, ma utili a migliorare le condizioni immediate di esistenza proletarie, che il potere borghese può concedere, sono in effetti conquistabili solo con la lotta di classe del proletariato, come la storia ha dimostrato ampiamente; esse, d’altra parte, non sono mai date una volta per tutte poiché sono oggetto costante di una lotta che la borghesia fa contro il proletariato per limitarle, ridurle, ritirarle, cancellarle a seconda del rapporto di forza esistente tra le due classi e delle esigenze di sopravvivenza del regime borghese. Ma è certo che i movimenti interclassisti, anche se si mobilitano sul terreno della protesta violenta, proprio per la loro caratteristica di essere parte integrante della conservazione sociale, non avranno mai la forza di “costringere” la classe dominante borghese a rinunciare al suo compito di gestire il potere secondo i criteri dittatoriali che la fase imperialista dello sviluppo capitalistico impone. L’unica forza sociale in grado di tener testa, affrontare e mettere fine alla dittatura borghese (mimetizzata sotto le vesti della democrazia o apertamente dichiarata) è la classe proletaria, ma alla condizione di essere del tutto indipendente dagli interessi e dagli apparti della borghesia.

L’indipendenza, l’organizzazione e la lotta di classe del proletariato sono obiettivi del tutto comprensibili da parte di ogni proletario che si preoccupa di difendere i suoi interessi vitali contro i padroni e il loro Stato, al di là delle idee politiche, filosofiche o religiose che si porta in testa. Ma la lotta per questi obiettivi necessita la presenza di chiare e definite posizioni politiche e programmatiche se si vogliono respingere tutti i falsi orientamenti presentati dalle più diverse correnti politiche, ed evitare le trappole tese da ogni avversario, aperto o nascosto, della lotta proletaria di classe.

In altre parole, indipendenza, organizzazione e lotta di classe necessitano che i militanti rivoluzionari, decisi a lavorare per questi obiettivi e pronti ad assumersi il compito di organizzare e orientare i loro compagni di classe, siano essi stessi organizzati su basi politiche e programmatiche di classe ben precise e definite, cioè siano organizzati in partito politico, anche se ancora in uno stato embrionale come storicamente non può essere diverso nel periodo attuale. Il partito di classe è necessario non soltanto per centralizzare e dirigere la lotta proletaria nel periodo dell’assalto rivoluzionario, ma anche nel periodo precedente nel quale si tratta di riorganizzare il proletariato con mezzi e metodi classisti nella lotta sul terreno immediato come su quello politico più generale. Se si dovesse attendere l’apertura del periodo rivoluzionario per costituire il partito di classe, sarebbe troppo tardi: esso non avrebbe né il tempo né la forza di conquistare un’influenza decisiva nella massa del proletariato dal quale farsi riconoscere come l’unica guida per la sua lotta rivoluzionaria e per la conquista del potere politico. Il partito deve prepararsi e costituirsi prima, in maniera non volontarista, ma in collegamento con lo sviluppo reale del movimento proletario, attraverso lotte politiche, teoriche, programmatiche ma anche pratiche, per restaurare, assimilare, difendere, spiegare e diffondere il “marxismo non adulterato” (secondo l’espressione di Lenin); dunque, prepararsi e costituirsi non solo sul terreno delle idee, della “lotta ideologica”, ma anche sul terreno “pratico”, al fuoco delle lotte sociali. E’ solo nella misura in cui il partito è riuscito preventivamente a chiarire tutte le questioni politiche importanti e che non si disorienta di fronte alle questioni brucianti che il periodo rivoluzionario pone inevitabilmente e, quindi che non disorienti coloro che lo seguono (perché allora, disorientarsi, sbagliarsi è tradire, come diceva Blanqui), è nella misura in cui esso ha potuto conquistare preventivamente un’influenza (inevitabilmente limitata) presso almeno qualche settore decisivo del proletariato, che il partito affronta il periodo rivoluzionario con le migliori possibilità di arrivare a dirigere la lotta proletaria nel suo complesso e orientarla verso la vittoria.

In definitiva, il compito essenziale per i militanti rivoluzionari di tutti i paesi, il compito che sintetizza al più alto punto la lotta per l’indipendenza di classe del proletariato, è di contribuire al lavoro di costituzione e ricostituzione dell’organo supremo della lotta rivoluzionaria, il partito di classe internazionale, sulle basi non “revisionate”, non “arricchite” del marxismo integrale. Su questa strada, la corrente della Sinistra comunista d’Italia ha storicamente ereditato il compito che si era assunto il partito bolscevico di Lenin, ossia il compito di costituire il partito comunista a livello internazionale sulle basi del marxismo non adulterato. Dopo la devastante degenerazione dell’Internazionale Comunista e del partito bolscevico negli anni in cui vinse la controrivoluzione staliniana, e dopo la partecipazione alla seconda guerra mondiale dei proletariati di tutti i paesi a fianco, ognuno, della propria borghesia nazionale, a difesa quindi degli interessi esclusivamente borghesi e capitalistici, il movimento comunista internazionale si ridusse a poche decine di militanti rivoluzionari tenacemente avvinti alla tradizione autenticamente marxista e, tra questi, si distinsero i compagni della Sinistra comunista d’Italia, rappresentata nel modo più coerente col marxismo da Amadeo Bordiga; essi ebbero la forza di lavorare al necessario bilancio della rivoluzione russa e del movimento comunista internazionale da cui trarre tutte le indispensabili lezioni (delle rivoluzioni e, ancor più, delle controrivoluzioni) al fine di restaurare le basi marxiste su cui ricostituire, come fece a suo tempo Lenin, il partito di classe, il partito comunista internazionale. Oggi, certo embrionalmente, noi rappresentiamo questo lavoro e siamo convinti fermamente che sulla rotta segnata dalla corrente della Sinistra comunista d’Italia – che non differisce sostanzialmente da quella seguita da Lenin e dal partito bolscevico fino al 2° congresso dell’Internazionale Comunista – e dalla sua opera di restaurazione della teoria marxista e delle linee politiche e tattiche fondamentali, e solo su questa rotta, è possibile ricostituire il partito forte e compatto di domani.

 


 

1) Cfr. Marx-Engels, il Manifesto del partito comunista, Ed. Einuadi, Torino 1962, pp. 107-108.

 

 

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