I proletari di ogni paese devono rimettere al centro della loro lotta esclusivamente le condizioni della loro esistenza e gli interessi della loro classe che vanno oltre il quadro dei rapporti di produzione e di proprietà borghesi e che coinvolgono l'intero genere umano

(«il comunista»; N° 138;  Aprile 2015)

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Proletari di tutti i paesi unitevi!

 

Questa non è una preghiera lanciata al mondo da un “ministro di dio in terra”, non è una frase incitante la comunanza solidale rivolta a fedeli che cercano nella religione un’evasione spirituale dalle sofferenze e atrocità vissute nella realtà sociale, non è un’aspirazione ad unire gli animi della povera gente affinché si senta meno sola e meno abbandonata ad un crudele destino; e non è di certo l’invito alla solidarietà interclassista, alla collaborazione tra le classi per rimediare allo sfruttamento bestiale al quale è sottoposta la classe dei proletari in tutto il mondo. Questa non è una preghiera lanciata al mondo da un “ministro di dio in terra”, non è una frase incitante la comunanza solidale rivolta a fedeli che cercano nella religione un’evasione spirituale dalle sofferenze e atrocità vissute nella realtà sociale, non è un’aspirazione ad unire gli animi della povera gente affinché si senta meno sola e meno abbandonata ad un crudele destino; e non è di certo l’invito alla solidarietà interclassista, alla collaborazione tra le classi per rimediare allo sfruttamento bestiale al quale è sottoposta la classe dei proletari in tutto il mondo.

E’ un grido di guerra, della guerra che la classe dei proletari sono storicamente costretti a fare se vogliono finalmente perdere le catene del lavoro salariato con cui la società capitalistica, da quando esiste, li schiavizza generazione dopo generazione. E’ la frase con cui Marx ed Engels concludono il Manifesto del partito comunista, scritto per la Associazione Internazionale dei Lavoratori, di fatto la Prima Internazionale dei lavoratori salariati. Il Manifesto che, dal 1848, contiene sì l’analisi storica e materialistica della formazione della società moderna borghese, documentando lo straordinario progresso economico sociale e politico della società umana rispetto a tutte le società di classe precedenti, ma, nello stesso tempo, costituisce la sintesi della prospettiva storica della società borghese e capitalistica verso la sua inevitabile fine per mano di quelle stesse forze sociali di produzione che il suo modo di produzione ha formato e ingigantito in modo impressionante, e che le forme di produzione e di proprietà borghesi costringono a svilupparsi solo al fine di valorizzare il capitale andando sempre più contro le esigenze e gli interessi della specie umana e del suo sviluppo armonico in un ambiente naturale conosciuto e rispettato. Il Manifesto, dal 1848, sintesi formidabile della teoria marxista dello sviluppo sociale umano, ha lanciato alla classe dominante borghese la sfida storica dell’unica classe sociale, il proletariato  moderno, la classe dei lavoratori salariati, che ha il compito non solo di combattere contro le sempre più diffuse condizioni di oppressione sociale in tutti i paesi del mondo, ma di farsi carico della rivoluzione sociale più decisiva della storia della specie umana: la rivoluzione che porterà la specie umana dalla preistoria delle società divise in classi antagoniste alla storia della società senza classi, alla società comunista in cui tutte le attività umane saranno indirizzate a soddisfare in modo armonico le esigenze di vita della specie. L’armonia sociale - tanto idealizzata nel motto della rivoluzione borghese (fraternité, egalité, liberté) e mai attuata perché la società borghese è una società divisa in classi contrapposte, e perché tra  la classe dominante, che sfrutta e opprime le altre classi ad esclusivo proprio beneficio, e le classi sottostanti non vi potrà mai essere uguaglianza e fraternità, meno che meno la libertà per tutti - potrà essere un risultato reale solo in una società senza classi, senza antagonismi sociali: appunto, nella società di specie che noi chiamiamo comunismo, una società nella quale ogni essere umano darà, alla società razionalmente e internazionalmente organizzata, secondo le proprie capacità e riceverà secondo le proprie necessità. L’oppressione di classe scomparirà con la scomparsa delle classi, e con essa ogni diseguaglianza sociale determinata da un modo di produzione - quello capitalistico - che mette al centro esclusivamente le esigenze del capitale e del mercato, e che viene imposta dalla classe borghese che di quel modo di produzione è la rappresentante e garante attraverso la forza dello Stato che difende e garantisce, con  le armi e con le leggi, l’appropriazione privata dell’intera ricchezza economica e sociale prodotta dal lavoro umano. La classe dei borghesi, dopo essere stata classe rivoluzionaria rispetto alle classi delle vecchie società feudali, doveva inevitabilmente trasformarsi in classe conservatrice e reazionaria, spaventata - come l’apprendista stregone - dal giganteggiare delle forze produttive che essa stessa ha “liberato” dai vincoli economici e sociali precedenti e che non riesce a dominare e, nello stesso tempo, terrorizzata dalla classe proletaria, sfruttata senza scrupoli fino alla sua ultima energia vitale, quando essa, reagendo con tutta la sua forza di classe, si erge a combattere fino alla morte non per gli interessi borghesi mimetizzati da “interessi generali” e “nazionali”, ma per i propri interessi di classe che si proiettano, storicamente e internazionalmente, nella distruzione dell’ultima società divisa in classi, la società capitalistica.

 

Proletari, moderni schiavi salariati

 

La divisione internazionale del lavoro basata sul dominio del capitale sulla società e sullo sfruttamento del lavoro salariato, si è ampliata nel mondo imprigionando tutte le classi lavoratrici nei medesimi rapporti di produzione e sociali, che corrispondono alle condizioni di una moderna schiavitù, quella del lavoro salariato.  

La condizione di lavoratore salariato - dunque di colui che possiede esclusivamente la forza lavoro che i capitalisti, i possidenti, padroni di tutto, utilizzano e sfruttano ad esclusivo proprio beneficio in un ordinamento sociale basato sul modo di produzione capitalistico - permette alla maggioranza dei lavoratori di vivere solo se il capitale, impiegato per farli lavorare, sarà valorizzato, cioè se il suo valore iniziale aumenterà grazie all’impiego della forza lavoro umana. Tale valorizzazione si realizza attraverso la produzione di merci e la loro trasformazione in denaro per mezzo degli scambi che avvengono nel mercato; più merci si producono, più merci si scambiano e si vendono nel mercato in una lotta di concorrenza continua, e più si valorizza il capitale investito per produrle, distribuirle, commerciarle, consumarle.   

La forza lavoro del proletario da applicare alla produzione, alla sua distribuzione, alla sua commercializzazione e al suo consumo, è necessaria perché è dal suo sfruttamento giornaliero che il capitalista trae il suo guadagno. Questo guadagno, che i capitalisti chiamano profitto, e che noi chiamiamo più precisamente plusvalore, corrisponde in realtà, giorno dopo giorno, ad una quota di ore di lavoro non pagate al lavoratore salariato. Non è un caso che il motto che sta più a cuore ai borghesi sia: il tempo è denaro. Meno tempo si impiega a fabbricare un oggetto, più possibilità si hanno di battere la concorrenza di altri capitalisti che producono lo stesso oggetto, ma impiegando un tempo superiore. Ogni oggetto prodotto ha un tempo di lavorazione; ogni lavoratore salariato impiegato per produrre quell’oggetto ha anch’esso un tempo definito in anticipo di lavorazione (dipendendo questo tempo dai macchinari usati, dalle materie prime usate, dai metodi di lavorazione, dalla quantità di passaggi intermedi prima di avere l’oggetto finito ecc. ecc.). Il lavoratore salariato viene pagato come una qualsiasi merce acquistata nel mercato, ma il lavoratore salariato, a differenza di qualsiasi altra merce, interviene nel processo di produzione con un elemento che nessun’altra merce possiede: la forza lavoro, ossia la capacità fisica, rinnovabile ogni giorno, di essere applicata alla trasformazione di materie prime o comunque di oggetti da trasformare in altri oggetti. Tale capacità di lavoro, sottoposta allo sfruttamento capitalistico grazie ai rapporti di forza favorevoli alla borghesia rispetto al proletariato - tra “datori di lavoro” e “forza lavoro disponibile” -, è pagata, come qualsiasi altra merce, in denaro, con un salario che tendenzialmente corrisponde a ciò che serve alla sopravvivenza quotidiana del lavoratore e a ricostituire la sua forza lavoro in modo da essere impiegata - quindi sfruttata dal capitalista - ogni giorno a seguire e fino a quando serve al capitalista. Se il proletario viene pagato meno del costo medio quotidiano della vita, il capitalista sicuramente risparmia e, quindi, ci guadagna; se poi lo fa lavorare più ore, e più intensamente ogni ora, ci guadagna ancor più perché aumenta la produzione nel singolo giorno; ma oltre un certo limite il capitalista non riesce a sfruttare i lavoratori, sia per i loro limiti fisici, sia per la resistenza che essi oppongono ad un supersfruttamento giornaliero. Resta il fatto, però, e questa è la scoperta del marxismo gettata in faccia a tutti i borghesi - capitalisti o servitori dei capitalisti che siano -, che il vero guadagno del capitalista comincia nel tempo di lavoro non pagato.

Tutto ciò che serve per la sopravvivenza quotidiana del lavoratore salariato, dai generi di prima necessità al vestiario ad un tetto sotto cui ripararsi, e per ricostituire le sue forze così da poter essere sfruttate giorno dopo giorno, corriponde ad un certo numero di ore di lavoro che, con lo sviluppo delle tecniche di produzione e dei metodi organizzativi di produzione e distribuzione, tendono a diminuire, mentre i rapporti di forza tra la classe borghese dominante e la classe dei lavoratori salariati determinano il numero di ore di lavoro giornaliere che il proletario deve dare al capitalista per ottenere in cambio il salario che gli consenta, appunto, di sopravvivere. Fino a quando i rapporti di forza sono a favore della classe dominante dei capitalisti, le ore di lavoro giornaliere necessarie per avere in cambio un salario sono molte di più di quelle che corrispondono al valore di mercato dei generi di sussistenza del lavoratore salariato, e tendono ad aumentare, o il salario (che, in quanto denaro, ha un “potere d’acquisto” sempre variabile dipendendo quest’ultimo dalle oscillazioni dei prezzi di mercato delle merci), al di là delle ore effettivamente lavorate, tende a diminuire. Per frenare questo andamento tendenziale i lavoratori salariati si sono associati in organizzazioni di difesa  delle condizioni economiche di vita, resistendo alla continua pressione dei capitalisti e dell’intera loro società, e lottando duramente anche solo per ottenere un modesto miglioramento di quelle condizioni, sia in termini di un minor numero di ore di lavoro quotidiane, sia in termini di minore intensità e ritmi di lavoro, sia in termini di aumento del salario.  

La lotta fra classe proletaria e classe borghese nasce già dal cuore del modo di produzione - nel rapporto di sfruttamento giornaliero della forza lavoro impiegata a produrre solo ed esclusivamente merci, solo ed esclusivamente per il mercato, solo ed esclusivamente per il profitto capitalistico. Questa lotta, da entrambe le parti, inizia inevitalmente dalle condizioni economiche di base: i capitalisti lottano contro i proletari per costringerli a farsi sfruttare di più, piegandoli alle esigenze oscillanti della produzione per il mercato, al fine di ottenere un profitto sicuro e più alto possibile; i proletari lottano contro i capitalisti per farsi sfruttare di meno e per ottenere condizioni di lavoro e di esistenza più sopportabili. Già da questo livello di scontro è evidente che gli interessi di classe non sono “comuni” bensì antagonisti. E più si sviluppa il progresso tecnico della produzione industriale, e più i rapporti sociali si complicano in virtù delle sempre diverse e crescenti esigenze di controllo sociale da parte della classe dominante borghese in ogni paese, e soprattutto nei paesi capitalisticamente più sviluppati, più il proletariato viene schiacciato nelle condizioni di moderno schiavo salariato, nei periodi di espansione economica come nei periodi di crisi.

 

Le crisi economiche del capitalismo sono inevitabili

 

Le tecniche di controllo sociale che le classi dominanti borghesi adottano e che permettono loro di mantenere il potere saldamente in mano, nonostante esse rappresentino la minoranza assoluta della popolazione in ogni paese, si basano sul dominio economico nella società e sul dominio politico esercitato, in ogni paese, attraverso lo Stato e le sue forze armate. Ma la classe borghese, per quanto sia potente dal punto di vista economico e politico, ha dimostrato storicamente di non avere la forza di risolvere le crisi del suo sistema economico, crisi che rigettano la società ogni volta nelle condizioni di “momentanea barbarie” - come afferma il Manifesto di Marx ed Engels - come se “una carestia, una guerra generale di sterminio le abbiano tagliato tutti i mezzi di sussitenza; l’industria, il commercio sembrano distrutti”. L’ultima crisi generale in ordine di tempo, esplosa nel 2008 e ancora in essere dopo 7 anni abbondanti, ne è una conferma ulteriore.

Il fatto è che le crisi mettono in evidenza sempre più come le condizioni di sopravvivenza della stragrande maggioranza della popolazione mondiale diventino sempre più precarie, incerte, facendo precipitare masse sempre più vaste nella fame, nella disoccupazione, nell’emarginazione, nella disperazione. I proletari, la classe del lavoratori salariati, dei produttori di ricchezza, sono in realtà coloro che non hanno alcun beneficio dallo sviluppo economico e sociale del capitalismo, poiché questa società, (ancora il Manifesto del 1848) che possiede troppa civiltà, ossia troppe merci, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio rispetto al mercato e alla possibilità di convertire tutto questo in un progressivo aumento della valorizzazione del capitale, in realtà non è in grado di destinare la sua civiltà, fatta solo di merci, alla soddisfazione dei bisogni di vita della stragrande maggioranza della popolazione mondiale. E’ però vero che la borghesia  ha superato finora le crisi della sua società, e si prepara a superare anche l’ultima in ordine di tempo. Con quali mezzi? Oggi, 2015, come ieri, 1939 o come l’altro ieri, 1914, o come più di un secolo e mezzo fa, 1848, epoca del Manifesto di Marx  ed Engels, “da un lato, con la distruzione coatta di una massa di forze produttive; dall’altro, con la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento più intenso dei vecchi”, dunque con “la preparazione di crisi più generali e più violente e la diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stesse”!  

Basta dare una scorsa a quel che succede in ogni paese da tempo per accorgersi che la classe borghese è ancora la classe dominante sulla società non in virtù di un progresso economico e sociale diffuso su tutte le classi sociali, ma in virtù del potere politico e militare per mezzo del quale difende i suoi privilegi contro tutte le altre classi sociali esistenti e, principalmente, contro la classe proletaria dal cui sfruttamento sempre più intenso trae il suo profitto. La classe borghese non è più in grado, da molto tempo in verità, di assicurare l’esistenza alla classe dei lavoratori salariati,anzi  è costretta a lasciarla sprofondare sempre più al di sotto delle condizioni della sua propria classe, a lasciarla sprofondare  in una situazione nella quale, invece di essere da questa nutrita essa è costretta a nutrirla. L’operaio, il proletario, il senza riserve, diventa sempre più povero, e il pauperismo si sviluppa anche più rapidamente che la popolazione e la ricchezza.       

Dunque qual è il futuro che la classe borghese assicura alla classe dei proletari? Fraternité, egalité, liberté? Non era in grado di assicurarlo quando la borghesia era classe rivoluzionaria, non è e non sarà, tanto meno, in grado di assicurarlo oggi che è diventata una classe conservatrice e reazionaria, ma sempre dominante, sempre col potere politico saldamente in mano; le masse proletarie vivono sempre più in condizioni miserabili e sono sottoposte continuamente ora in un paese ora in un altro, ora in un’aerea più vasta che comprende più paesi, a condizioni di miseria o di guerra da cui sembra non possano mai uscire. E’ questo il futuro che la borghesia assicura alle masse proletarie di tutto il mondo!

I proletari di tutti i paesi, e in particolare dei paesi più sviluppati economicamente, avrebbero potenzialmente la possibilità di levarsi contro le rispettive borghesie dominanti - che, oltre a schiacciarli in patria, sono variamente coalizzate nello schiacciare interi popoli nelle vaste aree periferiche dell’imperialismo - con una forza sociale che lo stesso sviluppo del capitalismo ha creato. “Il proletariato, con lo sviluppo dell’industria, non solo si moltiplica, viene addensato in masse più grandi, la sua forza cresce, ed esso la sente di più. Gli interessi, le condizioni di esistenza all’interno del proletariato si vanno sempre più eguagliando man mano che le macchine cancellano le differenze del lavoro e fanno discendere quasi dappertutto il salario a un livello egualmente basso”, sottolinea il Manifesto del 1848. Da allora le condizioni di esistenza dei proletari sono migliorate? No, si sono semplicemente allargate a molti più paesi che hanno conosciuto lo sviluppo capitalistico nelle forme sempre più violente e contraddittorie, come nell’ Est Europa, in Russia, in Cina, in India, in Africa, nel Sud America e nel Medio ed Estremo Oriente. La lotta del proletariato contro le classi borghesi non è tramontata; semmai, lo sviluppo del capitalismo a livello mondiale ha confermato che questa lotta, per avere successo, deve e dovrà volgere le proprie forze contro la classe borghese dominante, in ogni paese, in modo indipendente, organizzato e sotto la guida politica del partito di classe che ne rappresenta lo sbocco storico futuro.

 

Dal glorioso passato rivoluzionario del proletariato anche le classi borghesi hanno tratto lezioni utili al loro dominio politico e sociale

 

Nel corso dello sviluppo della lotta fra le classi, il proletariato ha accumulato esperienze rivoluzionarie che hanno segnato degli apici di grandissimo valore. Con la Comune di Parigi del 1871, il proletariato ha dimostrato praticamente che la rivoluzione antiborghese e anticapitalistica non può che sfociare nella dittatura di classe del proletariato, unica forma di potere in grado di intervenire drasticamente sui rapporti borghesi di proprietà e di produzione. Con la rivoluzione d’Ottobre in Russia nel 1917, il proletariato ha dimostrato che la dittatura di classe, per avere successo, deve essere esercitata unicamente dal partito di classe, all’epoca, in Russia, il partito bolscevico di Lenin, e che il suo orizzonte non poteva e non doveva essere ristretto ai confini “nazionali”, sebbene i compiti rivoluzionari nella Russia arretrata fossero nello stesso tempo borghesi e proletari, ma doveva essere fin dall’inizio internazionale, trasformando così il grido di guerra del Manifesto del 1848, Proletari di tutti i paesi unitevi, in una realtà  concreta e combattente come lo fu nei primissimi anni l’Internazionale Comunista.

Sono queste esperienze rivoluzionarie di segno esclusivamente proletario, legate alle innumerevoli lotte di “resistenza quotidiana al capitale” e di “difesa delle condizioni di esistenza proletarie”, che formano un patrimonio storico vivo della classe proletaria mondiale a livello di lezioni tratte e da trarre e a livello di risultati effettivamente raggiunti. Ma sono, nello stesso tempo, e indirettamente, esperienze dalle quali anche le classi borghesi hanno tratto lezioni, utili per affinare i loro metodi di dominio e di governo. Non per nulla, in tutti i paesi, sviluppati soprattutto, le classi borghesi hanno sostenuto e foraggiato - con risorse economiche e con leggi adeguate - una miriade di forze politiche e sociali (non ultime le forze religiose) il cui scopo principale era ed è quello di deviare le spinte di lotta dei proletari dal campo degli interessi esclusivamente proletari e dal campo dell’organizzazione indipendente di classe della loro lotta, al campo del più spudorato interclassismo, della commistione degli interessi immediati proletari con gli interessi sia particolari che generali di conservazione borghese. Il vecchio riformismo del socialpacifismo e del gradualismo socialdemocratico è stato sostituito da impostazioni teoriche e politiche opportuniste più adeguate ai tempi che maturavano, soprattutto dopo che la rivoluzione proletaria russa dell’Ottobre 1917, e il movimento proletario in Europa da essa influenzato, avevano fatto sorgere nelle classi borghesi dominanti un sacro terrore della “marea rossa”. Si sono così formati gruppi opportunisti di vario genere, ma soprattutto, si è formata una corrente opportunista che ha sopravanzato tutte le altre: lo stalinismo, corrente che sintetizzava le grandi correnti opportuniste precedenti e che, in più, si prendeva in carico la falsificazione totale della teoria marxista, trasformandola da teoria rivoluzionaria, proletaria, internazionale e internazionalista, in teoria pacifista, nazionalista e borghese continuando ad utilizzare parole dal sapore marxista ma stravolgendone sistematicamente il senso.

  

Opportunismo, idra dalle molte teste

 

Potrà mai il proletariato, dato il suo tragico ripiegamento su posizioni pacifiste,  interclassiste, conservatrici e nazionaliste, scrollarsi di dosso queste spesse incrostazioni che confondono e annebbiano completamente non solo i suoi obiettivi di classe storici, ma perfino i suoi interessi immediati più elementari?

Coloro che pensano che i proletari potranno riprendere la loro lotta sul terreno di classe solo dopo aver “preso coscienza” dei loro obiettivi più generali e storici, non saranno mai utili alla lotta di classe e alla rivoluzione; con il loro “culturalismo”, tipica versione intellettualistica dell’ideologia borghese, assolutamente inconsistente e deviante, andranno ad aggiungersi inevitabilmente agli opportunisti di tante altre correnti.

Coloro che pensano che i proletari potranno riprendere la loro lotta sul terreno di classe facendo a meno del partito di classe e poggiandosi soltanto su organizzazioni di base “antipartito”, ma pretese “rivoluzionarie”, saranno altrettanto inutili e, anzi, dannosi, per la lotta di classe e per la rivoluzione. Essi non comprendono le dinamiche storiche secondo le quali si formano le organizzazioni immediate (e i loro limiti) e le organizzazioni politiche (e le loro caratteristiche), e negano l’esperienza storica secondo la quale ogni organizzazione immediata, sia anche la più classista come furono i sindacati rossi degli anni Venti del secolo scorso, data la sua caratteristica di associare i proletari in quanto lavoratori salariati, dunque membri della classe per il capitale, non potrà mai rappresentare, nel presente, il futuro della società senza classi verso il quale tende storicamente la lotta di classe del proletariato. La “coscienza storica” di quel futuro non alberga né nella testa di ogni singolo proletario, né nelle sue associazioni immediate, ma soltanto in un organo particolare, il partito politico rivoluzionario, che solo rappresenta il fine ultimo della lotta di classe - la società senza classi, il comunismo - e perciò rappresenta il proletariato come classe per sé, ossia per il proprio futuro storico. E’ il partito politico di classe che possiede la teoria del comunismo rivoluzionario e che agisce nella società e nelle file del proletariato allo scopo di dirigerne il movimento di classe verso il fine ultimo. In genere, coloro che negano la funzione storica del partito politico di classe, riducono la teoria marxista alla sola analisi del capitalismo moderno e lasciano alle esperienze contingenti del proletariato in lotta di stabilire, di volta in volta, quali mezzi, quali metodi, quali obiettivi darsi nella lotta contro lo sfruttamento capitalistico. Di fatto, viste le dinamiche dei rapporti di forza nella società capitalistica e la pressione della classe dominante borghese su tutti gli strati sociali e sul proletariato in particolare, con questa visione della lotta sociale si spinge il proletariato a non tirare le lezioni dalle sue lotte del passato e, quindi, a ricominciare sempre da zero, tendendo, invece che all’unificazione di classe del proletariato a livello inizialmente territoriale e nazionale per poi allargarsi a livello internazionale, alla chiusura per categoria, per azienda, per nazione. Coloro che negano la funzione storica del partito di classe, oltre a impedire alla massa proletaria di poter accedere alle esperienze delle sue stesse lotte del passato che soltanto il partito di classe può conservare e riproporre ai proletari al di là dei flussi e riflussi degli scontri di classe e degli alti e bassi della loro lotta, negano di fatto la validità della teoria marxista e, perciò, lo sbocco storicamente necessario della lotta di classe nella distruzione del capitalismo attraverso la conquista rivoluzionaria del potere politico e l’instaurazione della dittatura di classe del proletariato esercitata dal partito comunista rivoluzionario, negando nel contempo l’orizzonte necessariamente internazionale della lotta di classe, della rivoluzione, della dittatura e della trasformazione generale della società da capitalista a comunista. Vanno ad aggiungersi anch’essi alla schiera delle correnti opportuniste che intralciano e intralceranno il cammino rivoluzionario del proletariato.

Coloro che pensano che i proletari potranno riprendere la loro lotta sul terreno di classe solo se istigati e spinti da gruppi di audaci che, attraverso le loro cospirazioni e le loro azioni violente ed armate, dimostrino che il nemico “borghese” non è invincibile, ma può essere colpito anche nelle alte sfere e, perciò, che basti, per sovvertire l’ordine esistente, “dare l’esempio” per cambiare personale politico al governo, sono anch’essi dannosi per la causa storica del proletariato; dannosi non per l’uso della violenza in sé, che nella lotta di classe e nella rivoluzione non può mancare, ma per il suo uso esclusivamente individualistico e falsamente “risolutore” poiché danno per scontato che basti “dare un forte esempio” perché le masse proletarie si scuotano dalla loro apatia sociale e si mobilitino per cambiare la situazione. Essi non comprendono che la lotta di classe è un processo lungo e contraddittorio che non può essere accorciato, né tantomeno suscitato, da colpi, anche se ben assestati, a qualche rappresentante della politica e dell’economia borghese. I proletari hanno bisogno di unirsi in associazioni classiste per lottare insieme e insieme fare esperienza diretta, battersi sul terreno economico che è il terreno su cui spontaneamente tutti i proletari, al di là delle idee che si portano in testa, sono spinti ad agire ed hanno interesse a rafforzarsi per combattere contro un nemico - la classe borghese dominante - che ha molta esperienza sia in termini di controllo sociale, che di dominio sociale, che di lotta con ogni mezzo -da quello più pacifico e democratico a quello più brutale e violento, sul piano legale come su quello illegale. I proletari si associano nella lotta perché unendosi costituiscono una forza; ma questa forza non è neutra e non può essere indirizzata a piacere verso questo o quell’obiettivo; è una forza sociale materiale, e perché si indirizzi verso determinati obiettivi deve contare su fatti materiali che diano una base su cui poggiare e su cui resistere. I proletari devono prendere la propria sorte nella proprie mani, riconoscersi come membri della stessa classe e in interessi di classe comuni, antagonisti agli interessi borghesi e capitalistici; e per raggiungere questo risultato devono fare esperienza diretta, devono lottare, sbagliare, perdere, ricominciare, riorganizzarsi, rimettersi in lotta dopo ogni sconfitta, sapendo che anche quando vincono uno sciopero, uno scontro, una battaglia devono tener conto che quella “vittoria” è effimera, verrà presto o tardi rimangiata dalla classe padronale che userà tutte le armi che ha a disposizione  - e che non sono solo propaganda, ma sono ben più materiali come la pressione economica e la forza statale non solo delle leggi ma delle “forze dell’ordine” – per svuotare le “conquiste parziali” delle lotte operaie attraverso ogni sorta di accordo politico con le forze dell’opportunismo e per rischiacciare i proletari che hanno lottato nelle condizioni di vita e di lavoro più dure. Ma i proletari, se mantengono la vitalità di classe sorta nella solidarietà durante la lotta anticapitalistica, hanno la forza di resistere anche alle sconfitte e di riorganizzarsi per le lotte future anche di impegno politico ben più ampio.

La borghesia lo sa bene e, infatti, ispira, sostiene e forma organizzazioni opportuniste che hanno il compito di indirizzare le masse proletarie verso obiettivi che si conciliano con gli interessi borghesi: la borghesia ha imparato dalla lotta di classe che deve dividere i proletari e mettere gli uni contro gli altri, ma ha anche imparato che questo può non bastare, perciò deve dare almeno ad uno strato di proletariato, più o meno vasto a seconda della situazione sociale e a seconda della situazione economica generale, dei vantaggi materiali ed economici che permettano di legarlo a sé e di utilizzarlo come forza conservatrice e conciliante all’interno dello stesso proletariato. E’ il caso dell’aristocrazia operaia che, pur essendo di provenienza sociale proletaria, è per posizione sociale, per ideologia e per interesse contingente più assimilabile alla piccola borghesia che non al proletariato senza riserve. Un’aristocrazia operaia che può contare non solo su salari migliori e su carriere lavorative più garantite, ma anche su una “difesa” di legge del suo ruolo conciliatore e collaborazionista, come le burocrazie sindacali e politiche dimostrano. 

Vi sono state, vi sono e vi saranno situazioni di forte tensione sociale nelle quali dalla massa del proletariato si sprigionano tendenze alla rottura sociale, alla rottura delle esistenti relazioni sindacali e politiche concilianti, tendenze che fanno intravvedere la possibilità di collegarsi con le esperienze di lotte classiste e rivoluzionarie del passato e che, perciò, metterebbero in discussione le pratiche interclassiste e collaborazioniste che permettono da decenni alle classi borghesi dominanti di sfruttare le classi proletarie dei propri e degli altri paesi senza conseguenze per i loro profitti e per il loro dominio di classe sulla società anche nei periodi di crisi economica. Le classi dominanti borghesi hanno dimostrato che, in situazioni di questo tipo, possono non bastare le pratiche democratiche alternate alle pratiche repressive, e possono non bastare le azioni, pur di validissimo supporto alla conservazione sociale, delle forze tradizionali dell’opportunismo operaio, ma che possono essere indispensabili interventi mirati anche di organizzazioni illegali (di tipo malavitoso e criminale che già operano nel sottostrato sociale normalmente, o di tipo fascista e razzista, sempre pronte a dimostrare la loro “necessità” per mantenere l’ordine), e che possono essere utilizzate, al fine di deviare forze proletarie tendenti alla rottura sociale con mezzi classisti, organizzazioni operaie che si formano nella clandestinità ed agiscono con i mezzi del terrorismo individualistico. 

Coloro che pensano che i proletari potranno riprendere la lotta sul terreno di classe e superare l’estrema debolezza in cui versano ancora oggi utilizzando i più diversi mezzi democratici e legali che la società borghese offre e, contando sulla maggioranza numerica che formalmente possiede la classe proletaria, potranno sbarazzarsi poi con la propria pressione sociale degli ostacoli che i borghesi frappongono tra le loro stesse leggi e la loro applicazione pratica. Coloro che pensano, inoltre, di potersi alleare con quella parte di borghesia ritenuta “onesta”, disposta ad “ascoltare” le varie rivendicazioni operaie e disposta a cedere una parte dei propri profitti a favore degli strati più “bisognosi” e “sfortunati” della popolazione all’insegna di una “più equa” distribuzione della ricchezza nazionale, si illudono, e diffondono l’illusione, che il miglioramento delle condizioni di esistenza delle masse proletarie possa essere ottenuto attraverso gli stessi strumenti che la classe borghese dominante utilizza per difendere i suoi interessi di classe e il proprio dominio politico e sociale o come mezzi per dirottare le spinte proletarie di lotta che sgorgano materialmente e naturalmente in reazione alla sempre più opprimente pressione economica e sociale del capitalismo.

Credere che attraverso le pratiche democratiche di discussione, confronto, negoziazione tra parti sociali falsamente considerate “alla pari”, tra i rappresentanti della classe che nell’attuale società possiede tutto e che ha potere di vita e di morte sulla stragrande maggioranza della popolazione – in pace e tanto più in guerra – e i rappresentanti della classe che non possiede nulla se non la propria forza lavoro e che è obbligata, per sopravvivere, a sottostare allo sfruttamento permanente nelle condizioni sociali tendenzialmente sempre peggiori e solo ed esclusivamente secondo gli interessi della classe padronale; credere che attraverso i parlamenti e le più diverse istituzioni generali e locali, nella pace sociale e attraverso la collaborazione fra le classi, sia possibile raggiungere quel benessere economico e sociale tante volte promesso dai membri della classe dominante, ma mai ottenuto, è come credere che i bambini siano portati dalle cicogne invece di nascere da un doloroso parto.

La classe borghese domina sulla società non per investitura divina, non per aver vinto una gara tra partecipanti allineati alla stessa linea di partenza, non per particolari doti naturali, ma perché rappresenta il modo di produzione della vita economica che ha sovrastato e distrutto i modi di produzione precedenti, ossia per la sua straordinaria potenza produttiva che il lavoro associato gli ha conferito sbaragliando i metodi e le tecniche lavorative precapitalistiche. La classe borghese, agli albori del capitalismo, ha dovuto organizzarsi come forza sociale per difendere e sviluppare un modo di produzione che inesorabilmente tendeva a distruggere i vincoli e i limiti delle società precedenti e, incontrando fortissime resistenze politiche, sociali e militari a questo sviluppo, ha dovuto organizzarsi come forza politica e militare per conquistare il potere centrale e rivoluzionare la società secondo gli interessi del nuovo modo di produzione, quello capitalistico. Ma non poteva farcela da sola; la classe borghese aveva bisogno di coinvolgere nella sua rivoluzione le masse contadine della campagna e proletarie della città, e per coinvolgerle doveva promettere loro la “liberazione” dal servaggio feudale e la distruzione di tutti quei vincoli che le opprimevano fin dalla nascita, facendole partecipare necessariamente alla vita politica dalla quale in precedenza erano del tutto escluse.

L’oppressione del feudalesimo, sofferta certamente dai borghesi ma soprattutto dalle masse contadine e proletarie, veniva di fatto sostituita da un’oppressione diversa, meno visibile ma molto più estesa e ingannatrice: l’oppressione capitalistica che la borghesia ha vestito di fraternité, egalité e liberté al solo scopo di far fare la sua rivoluzione alle masse contadine e proletarie, liberandole certamente da molti vincoli feudali, ma per espropriarle di quel poco o tanto che possedevano (terra, attrezzi di lavoro, prodotti del loro lavoro) e renderle appunto completamente “libere”, libere da ogni proprietà che in precedenza consentiva loro di sopravvivere e, perciò, obbligate a trasformarsi in moderni proletari, in senza-riserve, in individui possessori soltanto della propria capacità fisica e nervosa di lavorare. In “contropartita”, la classe borghese ha dato al popolo, dopo averlo espropriato con la forza, la possibilità di rappresentare in istituti appositi, e centralmente controllati, i propri interessi di parte e le arene dove presentare e discutere le proprie istanze. Così la società moderna si è riempita di parlamenti e di ogni genere di istituzioni “democratiche” attraverso le quali “il popolo” e le sue sue mille frazioni discutono difendendo, e credendo di difendere, i propri particolari interessi. Ma il corso di sviluppo del capitalismo, e lo sviluppo delle lotte fra le classi, in particolare tra la classe borghese e la classe del proletariato, che decennio dopo decennio è cresciuta in modo esponenziale, ha spinto la classe borghese dominante ad affinare sempre più i metodi di governo e di controllo sociale, utilizzando, a seconda delle necessità, metodi democratici e metodi apertamente dittatoriali od anche entrambi contemporaneamente; tanto più di fronte ai periodi di crisi economica che ciclicamente colpiscono la società e che, spesso, si traducono in crisi di guerra ora in una zona ora in un’altra del mondo. Gli interessi del capitale, sempre più concentrati in poche mani, e in pochi Stati, accrescono il peso del proprio dominio sulla società, diminuendo nello stesso tempo lo spazio effettivo disponibile per gli interessi dei capitali più piccoli e, perciò, diminuendo il loro peso sociale, e dunque politico. I parlamenti, diventati da tempo soltanto mulini di parole, servono per far passare leggi pensate e definte in altre sedi, più protette e nascoste al pubblico, mentre svolgono sempre più il compito di distrarre e ingannare sistematicamente le masse facendo loro credere che i rappresentanti che eleggono abbiano effettivamente e sempre la possibilità di incidere sulle decisioni che riguardano l’intera popolazione.

La borghesia è classe dominante non solo perché possiede tutto, è padrona dei mezzi di produzione e di distribuzione e, soprattutto, del prodotto finito, e non solo perché domina attraverso la forza militare del proprio Stato, organizzata a difesa dei suoi interessi di classe generali contro le borghesie concorrenti degli altri paesi e contro le masse proletarie del proprio paese, ma anche perché ha in mano la vita delle masse proletarie di cui dispone secondo i suoi specifici interessi di classe. Come il padrone d’azienda o il consiglio d’amministrazione decidono come e dove investire i loro capitali, così  lo Stato, che rappresenta gli interessi dell’intera classe dei capitalisti, decide come destinare le risorse a sua disposizione. E se delle risorse vengono destinate al proletariato o a sue parti per mitigare gli effetti più duri delle crisi economiche, lo si deve certamente alla pressione che i proletari esercitano con la propria lotta sulla borghesia e sullo Stato quando questa lotta assume un carattere sociale che può impensierire il potere borghese, oppure alle manovre che il potere borghese, concordandole in parte con le organizzazioni sindacali tricolore e con i partiti opportunisti, intende mettere in atto per tacitare, almeno in parte e almeno per una parte dei proletari, le loro esigenze più immediate. Il sistema di ammortizzatori sociali che i poteri borghesi democratici hanno ereditato dai regimi fascisti - ampliato anche in virtù del peso che i sindacati tricolore e i partiti falsamente comunisti e socialisti dovevano avere, negli anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, nei confronti del proletariato per influenzarlo e controllarlo meglio - è un sistema che, con le crisi economiche che hanno caratterizzato gli ultimi quarant’anni, e con la demoralizzazione sociale che ha assalito le masse proletarie che hanno dovuto assistere ad una erosione continua e inesorabile delle loro “conquiste” e dei “miglioramenti” ottenuti in tempi di espansione economica del capitalismo, fa acqua da tutte le parti.

Invece di trarre la lezione secondo la quale la collaborazione fra le classi sostenuta, praticata e difesa dalle organizzazioni sindacali vendute al nemico di classe, e quindi dirigere le proprie energie a ricostituire punti di aggregazione classista per avviare la riorganizzazione del proletariato sul terreno della effettiva difesa di classe dei suoi interessi, vi sono organizzazioni di tipo sindacale e di carattere politico che incitano i proletari a credere ancora che il terreno della democrazia, dei diritti e della collaborazione fra Stato e cittadini, fra borghesi e proletari, in un confronto pacifico e rispettoso dei “rispettivi interessi”, sia il terreno su cui proficuamente essi possono risalire la china e riconquistare quelle posizioni e quelle garanzie che nel frattempo hanno perduto. Ecco perché, al di là della buona fede con cui queste forze agiscono, esse sono totalmente al servizio della conservazione sociale e, quindi, al servizio del nemico di classe.

 

La rinascita del movimento di classe sarà opera del proletariato stesso

 

Una tesi marxista fondamentale fa comprendere da che cosa nasce, e rinasce, il movimento di classe del proletariato. La si legge nel Manifesto del 1848: Il vero e proprio risultato delle lotte degli operai non è il successo immediato ma il fatto che l'unione degli operai si estende sempre più. E' dunque la solidarietà di classe, cioè quel legame fra proletari che supera la concorrenza che essi si fanno, sospinti come sono dalla pressione economica capitalistica e dalla propaganda borghese ed opportunista. L'unione degli operai in quanto proletari che riconoscono di avere gli stessi interessi di classe, dunque che riconoscono di dover combattere insieme, organizzati e per obiettivi comuni contro lo stesso nemico di classe, è una unione che fa da base alla possibilità da parte proletaria non solo di combattere su un unico fronte di classe superando le molteplici divisioni che l'opera sistematica della borghesia e dei suoi manutengoli produce e alimenta, ma anche di resistere nei momenti di sconfitta e di riprendere la lotta in momenti successivi facendo tesoro delle lezioni tirate dalle sconfitte. Questa unione ha una prospettiva sulla strada dell'emancipazione proletaria soltanto se ha carattere di classe, ossia se non si basa sulla conciliazione fra le classi, sulla conservazione sociale e sulla collaborazione interclassista. In effetti, la borghesia e i suoi luogotenenti nelle file proletarie (vedi i sindacati padronali e tricolore, i partiti opportunisti e tutte quelle organizzazioni sedicenti apartitiche e apolitiche votate al volontariato, alla carità umanitaria, all'educazione religiosa, allo sport e al divertimento più o meno ossessionanti) non hanno soltanto interesse a dividere i proletari mettendoli gli uni contro gli altri, ma hanno anche interesse ad unirli a gruppi o anche in massa indirizzandoli, in modo organizzato, verso obiettivi che non intralcino fondamentalmente il corso degli affari borghesi, utilizzando intelligentemente e opportunisticamente la spinta materiale dei proletari ad unirsi volontariamente per avere più forza nel resistere alla durezza della vita sotto il capitalismo e per avere solidarietà nei momenti di difficoltà.

La solidarietà di classe non è che il risultato materiale della lotta che i proletari conducono con mezzi e metodi di classe, ossia inconciliabili con gli interessi borghesi, partendo dal terreno degli interessi immediati, quindi dal terreno della lotta di difesa delle condizioni economiche e di esistenza. La solidarietà proletaria inizia con la lotta parziale che i proletari conducono coalizzandosi per obiettivi comuni e utilizzando metodi di lotta comuni, inevitabilmente in contrasto con gli obiettivi e i metodi di gestione delle relazioni voluti, intrattenuti o imposti dai borghesi. Nella misura in cui quegli obiettivi e quei metodi sono fin dall'inizio conciliabili con quelli borghesi, siano espressi dal padrone singolo, dalle associazioni padronali o dallo Stato centrale, quella "solidarietà" si trasforma da proletaria a borghese e definisce la conciliazione fra le classi, facendo quindi dipendere il risultato della lotta o della pressione sociale dalla prevalenza dell'interesse borghese. I borghesi, inutile sottolinearlo, tendono esattamente a questo tipo di "solidarietà", grazie alla quale ottengono dal proletariato la sua "partecipazione" all'interesse borghese particolare e generale, ottengono la sua complicità con la quale il borghese lega il proletario alla propria sorte e alle proprie condizioni. L'indipendenza di classe del proletariato viene così sotterrata.

Ma i proletari vivono ogni giorno la loro condizione di schiavi salariati, la loro condizione di dipendenza assoluta dai capitalisti e dalla loro organizzazione sociale. Mangiano e sopravvivono soltanto se si fanno sfruttare nelle galere del lavoro salariato, in tuta blu o in camice bianco non importa, in ambiente nocivo e rischiando sistematicamente l'infortunio e la vita; e se perdono il lavoro perché cassintegrati, esodati, licenziati, andando ad aumentare la schiera dei disoccupati, cioè di quell'esercito di riserva che i capitalisti usano per abbassare i salari degli occupati e le loro "pretese", quei proletari sono destinati all'emarginazione, alla desolante solitudine, alla disperazione, a vivere di carità, di vagabondaggio o di delinquenza. Reagire a queste condizioni subumane di vita sarebbe la cosa più naturale per ogni essere umano, ma la vita sociale di vera e propria schiavitù in cui la classe borghese capitalistica ha fatto precipitare la stragrande maggioranza del proletariato mondiale, tenuto sistematicamente sotto il ricatto della fame, della miseria e della morte, in un abbrutimento micidiale nel quale ogni individuo sembra non possa cavarsela se non a scapito di chi gli sta a fianco. Ma il lavoro associato sotto il capitalismo se, da un lato, ha abituato i proletari ad essere sfruttati in gruppi e in massa, costringendoli a condividere la brutalità delle condizioni di sfruttamento, dall'altro li ha anche spinti a trovare la forza di resistervi e di reagire solo nel raggrupparsi, nell'unirsi, scoprendo che attraverso l'unione organizzata la loro difesa può avere successo. E' da queste forme primordiali di organizzazione proletaria per fermare il peggioramento delle loro condizioni di lavoro e di esistenza che i proletari hanno iniziato a sentire di costituire una forza sociale; è dalla lotta che essi hanno condotto come classe di lavoratori salariati e per mezzo delle loro organizzazioni che i proletari hanno sviluppato le esperienze che li hanno portati a comprendere che alla base di tutto esiste l'antagonismo di classe che oppone la borghesia a tutte le altre classi, e in particolare alla classe proletaria dal cui sfruttamento essa estorce il suo guadagno, quel plusvalore che solo il lavoro salariato produce e che la classe dominante borghese si appropria in virtù della sua forza economica e del suo potere politico. Potere politico, d'altronde, che il proletariato ha dimostrato storicamente di poter conquistare solo con la rivoluzione e di poter esercitare solo con mezzi rivoluzionari.

Da quelle forme di organizzazione di difesa immediata i proletari dovranno ripartire, e questo non per un loro particolare difetto d'origine, o per ignoranza o per una incapacità congenita della loro "razza", ma perché, subendo la tragica sconfitta, dagli anni Venti del secolo scorso in poi, per mezzo di forze controrivoluzionarie non solo dichiaratamente borghesi ma anche di tipo socialdemocratico e staliniano, perciò falsamente operaie e rivoluzionarie, sono stati rigettati indietro di alcuni ventenni. Dovranno così, in un certo senso, tornare a camminare "sulle proprie gambe", riprendere fiducia nelle proprie forze, ricominciare a fare esperienza diretta nella lotta per i propri interessi di classe. I proletari  agiscono e agiranno in una realtà, la società capitalistica, che è certamente in opposizione rispetto ai loro interessi generali e storici, e quasi sempre anche ai loro interessi immediati, ma che con lo stesso suo sviluppo accresce le contraddizioni sociali, rendendo sempre più acuto l'antagonismo tra proletariato e borghesia. La classe borghese non può vivere senza il capitale, senza la sua continua valorizzazione; ma condizione del capitale è il lavoro salariato (Manifesto, 1848). Lo sviluppo stesso della grande industria a livello mondiale forma necessariamente masse proletarie sempre più numerose, destinate sotto il dominio della classe borghese ad un feroce e permanente sfruttamento al solo scopo di moltiplicare capitale. La classe borghese, dunque, non può vivere senza sfruttamento del lavoro salariato e difende con ogni mezzo il suo potere politico ed economico perché "la condizione più importante per l'esistenza e per il dominio della classe borghese è l'accumularsi della ricchezza nelle mani dei privati e la formazione e la moltiplicazione del capitale" (ancora Manifesto, 1848). La classe proletaria, al contrario, non ha interesse a vivere e a continuare a vivere nelle condizioni di schiava salariata; con il suo lavoro essa produce tutto ciò che serve alla specie umana per vivere bene e, sulla base di un modo di produzione completamente diverso da quello capitalistico, anzi superiore a quello capitalistico perché non si basa sullo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo, essa è in grado di aprire all'intera specie umana le porte di una società organizzata non per il capitale e la sua valorizzazione, ma per soddisfare i bisogni di vita sociale della specie. La stessa società borghese, con lo sviluppo della grande industria, oltre a creare la classe del proletariato, crea anche le condizioni del suo superamento. Il sistema di appropriazione privata della produzione che caratterizza la società borghese ha dimostrato storicamente di non risolvere i problemi derivanti dal bisogno di nutrimento della popolazione mondiale, e di non risolvere, anzi, di acutizzare, le mille e mille contraddizioni che sorgono dalla concorrenza borghese e dall'antagonismo fra le classi. Esso cederà il posto ad un sistema di produzione e distribuzione secondo le reali necessità di vita di ciascuno e di tutti, soltanto dopo che il potere politico ed economico della classe borghese sarà seppellito per sempre. E per seppellirlo ci vuole la rivoluzione più radicale e profonda che la storia umana abbia finora conosciuto: una rivoluzione che avrà come protagonista il proletariato, l'unica classe internazionale che non ha nulla da guadagnare in questa società, di qualsiasi paese si tratti, l'unica classe che porta con sé non solo la sintesi di tutte le contraddizioni sociali della moderna società ma anche la chiave risolutiva di quelle contraddizioni. E' infatti l'unica classe storica che con la sua rivoluzione pone le basi per la scomparsa di ogni antagonismo di classe, per la scomparsa della divisione sociale in classi contrapposte. E' la classe che lotta non per organizzare stabilmente una diversa divisione della società in classi, ma per una società senza classi.

Come potrà il proletariato, che ancora oggi non è in grado nemmeno di lottare sul terreno immediato per difendere con forza i suoi interessi immediati, avere la forza domani di lottare per la rivoluzione, per la società comunista; come potrà sbaragliare le forze borghesi, così potenti da riuscire a piegare ai loro interessi nazionali e di classe le enormi masse proletarie che popolano il mondo? Uscirà mai il proletariato dalla situazione di dipendenza assoluta dal capitalismo?

E' la stessa borghesia che ci dà, non volendolo, la risposta. Tutti gli apparati di controllo sociale e di repressione che le classi borghesi in ogni paese costruiscono e affinano, tutte le risorse che le classi borghesi destinano per istruire e influenzare le classi proletarie a piegarsi alle esigenze del capitale mobilitando non solo i propri diretti mezzi di propaganda ma schiere sempre più numerose di servitori ed opportunisti, dimostrano che le classi borghesi temono in realtà che le classi proletarie si ripresentino sulla scena come forza di classe indipendente, organizzata e influenzata da un partito, il partito comunista rivoluzionario, che dal Manifesto del 1848 è indicato come la sintesi dialettica della lotta di classe del proletariato e, perciò, come guida storica del movimento di classe del proletariato verso la sua completa emancipazione.

Emancipazione che consiste nel portare la lotta di classe fino alla sua estrema finalità - la società senza classi - passando per l'organizzazione del proletariato in classe, quindi in partito, l'organizzazione della lotta economica immediata sul terreno dell'antagonismo di classe, la lotta rivoluzionaria per la conquista violenta del potere politico, l'instaurazione della dittatura di classe esercitata dal partito comunista rivoluzionario (il proletariato si eleva a classe dominante, il Manifesto 1848), la lotta rivoluzionaria contro le forze borghesi dei paesi e dei territori non ancora attaccati dalle insurrezioni proletarie, gli interventi non solo di ordine politico e sociale ma anche economici (interventi dispotici nel diritto di proprietà e nei rapporti borghesi di produzione, il Manifesto 1848) volti alla trasformazione del modo di produzione capitalistico nel modo di produzione socialista e, infine, comunista (alla vecchia società borghese con le sue classi e i suoi antagonismi fra le classi subentra una associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti, il Manifesto 1848).

L'emancipazione del proletariato è un percorso storico lungo e doloroso perché la lotta proletaria di classe deve partorire una nuova società. Ma emancipazione del proletariato significa anche scomparsa delle classi sociali in cui è divisa la società odierna, perciò anche della classe proletaria. Perciò la lotta del proletariato nella società capitalistica porta con sé l'interesse generale della specie umana. Le forze produttive che lo stesso capitalismo ha creato sono destinate a svilupparsi a tal punto da mettere in pericolo il potere politico della classe borghese perché, poggiando sul modo di produzione capitalistico che va incontro inevitabilmente a crisi economiche di sovraproduzione sempre più disastrose, è un potere che deve frenare lo sviluppo delle forze produttive che esso stesso ha messo in moto. Sono le forze produttive, la principale delle quali è appunto la classe dei lavoratori salariati, dunque gigantesche forze materiali, che premono sulle sovrastrutture della società borghese - come il vapore della locomotiva preme contro le pareti d'acciaio della caldaia, per riprendere una suggestiva immagine di Trotsky - e che prima o poi le mandano in mille pezzi.

Il proletariato, dunque, oltre a fattori di ordine oggettivo e storico inerenti le contraddizioni stesse della società borghese, viene inesorabilmente spinto a lottare per la sua stessa sopravvivenza, già come classe per il capitale. Ma quella lotta lo porterà ad affrontare non soltanto il padrone o i padroni associati, ma l'intera classe dominante borghese nella forma dello Stato e delle sue forze repressive; perciò sarà spinto, prima o poi, dalle stesse forze borghesi, a porsi il problema della lotta politica più generale e, quindi, della lotta come classe per sé. Lo scontro sarà titanico, e questo la classe borghese dominante lo sa perfettamente perché ha tirato anch'essa le lezioni dalle rivoluzioni proletarie del passato e dalle proprie sconfitte.

Potrà il proletariato, oggi ancora in situazione dormiente e inebetita dal gioco incrociato delle mille contraddizioni sociali, rimettersi a lottare sul terreno di classe e porsi obiettivi ben più ampi e storici che non la immediata condizione di vita nella società attuale?

Sì, ma certamente non attraverso la somministrazione di metodi ed obiettivi di conciliazione fra le classi, e nemmeno attraverso i mezzi del confronto e della negoziazione che la borghesia ha offerto a piene mani ai suoi rappresentanti ben sapendo che su quel terreno avrebbe sempre vinto. I proletari, dal lungo sonno drogato di illusioni democratiche e popolari, si sveglieranno soltanto per i colpi ricevuti da crisi economiche e sociali molto più acute di quelle che già hanno peggiorato le loro condizioni di esistenza precedenti. E si accorgeranno, qui, nei paesi dell'occidente opulento, che le loro condizioni di esistenza saranno sempre più simili alle condizioni di sopravvivenza precaria dalle quali cercano di fuggire i milioni di proletari dei paesi della periferia dell'imperialismo che giungono, clandestinamente o no, nelle nostre città e nelle nostre campagne. Allora l'unione fra proletari autoctoni e proletari immigrati sarà ancor più importante e non sarà per nulla conquistabile facilmente, visto che la concorrenza fra proletari non corre soltanto all'interno del corpo proletario nazionale, ma si estende anche nelle forme razziste tra immigrati e autoctoni.

Ciò nonostante la strada per il proletariato, non importa la sua nazionalità, il suo genere, la sua specializzazione, la sua età o le idee politiche o religiose che si porta appresso, per quanto impervia e piena di ostacoli essa sia, è una strada obbligata: o lotta con mezzi e metodi della lotta di classe, in difesa esclusiva dei suoi interessi di classe, o continuerà a doversi piegare al volere e agli interessi dei suoi sfruttatori.

Le vecchie rivendicazioni economiche che hanno segnato la storia delle lotte proletarie torneranno in auge, simboleggiando la comunanza di interessi di tutti i proletari in quanto lavoratori salariati:

- diminuzione drastica della giornata lavorativa; - aumento di salario, più forte per le categorie peggio pagate; - stesso salario per le stesse mansioni a uomini, donne, immigrati o autoctoni; - salario da lavoro o salario di disoccupazione; - no al lavoro nero e al lavoro in mancanza di misure di sicurezza.

E tornerà in auge il vecchio modo di lottare attraverso lo sciopero, improvviso, senza limiti di tempo prefissati e senza interruzioni fino alla conclusione delle trattative.

Queste indicazioni non sono state inventate appositamente per suscitare la lotta di classe: sono le rivendicazioni e i metodi di lotta che il proletariato nel suo glorioso passato applicava normalmente, sulla base di esperienze continue di lotta , certo com'era di rappresentare una forza sociale che doveva combattere per ottenere un qualsiasi miglioramento delle sue condizioni di vita e di lavoro, e che la sua forza emergeva dall'unione di classe e dalla solidarietà di classe che legavano tutti i proletari, di qualsiasi fabbrica, di qualsiasi attività, di qualsiasi categoria, di qualsiasi nazionalità o genere.

Riprendere queste rivendicazioni, riprendere i vecchi metodi di lotta non è un "tornare indietro". Sono invece le rivendicazioni e i metodi utilizzati dal sindacalismo padronale e tricolore, ispirati alla conciliazione fra le classi e all'asservimento dei proletari alle esigenze dei capitalisti e della loro economia, che hanno rigettato indietro i proletari dalle posizioni che avevano conquistato con la lotta di classe e dalle quali avrebbero potuto proseguire elevando la propria lotta dal terreno economico a quello politico generale. Riprendere queste rivendicazione e i vecchi metodi di lotta significa per i proletari togliersi dall'abisso in cui sono precipitati e tornare ad avere fiducia nella propria forza e nei propri obiettivi di classe. I proletari, che, grazie all'accoppiata borghesia e opportunismo, si sono visti dissanguare, sfinire, demoralizzare, distruggere nella loro dignità e nei loro affetti, possono riscattare se stessi alla condizione di lottare per non piegarsi più alle esigenze del capitale e della società borghese. Solo così essi dimostreranno a se stessi, e al nemico di classe borghese, di rappresentare non solo una forza sociale che combatte per condizioni di esistenza migliori, ma soprattutto una forza sociale che ha un futuro, futuro che è di gran lunga più concreto e realizzabile di qualsiasi benessere che la borghesia promette, ma non mantiene mai.

Attraverso la ripresa della lotta di classe sul terreno delle rivendicazioni immediate il proletariato ripercorrerà il corso di sviluppo che lo porterà, tra mille difficoltà, tra alti e bassi, tra avanzate e rinculi, a porsi il problema decisivo del potere politico. E allora comprenderà che il bisogno di organizzazione può essere soddisfatto solo con organizzazioni classiste, capaci di farsi carico degli obiettivi esclusivamente proletari da perseguire con metodi e mezzi di lotta esclusivamente proletari, ossia non condivisibili con la borghesia e gli strati sociali piccoloborghesi; comprenderà che la guida della sua lotta, sul terreno immediato ed economico e sul terreno dello scontro politico con le forze della conservazione sociale, non può che essere il partito di classe, ossia quel partito che rappresenta nell'oggi il futuro del movimento di classe e che in forza della teoria del comunismo rivoluzionario e del patrimonio di lotta delle esperienze rivoluzionarie del passato, è l'unico in grado di condurlo effettivamente alla completa emancipazione dal lavoro salariato. Gli obiettivi  politici generali saranno molto più aspri, perché la lotta per il potere politico non ammette oscillazioni, né tentennamenti, né improvvisazioni suggerite dalle situazioni contingenti: è una lotta in cui si conquista o si perde tutto, e non solo in quel determinato paese. Ecco perché la lotta proletaria di classe ha bisogno della guida del partito di classe; quest'ultimo si prepara teoricamente, e nello sviluppo della lotta proletaria anche praticamente, di lunga mano. Senza teoria rivoluzionaria non vi è movimento rivoluzionario, è una vecchia tesi marxista. Era vero anche per la borghesia, in un certo senso, sebbene essa non abbia mai raggiunto la complessità e la completezza della teoria marxista; è particolarmente vero per il proletariato che, a differenza della classe borghese, non poggia per il suo movimento e la sua rivoluzione su un modo di produzione già in essere e che preme per svilupparsi in un ambito meno limitato. Il proletariato non poggia sulla rivoluzione economica, come fece la borghesia, per imporre la sua rivoluzione politica. Esso, in quanto classe senza riserve, non può che puntare per prima cosa alla rivoluzione politica, alla conquista del potere politico per spezzare lo Stato borghese e la sua forza militare, togliendo in questo modo alla classe borghese e alla sua dittaura di classe il mezzo repressivo per eccellenza, per sostituirlo con la propria dittatura di classe erigendo uno Stato di tutt'altra natura poiché il suo scopo non è di organizzare un'altra società divisa in classi, ma quello di trasformare il modo di produzione su cui poggia la divisione di classe in un modo di produzione impostato per il beneficio dell'intera specie umana e non per una classe particolare che opprima tutte le altre. Il proletariato, nella lotta per la sua emancipazione dal lavoro salariato, ha bisogno del suo partito di classe, del partito comunista rivoluzionario, come dell'aria per respirare; senza l'influenza e la guida del partito di classe il proletariato è soffocato nei miasmi di una società che imputridisce nelle sue contraddizioni. 

I comunisti lottano per raggiungere i fini e gli interessi immediati della classe operaia, ma nel movimento presente rappresentano in pari tempo l'avvenire del movimento (il Manifesto, 1848), e di seguito, ancora: il partito comunista non cessa nemmeno un istante di preparare e sviluppare fra gli operai una coscienza quanto più chiara è possibile dell'antagonismo ostile fra borghesia e proletariato, affinché i lavoratori possano rivolgere, come altrettante armi contro la borghesia, le condizioni sociali e politiche che la borghesia crea con il suo dominio. I comunisti dichiarano apertamente che i loro fini - che sono i fini del movimento storico di classe del proletariato - possono essere raggiunti soltanto col rovesciamento violento di tutto l'ordinamento sociale finora esistente. Le classi dominanti tremino al pensiero di una rivoluzione comunista. I proletari non hanno nulla da perdervi che le loro catene. Hanno un mondo da guadagnare.

E il Manifesto di Marx ed Engels non poteva che concludersi con il famoso appello: Proletari di tutti i paesi, unitevi! Un appello che esprime nel contempo l'internazionalismo proletario e la necessità di unire le forze proletarie del mondo nella lotta rivoluzionaria. 

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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