Proletariato palestinese e proletariato israeliano

(«il comunista»; N° 138;  Aprile 2015)

 Ritorne indice

 

 

Secondo le "previsioni" di vari esperti di politica israeliana e mediorientale, le recenti elezioni in Israele avrebbero decretato un calo importante dei voti al Likud, partito del capo del governo Benjamin Netanyahu; ma, senza un avversario deciso e di "prestigio", Netanyahu, che ha puntato tutta la sua campagna elettorale sul tema della "sicurezza", anti-Iran, anti-palestinese ed anti-fondamentalismo islamico, non sarebbe comunque stato sconfitto. Facile previsione, soprattutto da quando, dopo Al Qaeda, agiscono in Iraq, in Siria, in Libia e in altri paesi le milizie del Califfato. La politica ultraconservatrice, nazionalista e antipalestinese di Netanyahu ha prevalso, ma non in modo consistente, tanto da costringere una buona parte delle formazioni di destra a coalizzarsi per formare il nuovo governo. Un governo che continuerà e non rispettare le risoluzione dell'ONU (come avevano fatto anche i governi "laburisti"), a sostenere di volta in volta l'occupazione di terre nel territorio che avrebbe dovuto essere riconosciuto soltanto alla Palestina e al suo tanto promesso Stato, a mantenere il controllo delle finanze (tasse interne e sostegni finanziari dall'estero) della Palestina e a mantenere la striscia di Gaza e la Cisgiordania sotto controllo militare. E per continuare ad attuare una politica del genere, le forze del nazionalismo israeliano di destra - come ieri le forze del nazionalismo israeliano di sinistra - hanno bisogno di contare sulla più forte collaborazione sociale tra borghesi, piccoloborghesi e proletariato.

Israele, nella sua funzione di gendarme della regione Mediorientale per conto degli Stati Uniti e degli imperialismi europei, si può permettere da più di 65 anni di "fare la guerra", senza conseguenze negative, ai palestinesi e ai paesi arabi che hanno tentato di frenarne le sue ambizioni di potenza regionale, perché è ancora indispensabile alle forze imperialiste, e soprattutto agli Stati Uniti, sebbene questi tentino di costruire un'altra sponda di controllo della regione attraverso un accordo con l'Iran partendo dalla questione del nucleare. Ma tutto il Medio Oriente è da decenni "terremotato" da una instabilità congenita la cui causa principale va cercata nella politica imperialista delle grandi potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, al centro della quale instabilità gioca ancora un ruolo importante la "questione palestinese" e, quindi, dal nostro punta di vista, la questione del proletariato palestinese e del proletariato israeliano, alla quale è dedicato il lavoro che segue.

 

 

PROLETARI D'ISRAELE E PROLETARI DI PALESTINA

LA PROSPETTIVA DELLA LOTTA DI CLASSE PROLETARIA INTERNAZIONALE NON CANCELLA LA LOTTA DI CLASSE A LIVELLO NAZIONALE

IL MITO DI UNO STATO UNICO IN TERRA DI PALESTINA...

... E IL MITO DEI DUE STATI INDIPENDENTI IN TERRA DI PALESTINA

LA LOTTA DEL PROLETARIATO PALESTINESE FA PARTE DELLA LOTTA DEL PROLETARIATO D’EUROPA E D’AMERICA

 

 

Sulla questione dell’autodeterminazione del popolo palestinese e dell’atteggiamento di fronte alla questione del rapporto tra proletariato palestinese ed israeliano, l’esempio riportato da Marx ed Engels (1) a proposito dell’Irlanda e dell’Inghilterra calza molto bene.

La borghesia inglese che opprime la nazionalità irlandese, anche per rafforzare la propria tenuta interna, dal punto di vista sociale e politico, concede al proletariato autoctono maggiori vantaggi sia sul piano economico che su quello dei privilegi sociali, in modo da farlo sentire più garantito, più protetto rispetto al proletariato irlandese. Tali condizioni formano la base materiale sulla quale la borghesia inglese agisce per utilizzare il peso sociale del proprio proletariato a difesa dei propri interessi di classe e per renderlo complice dell’oppressione del popolo irlandese e, quindi, del proletariato irlandese.

Su tali condizioni si sviluppa la concorrenza tra proletari inglesi e irlandesi; i proletari inglesi, asserviti nel tempo anche grazie all’opera costante e capillare delle loro organizzazioni sindacali e politiche opportuniste, e oggetto costante dell’influenza ideologica della borghesia dominante, in questo modo si fanno veicolo indiretto dell’oppressione dei proletari irlandesi. E fino a quando la borghesia inglese tratterà e avrà la possibilità di trattare i propri proletari autoctoni meglio di qualsiasi altro proletariato, irlandese e di qualsiasi altra nazionalità, essa sarà dotata di un fattore decisivo per poter ottenere il loro sostegno in difesa del suo dominio di classe. Il concetto di aristocrazia operaia non è riferibile soltanto alla parte del proletariato inglese, più istruita e specializzata tecnicamente, che viene trattata economicamente meglio degli altri proletari inglesi – meno istruiti e meno tecnicamente specializzati – ma è riferibile anche al proletariato inglese nel suo insieme rispetto al proletariato dei paesi dominati e oppressi dalla borghesia inglese. Perciò anche il manovale inglese – trattato in genere meglio del manovale irlandese – vedeva come potenziale concorrente il manovale irlandese e, per proteggere il suo piccolo vantaggio, veniva istigato contro il manovale irlandese che trovava lavoro solo alla condizione di essere pagato meno di lui – cosa che, però, lo metteva nelle condizioni di essere preferito al manovale inglese in periodi di crisi economica proprio perché costava meno e su questa condizione poggiava l’aumento della concorrenza tra proletari. Come conseguenza dell’oppressione nazionale sofferta dalla popolazione irlandese, i proletari irlandesi non consideravano certo propri alleati o fratelli di classe i proletari inglesi che non si battevano contro l’oppressione nazionale anti-irlandese, ma semplicemente come alleati dei loro oppressori e perciò nemici. Tale condizione spingeva inevitabilmente i proletari irlandesi nelle braccia della borghesia irlandese che, a sua volta, sfruttava l’oppressione nazionale da parte della Gran Bretagna per ottenere da parte loro un’alleanza nazionalista e la collaborazione interclassista.

C’è chi sostiene che il periodo storico della formazione della gran parte degli Stati indipendenti è terminato e che, essendo il capitalismo passato al suo stadio di sviluppo ultimo, all’imperialismo, la questione nazionale non è più all’ordine del giorno della lotta rivoluzionaria del proletariato, in nessuna parte del mondo e che compito del proletariato, sia nei paesi capitalistici avanzati che nei paesi capitalistici arretrati, è solo, esclusivamente e direttamentequello della rivoluzione socialista, escludendo la presa in  carico dei problemi irrisolti dal dominio della classe borghese, tra cui quello dell’autodeterminazione nazionale dei popoli oppressi, problema certamente di carattere borghese ma che la borghesia in molte parti del mondo non ha risolto e non risolverà. Non c’è dubbio che la rivendicazione dell’autodecisione dei popoli sia una rivendicazione democratica, e perciò borghese. Ma sappiamo che lo sviluppo ineguale del capitalismo ha generato nel tempo alcuni paesi industrialmente più forti che di fatto dominavano e dominano il mercato mondiale e che grazie alla loro potenza economica hanno conquistato il resto dei paesi del mondo, annettendo nazioni o colonizzandole militarmente e aumentando in questo modo la propria potenza sia in risorse naturali che in masse di forza lavoro. E’ lo stesso sviluppo capitalistico che ha spinto, successivamente e in tempi diversi, alcuni grandi paesi – Cina, India, Persia, Egitto e poi Algeria, Congo, Vietnam, Sudafrica ecc. – a conquistare la propria indipendenza politica costituendosi in Stati indipendenti attraverso lotte condotte da movimenti nazionalrivoluzionari. Ma lo stesso sviluppo capitalistico ha generato nuove forme di colonizzazione, sia finanziaria che territoriale, nuove annessioni, aumentando di fatto l’oppressione capitalistica dei popoli del mondo, tanto che alcuni grandi Stati imperialisti hanno costretto e costringono ad un rapporto di tipo “coloniale” molti Stati resisi nel tempo formalmente indipendenti.

“L’imperialismo – afferma Lenin in un suo scritto del 1915 – è l’oppressione maggiore dei popoli del mondo da parte di un pugno di grandi potenze, è un periodo di guerre tra queste potenze per l’estensione e il consolidamento dell’oppressione delle nazioni, è un periodo di inganno delle masse popolari da parte dei socialpatrioti ipocriti, di coloro i quali – col pretesto della ‘libertà dei popoli’, del ‘diritto delle nazioni all’autodecisione’ e della ‘difesa della patria’ – giustificano e difendono l’oppressione della maggioranza dei popoli del mondo da parte delle grandi potenze” (2).

I socialpatrioti, i socialimperialisti, sostituendo “gli utopisti piccoloborghesi che sognano l’eguaglianza e la pace tra le nazioni in regime capitalista”, in realtà, agiscono per conto delle classi borghesi, nei paesi dominanti come nei paesi dominati, nell’ingannare le masse sulla effettiva oppressione delle nazioni da parte delle grandi potenze. Nell’epoca imperialista, sottolinea Lenin, “l’oppressione delle nazioni da parte delle grandi potenze è diventata un fenomeno generale”, perciò per il programma dei comunisti rivoluzionari [negli scritti del 1915, Lenin chiamava, come era usuale all’epoca, i comunisti rivoluzionari ancora “socialdemocratici”), sulla questione nazionale, “il punto centrale dev’essere precisamente quella divisione delle nazioni in dominanti e oppresse” perché questo punto “rappresenta l’essenza dell’imperialismo”. Che la rivendicazione del diritto delle nazioni all’autodecisione sia una rivendicazione democratica, borghese è stato sempre chiarissimo per i marxisti. Ma Marx, “che non è mai stato fautore dei piccoli Stati, né del frazionamento statale in generale, né del principio federativo”, “considerava la separazione della nazione oppressa come un passo verso la federazione e, conseguentemente, non verso il frazionamento ma verso il centralismo politico ed economico, verso il centralismo sulla base della democrazia”; Marx, ribadisce Lenin, “chiedeva la separazione dell’Irlanda dall’Inghilterra, ‘anche se dopo la separazione si dovesse giungere alla federazione’ e lo chiedeva non dal punto di vista dell’utopia piccoloborghese del capitalismo pacifico, non per motivi di ‘giustizia verso l’Irlanda’, ma dal punto di vista degli interessi della lotta rivoluzionaria del proletariato della nazione dominante, cioè inglese, contro il capitalismo. La libertà di questa nazione era ostacolata e mutilata dal fatto che essa opprimeva un’altra nazione.

L’internazionalismo del proletariato inglese sarebbe stato una frase ipocrita se il proletariato inglese non avesse chiesto la separazione dell’Irlanda” (3).

Nel suo scritto del 1916, Intorno a una caricatura del marxismo e all’”economicismo imperialistico”, Lenin, tornando su questo fondamentale aspetto della questione, precisa:

“La situazione reale degli operai, riguardo alla questione nazionale, è forse identica nelle nazioni dominanti e in quelle oppresse? No di certo.

“1. Economicamente la differenza è che una parte della classe operaia dei paesi oppressori fruisce delle briciole dei sovrapprofitti che i borghesi di queste nazioni ricavano sfruttando sempre fino all’osso gli operai delle nazioni oppresse. I dati economici attestano inoltre che tra gli operai dei paesi oppressori la percentuale di quelli ‘molto qualificati’ è maggiore che nelle nazioni oppresse; è inoltre maggiore la percentuale di quelli che entrano a far parte dell’aristocrazia della classe operaia. E’ un fatto. Gli operai del paese oppressore cooperano, entro certi limiti, con la propria borghesia a depredare gli operai (e le masse della popolazione) della nazione oppressa.

“2. Politicamente la differenza è che gli operai dei paesi oppressori assumono una posizione privilegiata rispetto agli operai della nazione oppressa, in vari campi della vita politica.

“3. Idealmente o spiritualmente la differenza è che gli operai dei paesi oppressori sono sempre educati, dalla scuola e dalla vita, al disprezzo o al disdegno per gli operai delle nazioni oppresse. Per esempio, ogni non grande-russo, che sia stato educato o che sia vissuto tra i grandi-russi, ne ha fatto esperienza.

“Così, nella realtà oggettiva esiste una differenza su tutta la linea; esiste cioè, nel mondo oggettivo, un ‘dualismo’ che non dipende dalla volontà o dalla coscienza dei singoli” (4).

E qual era, per Lenin, l’indicazione per il proletariato delle nazioni oppresse, a partire dall’esempio di Marx per il proletariato irlandese? “I socialdemocratici [cioè i comunisti rivoluzionari, NdR] delle nazioni oppresse debbono considerare come fatto di primaria importanza l’unità e la fusione degli operai dei popoli oppressi cogli operai delle nazioni dominanti, poiché altrimenti questi socialdemocratici diverranno involontariamente degli alleati dell’una o dell’altra borghesia nazionale, che tradisce sempre gli interessi del popolo e della democrazia e che è sempre pronta, a sua volta, ad annettere e ad opprimere altre nazioni” (5). Dunque, in entrambi i casi, i comunisti rivoluzionari hanno come stella polare l’unione di classe del proletariato di ogni paese, sia della nazione oppressa che della nazione dominante: il proletariato della nazione dominante con la sua lotta contro la propria borghesia per la libertà di separazione della nazione da essa oppressa dimostra al proletariato della nazione dominata che i propri interessi di classe si riconoscono nell’alleanza, nella fusione con i proletari della nazione oppressa in una lotta comune, internazionalista; il proletariato della nazione oppressa, pur sostenendo e lottando per il diritto di “autodecisione” del popolo di cui fa parte, lotta, nello stesso tempo, in completa indipendenza politica e organizzativa, contro la propria borghesia, dimostrando così al proletariato della nazione dominante che anche il suo obiettivo primario, di classe, è l’alleanza e la fusione coi proletari della nazione dominante. L’internazionalismo proletario o è di classe, o non è internazionalismo, trasformandosi in sottomissione agli interessi delle rispettive borghesie, dunque nel socialsciovinismo, nel socialimperialismo.

Soltanto la dialettica marxista è in grado di comprendere tutti i lati delle contraddizioni delle società divise in classi e di trarre dalla loro materiale e contrastante evoluzione storica le conseguenze effettive sul piano politico e, quindi, tattico. In regime capitalista, le grandi rivendicazioni democratiche che hanno caratterizzato l’idealismo borghese – e la libertà delle nazioni è una di queste – “sono realizzabili soltanto in via d’eccezione e sempre in forma incompleta, snaturata”. Lenin sostiene che “imperialismo significa superamento dei limiti degli Stati nazionali da parte del capitale, significa estensione e aggravamento dell’oppressione nazionale su una nuova base storica”, e cioè sulla base della formazione di un pugno di grandi potenze che opprimono la maggior parte dei popoli del mondo. Questa realtà obbliga i comunisti rivoluzionari a “legare la lotta rivoluzionaria per il socialismo al programma rivoluzionario nella questione nazionale”: Lenin, come sempre, parla non per il solo proletariato russo, che all’epoca aveva di fronte il problema storico della doppia rivoluzione, borghese e proletaria, ma per il proletariato in generale e non a caso riporta l’esempio di Marx su Irlanda e Inghilterra e, nell’altro scritto già citato (6), l’esempio di Svezia e Norvegia, due paesi capitalistici a tutti gli effetti ma nei quali la questione della separazione dell’oppressa nazione Norvegia dalla nazione dominante Svezia era stata all’ordine del giorno anche per la lotta rivoluzionaria del proletariato.

Resta da chiarire se l’impostazione tattica data da Lenin, e dall’Internazionale Comunista, alla questione “nazionale e coloniale” sia ancora valida negli stessi termini o se, dopo la seconda guerra imperialistica mondiale, l’impostazione tattica, in toto o in parte, dovesse essere modificata. Non aiuta a comprendere l’arduo problema tattico per il partito proletario il negare l’esistenza di una questione nazionale nei paesi extra-europei e coloniali dopo la seconda guerra mondiale o ammetterla solo fino alla fine del ciclo delle lotte anticoloniali per la formazione di Stati indipendenti che può essere datata intorno al 1975 con la cacciata dall’Angola e dal Mozambico dell’ultima potenza coloniale presente militarmente in Africa. Come citavamo da Lenin, le rivendicazioni democratiche, anche dal punto di vista nazionalrivoluzionario, “finché esiste il capitalismo sono realizzabili soltanto in via d’eccezione e sempre in forma incompleta, snaturata”.  Di più. Lenin sottolinea che: “La lotta nazionale, l’insurrezione nazionale, la separazione nazionale sono assolutamente ‘realizzabili’ e si manifestano di fatto nell’epoca dell’imperialismo, anzi si intensificano, perché l’imperialismo non frena lo sviluppo del capitalismo e il rafforzamento delle tendenze democratiche tra le masse della popolazione, ma acuisce l’antagonismo tra queste aspirazioni democratiche e le tendenze antidemocratiche dei trusts” (7).  Dunque, l’imperialismo, nel suo sviluppo, aumentando l’oppressione delle nazioni e, quindi, le proprie tendenze antidemocratiche, acuisce nello stesso tempo l’antagonismo delle aspirazioni democratiche nelle nazioni oppresse. Il problema reale per il partito proletario è, quindi, quello di inquadrare storicamente i problemi irrisolti dal sistema borghese nei diversi paesi e nelle diverse aree geostoriche e quale risposta dare loro dal punto di vista sia politico generale che tattico. Per questioni irrisolte dalla borghesia basti pensare alla questione della donna, oltre che alla questione della “libertà delle nazioni” e della libera “audecisione dei popoli”.

In una delle “tesi della Sinistra” che fanno parte del nostro patrimonio politico e tattico e, precisamente in “Natura, funzione e tattica del partito rivoluzionario della classe operaia” (8), venivano definite sinteticamente alcune direttive tattiche che il partito proletario internazionale, ricostituitosi nel secondo dopoguerra, nel quadro del bilancio generale del movimento comunista internazionale e delle ondate opportuniste che l’hanno distrutto, doveva applicare. Vi si può leggere quanto segue: “ Dalle pratiche esperienze delle crisi opportunistiche, e delle lotte condotte dai gruppi marxisti di sinistra contro i revisionismi della II Internazionale e contro la deviazione progressiva della III Internazionale, si è tratto il risultato che non è possibile mantenere integra l’impostazione programmatica, la tradizione politica e la solidità organizzativa del partito se questo applica una tattica che, anche per le sole posizioni formali, comporta attitudini e parole d’ordine accettabili dai movimenti politici opportunistici. Similmente, ogni incertezza e tolleranza ideologica ha il suo riflesso in una tattica ed in un’azione opportunistica. Il partito, quindi, si contraddistingue da tutti gli altri, apertamente nemici o cosiddetti affini, ed anche da quelli che pretendono di reclutare i loro seguaci nelle file della classe operaia, perché la sua prassi politica rifiuta le manovre, le combinazioni, le alleanze, i blocchi che tradizionalmente si formano sulla base di postulati e parole di agitazione contingenti comuni a più partiti. Questa posizione del partito ha un valore essenzialmente storico, e lo distingue nel campo tattico da ogni altro, esattamente come lo contraddistingue la sua originale visione del periodo che presentemente attraversa la società capitalistica. Il partito rivoluzionario di classe è solo ad intendere che oggi i postulati economici, sociali e politici del liberalismo e della democrazia sono antistorici, illusori e reazionari, e che il mondo è alla svolta per cui nei grandi paesi l’organamento liberale scompare e cede il posto al più moderno sistema fascista”.

Le posizioni del partito, al 1947, tratte queste conclusioni, non intendevano certo negare l’esistenza di situazioni evolventisi in modi e con tempi diversi per i paesi che non erano annoverabili tra i “grandi paesi” o per i paesi “importanti” (come, riprendendo gli esempi di Lenin, la Cina, l’India, l’Egitto, la Persia ecc.). Infatti, proseguendo, il testo afferma che: “Nel periodo, invece, in cui la classe capitalistica non aveva ancora iniziato il suo ciclo liberale, doveva ancora rovesciare il vecchio potere feudalistico, od anche doveva ancora in paesi importanti percorrere tappe e fasi notevoli della sua espansione, ancora liberistica nei processi economici e democratica nella funzione statale, era comprensibile ed ammissibile una alleanza transitoria dei comunisti con quei partiti che, nel primo caso, erano apertamente rivoluzionari, antilegalitari ed organizzati per la lotta armata, nel secondo caso assolvevano ancora un compito che assicurava condizioni utili e realmente ‘progressive’ perché il regime capitalistico affrettasse il ciclo che deve condurre alla sua caduta”. Il periodo storico era, dunque, quello nel quale, nei grandi paesi, all’ordine del giorno vi era la necessità di eliminare “l’imponente apparato statale militare di carattere non capitalistico” per il quale era giustificata “la tattica delle alleanze insurrezionali contro i vecchi regimi”, come nel caso della Russia 1917, e l’accelerazione del passaggio dell’economia nelle forme capitalistiche moderne. Inutile dire che l’alleanza transitoria dei comunisti qui sopra accennata era sempre intesa nella forma della massima indipendenza politica e organizzativa del partito comunista. Non per nulla il testo, poco più oltre, afferma che: “Nessuno dei movimenti a cui il partito partecipa, deve essere diretto da un sopra-partito o organo superiore e sovrastante ad un gruppo di partiti affiliati, nemmeno in fasi transitorie”. Per combattere ogni forma di opportunismo, soprattutto dopo la degenerazione della III Internazionale che passò attraverso la tattica delle “manovre, le combinazioni, le alleanze, i blocchi che tradizionalmente si formano sulla base di postulati e parole di agitazione contingenti comuni a più partiti”, tattica utilizzata dal partito bolscevico nella Russia precapitalistica ma pretesa valida anche per i paesi “di stabile regime borghese”, il nostro partito in queste tesi si preoccupò di sottolineare che “il passaggio tra le due epoche storiche della tattica comunista non può essere sminuzzato in una casistica locale e nazionale, né andarsi a disperdere nell’analisi delle complesse incertezze, che indubbiamente presenta il ciclo del divenire capitalistico” perché  tale atteggiamento tattico sarebbe sfociato “nella prassi deprecata da Lenin di ‘un passo avanti e due indietro’ “.

Ripetiamo la domanda: questa posizione porta a negare l’esistenza della questione nazionale – e perciò una tattica ben precisa del partito comunista rispetto a questa questione – in tutti i paesi in cui la borghesia non l’ha risolta né alla fine della seconda guerra imperialista mondiale, né dopo il ciclo delle lotte anticoloniali che generarono la cacciata delle vecchie potenze europee dalle colonie? Il cambio di tattica avanzata in queste tesi non significa negare l’esistenza di questioni politiche e sociali ancora aperte. Ed infatti, mentre da un lato si richiama il fatto che “la politica del partito proletario è anzitutto internazionale (e ciò lo distingue da tutti gli altri) fin dalla prima enunciazione del suo programma e dal primo presentarsi della esigenza storica della effettiva sua organizzazione”, dall’altro si ribadisce immediatamente che “come dice il ‘Manifesto’, i Comunisti, appoggiando dappertutto ogni movimento rivoluzionario che sia diretto contro il presente stato di cose, politico e sociale, mettono in rilievo e fanno valere, insieme alla questione della proprietà, quei comuni interessi del proletariato tutto intero, che sono indipendenti dalla nazionalità”.

L’atteggiamento tattico del partito proletario, quindi, non può prescindere né dal presente stato di cose, politico e sociale, né dai comuni interessi del proletariato internazionale, che sono indipendenti dalla nazionalità. Il presente stato di cose, politico e sociale, derivante dalla seconda guerra imperialistica e dalle sue conseguenze, è caratterizzato dalla “sicura influenza in ogni angolo del mondo, anche quello più arretrato nei tipi di società indigena, non tanto delle prepotenti forme economiche capitalistiche, quanto dell’inesorabile controllo politico e militare da parte delle grandi centrali imperiali del capitalismo; e per ora della loro gigantesca coalizione, che include lo Stato russo”. Nel 1947 il nostro partito leggeva perfettamente non solo la situazione del mondo all’uscita della seconda guerra mondiale, ma anche lo svolgimento della situazione nel periodo successivo (come i contrasti, i conflitti e le guerre che hanno punteggiato tutti questi decenni dimostrano ampiamente), sia nel lungo periodo di condominio russo-americano sul mondo, sia nel periodo apertosi successivamente al crollo dell’URSS. Le grandi centrali imperiali del capitalismo – il famoso “pugno di grandi potenze” richiamato da Lenin –, nonostante la concorrenza che si fanno tra di loro nell’”oppressione sempre maggiore dei popoli del mondo”, sono sempre interessate a mantenere il controllo politico e militare “in ogni angolo del mondo”, anche se ciò significa alimentare una catena di oppressioni da parte di Stati e potenze inferiori, continentali o regionali, come è il caso, ad esempio, di Israele nei confronti della nazione palestinese.

La tattica comunista, perciò, deve tener conto del presente stato di cose politico e sociale, dei comuni interessi del proletariato internazionale indipendenti dalla nazionalità, ma anche dello stato di estremo indietreggiamento della lotta di classe proletaria in tutto il mondo, in particolare nei paesi capitalistici avanzati, e del fatto che il partito proletario di classe oggi è presente, in realtà, a livello di teoria, di principi e di programma ma non ancora come forza organizzata in grado di influenzare i proletari se non limitatamente a pochi individui. Il fatto che il partito proletario di classe oggi non abbia ancora la forza di influenzare strati importanti di proletariato – e non importa di quale nazionalità – non toglie che a livello teorico e programmatico si debbano fissare, senza incertezze, le posizioni tattiche che caratterizzano anche nel presente il suo indirizzo.

Il partito proletario di classe non può esimersi dal dare la sua risposta a tutti i problemi della lotta sociale e politica tra le classi, e quindi a tutti i problemi che la società borghese, nelle sue complesse contraddizioni, non ha risolto. Ma le risposte non potranno che essere di classe, perciò assolutamente in linea e coerenti con i comuni interessi del proletariato internazionale e della sua comune lotta, al disopra delle differenze nazionali. Soltanto una visione idealista o metafisica può pensare che la lotta del proletariato contro la borghesia possa iniziare da subito, materialmente, dal livello più alto, da quello politico e internazionale. La visione marxista, che è materialistica e dialettica nel contempo, tiene conto della situazione storica reale dei rapporti economici e sociali nei diversi paesi, dei rapporti di forza esistenti fra le classi, dell’esperienza e della tradizione di lotta del proletariato nei diversi paesi, del grado e dell’estensione delle organizzazioni proletarie di difesa immediata, dell’influenza dei partiti opportunisti su queste organizzazioni e sul proletariato e della presenza o meno del partito proletario di classe e del suo grado di influenza sugli strati del proletariato. Ma tutto ciò non avrebbe alcun peso determinante nella formulazione delle posizioni tattiche e d’azione del partito proletario di classe se esso non tenesse nel giusto conto il peso dell’influenza dell’ideologia borghese sul proletariato, delle abitudini, delle tradizioni e dei pregiudizi che infestano concretamente la vita quotidiana delle masse proletarie e contro cui è vano attendersi un risultato positivo per la lotta di classe dalla “presa di coscienza” degli interessi generali del proletariato internazionale che esso dovrebbe preventivamente acquisire prima di ogni azione di lotta classista. Vorrebbe dire capovolgere la realtà e credere che per cambiarla gli uomini, prima di agire, devono acquisire idealmente l’intero obiettivo del cambiamento o affidarsi ad un ente (un gruppo, un partito-demiurgo) affinché modifichi gli eventi secondo un fine preciso. Perciò, credere che per i proletari palestinesi, colpiti dall’oppressione nazionale da decenni, prima da parte dell’Inghilterra, potenza imperialista che dominava sulla Palestina, poi da parte di Israele sullo stesso territorio e da parte degli Stati arabi dove le masse palestinesi si sono rifugiate, il problema nazionale non debba esistere, o debba essere un problema del tutto secondario, significa di fatto condividere gli interessi della borghesia israeliana e palestinese, interessate entrambe, pur in modi diversi, a schiacciare il proletariato palestinese per sfruttarlo ai propri e reciproci fini, condividere gli interessi delle borghesie arabe degli Stati della regione che temono il contagio della ribellione sociale verso i propri proletariati e il proprio contadiname povero, e gli interessi delle potenze imperialiste coinvolte nel Vicino e Medio Oriente per ragioni inerenti le risorse petrolifere e i punti strategici di questa regione-cerniera nel quadro dei contrasti interimperialisti a livello mondiale.

Data l’evoluzione della situazione storica dell’imperialismo in generale e dei paesi del Vicino e Medio Oriente in particolare, dopo la seconda guerra mondiale, di fronte al controllo politico e militare delle grandi centrali imperiali del capitalismo e al fatto che dal punto di vista economico è il modo di produzione capitalistico quello dominante, è evidente che in tutta la regione non vi è più il problema di passare da un modo di produzione feudale al modo di produzione capitalistico: per il movimento proletario non si pone, perciò, il problema della doppia rivoluzione come in Russia a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, ma direttamente il problema della rivoluzione proletaria di classe. Non si può, però, non considerare che nella regione lo svoglimento storico non è stato per nulla simile a quello dei paesi europei i quali, in quanto potenze coloniali ed imperialiste, non hanno facilitato per nulla alle nazioni presenti in quei territori la loro evoluzione economica, sociale e politica secondo il liberalismo e la democrazia che furono i parametri borghesi caratteristici in tutto il periodo storico in Europa fino al 1870: gli interessi coloniali ed imperialisti contrastavano frontalmente la spinta alla libertà borghese delle nazioni e soltanto in alcuni casi, come l’Egitto e la Persia (poi chiamata Iran), per rimanere nell’area araba e mediorientale, si sono avuti movimenti nazionalrivoluzionari in grado di giungere, pur se con una “rivoluzione dall’alto”, all’indipendenza nazionale e alla costituzione di uno Stato formalmente indipendente. Caso del tutto diverso è stato quello che ha portato alla costituzione di Israele, vero e proprio Stato-colono imposto dalle potenze imperialistiche vincitrici della seconda guerra mondiale nel territorio di Palestina come “soluzione” all’eterna diaspora del popolo ebraico e come “risarcimento” per le persecuzioni sofferte soprattutto in Europa e in Russia fino all’olocausto per mano nazifascista; uno Stato formatosi non con una lotta contro l’oppressore colonialista per liberare la propria nazione, ma soprattutto attraverso una lotta armata contro la popolazione palestinese al fine di ritagliarsi un territorio sul quale piantare la bandiera del più moderno capitalismo che mai quella regione avesse conosciuto.

L’oppressione nazionale palestinese ha quindi una radice molto profonda e per nulla lineare, ma dalle caratteristiche nettamente imperialiste che non può essere cancellata con un  tratto di penna.

 

PROLETARI D'ISRAELE E PROLETARI DI PALESTINA

Top

 

Non c’è dubbio che i proletari, israeliani o palestinesi che siano, come in tutti i paesi del mondo, hanno lo stesso tipo di rapporto con i rispettivi capitalisti: il rapporto classico tra proletariato e borghesia, ossia tra lavoro salariato e capitale. I capitalisti sfruttano la forza lavoro salariata per estorcerne pluslavoro, quindi plusvalore da cui ricavano i loro profitti; più i capitalisti sono potenti e armati, più possibilità hanno di schiacciare la forza lavoro salariata, dividendola in diversi strati messi fra di loro in concorrenza e così piegandola più facilmente ai loro interessi; più la forza lavoro salariata si piega alla forza economica e sociale dei capitalisti e più contribuisce a rafforzare il dominio della classe borghese. Ma non tutte le classi borghesi dominanti hanno la stessa forza; non tutti i proletariati si fanno schiacciare facilmente agli interessi borghesi. Le borghesie israeliana e palestinese hanno pesi economici, sociali e politici diversi, sia tra di loro che nei confronti dei rispettivi proletariati; la borghesia israeliana è la borghesia dominante, che domina non solo sul proprio proletariato ma anche sull’intera popolazione palestinese; il proletariato palestinese, perciò, a differenza del proletariato israeliano, subisce oltre all’oppressione salariale anche quella nazionale (oppressione che avvantaggia, però, anche la borghesia palestinese che non paga certo più caro il proletario palestinese di quanto lo paghi la borghesia israeliana). Nel territorio, inoltre, intervengono le borghesie imperialiste più forti al mondo, a difesa dei rispettivi interessi, ed è per questa ragione che tutto ciò che avviene in Israele-Palestina prende immediatamente una rilevanza internazionale. Perciò anche quel che riguarda il proletariato palestinese assume un peso internazionale aldilà del fatto di essere una massa proletaria numericamente molto più piccola di quella di tanti altri paesi molto più popolosi di Israele-Palestina. Non va nemmeno sottaciuto il fatto che Israele è sostenuto sui piani economico, finanziario e politico dall’imperialismo occidentale, soprattutto americano e, ultimamente, anche da quello tedesco. Tale sostegno contribuisce in modo determinante alla forza con cui la borghesia israeliana schiaccia la classe lavoratrice che sfrutta direttamente, a partire dal proletariato palestinese e dagli altri proletari immigrati per finire al proletariato israeliano.

A causa dell’oppressione nazionale, il proletariato palestinese viene sospinto nelle braccia della borghesia palestinese che ha tutto l’interesse ad alimentare la collaborazione interclassista sia in funzione della sua difesa dall’oppressione della borghesia israeliana, sia in termini di concorrenza con la borghesia israeliana nello sfruttamento della forza lavoro palestinese, sia per impedire al proletariato palestinese di imboccare la via della lotta di classe contro di essa. Le vicende storiche ci dicono che il proletariato palestinese, da sempre oppresso come nazionalità e come forza lavoro salariata, ha costantemente reagito all’oppressione anche armi alla mano, ma non ha mai avuto finora la possibilità di esprimere o di trovare una guida politica classista in grado di indirizzare la sua combattività, la sua indomita volontà di scrollarsi di dosso l’oppressione nazionale sotto la quale è costretto a sopravvivere da quando esiste, verso obiettivi proletari, indipendenti dagli interessi innanzitutto della propria borghesia palestinese.

L’ondata opportunista, seguita alla sconfitta del movimento rivoluzionario comunista degli anni Venti del secolo scorso, e alla sconfitta della rivoluzione bolscevica russa e dell’Internazionale Comunista dovuta al primeggiare dello stalinismo, ha distrutto non solo il partito comunista come unica guida del proletariato internazionale, ma anche le organizzazioni di difesa immediata e la loro tradizione classista espresse dal proletariato europeo che, all’epoca, era il più avanzato al mondo. Grazie ad una sconfitta del genere, non solo il proletariato europeo ma quello di tutti i paesi, una volta persa la propria guida politica di classe, è stato condotto nella seconda guerra mondiale completamente disarmato teoricamente e politicamente e indirizzato a versare il suo sangue sui due fronti imperialisti di guerra, quello democratico e quello nazifascista, ad esclusiva difesa degli interessi delle rispettive borghesie imperialiste. La ripresa della lotta di classe e, tanto più, la rinascita del movimento proletario rivoluzionario, in Europa e nel mondo, venivano in questo modo materialmente allontanate nel tempo per decenni. Oggi ancora, i proletari d’Europa, che potrebbero contare sulla storia delle proprie generazioni rivoluzionarie del passato, intossicati come sono di democratismo e di collaborazionismo interclassista, non sono in grado di ricollegarsi a quella storia, alle tradizioni di lotta che li hanno distinti nell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento, e perciò, non lottando per i propri interessi sul terreno dello scontro di classe contro le rispettive borghesie imperialiste, non sono d’aiuto né a se stessi né ai giovani proletariati dei paesi capitalisti di più recente sviluppo. Né, tanto meno, sono d’aiuto ai proletariati di nazionalità che non hanno un paese e uno Stato nazionale definiti, come è il caso dei proletari palestinesi, ma che subiscono la più feroce oppressione nazionale non solo nel proprio territorio d’origine e, quindi, da parte della borghesia dominante in quel territorio, ma anche da parte di tutte le borghesie imperialiste e delle borghesie dei paesi limitrofi nei quali, per vicende legate all’evoluzione delle lotte intestine e alla migrazione di una popolazione “senza patria” in cerca di una situazione meno oppressiva di quella dalla quale fugge, oltre che ai contrastanti interessi imperialistici presenti in quelle regioni, si sono forzatamente stabiliti. Come tutti sanno, più di 4 milioni di palestinesi, per lo più proletari, a parte quelli di Cisgiordania e Gaza, si sono stabiliti nei campi in Libano, in Giordania, in Siria.

Con la fine del secondo macello imperialista mondiale, le borghesie democratiche vincitrici hanno promesso una pace e un progresso economico per tutti i popoli del mondo che in realtà non avrebbero mai potuto mantenere (9), dimostrando nei fatti quel che Lenin affermava nel 1915, e cioè che l’imperialismo non è altro che l’oppressione sempre maggiore dei popoli del mondo da parte di un pugno di grandi potenze. Nel Vicino e Medio Oriente, l’eredità che hanno lasciato le ex potenze coloniali Gran Bretagna e Francia ritirandosi come presenza militare consiste, in realtà, in un groviglio inestricabile di contrasti di ogni genere, contrasti etnici, tribali e religiosi con origini precapitalistiche ai quali si sono aggiunti contrasti territoriali, economici, finanziari, politici di origine borghese. Laddove le grandi potenze mondiali interessate alla vasta regione, sia per le sue risorse petrolifere che per ragioni di strategia e di supremazia territoriale, sono intervenute e continuano ad intervenire, invece di risolvere i problemi nazionali sorti li hanno ancor più incancreniti; prima o poi, anche nei paesi in cui le rivendicazioni nazionali, come l’indipendenza politica e la formazione di uno Stato nazionale, apparivano superate, si è ripiombati nel marasma generale: Libano, Iraq, Libia, Siria, per citare gli esempi più recenti. E naturalmente Israele-Palestina, questione del tutto aperta e irrisolta dal 1948 in poi, ossia dalla costituzione dello Stato di Israele. Quanto diceva Lenin a proposito delle rivendicazioni democratiche, e quindi borghesi, sottolineandone la realizzabilità “soltanto in via d’eccezione e sempre in forma incompleta, snaturata”, non vale più? E’ evidente invece la sua piena validità, perché l’imperialismo non risolve i problemi nazionali ma li aggrava. 

Il proletariato palestinese, oltre ad avere a che fare con una borghesia nazionale vigliacca e mercenaria, non può nemmeno contare sulla solidarietà del proletariato ebreo israeliano che, invece, godendo di privilegi economici, sociali e politici grazie alla complicità con la propria borghesia, condivide di fatto l’oppressione nazionale esercitata da quest’ultima sulla popolazione palestinese in generale e sul  proletariato palestinese in particolare. E’ evidente che, al proletariato palestinese, la borghesia israeliana e il proletariato israeliano, di fatto solidali nell’oppressione dei palestinesi, si presentano insieme come nemici (10).

Se il proletariato ebreo israeliano non rompe con la propria borghesia che opprime l’intera popolazione palestinese, e soprattutto il proletariato palestinese, quest’ultimo non riuscirà mai a recepire che il rapporto di sfruttamento capitalistico lo rende oggettivamente fratello di classe dei proletari ebrei israeliani. I proletari palestinesi sentono sulla propria pelle, quotidianamente, la differenza di trattamento economico, politico e sociale tra lavoratori israeliani e palestinesi. Esiste, inoltre, un’ulteriore differenza di trattamento tra ebrei e arabi israeliani, connazionali tra di loro, sì, ma differentemente considerati per la loro origine etnica e per il loro originario credo religioso: l’ebreo, nello Stato ebraico, è privilegiato in quanto ebreo rispetto ad ogni altra appartenenza religiosa, etnica o razziale; il proletario arabo israeliano è di fatto un proletario di serie “b”. Ad una oppressione si aggiungono, così, altre oppressioni. La  borghesia israeliana sistematicamente sfrutta, opprime, imprigiona, uccide nei rastrellamenti e nei bombardamenti i proletari palestinesi dei Territori e di Gaza, e i proletari israeliani non alzano un dito contro la propria borghesia a loro difesa: come dovrebbero essere considerati dai proletari palestinesi se non complici del loro sfruttamento, del loro massacro? Quale potrà mai essere la via attraverso la quale i proletari israeliani, e in particolare i proletari ebrei, riusciranno a rompere gli stretti rapporti economici, sociali, politici, culturali, religiosi che li legano alla classe borghese ebraica? La situazione proletaria in Israele, nell’ultimo decennio, inoltre, è comunque cambiata poiché il capitale israeliano, alle prese da molto tempo con un proletariato palestinese per niente docile, ha aperto le porte all’immigrazione di proletari dall’Asia, dall’Europa dell’Est e dall’Africa per sostituire, almeno in parte, la manodopera palestinese: tale “apertura” è in gran parte in mano ai trafficanti di uomini, del tutto legalizzati, che forniscono ai capitalisti ebrei lavoratori schiavizzati e, perciò, a bassissimo costo. Aumenta così la concorrenza tra proletari e, fino a quando i proletari israeliani non si rivolteranno contro la propria borghesia in difesa non solo delle garanzie sociali di cui godono e che di fronte ad una profonda crisi economica i borghesi faranno saltare, ma anche in solidarietà con i proletari delle altre nazionalità oppresse, essi non potranno mai essere considerati fratelli di classe, alleati dei proletari non solo palestinesi ma anche delle altre nazionalità, ma solo nemici.

Sarà certamente una via estremamente difficile perché alle condizioni materiali, dunque economiche e sociali, che hanno favorito e che alimentano l’oscena unione tra proletari e borghesi ebrei si aggiungono forti condizionamenti culturali e religiosi che agiscono da tenace collante sociale. Nemmeno una profonda crisi dell’economia israeliana, con il conseguente aggravamento delle condizioni di vita e di lavoro dei proletari israeliani, sarà sufficiente a far capire loro che la classe borghese israeliana cercherà di salvare se stessa e i suoi profitti facendo pagare anche a loro il prezzo della crisi; e fino a quando la borghesia israeliana avrà a disposizione una massa proletaria di “seconda”, “terza” e “quarta” categoria – i proletari arabi israeliani, i proletari palestinesi, asiatici, dell’Europa dell’Est e africani – avrà sempre la possibilità di utilizzare questo bacino di proletariato come forza lavoro a salari da fame contro i quali, all’occorrenza, indirizzare la rabbia sociale dei proletari ebrei indicando i proletari delle altre nazionalità come la causa delle loro condizioni materiali aggravate. I proletari ebrei israeliani formano, di fatto, una solida aristocrazia operaia rispetto ai proletari di ogni altra origine, interessata a difendere il proprio tenore di vita e il proprio privilegio sociale difendendo la borghesia israeliana. Da questo punto di vista il proletariato ebreo israeliano è un proletariato fottuto: fottuto per la causa proletaria in Israele-Palestina e per la causa proletaria in Medio Oriente ed internazionale, ma non neutro perché la sua forza sociale è messa al servizio della causa borghese nazionale israeliana e della causa borghese internazionale dato che la borghesia israeliana è nata e vissuta sotto le ali protettrici dell’imperialismo occidentale e, in  particolare, dell’imperialismo americano.       

Aspettarsi che i proletari israeliani e palestinesi superino i contrasti etnici e nazionali come fosse il risultato della sola “presa di coscienza” dello stesso sfruttamento da parte delle reciproche borghesie, significa credere nei miracoli di un dio, Yahweh? Allah?… Significa, di fatto, appoggiare lo statu quo e, quindi, il dominio oppressivo israeliano sulla popolazione palestinese. C’è chi pretende che la lotta proletaria sia fin dall’inizio lotta di classe, cioè una lotta che si pone la finalità di combattere la classe borghese, in quanto classe dominante, per conquistare il potere politico, e che considera inutile, se non dannoso, che il proletariato impegni le proprie energie in lotte con obiettivi molto più parziali e limitati con il pretesto che queste lotte sfociano normalmente in obiettivi del tutto compatibili con la conservazione sociale borghese. Sostenere questo punto di vista è come dire che il proletariato non ha alcun bisogno di prepararsi, allenarsi, fare esperienza diretta nelle lotte economiche e nelle lotte parziali, per saggiare la propria capacità e la propria forza rispetto alle capacità e alla forza della classe borghese avversaria. E’ come dire che non ha alcun bisogno di verificare concretamente, nella pratica quotidiana, chi sta dalla parte proletaria e chi sta dalla parte borghese, e di verificare la tenuta della propria unione di classe e della solidarietà di classse che ne deriva, prima di essere impegnato in una lotta per la vita o per la morte, nella lotta di classe da portare fino in fondo, contro la dittatura della borghesia, fino alla conquista del potere politico e all’instaurazione della dittatura del proletariato. Sostenere questo punto di vista significa semplicemente aver gettato alle ortiche l’abc del marxismo ed essere passati armi e bagagli nel campo borghese nemico. Significherebbe pretendere dai proletari israeliani, legati da decenni mani e piedi al privilegio ebraico e, quindi, alla propria borghesia nazionale, e dai proletari palestinesi, oppressi e schiacciati oggettivamente anche dai proletari ebrei, che la loro lotta, per avere un senso, dovrebbe essere fin dall’inizio un’unica lotta da condurre insieme contemporaneamente contro le rispettive borghesie che li opprimono, dovrebbe essere, insomma, la lotta di classe, internazionale e internazionalista, per i più alti obiettivi rivoluzionari. Questa posizione, che a parole può apparire molto radicale e rivoluzionaria, invece è la più lontana dalla realtà e dal marxismo: prima di tutto perché non tiene conto del fatto che il proletariato israeliano, e in particolare il proletariato ebreo, è completamente asservito alla propria borghesia che gli fa godere i frutti dell’oppressione sui palestinesi e, poi, perché non tiene conto del fatto che – da quando esiste lo Stato di Israele – il proletariato israeliano non si è mai opposto con forza all’oppressione e alla repressione poliziesca e militare della popolazione palestinese da parte della propria borghesia, quindi è un proletariato che non ha nemmeno la possibilità di ricollegarsi ad un proprio passato classista semplicemente perché questo passato non esiste.

Il proletariato ebreo israeliano ha, dunque, di fronte al suo futuro solo una prospettiva di asservimento totale alla propria borghesia nazionale, e perciò è da considerare per sempre un nemico di classe alla pari della borghesia israeliana? Di fatto, non per “scelta cosciente”, ma per condizione materiale oggettiva, si presenta come un alleato della borghesia israeliana oppressiva e repressiva, perciò come “nemico” del proletariato e dei suoi interessi anche immediati. Nemico alla pari della borghesia israeliana? No, perché dal punto di vista dei rapporti di produzione e sociali il proletario, anche se venduto alla borghesia, è sempre un lavoratore salariato che può potenzialmente, in determinate circostanze storiche, ritrovare la sua collocazione sociale e politica all’interno della classe del proletariato e, perciò, delle sue prospettive di lotta di classe e, un domani, di lotta  rivoluzionaria; ma non sarà certo il proletariato più avanzato e in grado di influenzare positivamente i proletari di tutta le regione mediorientale, guidandoli verso gli obiettivi rivoluzionari. Nella realtà di oggi, il proletariato ebreo israeliano costituisce un serio ostacolo alla stessa lotta di difesa immediata e di sopravvivenza del proletariato palestinese: il suo salario è sporco del sangue dei proletari palestinesi!

Perché il suo comportamento sociale possa cambiare del tutto, rinnegando la sua alleanza con la borghesia israeliana per collocarsi finalmente sul fronte di classe proletario, le condizioni sociali che gli permettono di vivere nel privilegio sociale dovrebbero essere completamente sconvolte, gettandolo, almeno per ampi suoi strati, nell’abisso delle condizioni di sopravvivenza in cui è costretto il proletariato palestinese. Queste condizioni sociali non potranno che essere la conseguenza di un terremoto economico e sociale non solo della regione mediorientale, ma internazionale, tale da spingere le classi borghesi di ogni paese colpito da questa crisi a stritolare i propri proletari a tal punto da provocarne una estesa e profonda ribellione, creando in questo modo una delle condizioni materiali per le quali i proletari di ogni paese si rendono conto di essere una classe sociale che ha interessi contrari a quelli borghesi, che ha una forza sociale da mettere in campo che le classi borghesi temono sopra ogni cosa, e che ha la necessità di organizzare la propria difesa e il proprio contrattacco in modo indipendente da ogni altra classe sociale. Abbiamo detto: una delle condizioni materiali, perché le altre condizioni materiali necessarie alla lotta proletaria di classe sono costituite dalla effettiva ed ampia organizzazione proletaria in associazioni di difesa economica immediata, dall’esperienza di lotta sul terreno immediato e sul terreno politico, e dalla presenza, ed influenza, del partito di classe – il partito comunista che non può che essere internazionale – caratterizzato dalla solida e costante difesa della teoria della rivoluzione, dai principi e dal programma politico chiari e definiti per l’intero movimento proletario internazionale, organizzato coerentemente con quei principi e quel programma e stabilmente indipendente da ogni altro partito, perciò in grado di mettere a frutto l’esperienza di lotta antiborghese e anticapitalistica del proletariato nel suo sviluppo storico per alimentare la solidarietà di classe e l’unione dei proletari al di sopra delle divisioni nazionali, etniche, culturali, religiose ecc.

Sarà in grado il proletariato ebreo israeliano di rinnegare i decenni di alleanza e di complicità con la propria borghesia e dimostrare, ai proletari palestinesi innanzitutto, e ai proletari di ogni altro paese, di avere finalmente preso il suo posto all’interno del fronte proletario internazionale di classe? Non lo possiamo sapere, ma è certo che sarà estremamente difficile. Il futuro dei proletari israeliani, come affermavamo in un articolo passato rivolgendoci idealmente a loro (11) “sta nel futuro della lotta di classe proletaria innanzitutto contro la vostra borghesia di casa, lotta che può trovare i veri e autentici alleati soltanto nei fratelli di classe proletari – al di sopra di ogni distinzione di nazionalità – e i vostri fratelli di classe sono prima di tutto i proletari palestinesi ai quali dovete la vostra solidarietà per il solo fatto che subiscono l’oppressione nazionale da parte della vostra borghesia. Ma per solidarizzare effettivamente da proletari siete obbligati a spezzare nettamente il legame che vi stringe nella collaborazione con i vostri borghesi, con i vostri capitalisti, con i vostri governanti. Solo se riuscirete a spezzare questo legame, se riuscirete a liberarvi dall’abbraccio velenoso e soffocante del nazionalismo ebraico e del democratismo borghese, sarete in grado non solo di portare solidarietà ai proletari che la vostra borghesia opprime, ma anche di scendere sul terreno della lotta di classe in difesa dei vostri esclusivi interessi operai contro gli interessi dei borghesi israeliani, interessi che li portano a sfruttare voi in quanto lavoratori salariati e, più brutalmente, i proletari palestinesi approfittando dell’oppressione nazionale esercitata su tutto il popolo palestinese”.

Se il legame che stringe il proletariato israeliano, ed ebraico in particolare, alla propria borghesia non verrà spezzato, i proletari non solo palestinesi, ma di ogni paese del Medio Oriente e di ogni altro paese al mondo, potrebbero trovarsi il proletariato ebreo israeliano, anche nella situazione di crisi rivoluzionaria, sul fronte opposto, borghese e controrivoluzionario, immolatosi alla causa borghese non solo nazionale israeliana, ma imperialista, perché incapace di rompere quel maledetto legame sociale e religioso che lo imprigiona agli interessi del nemico di classe. Ma un altro legame va spezzato: quello che unisce i proletari palestinesi alla propria borghesia che usa da sempre l’oppressione nazionale, che d’altronde essa stessa subisce da parte della borghesia israeliana, come motivo fondamentale per asservire il proletariato palestinese ai propri interessi economici e politici. Il proletariato palestinese, spinto a ribellarsi continuamente all’oppressione salariale e nazionale, non può attendere che il proletariato israeliano, rendendosi conto di essere uno strumento dell’oppressione nazionale in mano alla propria borghesia, rompa con essa e lotti contro di essa; il proletariato palestinese può contare solo e soprattutto sulle proprie forze. Come sottolineavamo nel nostro articolo appena citato (12), i proletari palestinesi “non avranno un vero aiuto nella loro lotta se non dalla loro stessa lotta al cui sostegno è chiamato il proletariato delle altre nazioni. I proletari palestinesi hanno la possibilità di una difesa efficace dei propri interessi di classe soltanto superando il limite angusto della ‘nazionalità palestinese’, il limite angusto della piccola nazione. (...) La vostra via non è nell’unione con i diversi strati borghesi che non vi offrono se non inganni e nazionalismo (...) La via d’uscita è la più ardua e difficile, quella dell’organizzazione indipendente di classe, in quanto proletari e non in quanto ‘palestinesi’, a difesa delle condizioni di lavoro e di vita proletarie; quella dell’organizzazione indipendente della resistenza quotidiana al capitale, l’unica ‘resistenza’ che genera forza e solidarietà nella classe proletaria e che la difende da cedimenti opportunistici. La via d’uscita non può che essere di classe e non di popolo; proletaria e antiborghese e non di popolo; indipendente sul piano organizzativo e su quello dei metodi di lotta e non confuso nella democratica impotenza del popolo. Su questo terreno, sul terreno della lotta di classe, aperta e cosciente, e solo su questo, anche la lotta contro l’oppressione nazionale assume forza e capacità di successo, e può attirare nella lotta i proletari di altre nazionalità spronandoli alla solidarietà attiva. Al di fuori della lotta di classe, al di fuori dell’organizzazione proletaria indipendente di classe, la martoriata storia del proletaraito e del popolo palestinese continuerà senza fine”.

Su questa strada un aiuto potrebbe venire dai proletari dei paesi mediorientali e dei paesi arabi del Nord Africa che hanno lottato e lottano sul terreno della difesa immediata degli interessi economici di classe, come nel caso dell’Egitto, dell’Algeria, della Tunisia, del Libano, e un aiuto ancor più decisivo dovrebbe venire dai proletari dei paesi imperialisti il cui principale compito resta quello di rompere in modo drastico i legami che li avvincono alle rispettive borghesie riconquistando finalmente il terreno della lotta classista antiborghese, unico terreno fertile per lo sviluppo della lotta di classe più generale.

I proletari d’Europa e d’America hanno avuto una lunga tradizione di lotta classista e rivoluzionaria, tradizione che è stata calpestata e sepolta dall’opportunismo che in diverse ondate ha combattuto, e finora vinto, l’ascesa del movimento di classe del proletariato internazionale. A quella gloriosa tradizione, che ha segnato il cammino dell’emancipazione dal capitalismo dei proletari di tutto il mondo, i proletari d’Europa e d’America dovranno ricollegarsi se non vorranno continuare a versare sudore e sangue a beneficio esclusivo degli interessi borghesi e se non vorranno essere ciechi strumenti dell’oppressione delle nazioni più deboli da parte dei grandi paesi imperialistici. “Soltanto attraverso la lotta di classe portata in modo organizzato e cosciente dal proletariato – scrivevamo nell’articolo sopra citato (13) – indipendentemente dalle esigenze dell’economia capitalistica, nazionale o aziendale che sia, e fuori e contro ogni tipo di collaborazione interclassista, è possibile dare un futuro anche alle popolazioni oppresse dagli Stati capitalisticamente più forti. La lotta di classe combatte innanzitutto contro l’oppressione salariale, contro la schiavitù del lavoro salariato, ed è grazie a questa basilare resistenza al capitale e alla classe borghese che è possibile portare con successo la lotta contro ogni forma di oppressione, oppressione nazionale compresa”. E proprio per la grande forza oppressiva rappresentata dai paesi imperialistici più forti, i proletari d’Europa e d’America hanno un dovere classista centrale nei confronti dei proletari di tutti gli altri paesi: le borghesie imperialiste rappresentano la dittatura del capitale su tutti i popoli del mondo e, quindi, la più sistematica oppressione dei paesi capitalisticamente più deboli e delle piccole nazioni da parte di un pugno di grandi paesi da cui dipendono l’ordine e il disordine mondiale. Senza la discesa sul terreno della lotta di classe e, in prospettiva, rivoluzionaria, del proletariato dei paesi capitalisticamente più forti, la lotta, pur se generosa e tenace dei proletariati dei paesi della periferia dell’imperialismo, incontrerà ostacoli enormi – come li incontrò la rivoluzione proletaria in Russia dal 1917 in poi, pur se vittoriosa nel proprio paese – ad indirizzarsi sulla strada dell’emancipazione generale dal capitalismo, unica strada per farla finita con ogni tipo di oppressione e per superare definitivamente la divisione sociale in classi contrapposte.

 

LA PROSPETTIVA DELLA LOTTA DI CLASSE PROLETARIA INTERNAZIONALE NON CANCELLA LA LOTTA DI CLASSE A LIVELLO NAZIONALE

Top

 

Secondo il Manifesto del 1848 il proletariato lotta – deve lottare – prima di tutto contro la propria borghesia; è solo sulla base di questa lotta classista che può nascere e svilupparsi la solidarietà tra proletari dei diversi paesi. Il motto “proletari di tutti i paesi unitevi!” è un punto d’arrivo della lotta di classe internazionale dei proletariati dei diversi paesi, non un punto di partenza. Resta il fatto che il proletariato del paese che ne  opprime un altro, può dimostrare al proletariato del paese oppresso di essere solidale, fratello di classe, parte della stessa classe proletaria internazionale, soltanto attraverso la sua lotta contro la propria borghesia. E’ dovere del proletariato del paese oppressore lottare contro la propria borghesia non solo perché è la classe  dei capitalisti che lo sfrutta direttamente, ma anche perché la propria borghesia opprime altri popoli, e quindi altri proletariati che sono invece storicamente gli unici alleati nella lotta generale per l’emancipazione dal lavoro salariato.

La fine delle vecchie forme di colonialismo e il corrispondente sviluppo imperialista del capitalismo non hanno attenuato l’oppressione nazionale né da parte delle borghesie imperialiste, né da parte delle borghesie nazionali che hanno ambizioni di supremazia regionale, come non hanno attenuato il militarismo e il dispotismo sociale di stampo borghese, aldilà dell’evoluzione democratica dei diversi regimi borghesi. All’oppressione sociale fondamentale nella società borghese, che è quella salariale, si sono aggiunte e aggravate altre oppressioni (della donna, nazionale, razziale, etnica, religiosa ecc.), derivanti sia dalla lotta di concorrenza fra le borghesie dei diversi paesi, sia dalla lotta contro le masse contadine e proletarie di ogni paese per sottometterle agli interessi borghesi regionalmente o internazionalmente dominanti. Questa lotta della borghesia contro il proletariato, nella fase imperialista dello sviluppo capitalistico, nonostante sia aumentata anche la pressione delle borghesie più forti nei confronti delle borghesie più deboli, non ha cancellato i caratteri fondamentali del capitalismo che sono radicati nello sfruttamento della forza lavoro salariata resa sempre più schiava del modo di produzione capitalistico e dei suoi rapporti di produzione e sociali. Che la classe borghese di un paese sia più o meno forte rispetto alle classi borghesi di altri paesi, non toglie che in ciascun paese il potere borghese si sia sempre più concentrato e centralizzato aumentando di fatto il dispotismo di fabbrica e il dispotismo sociale, dunque ogni forma di oppressione la cui vittima principale è inesorabilmente il proletariato. Caso mai, nei paesi più deboli rispetto ai paesi imperialisti che sono di fatto i padroni del mondo, il proletariato subisce inevitabilmente un’oppressione sociale più dura spesso accompagnata dalle altre oppressioni ricordate, nazionale, razziale, religiosa ecc. 

I comunisti sono, da sempre, contro tutte le oppressioni esistenti nella società divisa in classi e non solo contro l’oppressione salariale di cui soffre il proletariato di ogni paese; naturalmente sono sempre contro l’oppressione di un popolo da parte di un altro popolo, ma non per questo confondono gli interessi di classe proletari con gli interessi delle altre classi sociali, e della borghesia in particolare. Il punto di vista dei comunisti è un punto di vista di classe, non interclassista, non “moralista”, “umanitario”, “caritatevole”, “compassionevole” né derivante da un falso concetto di “giustizia sociale” e di “libertà” che in regime capitalista sono impossibili; perciò la lotta proletaria contro l’oppressione borghese è lotta contro la classe borghese che è classe dominante in forza della proprietà dei mezzi di produzione, dei mezzi di distribuzione e dell’appropriazione privata di tutti i prodotti del lavoro umano, di tutta la terra, dei mari e dei cieli. Tale dominio è esercitato concretamente attraverso la forza militare e la concentrazione del potere nello Stato di ogni paese. Le masse proletarie subiscono questo potere e questa oppressione perché spossessate di ogni risorsa di sopravvivenza, tenute divise attraverso la concorrenza al loro interno e sottomesse, ideologicamente e organizzativamente, grazie alle diverse forme di influenza messe in opera dalle classi dominanti borghesi e dalle forze opportuniste sui piani economico, sociale, politico e religioso. Ma la forza oggettiva, e storica, del proletariato, sta proprio nella sua condizione-base di essere la classe produttrice per eccellenza e di costituire ormai la maggioranza di ogni popolazione. Tale forza, attualmente ancora virtuale, potrà trasformarsi in forza cinetica, storicamente attiva, quando si indirizzerà – come già è avvenuto in precedenti svolti storici – nella prospettiva della lotta di emancipazione dalla moderna schiavitù salariale.

I comunisti poggiano la lotta per l’emancipazione dell’intera specie umana da ogni divisione di classe, e quindi da ogni oppressione di classe, sulla lotta della classe del proletariato, unica classe rivoluzionaria dell’epoca moderna perché è la vera classe produttrice di questa società e perché non ha nulla da difendere nella società borghese, ma ha tutto l’interesse – e la potenziale forza sociale – per superare ogni divisione della società in classi contrapposte. Il superamento definitivo di ogni forma di oppressione non avverrà se non con la distruzione della società borghese, ultima società storicamente divisa in classi, e sostituendo definitivamente il modo di produzione capitalistico con il modo di produzione comunista.

I comunisti sanno che la lotta per raggiungere questo obiettivo storico non è la lotta di classe del proletariato contro la borghesia solo del proprio paese, ma è la lotta di classe del proletariato a livello internazionale portata fino in  fondo, fino alla vittoria della dittatura internazionale del proletariato per la quale è indispensabile che il proletariato abbia come guida il partito politico di classe, il partito comunista, internazionale e internazionalista, guida non solo teorica e ideologica, ma anche pratica e organizzativa in campo sociale, come in quello politico e, ragione di più, militare. Sanno, però, che il proletariato potrà elevare la sua lotta contro la propria borghesia al livello politico generale, quindi per la conquista del potere politico, solo grazie alla maturazione dei fattori sociali e politici che permetteranno ai reparti più avanzati del proletariato di ogni paese di condurre – sotto la guida e l’influenza del partito comunista internazionale – la gran parte del proletariato nella lotta di classe, organizzata sia sul terreno immediato che sul terreno politico, contro la propria borghesia. Ma è storicamente dimostrato che la lotta rivoluzionaria del proletariato non potrà scatenarsi e svilupparsi simultaneamente in tutti i paesi del mondo, o in un gran numero di paesi, proprio per il diseguale sviluppo del capitalismo nei diversi paesi e della inevitabile maturazione diseguale delle contraddizioni e dei fattori economici, sociali e politici che porteranno gli antagonismi di classe alla loro esplosione sociale. La stessa cosa avviene per la lotta di classe del proletariato: per quanto i collegamenti tra le economie e i paesi capitalistici nell’epoca imperialista siano molto più stretti di un tempo, facilitando le comunicazioni fra di loro e la reciproca influenza, e per quanto questi più stretti legami possano facilitare il contagio delle contraddizioni sociali e delle reazioni proletarie alle situazioni intollerabili create dalle difficoltà economiche capitalistiche, l’incendio della lotta proletaria di classe partirà sempre da un paese per poi, a condizioni favorevoli, propagarsi agli altri paesi. La velocità della propagazione della lotta di classe e la sua estensione ai diversi paesi non dipende dalla volontà cospirativa di gruppi rivoluzionari né dall’estensione della propaganda comunista nelle file proletarie dei diversi paesi. Lo scatenamento della lotta di classe, per di più rivoluzionaria, è dovuto alla dinamica estremamente complessa di fattori materiali che in determinati svolti storici trovano la combinazione favorevole e un proletariato preparato a sviluppare la lotta, che già è spinto a fare per sopravvivere nella società borghese, sul piano più generale e politico: la lotta di classe del proletariato è la lotta di difesa economica immediata che trascresce sul piano politico ponendo di fatto il problema del potere politico centrale; “la lotta del proletariato contro la borghesia – afferma il Manifesto del 1848 – è in un primo tempo lotta nazionale, anche se non sostanzialmente, certo formalmente. E’ naturale che il proletariato di ciascun paese debba anzitutto sbrigarsela con la propria borghesia” (14). Concetto ribadito con estrema chiarezza da Marx nella sua aspra Critica al Programma di Gotha (1875) in cui, tra gli altri, attacca senza mezzi termini il quinto punto del  programma di Gotha in cui si afferma che “la classe operaia opera per la propria liberazione anzitutto nell’ambito dell’odierno Stato nazionale, consapevole che il necessario risultato del suo sforzo, che è comune ai lavoratori di tutti i paesi civili, sarà l’affratellamento internazionale dei popoli”; qui Marx afferma invece che la classe operaia, per avere la possibilità di combattere, “si deve organizzare nel proprio paese, in casa propria, come classe, e che l’interno di ogni paese è il campo immediato della sua lotta”. Abbiamo sottolineato apposta il termine campo immediato della sua lotta, perché nella concezione marxista la classe operaia, dal punto di vista delle sue condizioni sociali e della sua lotta per liberarsi dalla schiavitù salariale, è prima di tutto internazionalista. “Per questo – continua Marx – la sua lotta di classe è nazionale, come dice il ‘Manifesto comunista’, non per il contenuto, ma per la forma”! (15). Che fine aveva fatto, dunque, l’internazionalismo nel Programma di Gotha? Si riduceva “alla coscienza che il risultato”, in questo caso della lotta della classe operaia tedesca, “sarà ‘l’affratellamento internazionale dei popoli’, frase presa a prestito dalla borghese Lega per la libertà e per la pace, e che deve passare come equivalente dell’affratellamento internazionale delle classi operaie nella lotta comune contro le classi dominanti e i loro governi. Nemmeno una parola, dunque, delle funzioni internazionali della classe operaia tedesca!”

All’opportunismo di tipo lassalliano con le sue posizioni “nazionaliste”, ha fatto da contraltare un’altra  tendenza opportunista secondo la quale la posizione marxista sarebbe superata in quanto lo sviluppo del capitalismo, avvolgendo strettamente i paesi del mondo intero e spingendo le borghesie dei diversi paesi ad alleanze sempre più strette in funzione antiproletaria, toglierebbe al proletariato di un solo paese la forza di battersi sul terreno di classe contro la propria borghesia nazionale; dovendosela, quindi, vedere fin da subito con le borghesie dei diversi paesi con le quali la borghesia del proprio paese è alleata, dovrebbe – prima di intraprendere la lotta nazionale – stringere legami e accordi con i proletariati degli altri paesi per scatenare la lotta di classe internazionale. Secondo questa visione, la classe operaia per condurre con successo la sua lotta, dovrebbe saltare la fase dell’organizzazione in “casa propria”, che è il campo immediato della sua lotta, e porsi fin dall’inizio sul piano più alto, internazionale. Questa tendenza, in realtà, scambia la forma con il contenuto. Per il marxismo il contenuto della lotta di classe per la classe operaia è internazionalista, ma la forma non può che essere all’inizio nazionale, perché le condizioni storiche dello sviluppo dell’economia della società e della formazione degli Stati borghesi poggiano su basi nazionali. “La borghesia moderna”, si legge nel Manifesto del 1848, “è essa stessa il prodotto d’un lungo processo di sviluppo, d’una serie di rivolgimenti nei modi di produzione e di traffico” e, “dopo la creazione della grande industria e del mercato mondiale, si è conquistata il dominio politico esclusivo nello stato rappresentativo”. Ma questo dominio politico della classe borghese – espresso attraverso il potere statale che “non è che un comitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese” – non poteva e non può attuarsi che sulla base della società divisa in classi in cui lo sviluppo economico di ogni paese, ereditando dalla società feudale mezzi di produzione e di scambio già esistenti e, quindi, condizioni di sviluppo precedenti del tutto ineguali, non faceva che esaltare le differenze dividendo il mondo tra paesi civili e poi supersviluppati capitalisticamente e paesi barbari e capitalisticamente arretrati: ineguagliaza di sviluppo che ha determinato la formazione di Stati nazionali più forti e dominanti e Stati nazionali più deboli e dominati, rappresentazione essenziale a livello politico della forza economica e nazionale di ogni Stato. Per quanto l’economia capitalistica progredisca sempre più sul terreno di un mercato che è incontestabilmente mondiale, non è in grado di offrire alla classe borghese, che dell’economia capitalistica gode tutti i vantaggi sociali, la via per  superare le proprie contraddizioni: tra produzione sociale e appropriazione privata, tra capitale e lavoro salariato, tra città e campagna, tra nazione e nazione, tra borghesia di un paese e le borghesie straniere. Un paese, definito da un potere statale e da interessi nazionali borghesi da sviluppare mondialmente e da difendere, è il campo immediato dello scontro di classe tra borghesia dominante e proletariato: non si può prescindere da questa realtà. Il proletariato, la classe dei lavoratori salariati, “si sviluppa nella stessa proporzione in cui si sviluppa la borghesia” (Manifesto, 1848); gli operai vivono “solo fintantoché trovano lavoro” e “trovano lavoro fintantoché il loro lavoro aumenta il capitale”. Semplici accessori delle macchine e dei mezzi di produzione, gli operai, “asserviti giorno per giorno, ora per ora dalla macchina, dal sorvegliante e soprattutto dal singolo borghese fabbricante in persona”, formano prima di tutto una classe per il capitale. La lotta operaia non può che partire da queste condizioni immediate e potrà elevarsi a lotta di classe solo grazie al collegamento tra operai delle diverse fabbriche e località; le molte lotte locali, se hanno dappertutto “uguale carattere”, uguale contenuto classista, possono essere centralizzate nella forma di una lotta nazionale. Tutto questo stadio di sviluppo della lotta operaia non può essere saltato; in determinate condizioni storiche molto favorevoli questo sviluppo può essere molto rapido, in altre condizioni storiche, come le attuali, questo sviluppo è ancora piuttosto lontano e di là da venire; ma, in ogni caso, è materialisticamente certo che la lotta di classe proletaria non potrà ripresentarsi sulla scena storica se non passando in un primo tempo come lotta nazionale, contro la propria borghesia. Per non essere internazionalista a parole, ma nei fatti, il proletariato di ogni paese deve lottare prima di tutto contro la propria borghesia; è questa lotta che pone le basi per l’unione dei proletari di tutti i paesi.

Il marxismo non è l’analisi del capitalismo dell’Ottocento da “aggiornare” deducendo altre tesi e altre teorie dai dati di un capitalismo che si è via via sviluppato, ma è la teoria della rivoluzione proletaria nella moderna società capitalistica di cui sono stati previsti l’intero sviluppo fino alle conseguenze più estreme, le crisi economiche non solo a livello di ciascun paese ma a livello mondiale, le guerre regionali e mondiali e la rivoluzione proletaria che, per vincere definitivamente il capitalismo, dovrà essere internazionale, ma che potrà iniziare anche da un solo punto, un solo paese e non necessariamente da quello capitalisticamente più sviluppato, come già successe con la Comune di Parigi nel 1871 e con la Rivoluzione russa dell’Ottobre 1917.

Sostenere che la vera lotta proletaria antiborghese e, quindi anticapitalistica, che i proletari palestinesi sono chiamati a fare è solo la lotta insieme ai proletari israeliani e ai proletari di tutti gli altri paesi, compresi quelli imperialisti, è come credere che nell’epoca dell’imperialismo siano svaniti i capitalismi nazionali, che esista soltanto una specie di “superimperialismo” che domina il mondo e, di conseguenza, che la lotta “nazionale” del proletariato, nel senso del Manifesto, non abbia più possibilità di sviluppo in lotta internazionale; come dire che la lotta di classe del proletariato a livello “nazionale” non avrà più alcun senso e dovrà essere  sostituita fin dal suo primo accenno in una lotta (se non sostanzialmente, almeno formalmente) “internazionale”. Vorrebbe dire che i proletari palestinesi – e, come loro, altri proletariati in condizioni simili – lasciati completamente soli, sia dai proletari israeliani che dai proletari europei e nordamericani, di fronte ai sistematici attacchi alla loro stessa esistenza, continueranno ad essere oppressi e massacrati per un tempo infinito senza doversi organizzare e reagire, in attesa che i proletari ebrei israeliani, per cominciare, mettano a repentaglio tutti i vantaggi economici, sociali e politici con cui la borghesia ebrea li tiene avvinti alla propria difesa, e scendano in lotta contro la propria borghesia nazionale e le borghesie imperialiste che la sostengono.

Questa posizione condanna a vita il proletariato palestinese, ed assolve di fatto la viltà del proletariato israeliano e giustifica l’oppressione e la repressione israeliana nei confronti dei palestinesi; è una posizione che costringe il proletariato palestinese ad essere perennemente prigioniero delle forze borghesi nazionaliste e confessionali che adottano politiche conciliatrici e collaborazioniste, come quelle della cosiddetta Autorità Palestinese di Cisgiordania, con i supposti “nemici” borghesi di Tel Aviv o delle altre capitali arabe o imperialiste; o politiche di contrasto armato, come quelle degli islamisti di Hamas a Gaza o di Hezbollah nel Libano, affogando gli interessi di classe nella rete degli interessi nazionalistici borghesi sia di marca palestinese sia di marca israeliana o di qualsiasi altra nazione. E’ una posizione, inoltre, che rafforza l’asservimento dei proletari israeliani alla propria borghesia, lasciando un enorme spazio alla  deleteria influenza della borghesia palestinese sul proprio proletariato, di una borghesia vigliacca che vende sistematicamente il proprio proletariato al capitalismo che di volta in volta gli consente di portare avanti la sua sporca bisogna, saudita, giordano, siriano, libanese, egiziano, tunisino, iraniano, europeo, russo o americano che sia. Nella realtà vera e non nelle fantasticherie di facili enunciazioni del tutto vuote, il proletariato palestinese ha di fronte a sé, come nemico numero uno, la borghesia palestinese, la propria borghesia nazionale, e non potrà mai conquistare il terreno della lotta di classe se non se la sbrigherà innanzitutto con la propria borghesia (come a suo tempo fece, durante la guerra franco-prussiana, il proletariato parigino con la Comune di Parigi); solo in questo modo conquisterà la fiducia nelle proprie forze e conquisterà la fiducia anche dei proletariati degli altri paesi, scuotendo, forse, lo stesso proletariato israeliano dal suo torpore e dalla sua falsa sicurezza sociale.

 

IL MITO DI UNO STATO UNICO IN TERRA DI PALESTINA...

Top

 

Prima di entrare nel vivo di questa questione, vale la pena riprendere anche sinteticamente il concetto marxista di Stato. Il primo paragrafo del primo capitolo dello scritto di Lenin Stato e rivoluzione si intitola: 1. Lo Stato, prodotto dell’antagonismo inconciliabile tra le classi. Lenin riprende, qui, il famoso passo di Engels (da L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato) in cui quest’ultimo sottolinea che lo Stato è “un prodotto della società giunta a un determinato stadio di sviluppo, è la confessione che questa società si è avvolta in una contraddizione insolubile con se stessa, che si è scissa in antagonismi inconciliabili che è impotente a eliminare. Ma perché questi antagonismi, queste classi con interessi economici in conflitto, non distruggano se stessi e la società in una sterile lotta, sorge la necessità di una potenza che sia in apparenza al di sopra della società, che attenui il conflitto, lo mantenga nei limiti dell’ordine; e questa potenza che emana dalla società, ma che si pone al di sopra di essa e che si estranea sempre più da essa, è lo Stato”. Dunque lo Stato non è altro che “il prodotto e la manifestazione degli antagonismi inconciliabili tra le classi”, e soltanto in apparenza si pone al di sopra delle classi e della società, e soltanto in apparenza svolge il ruolo di “organo della conciliazione delle classi” (16).

Per il marxismo, e continuiamo a citare da Engels, capitolo IX, Barbarie e civiltà, “lo Stato si caratterizza in primo luogo con la classificazione degli individui secondo il territorio”, e in secondo luogo esso “è l’istituzione di una forza pubblica (...)” che “non consiste solo in uomini armati, ma anche in accessori materiali, in prigionieri e in palazzi di giustizia di ogni genere”, una forza pubblica che “si rafforza a misura che gli antagonismi di classe diventano più acuti in seno allo Stato, e che lo Stato vicino diventa più possente e più popoloso; basti esaminare la nostra Europa di oggi, nella quale la lotta delle classi e la concorrenza delle conquiste hanno portato la forza pubblica a tale altezza che essa minaccia di assorbire la società intera e lo Stato stesso” (17). Qui è già tracciato l’inevitabile sviluppo del militarismo in un corso storico che porta il capitalismo al suo stadio estremo, l’ultimo, quello dell’imperialismo, come dirà Lenin.

Per il marxismo, sottolinea Lenin, “lo Stato è l’organo del dominio di classe, un organo di oppressione di una classe da parte di un’altra; è la creazione di un ‘ordine’ che legalizza e consolida questa oppressione moderando il conflitto fra le classi” (18). La posizione secondo la quale lo Stato sarebbe al di sopra delle classi e della società e, perciò, avrebbe il potere di conciliare gli interessi contrapposti fra le classi, è una posizione opportunista che maschera la realtà e che contribuisce ad ingannare le classi oppresse – che costituiscono la maggioranza della popolazione – illudendole che attraverso “lo Stato” – in realtà, organo del dominio di classe borghese – sia possibile, attraverso tutta una serie di mediazioni politiche, ottenere l’armonia sociale tra le classi, il rispetto degli interessi delle diverse classi, la collaborazione pacifica e volontaria fra le classi.

“Poiché lo Stato – continua Engels – è nato dal bisogno di frenare gli antagonismi delle classi, ma contemporaneamente essendo nato in mezzo al conflitto stesso, in linea generale è niente più che lo Stato della classe più forte, di quella che regna economicamente e che a mezzo dello Stato diventa anche la classe preponderante dal punto di vista politico, e crea per questo mezzi nuovi per subordinare e sfruttare la classe oppressa”. Non solo lo Stato antico e lo Stato feudale erano organi dello sfruttamento degli schiavi e dei servi, ma anche “lo Stato rappresentativo di oggi è lo strumento dello sfruttamento del salariato da parte del capitale” (19). Lo Stato moderno, lo Stato borghese è “una macchina speciale per la repressione di una classe da parte di un’altra e per di più della maggioranza da parte della minoranza”, per “la sistematica repressione della maggioranza degli sfruttati da parte di una minoranza di sfruttatori” (Lenin, Stato e rivoluzione). Dunque, la macchina statale moderna non è altro che lo strumento più efficace, perché centralizzato e armato, in mano alla classe borghese dominante: questo speciale strumento di sfruttamento della classe oppressa, nella società divisa in classi è l’organo specifico e centralizzato del dominio di classe borghese. Ma, come sottolineano Engels e Lenin, lo Stato non è soltanto il potere centralizzato della classe dominante borghese atto allo sfruttamento della classe oppressa; è anche lo strumento necessario nella lotta di concorrenza nelle conquiste dei mercati del mondo: i mercati, per la borghesia capitalistica, non sono che territori economici che, nello sviluppo incessante del capitalismo, costituiscono nello stesso tempo territori sottoposti al dominio di una classe borghese nazionale, e del suo Stato, e territori di conquista da parte di classi borghesi nazionali economicamente, politicamente e militarmente più forti e dominanti. Nella regione denominata Palestina è la classe borghese ebrea che ha avuto la forza di costituirsi classe borghese dominante formando un proprio Stato moderno su un territorio conquistato e difeso con le armi nella lotta di concorrenza contro borghesie “straniere” (a cominciare da quella palestinese alla quale ha strappato il territorio sul quale formare il proprio Stato di Israele, e poi contro le borghesie egiziana, libanese, giordana, siriana ecc., variamente coalizzate per contenere la spinta espansionistica della borghesia israeliana) e, contemporaneamente, contro le masse e in particolare il proletariato palestinese e degli altri paesi, servendosi – come già affermava il Manifesto di Marx-Engels – del proprio proletariato, coinvolgendolo e trascinandolo in questa lotta con ogni mezzo economico, sociale e repressivo.

 La formazione del mercato nazionale è stata la prima fase dello sviluppo del capitalismo; ma il modo di produzione capitalistico, storicamente, mentre si sviluppa come economia nazionale, è spinto a conquistare territori economici al di fuori dei propri confini nazionali, tende a superare le barriere nazionali internazionalizzandosi: il mercato nazionale, da che è stato il propulsore dello sviluppo economico nazionale e base per la sua estensione a livello internazionale, è diventato parte di un mercato sempre più internazionale dipendendone sempre più. Mercato capitalistico significa concorrenza capitalistica, significa lotta di concorrenza e più si allarga il mercato, più il mercato diventa internazionale più la concorrenza si acuisce, più la lotta tra borghesie nazionali diventa violenta: la borghesia è sempre in lotta, afferma il Manifesto di Marx-Engels, “contro le parti della stessa borghesia i cui interessi vengono a contrasto col progresso dell’industria, e sempre contro la borghesia di tutti i paesi stranieri” (20). La classe borghese di ogni paese tende a farsi classe dominante all’interno di un territorio e ad istituire una propria forza pubblica armata a difesa dei propri interessi di classe sia contro parti della sua stessa classe “i cui interessi vengono a contrasto col progresso dell’industria” – e, nello sviluppo del capitalismo, gli interessi della grande industria si combinano con, o vengono soppiantati da, gli interessi del capitale finanziario – che contro l’unica classe sociale che ha dimostrato storicamente di avere la forza di reagire all’oppressione capitalistica con la lotta di classe fino alla guerra civile e all’aperta rivoluzione: la classe del proletariato. Il fatto che il proletariato ebraico si sia fatto incapsulare nella strenua difesa degli interessi nazionali della propria borghesia ebrea, facilitando il proprio asservimento alla borghesia nazionale, non cancella la realtà dell’oppressione salariale cui è sottoposto come qualsiasi altro proletariato al mondo, né cancella la funzione repressiva dello Stato di Israele nei suoi confronti come nei confronti delle masse proletarie e contadine palestinesi, vere vittime sacrificali sull’altare del profitto capitalistico, briciole del quale profitto la borghesia israeliana ha usato e usa per corrompere il proprio proletariato.

La formazione dello Stato borghese moderno costituisce per la classe dominante borghese una necessità sia per limitare e contenere gli antagonismi sociali all’interno di un ordine funzionale al modo di produzione capitalistico e al suo inesorabile sviluppo, sia per lottare contro ogni borghesia straniera con le forze armate in esso concentrate, sia per asservire in modo crescente le grandi masse lavoratrici del proprio paese, innanzitutto, e degli altri paesi grazie allo sviluppo del capitalismo a livello internazionale, e il cui sfruttamento salariale è l’obiettivo principale di ogni classe dominante borghese. “Lo Stato rappresentativo moderno è lo strumento per lo sfruttamento del lavoro salariato da parte del capitale”, sostiene senza mezzi termini Engels, ne L’origine della famiglia,...;  è una “forza repressiva particolare” del proletariato da parte della borghesia, e in quanto forza repressiva particolare non potrà mai essere riformato a favore delle grandi masse sfruttate, ma dovrà essere soppresso e sostituito con un una “forza repressiva particolare” della borghesia da parte del proletariato, classe che con la rivoluzione si farà classe dominante erigendo sulle macerie dello Stato borghese la dittatura del proletariato.

La lotta della borghesia ebraica al fine di ritagliarsi un proprio territorio e formare una propria patria nell’unica zona al mondo in cui era possibile un’operazione del genere, la Palestina, non avrebbe avuto successo se non fosse stata sostenuta dalle potenze imperialistiche vincitrici nella seconda guerra mondiale, dall’Inghilterra, dalla Francia, dalla Russia e, soprattutto, dagli Stati Uniti. Lo Stato di Israele, nato nel 1948, era destinato a diventare un gendarme al servizio dell’imperialismo mondiale con il compito di essere perno della difesa degli interessi imperialistici in una delle zone strategiche più turbolente del mondo; un servizio per il quale la borghesia israeliana veniva ripagata con la più grande libertà di manovra a proprio specifico vantaggio in termini territoriali e in termini di repressione. La forza repressiva particolare attuata dallo Stato di Israele contro le masse palestinesi che si opponevano e si oppongono alla sua brutale espansione, e contro la classe proletaria palestinese in particolare che, anche se costretta sempre più in condizioni di sopravvivenza intollerabili, continuava e continua a rivoltarsi contro l’oppressione israeliana, non ha trovato, in settant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, né una forza borghese palestinese contrapposta, in grado di portare la lotta per l’autodeterminazione nazionale alla formazione di uno Stato indipendente in un proprio territorio, né una forza proletaria rivoluzionaria che, data la tragica sconfitta internazionale del movimento comunista rivoluzionario negli anni Venti del secolo scorso, non ha avuto la possibilità di coagularsi intorno al programma comunista rivoluzionario e, perciò, al partito di classe.

Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, fino all’inizio degli anni Settanta, nel quadro delle lotte anticoloniali dei popoli dell’Africa e dell’Asia si sarebbe potuto inserire anche un movimento nazionalrivoluzionario della borghesia palestinese; ma ciò non avvenne. La borghesia palestinese, intimamente mercenaria e vigliacca, non è stata in grado nemmeno di usare il sangue che l’indomito proletariato palestinese ha versato a fiumi per raggiungere lo scopo che ogni borghesia storicamente si è posta: la formazione di uno Stato politico indipendente con un territorio definito. Essa ha invece barattato con le borghesie “straniere”, a cominciare da quella israeliana che non ha mai smesso, d’altra parte, di esercitare la repressione sociale e armata contro di essa, il sangue del proprio proletariato per un commercio di bassa lega: sedersi ai tavoli dei negoziati con le grandi potenze, avere un posto all’Onu e magari un premio Nobel per la pace ma, soprattutto, ottenere da Israele e dalle grandi potenze imperialistiche il permesso di sfruttare, sebbene in misura dimensionata, anch’essa il proprio proletariato offrendo in garanzia il controllo maggiore possibile su di esso. Dati questi presupposti, non solo la borghesia palestinese non sarebbe riuscita e non poteva riuscire a conquistare con la propria lotta nel territorio chiamato Palestina uno Stato indipendente, degno di questo nome, a fianco dello Stato di Israele, ma non ci riuscirà mai anche se alcuni paesi, come la Svezia, e alcuni parlamenti, come quello inglese, spagnolo e francese, hanno “votato” il riconoscimento formale dello “Stato di Palestina”. Gli stessi presupposti depongono a sfavore dell’eventualità di un unico Stato in terra di Palestina, sia esso immaginato come uno stato laico, democratico, federale, multietnico e multireligioso, o uno stato reazionario, fortemente centralizzato e caratterizzato da un confessionalismo di tipo ebraico piuttosto che islamico. Sono tali e tanto acute le contraddizioni accumulatesi in quella regione, e tali e tanti gli interessi contrapposti da parte delle potenze regionali (e Israele è una di queste) e imperialistiche mondiali, da portare questi scontri incrociati a livelli che soltanto una nuova guerra mondiale, rimettendo in causa l’attuale “disordine mondiale”, potrebbe rimescolare le carte e imporre, insieme ad un “nuovo ordine modiale” anche una nuova spartizione territoriale nel Vicino e Medio Oriente. Ma questa è la peggiore delle ipotesi che la storia delle contraddizioni dello sviluppo del capitalismo e della sua forma imperialista possa prospettare.

L’altra ipotesi, quella proletaria, può emergere soltanto dalla prospettiva rivoluzionaria, anch’essa storicamente determinata, poiché le contraddizioni di cui è gonfio il grembo della società capitalistica spingono sul proscenio non solo le classi borghesi con i loro interessi e una forza di resistenza alla loro scomparsa dalla storia delle società umane, ma anche le classi proletarie di tutto il mondo, classi che rappresentano la contraddizione più profonda e decisiva della società moderna: il proletariato, la classe dei lavoratori salariati.  Mentre nel capitalismo questi ultimi costituiscono, insieme al capitale, il motore della produzione ma nelle condizioni di completo asservimento e di totale schiavitù salariale, nella stessa società borghese rappresentano, nello stesso tempo, dialetticamente, la forza motrice del superamento della produzione mercantile, della schiavitù salariale, del completo asservimento della stragrande maggioranza degli esseri umani alle classi dominanti borghesi. Nella storia delle società divise in classi antagoniste, se la società borghese capitalistica rappresenta l’ultima delle società divise in classi, la classe del proletariato – la classe dei produttori dei senza-riserve e dei senza-patria – rappresenta storicamente l’unica classe rivoluzionaria di fronte alle classi dominanti legate al sistema capitalistico, alla proprietà privata, allo sfruttamento del lavoro salariato, all’appropriazione privata della ricchezza sociale.

La lotta del proletariato a difesa dei suoi interessi immediati di classe, quindi la lotta in quanto lavoratori salariati, ha posto storicamente non solo il problema della lotta per migliorare le loro condizioni di esistenza e di lavoro in questa società, ma il problema di superare quelle condizioni di esistenza e di lavoro organizzando la società non più sulla produzione di merci e, quindi, sugli interessi legati al mercato, al denaro, alla proprietà privata, in sostanza al capitale e alla sua riproduzione e valorizzazione, ma sulla soddisfazione dei bisogni della specie che la produzione capitalistica calpesta sistematicamente a favore, appunto, del capitale. La classe del proletariato, perciò, vive storicamente due situazioni contraddittorie: è classe per il capitale, in quanto salariato, ed è classe per sé, ossia per la sua prospettiva rivoluzionaria che contiene la fine di ogni divisione della società in classi e, quindi, la fine anche del proletariato in quanto classe sociale. La lotta di classe del proletariato è la lotta che si indirizza nella prospettiva rivoluzionaria, nella prospettiva di farla finita con il capitalismo, con la società borghese, e con ogni rapporto sociale dipendente dalla divisione della società in classi, dunque con tutto ciò che contraddistingue la società capitalistica e la sua difesa: il potere politico borghese, lo Stato borghese, i suoi eserciti, le sue istituzioni, le sue forze economiche, le sue forze sociali ed ideologiche. La visione del proletariato e del futuro della sua lotta di classe è inevitabilmente una visione internazionale e internazionalista che non si fa ridurre nei confini di un paese e di uno Stato. Ciò non vuol dire che si debbano scavalcare situazioni e problemi specifici di carattere nazionale come se non esistessero. E’ un fatto che la repressione della classe dominante israeliana non si ferma sul piano dei rapporti di produzione e, quindi, contro il proprio proletariato in quanto forza lavoro salariata da sfruttare il più possibile e il più a lungo possibile, ma si estende al proletariato palestinese e a tutti i proletari di altre nazionalità che immigrano in Israele per trovare lavoro e sopravvivere in modo meno misero che nei paesi da cui emigrano. Israele, per la forza economica che rappresenta e per il ruolo di difensore dell’ordine imperialistico mondiale che svolge in particolare nell’area mediorientale, partecipa in modo attivo alla repressione del proletariato di ogni altro paese; perciò lo Stato israeliano non è soltanto nemico delle masse palestinesi e dello stesso proletariato israeliano, ma è nemico dei proletari di tutti i paesi come lo è qualsiasi Stato borghese. Nei confronti dei proletari palestinesi, la forza repressiva particolare dello Stato israeliano combina l’oppressione salariale con l’oppressione nazionale: a questa doppia oppressione il proletariato palestinese non potendo reagire come forza di classe, perché mancano le organizzazioni di difesa classite e un influente partito di classe, reagisce con mezzi primitivi – come durante l’intifada –, col mezzo del terrorismo individuale o, con mezzi politici e armati caratteristici delle formazioni borghesi o piccoloborghesi. Finché non si libererà dell’influenza delle tendenze politiche sociali legate alla conservazione del capitalismo sotto le bandiere di un nazionalismo che ha perduto da tempo la sua spinta storica progressiva, o sotto le bandiere del confessionalismo religioso che lo imbriglia ancor più al carro della schiavitù salariale, il proletariato palestinese continuerà a versare il proprio sangue non per sé e per la propria causa, ma per la sua borghesia che altri interessi non ha che quelli di sfruttare ogni occasione anche modesta per ritagliarsi un privilegio sociale in più, una quota di profitto anche se misera e concessa dalla più forte e dominante borghesia israeliana.

  

... E IL MITO DEI DUE STATI INDIPENDENTI IN TERRA DI PALESTINA

Top

 

Sventolare il mito dei due Stati, uno israeliano e uno palestinese, negli stessi territori, è stato uno dei leit motiv della politica imperialista demandata all’ONU fin dal 1947; con la proclamazione dello Stato di Israele nel 1948 e la prima guerra arabo-israeliana, persa dalla coalizione degli Stati arabi, i “piani” anglo-francesi per la spartizione di quella terra in due Stati – Israele da una parte e Palestina dall’altra – sono saltati completamente perché, in sostanza, nessuna potenza imperialista voleva rinunciare a fare di Israele la propria testa di ponte in una regione di massima importanza strategica e il nuovo “gendarme della regione” per conto dell’Occidente, e nessuno Stato arabo voleva rinunciare a conquistare nella regione una propria supremazia (l’Egitto in particolare, ma anche l’Arabia Saudita) approfittando delle evidenti difficoltà di dominio da parte delle vecchie potenze coloniali (Gran Bretagna e Francia) nonostante la loro vittoria militare nella seconda guerra imperialista mondiale.

Il nazionalismo radicale palestinese, di fatto, sorto e sviluppatosi in condizioni particolarmente difficili a causa della concentrazione, nel territorio chiamato Palestina, degli interessi capitalistici contrastanti di tutte le potenze imperialiste mondiali vincitrici della guerra 1939-1945, dagli Stati Uniti alla Russia, passando per la Gran Bretagna e la Francia, e a causa della sua frammentazione in tanti gruppi divisi da interessi economici legati alle porzioni di terra possedute, ai diversi interessi commerciali, ad origini tribali, religiose e culturali spesso opposte le une alle altre, non troverà mai uno sbocco politico unitario come ad esempio quello algerino (che se la doveva vedere soprattutto con una sola potenza colonialista, quella francese); è stato un nazionalismo che non ha raggiunto mai il livello “rivoluzionario”, seppur borghese, del movimento anticolonialista algerino che, negli anni Cinquanta, era stato di esempio nel mondo arabo. Tanto meno l’associazione nell’OLP delle maggiori formazioni politico-guerrigliere palestinesi, voluta e sostenuta dalla Lega Araba alla fine degli anni Sessanta, riuscirà a dare al nazionalismo palestinese un’identità indipendente e “rivoluzionaria”: essa dipenderà fin dall’inizio dagli Stati arabi che l’hanno foraggiata e sostenuta e che, pur essendo fra di loro in contrasto come è logico per ogni Stato borghese anche se a capitalismo non particolarmente sviluppato, avevano interesse a contenere l’aggressivo capitalismo israeliano e, nello stesso tempo, a controllare le masse contadine e proletarie palestinesi che con i loro movimenti armati potevano influenzare e spingere alla rivolta le masse contadine e proletarie arabe dei diversi paesi della regione. Per di più, l’OLP fin dal 1970, perciò poco dopo la sua formazione, ha iniziato una collaborazione segreta con i servizi segreti americani, a riprova che la sua funzione fondamentale è stata sempre quella di controllare il movimento armato palestinese come forza controrivoluzionaria e votata a soddisfare non tanto l’ambizione di un effettivo Stato indipendente eretto sulle macerie dello Stato di Israele (immagine esclusivamente propagandistica sventolata per decenni dalla borghesia radicale palestinese), ma di ritagliarsi “uno spazio e un ruolo meno marginali nel concerto delle borghesie della regione; e di guadagnarsi, sia pure rinunziando alle proprie originarie ambizioni ed accontentandosi di un mezzo-Stato, la possibilità di accedere ad una quota maggiore del plusvalore totale prodotto in Medio Oriente” (21).

Gli avvenimenti che portarono alle tragiche sconfitte del 1970 (Settembre nero ad Amman), del 1976 (il massacro di Tall el Zaatar) e del 1982 (Libano), hanno dimostrato che la tenace lotta delle masse proletarie palestinesi e non solo palestinesi, poteva comunque costituire in qualche occasione un pericoloso contagio che ogni borghesia araba aveva tutto l’interesse di spegnere sul nascere. Le condizioni favorevoli al movimento nazionalista palestinese non si sono verificate e a questo hanno contribuito anche le formazioni che costituivano la “resistenza palestinese” che in realtà hanno tradito le lotte delle masse palestinesi conducendole alla sconfitta; si sono verificate, dunque, condizioni sempre più sfavorevoli indirizzando non solo il contadiname e il proletariato palestinese, ma la stragrande maggioranza della popolazione palestinese della Cisgiordania e di Gaza, nel tunnel del martirologio predestinato. Oggetto di faide interborghesi, della repressione, da parte dell’OLP prima e, poi, dell’Autorità Palestinese in Cisgiordania, per chi si ribella alla pacificazione contrattata con le borghesie di mezzo mondo o da parte di Hamas a Gaza per ragioni simili; oggetto della sistematica repressione israeliana che di volta in volta li trasforma in carne da macello, i contadini poveri e i proletari palestinesi, martoriati e ingannati per decenni, passano da una falsa tregua ad un’altra, dalle case distrutte alla loro ricostruzione per vedersele distrutte nuovamente, dai campi coltivati a fatica alla loro depredazione da parte dei coloni ebrei istigati e sostenuti dal governo israeliano, non importa se conservatore o laburista, interessato ad annettersi pezzo a pezzo una parte sempre più ampia di territorio e, soprattutto, impedire – con il tacito assenso delle borghesie americana ed europee – che la “Palestina” possa esistere come territorio unitario con confini certi e riconosciuti.

Lo Stato di Palestina su che cosa poggerebbe? Su un territorio in Cisgiordania frammentato, a macchia di leopardo, con villaggi e città che per collegarsi devono passare una continua frontiera, come tra la Cisgiordania e Gaza? Finché esiste ed esisterà lo Stato di Israele non potrà esistere lo Stato di Palestina, almeno nel senso in cui si definisce dal punto di vista borghese uno Stato; al massimo sarà uno Stato-dormitorio, una prigione a cielo aperto, un Bantustan deciso e permesso dal consesso delle potenze imperialiste mondiali e dalle potenze regionali che hanno e avranno tutto l’interesse a mantenere la popolazione palestinese sotto il controllo armato non solo di Israele ma anche degli Stati arabi vicini. La Palestina è un paese che non c’è, esiste solo nel mito, nell’immaginazione e nella propaganda di una borghesia vile e mercenaria che per i suoi parziali e meschini interessi come ieri offriva la propria terra ai denari degli ebrei e dei sionisti offre oggi sistematicamente le braccia e la vita dei proletari palestinesi al repressore di turno. D’altra parte, allo sfruttamento dei proletari palestinesi partecipano tutte le borghesie della regione, da quella palestinese a quella israeliana e alle altre borghesie arabe, e in tutti i decenni dalla fine della seconda guerra mondiale in poi tale sfruttamento ha potuto attuarsi senza l’esistenza di uno Stato nazionale palestinese.

Il mito di due Stati nello stesso territorio è uno dei temi che più hanno confuso, deviato e illuso le masse palestinesi spinte a lottare per sopravvivere in una terra che era anche la loro terra originaria. Abbiamo più volte scritto che l’obiettivo di una “patria indipendente” è stato trasformato dal nazionalismo palestinese in una merce di scambio tra borghesi (22) perdendo ogni carattere radicale e “antimperialista”; ecco quanto scrivevamo venticinque anni fa a sostegno di questa tesi.

“In un Medio Oriente a capitalismo già realizzato, un obiettivo del genere [la patria indipendente, NdR] non riveste più, d’altra parte, carattere rivoluzionario, sia pure borghese, nel suo significato storico. Il lungo calvario della trasformazione dei contadini palestinesi in moderni proletari, senzariserve e senzapatria insieme, si è compiuto a cavallo del secondo conflitto mondiale – in parallelo alla rottura dei rapporti arcaici cui era vincolato il fellah egiziano come il contadino siriano ed al loro spossessamento – ed è terminato verso la fine degli anni ’60 grazie soprattutto alla violenta pressione dell’imperialismo occidentale di cui Israele è stata la punta di lancia ma, dal punto di vista economico e sociale, fattore progressista di primaria importanza”.

E, per quanto riguarda l’atteggiamento delle borghesie e dei poteri reazionari dell’area nei confronti del proletariato palestinese, facevamo un parallelo con la guerra franco-prussiana del 1870, quando prussiani e versagliesi agirono di comune accordo per stroncare l’insurrezione proletaria parigina del 1871, rilevando che “di fronte al fermento sovversivo delle masse giordano-palestinesi tutte le borghesie e i poteri reazionari della regione si sono tra di loro confederati in un unico fronte antiproletario. Il massacro del Settembre Nero è stato infatti il risultato della collaborazione operativa tra il governo di Amman, l’OLP ed il governo di Tel Aviv; collaborazione che si ripeterà nel massacro di Tall-el-Zaatar nel 1976 e a Beirut e nella guerra del Libano del 1982, vedendo questa volta l’intervento diretto della Siria al posto della Giordania”. Affermavamo poi che:

“Il nazionalismo democratico palestinese poteva avere un significato progressista solo prima del 1970. Solo fino allora la lotta palestinese per uno Stato indipendente in terra di Palestina avrebbe potuto rappresentare uno stimolo nazional-rivoluzionario di un movimento più generale che rimettesse in discussione l’intero assetto artificialmente imposto dall’imperialismo alla fine della seconda guerra mondiale. Questo sconvolgimento avrebbe messo in moto le contraddizioni  di classe che lo stesso sviluppo capitalistico nella regione aveva già accumulato e che l’impianto di uno Stato capitalistico sviluppato, come Israele, concentrava sul terreno specifico della lotta fra classe proletaria e classi borghesi. La storia intrecciava così più saldamente il corso della lotta sociale del proletariato in quanto classe distinta da tutte le altre, e il corso dei movimenti radicali e non, delle classi e mezze classi borghesi.

“Ma lo svolgimento è stato molto meno favorevole al proletariato, e a noi comunisti. La ‘decolonizzazione’ da parte delle potenze europee – come è avvenuta in altre parti del mondo in cui esistevano colonie – ha lasciato in eredità alle popolazioni indigene un gigantesco groviglio di contraddizioni, dagli antagonismi etnici, religiosi e tribali a quelli nazionali. Popolazioni arretrate storicamente, dal punto di vista dello sviluppo economico, e perciò impreparate a dare a quelle contraddizioni una ‘soluzione’ stabile, per quanto sempre borghese. Soltanto Egitto e Algeria espressero classi borghesi sufficientemente in grado di imporsi con una caratterizzazione nazionale indipendente, e con la forza imposero il loro Stato, assumendo per questo un ruolo e un peso politico all’interno dei paesi arabi. E soltanto un paese, Israele, imposto dall’esterno come Stato-colono e impostosi nel territorio di quella che era sommariamente la Palestina, in forza della sua maggiore potenza economica, tecnica, industriale, militare e perciò politica, con una sua caratterizzazione nazionale fortemente segnata dal confessionalismo sionista; soltanto Israele rappresenta in tutta l’area il paese capitalisticamente più sviluppato di tutti sul piano industriale come su quello agrario.

“La storia ha così voltato una pagina in questo tormentatissimo Medio Oriente, dipendente in tutto e per tutto dai paesi imperialisti, ma in modo tragicamente lento, faticoso, inconseguente, generando borghesie flaccide e asfittiche che vivacchiano entro confini artificiosi e all’ombra della politica di questa o quella potenza imperialistica; generando forme borghesi in parte spurie, nella cui debolezza di impianto si possono leggere ancora i segni dei trascorsi compromessi con vecchiumi feudali o addirittura tribali; generando veri e propri tagliatori di cedole grazie ad un ricchezza – il petrolio – che non è frutto di processi di produzione e di trasformazione delle moderne fabbriche capitalistiche, ma sgorga da una terra mai lavorata, mai coltivata se non da contadini in cerca di sopravvivere in qualche modo, e che un giorno dovrà inghiottire queste classi borghesi assolutamente inutili e parassitarie. Cionodimeno, quella pagina la storia l’ha girata.

“Varie circostanze storiche, tra cui la debolezza e la vigliaccheria delle borghesie locali, e soprattutto l’insistere della pressione imperialistica su un’area vitale dal punto di vista dell’approvvigionamento di petrolio (oltre che strategicamente importante) hanno contribuito a determinare quel tipo di svolgimento, ed hanno fatto così della nazione palestinese una nazione fottuta” (23).

Una nazione fottuta dalla combinazione sfavorevole di fattori imperialistici, perciò esterni, e di fattori autoctoni derivanti da una borghesia incapace di rappresentare il movimento nazionalista rivoluzionario fino alla effettiva costituzione di uno Stato indipendente; una nazione fottuta che ha generato formazioni politiche intossicate da veleni mercenari, democratoidi e confessionali, ma, ciononostante, in grado di deviare un proletariato indomitamente ribelle votandolo all’impotenza anche solo sul piano della sua difesa immediata elementare di classe. Se dal proletariato israeliano non ci si può aspettare un’improvvisa “presa di coscienza” classista, vista la sua pluridecennale complicità nell’oppressione della popolazione palestinese da parte della propria borghesia, dal proletariato palestinese non ci si può aspettare il miracolo di vederlo avanzare, da solo contro tutti, sulla strada della lotta di classe rivoluzionaria assumendosi il compito di indicare la strada della rivoluzione proletaria internazionale e comunista ai proletari di tutti i paesi del Medio Oriente.

In seguito alle vicende che hanno visto la formazione dello Stato di Israele, le continue guerre tra Israele e i vicini paesi arabi, le conseguenze delle sconfitte nei conflitti armati palestino-israeliani con il loro sparpagliamento soprattutto in Giordania, in Libano, in Siria e nei paesi vicini, le continue pressioni delle potenze imperialistiche al fine di mantenere e rafforzare il controllo sulle masse palestinesi spinte costantemente a ribellarsi, anche armi alla mano, le condizioni di oppressione sempre più dure, utilizzate di volta in volta ai propri fini di concorrenza regionale, mentre le borghesie arabe erano e sono interessate a far sì che l’esercito di Tel Aviv sia il più possibile impegnato contro le formazioni armate palestinesi piuttosto che indirizzare le proprie mire sui territori confinanti per allargare i confini del proprio Stato; in seguito a tutto ciò, il proletariato palestinese, un po’ come il proletariato curdo, rappresenta materialmente più di altri, come dicevamo sopra, anche nella quotidiana sopravvivenza, una classe senza patria. Questa caratteristica che, nella visione storica generale, è specifica di tutti i proletari del mondo e che, teoricamente, metterebbe il proletariato palestinese nelle condizioni di avere meno vincoli ideologici e formali di tipo nazionalistico, e perciò borghese, nella situazione di profonda depressione della lotta di classe a livello internazionale come quella che stiamo attraversando dalla fine della seconda guerra mondiale in poi, è invece una caratteristica che presenta oggi ancora il suo lato immediato negativo: il suo primo avversario, il suo primo nemico – la classe borghese palestinese – si presenta invece mimetizzato nel “popolo palestinese” oppresso come nazionalità da Israele e, per di più, oppresso nella sua stessa terra non da un paese “straniero” ma da una nazionalità originaria della stessa terra. La differenza di lingua, cultura, costumi, religione e l’assenza di tradizione proletaria di classe contribuiscono a saldare da entrambe le parti i legami con la rispettiva borghesia, mimetizzando i contrasti di classe nella forma dei contrasti nazionali, razziali, religiosi: l’oppressione nazionale sui proletari palestinesi, combinata con l’oppressione religiosa, prende così il sopravvento su qualsiasi altro tipo di oppressione.

La via proletaria porta alla dittatura internazionale del proletariato

La pagina della storia inerente alla formazione dello Stato nazionale e indipendente di Palestina è stata girata per sempre; i rapporti economici e sociali fondamentali di tipo capitalistico, in quella terra come in tutto il Medio Oriente, hanno completamente sostituito i vecchi e arcaici rapporti di tipo feudale o tribale, anche se spesso ancora rivestiti di abitudini, pregiudizi, dipendenze che si riferiscono a quei vecchi rapporti e che le diverse forme di confessionalismo tendono a mantenere vivi allo scopo di far perdurare la sudditanza delle masse contadine e proletarie rispetto alle classi dominanti. All’ordine del giorno, perciò, non c’è più l’interesse del proletariato a partecipare alla rivoluzione borghese per il progresso economico del paese e, quindi, per quel passaggio storico necessario a liberare il terreno della lotta di classe fra proletariato e borghesia dagli intralci economici e politici delle società precapitalistiche. La “rivoluzione economica capitalistica” nel territorio di Palestina, pur essendo avvenuta non ha però prodotto, attraverso la “rivoluzione sociale e politica”, lo Stato borghese indipendente se non per una popolazione – quella ebrea – ma non per la popolazione araba – quella palestinese – e, quindi, non ha prodotto due Stati borghesi indipendenti.

Data questa realtà, deve rimanere all’ordine del giorno della lotta proletaria l’obiettivo politico dello Stato borghese palestinese indipendente per cui, finché non sarà raggiunto, il proletariato palestinese dovrà continuare a versare il proprio sangue a quello scopo? Il proletariato palestinese dovrà dare la priorità a questo obiettivo mettendo in seconda linea gli obiettivi suoi propri di classe, che prevedono la lotta antiborghese e anticapitalistica ad esclusiva difesa dei propri interessi di classe in ogni caso, di fronte allo Stato borghese di Israele come di fronte alla classe borghese palestinese organizzata o meno in una formazione statale o pseudo-statale palestinese? Che vi siano due Stati borghesi nel territorio di Palestina o che ve ne sia uno soltanto, o che rimanga un solo Stato, quello di Israele, affiancato da formazioni pseudo-statali palestinesi, la sostanza non cambia: si tratterà sempre e comunque di formazioni statali borghesi costituite ad esclusiva difesa degli interessi borghesi prevalenti che, nei confronti del proletariato, significano sfruttamento sempre più brutale della forza lavoro salariata e contro il quale il proletariato palestinese non ha altre vie d’uscita che la via della lotta di classe, indipendente da ogni collaborazione interclassista e nella prospettiva di affratellare nella stessa lotta anticapitalistica i proletari di qualsiasi origine, di qualsiasi nazionalità, di qualisasi razza.

NO, la lotta del proletariato palestinese non ha come priorità la costituzione dello Stato borghese indipendente, ma la difesa dei suoi interessi di classe immediati e futuri per la cui lotta si trova nelle condizioni di dover affrontare non solo la propria borghesia nazionale, ma anche la borghesia israeliana e le borghesie arabe dei paesi dove è emigrato e dove è stato confinato nei campi-profughi. L’oppressione nazionale che i palestinesi soffrono da parte dello Stato di Israele rende oggettivamente difficile per il proletariato palestinese separare i propri interessi di classe (quindi opposti agli interessi di classe borghesi, a partire dalla propria borghesia palestinese) da quelli “nazionali”, quindi interclassisti, e ciò soprattutto per l’assenza di un movimento di classe autonomo che conti su proprie organizzazioni di difesa economica immediata e su un partito politico proletario classista. Ciò nonostante, dal punto di vista degli interessi di classe proletari, la lotta del proletariato palestinese ha come priorità la formazione di organizzazioni classiste atte allo scopo, sia sul piano economico e sindacale sia sul piano politico, poiché in loro assenza sarà permanentemente influenzato e nelle mani delle organizzazioni borghesi. La sua lotta classista  non potrà che essere inserita nella lotta di classe del proletariato di tutti i paesi della regione mediorientale, proiettata verso la rivoluzione internazionale e per una soluzione che non passerà attraverso la fase dello “Stato nazionale palestinese”, ma per la fase della dittatura internazionale del proletariato su un territorio che sarà strappato dalla rivoluzione proletaria al controllo delle borghesie locali e dell’imperialismo mondiale e i cui confini non saranno pre-definiti dai confini di uno Stato nazionale, che non c’è, ma si definiranno secondo l’andamento della guerra che la rivoluzione proletaria vittoriosa sarà costretta a fare contro le coalizioni borghesi dei paesi della regione mediorientale che avranno il proprio perno nella borghesia israeliana. In uno scenario di questo tipo il proletariato israeliano, ebreo ed arabo, dovrà inevitabilmente schierarsi armi alla mano: o dalla parte della rivoluzione proletaria o dalla parte della controrivoluzione borghese.

L’obiettivo principale del proletariato palestinese, come per il proletariato di ogni altro paese, è di conquistare il terreno della lotta di classe contro la propria borghesia: la lotta di classe non è tale se il proletariato non lotta contro ogni oppressione, perciò non solo quella salariale ma anche contro l’oppressione nazionale, razziale, etnica, sessuale, religiosa ecc. Date però le condizioni di particolare oppressione nazionale di cui il proletariato palestinese soffre, attraverso le quali la stessa pressione economica è molto più dura rispetto a quella sofferta, ad esempio, dal proletariato israeliano, è materialmente impossibile per il proletariato palestinese non sentire l’oppressione nazionale come una questione viva, immediata, urgente, contro cui reagire e lottare. L’oppressione nazionale si mescola con l’oppressione economica e appare come un’unica questione, salvo il fatto che contro l’oppressione nazionale si mobilitano tutti gli strati sociali e il proletariato si trova a fianco dei borghesi e dei piccoloborghesi dai quali – soprattutto in assenza del partito di classe e di un movimento proletario di classe –, come dicevamo, è inevitabilmente influenzato dato che, nonostante soffrano della stessa oppressione nazionale, posseggono peso economico, sociale e politico superiore al suo. Questa vicinanza e questa promiscuità, in assenza di organizzazioni classiste sul terreno immediato e sul terreno politico, facilita la dipendenza ideologica e politica del proletariato palestinese dalla propria borghesia. Dunque, sotto la forma dell’oppressione nazionale da parte israeliana, e in assenza di un orientamento classista e rivoluzionario, il proletariato palestinese non vede, e non può vedere, al proprio orizzonte che la “questione nazionale” irrisolta e verso la soluzione della quale tendere tutte le sue forze. Questa è la realtà ed è posizione antimarxista negare l’esistenza per i proletari palestinesi di una “questione nazionale”. Una “questione” resa ancor più cruciale per i proletari palestinesi a causa del fatto che, non solo i proletari ebrei israeliani, ma anche i proletari dei paesi imperialisti che sostengono Israele, non lottando contro le rispettive borghesie condividono di fatto una responsabilità oggettiva della particolare e crudele oppressione nazionale subita dai proletari palestinesi. Altra cosa è quale risposta politica danno i comunisti rivoluzionari a questo problema, oggi, quando nel mondo i grandi paesi e i paesi più importanti non hanno più il problema storico dell’indipendenza nazionale da risolvere.

Abbiamo intitolato il capitoletto precedente “il mito di due Stati indipendenti in terra di Palestina”, mito che si accompagna ad un altro mito, quello dell’eguaglianza delle nazioni; questa “eguaglianza delle nazioni” troverebbero nell’ONU – in virtù delle rispettive “sovranità nazionale” e “indipendenza nazionale” riconosciute dal “diritto internazionale” – il consesso internazionale nel quale questo diritto sarebbe sancito e applicato. La storia della società borghese è infarcita di sovranità, indipendenze e diritti sistematicamente calpestati dalla borghesia stessa e dagli Stati più forti. Perdurando il capitalismo, nelle forme moderne dell’imperialismo, la “sovranità statale”, secondo i principi dell’indipendenza borghese, è di fatto accaparrata solo dai grandi paesi imperialisti e dai paesi più importanti che, con forza diversa ma in ogni caso esercitata concretamente, opprimono tutte le altre nazioni, siano o meno costituite formalmente in Stati indipendenti.

Perciò, una borghesia nazionale senza movimento nazionalrivoluzionario e in condizioni non solo locali ma internazionali favorevoli, non ha praticamente alcuna possibilità di raggiungere l’agognata “indipendenza politica” e la costituzione di un proprio stato se non con l’appoggio (o la direzione) delle potenze imperialiste interessate alla sua formazione. L’esempio della disgregazione della Jugoslavia in Stati “indipendenti” (ma sempre in forma incompleta, snaturata, come sostenuto da Lenin) dimostra che le contraddizioni economiche e politiche del capitalismo mettono in movimento costante le forze centripete e le controforze centrifughe, disordinando ciclicamente gli equilibri raggiunti attraverso le guerre e generando squilibri che, a loro volta, richiederanno altre prove di forza e guerre per essere temporaneamente superati. Ma il dato costante nello sviluppo imperialistico del capitalismo, relativamente alle relazioni fra gli Stati, è costituito dal fatto che un pugno di potenze imperialistiche domina il mondo e opprime, con pesi diversi, tutte le nazioni, mettendo popoli, nazioni, tribù gli uni contro gli altri in una lotta di concorrenza per la supremazia nel mondo che non riguarda più da tempo il progresso economico e politico dei vari paesi, ma solo la difesa degli interessi peculiari di una o dell’altra potenza imperialistica. Se, pur avendolo invocato fin dal 1947 con delibere dell’ONU votate da tutti i paesi che ne fanno parte, lo Stato di Palestina non ha mai visto la luce, significa che non faceva gioco alle grandi potenze imperialistiche (mentre faceva loro gioco la costituzione dello Stato di Israele) e che, nello stesso tempo e per lunghi decenni, il movimento nazionale palestinese non ha avuto la forza di imporre con la lotta armata la costituzione del proprio Stato.

 

LA LOTTA DEL PROLETARIATO PALESTINESE FA PARTE DELLA LOTTA DEL PROLETARIATO D’EUROPA E D’AMERICA

Top

 

Secondo l’ideologia borghese ogni Stato, ogni “popolo”, ha un suo “destino storico” e nella lotta che i popoli hanno fatto gli uni contro gli altri nel corso della storia sono emersi i popoli, le “nazioni”, che hanno raggiunto prima di altri il progresso economico e politico, la civiltà, ponendoli di fatto nella condizione di dominare il mondo, di indicare la strada del progresso ai popoli arretrati, di imporre loro uno sviluppo inarrestabile richiesto dalla stessa economia moderna. Lo svolgimento rivoluzionario, da parte della classe borghese, della trasformazione economica del precedente modo di produzione e di scambio, è tracciato in modo esemplare nel Manifesto di Marx ed Engels, sottolineando materialisticamente come “durante il suo dominio di classe appena secolare la borghesia ha creato forze produttive in massa molto maggiori e più colossali che non avessero mai fatto tutte insieme le altre generazioni del passato. Il soggiogamento delle forze naturali, le macchine, l’applicazione della chimica all’industria e all’agricoltura, la navigazione a vapore, le ferrovie, i telegrafi elettrici, il dissodamento di interi continenti, la navigabilità dei fiumi, popolazioni intere sorte quasi per incanto dal suolo – quale dei secoli antecedenti immaginava che nel grembo del lavoro sociale stessero sopite tali forze produttive?” (24). Ma quello svolgimento rivoluzionario, dovuto essenzialmente allo sviluppo del lavoro sociale, quindi allo sviluppo delle forze produttive consentito nell’epoca storica della libera concorrenza e della grande industria dagli stessi rapporti borghesi di produzione, di scambio e di proprietà, ha diviso il mondo, sotto il dominio di classe della borghesia, in paesi industrialmente sviluppati e paesi industrialmente arretrati formando una forbice tra di loro destinata ad allargarsi. Analogamente, tra capitalisti e proletari, ossia tra proprietari di capitale e di mezzi di produzione e lavoratori salariati, con lo sviluppo dell’economia capitalistica in ogni paese si allarga la forbice tra possessori di ricchezza e di riserve e possessori della sola forza di lavoro; all’epidemia sociale, come la chiama il Manifesto di Marx-Engels, della sovraproduzione si accompagna l’epidemia sociale dei senza-riserve e dei senza-lavoro, l’epidemia sociale della miseria crescente. E’ la contraddizione congenita del modo di produzione capitalistico consistente nella produzione sociale e nell’appropriazione privata dell’intera ricchezza prodotta socialmente, che spinge i lavoratori salariati a ribellarsi alle condizioni di esistenza schiaviste intollerabili in cui il sistema economico borghese li costringe.

La classe dominante borghese ha tentato, in duecento anni di dominio economico e politico, di governare lo sviluppo delle forze produttive per mantenerle nelle forme dei suoi rapporti di produzione, di scambio e di proprietà, senza riuscirci come al mago non riesce di dominare le potenze degli inferi da lui evocate. La storia del capitalismo non è solo storia di “progresso economico”, di “invenzioni tecniche”, di “civilità”, ma è storia di continue crisi economiche e politiche, di guerre devastanti, di stermini e di sciagure di ogni genere, storia di sfruttamento e di repressione attuati con cinica sistematicità. Ma se la classe dominante borghese non è riuscita, e non riuscirà mai, a dominare lo sviluppo delle forze produttive, come non riuscirà mai ad impedire che ad un certo livello dei contrasti interborghesi e interimperialistici scoppi la guerra, è invece riuscita finora a vincere la resistenza e la rivolta delle generazioni proletarie contro lo sfruttamento e l’affamamento caratteristici della dittatura della borghesia capitalistica.

Gli antagonismi di classe che il capitalismo ha in sintesi ridotto allo scontro fra due classi principali – la  borghesia e il proletariato – hanno condotto in alcuni paesi, in determinati svolti della storia della lotta fra le classi, la classe del proletariato all’apice della propria lotta di classe, alla rivoluzione e alla conquista del potere politico e all’instaurazione della propria dittatura di classe: la dittatura del proletariato. Il primo esempio storico di dittatura del proletariato lo ha dato la Comune di Parigi, nel 1871, descritta ampiamente da Marx dimostrando che la prospettiva rivoluzionaria tracciata dalla teoria scientifica del comunismo rivoluzionario aveva le proprie fondamenta materiali e storiche nello stesso sviluppo economico della società divisa in classi; il secondo esempio storico lo ha dato la rivoluzione d’Ottobre 1917 che portò il partito di classe del proletariato non solo ad esercitare la dittatura proletaria ma anche a riunire nell’Internazionale comunista i movimenti di classe, quindi i partiti proletari dei diversi paesi, allo scopo di dirigere la rivoluzione del proletariato nel mondo. Terrorizzate dalla forza del proletariato parigino durante la Comune del 1871, le borghesie francese e tedesca corsero ad unire le proprie forze al di sopra della guerra che si stavano facendo, allo scopo di sconfiggere il proletariato che aveva osato dare “l’assalto al cielo” e riconquistare il potere politico perduto. Le classi borghesi d’Europa e d’America furono ancor più spaventate dal successo della rivoluzione proletaria del 1917 che in Russia impiantò il suo primo bastione vittorioso e l’organizzazione della lotta rivoluzionaria del proletariato mondiale, contro cui mobilitarono ogni forza economica e militare a disposizione non solo per abbattere il potere bolscevico in Russia ma soprattutto per impedire che l’esempio della Russia proletaria e comunista fosse seguito in Europa e nel mondo.

E’ dimostrato, dunque, che la lotta di classe del proletariato, se condotta non solo in modo indipendente da ogni interesse borghese, ma sotto la guida internazionale e internazionalista del partito di classe, ha lo sbocco storico nella conquista del potere politico, nell’instaurazione della dittatura proletaria esercitata dal partito di classe, nella guerra rivoluzionaria per difendere il potere conquistato e per sostenere il movimento rivoluzionario in tutti i paesi del mondo e nell’avviamento della trasformazione economica dal modo di produzione capitalistico al modo di produzione socialista e, in seguito, comunista; è dimostrato che la teoria del comunismo rivoluzionario è teoria scientifica perché fondata sullo sviluppo storico delle forze produttive e sulle leggi del loro corso storico, non perché elaborata da un grande personaggio o da un cervello particolarmente dotato. Come ogni teoria scientifica che scopre il movimento dialettico delle forze naturali così la teoria del socialismo scientifico ha scoperto il movimento dialettico delle forze sociali: scopre, non inventa. Perciò la sua validità non è dimostrata da una data di scadenza presuntamente definita in anticipo, ma dal corso contraddittorio e, perciò, dialettico dello sviluppo delle forze produttive. E’ il corso storico delle organizzazioni sociali umane determinate dallo sviluppo delle forze produttive che determina a sua volta la maturazione del loro rivoluzionamento facendo emergere le classi sociali portatrici del cambiamento rivoluzionario della società. Ma le classi sociali sono esse stesse una forza, rappresentando interessi economici e sociali collettivi che le guidano nella loro attività sociale le une contro le altre, le classi dominanti contro le classi dominate. E finché la società sarà divisa in classi contrapposte la grande contraddizione tra il modo di produzione e le forme in cui è organizzata la società non sarà mai risolta, perché le classi dominanti continueranno a sfruttare a proprio vantaggio le classi dominate.

Se dunque, nella società divisa in classi, la classe dominante non riesce a dominare lo sviluppo delle forze produttive mantenendole per sempre all’interno delle forme di dominio sociale che le garantiscono il perdurare del suo potere contro le classi dominate, essa tenta con ogni mezzo a disposizione di controllare il movimento delle classi dominate. E’ avvenuto con la società schiavista, schiantata dapprima dallo sviluppo delle forze produttive che fece emergere le nuove classi sociali feudali; è avvenuto con la società feudale che con il mercantilismo e la scoperta dell’America ha allevato in grembo la nuova classe borghese che decretò la fine del suo potere rivoluzionando economia e potere politico; avverrà con la società capitalista, ultima società divisa in classi in ordine di tempo storico, che ha portato lo sviluppo delle forze produttive alla sua essenza per una società divisa in classi, riducendole a due soltanto: borghesia e proletariato; ma, nello stesso tempo, cerca di impedire un ulteriore sviluppo delle forze produttive al solo scopo di mantenere il proprio potere politico ed economico nel tentativo di eternizzare il modo di produzione capitalistico che ne garantisce le fondamenta. Ma la sua sorte storica è segnata, come era segnata ad un certo punto la sorte della società schiavista e della società feudale. L’unica strada che la classe dominante borghese può percorrere per difendere e mantenere il suo potere politico e sociale, visto che non è in grado di dominare in eterno lo sviluppo delle forze produttive che il suo stesso modo di produzione spinge incessantemente in avanti, è quella di impedire all’unica classe sociale che ha la forza storica di mandare all’aria le forme di potere esistenti, il proletariato, di incamminarsi in modo organizzato e disciplinato sul terreno della soluzione delle contraddizioni della società capitalistica: la rivoluzione proletaria.

La classe borghese dominante, infatti, a difesa del suo sistema sociale, insieme alla pressione economica sempre più brutale sul proletariato (dispotismo economico), che rappresenta ormai l’immensa maggioranza della popolazione mondiale, e alla repressione nelle più diverse forme dei tentativi di ribellione e rivolta (dispotismo sociale e politico), fa anche leva in modo sempre più sistematico sulla sottile e raffinata arma dell’opportunismo nelle sue più diverse varianti. La borghesia ha tratto anch’essa delle lezioni dalla storia delle lotte di classe e delle rivoluzioni, e si è resa conto da tempo che per distrarre, ingannare, deviare il proletariato dalla sua spinta oggettiva a ribellarsi alle condizioni di esistenza in cui è costretto e dalla prospettiva di lotta classista, essa deve foraggiare, sostenere, rafforzare l’opera pratica e ideologica dell’opportunismo in modo che allo sfruttamento economico sempre più crudo e brutale della forza lavoro salariata si accompagni una influenza ideologica che indirizzi i proletari ad accettare con rassegnazione la loro condizione di schiavi salariati e ad utilizzare, nei momenti di ribellione alle condizioni di schiavitù in cui sono costretti, solo mezzi e metodi di lotta e di protesta del tutto compatibili con la conservazione sociale. L’opportunismo, nelle sue più diverse varianti, è esattamente questo: indurre i proletari ad accettare la loro condizione di schiavi salariati anche nei momenti in cui essi vengono martoriati nelle galere del lavoro, nelle prigioni, nei campi profughi, nelle forzate migrazioni, nell’emarginazione, nella disoccupazione perenne, nei fronti di guerra come nelle cosiddette catastrofi naturali; e indurli a rivolgersi alle istituzioni, anche con eventuali proteste vigorose ma sempre rispettose della legalità borghese, per ottenere ascolto e qualche briciola per la propria sopravvivenza. E quando i modi e i metodi legalitari, istituzionali, negoziali, non soddisfacendo le richieste della base proletaria, vengono messi da parte per essere sostituiti con mezzi che tentano di rispondere alla violenza economica e sociale con una corrispondente violenza, intervengono le forze dell’ordine o l’esercito, le forze di uno Stato che vuole apparire al di sopra delle classi ma che in realtà non è altro che il comitato di difesa degli interessi della classe dominante borghese o dei suoi strati più forti. In questi casi, come in tutti i casi in cui la reazione delle masse proletarie diventa “incontrollabile”, l’opportunismo si divide in tendenze opportuniste di diverso peso e colore assumendo tutti gli atteggiamenti che possono risultare efficaci per riportare l’ordine, per riprendere il controllo delle frange e dei movimenti proletari che tendono a sottrarsi all’influenza delle forze conservatrici: alle forze dell’opportunismo riformista, pacifista, legalitario, istituzionalizzato si accompagnano forze di un opportunismo barricadiero, cospirativo, estremista, violento che convergono verso gli stessi obiettivi: controllare che i proletari non imbocchino la strada dell’indipendenza di classe, ma che rimangano avvinti al carro della conservazione sociale anche se per ottenere questo risultato si rende necessario passare alla violenza estremista, al terrorismo individualista, al partigianismo armato, all’eversione di stampo reazionario, alla lotta armata vestita di confessionalismo religioso.

I proletari palestinesi possono dire di averle passate tutte, di aver saggiato l’opera di qualsiasi forma di opportunismo; e con loro possono dirlo i proletari curdi o siriani e di qualsiasi paese in cui i contrasti sociali sono così acuti da far mobilitare ingenti risorse economiche da parte di ogni borghesia interessata a quei paesi, che si tratti di borghesia nazionale o di unasua frazione, di borghesia straniera o di borghesia imperialista. Sta di fatto che ai proletari palestinesi le borghesie di tutto il mondo, a partire dalla stessa borghesia palestinese, hanno assegnato il ruolo di vittime sacrificali in una zona del mondo in cui interessi economici, finanziari, politici, nazionali di diverso peso e prospettiva si scontrano perennemente e nella quale i contrasti interimperialistici sono destinati a farsi sempre più acuti.

Israele, il paese che è sorto per dare una ‘patria’ ad un popolo disperso e perseguitato nel mondo, rappresenta esso stesso un baluardo della società del capitale e si caratterizza anch’esso – al di là del ricordo dell’Olocausto e delle persecuzioni subite nei secoli – con la stessa cinica e inumana determinazione capitalistica e borghese nell’imporre i suoi specifici interessi nazionali nella regione in cui si è costituito. La classe dominante israeliana usa esattamente gli stessi mezzi e gli stessi metodi di oppressione nazinale  e di repressione poliziesca e militare cha hanno usato e usano altre classi borghesi al solo scopo di terrorizzare sistematicamente quegli strati sociali e quelle nazionalità che per ragioni storiche e sociali si oppongono al dominio borghese israeliano, allo scopo quindi di rafforzare in particolare il proprio dominio di classe. Demolire a cannonate le case nei villaggi palestinesi, sfondare le case dei palestinesi coi loro bulldozer schiacciando i loro abitanti sotto i cingoli non è ‘guerra di difesa dal terrorismo’, è solo cinica carneficina, vero terrorismo di Stato utilizzato per sottomettere un intero popolo”; così scrivevamo nel 2002 in un manifesto indirizzato ai proletari palestinesi, israeliani, d’Europa e d’America (25).

La classe dominante borghese israeliana avrebbe molta meno forza nell’opprimere il popolo palestinese se non potesse contare sull’alleanza e sull’appoggio delle borghesie d’America e d’Europa. Ma chi potrebbe contrastare in modo determinante l’alleanza e l’appoggio che le classi dominanti d’America e d’Europa danno alla loro sorella israeliana, se non il proletariato metropolitano dei paesi d’Europa e d’America? La solidarietà ai proletari palestinesi che i proletari americani ed europei danno, quando la danno, finché rimane una solidarietà virtuale, pacifista, democratica, insomma a parole, è una colossale presa in giro! Soltanto la lotta classista di ogni proletariato contro la propria borghesia che opprime direttamente o indirettamente un altro popolo può fare da base ad una solidarietà in grado di incidere sui rapporti di forza di cui soffre la nazione oppressa.

Proletari d’Europa e d’America! I sostenitori di Israele e della sua politica oppressiva verso i palestinesi – scrivevamo nello stesso manifesto – sono le stesse classi borghesi che vi chiedevano il sostegno nella loro guerra in Algeria, in Vietnam, nelle guerre in Angola e Mozambico, in Congo o in Etiopia; sono le stesse borghesie che vi hanno chiesto il sostegno nelle guerre mondiali passate e che vi chiederanno ancora il massimo sacrificio in una eventuale terza guerra mondiale. Le guerre di rapina, di colonizzazione, di spartizione dei mercati che le classi borghesi portano nei diversi continenti non devono mai avere l’appoggio del proletariato: il proletariato vi si deve opporre, le deve combattere con il suo disfattismo, con la sua rottura sociale!”. Rompere con la solidarietà nazionale, con la solidarietà con la propria borghesia che la chiede con il pretesto, in tempo di pace, di “rilanciare l’economia in crisi” e, in tempo di guerra, per “difendere la patria” da aggressioni “esterne”, significa rompere le catene che imbrigliano le forze proletarie al carro borghese, e al mantenimento della schiavitù salariale e all’asservimento agli interessi borghesi di un capitalismo nazionale – parte integrante di un capitalismo internazionale dominato da pochi e potenti paesi imperialisti – rappresentato da una classe borghese che ha il compito di ingannare e illudere ognuna il “proprio” proletariato allo scopo di estorcergli il massimo di pluslavoro (e plusvalore) possibile e di mantenere in vita il più a lungo possibile un modo di produzione – quello capitalistico – che non ha da offrire all’umanità se non miseria crescente, fame, oppressione, devastazioni di guerra, sfruttamento sempre più bestiale della forza lavoro proletaria.

I proletari dei paesi imperialisti, soprattutto d’America e d’Europa, hanno il dovere, prima di tutto verso se stessi e verso i proletari di tutti gli altri paesi oppressi dalle proprie borghesie imperialiste, di combattere per i propri interessi di classe cominciando a combattere contro la propria borghesia nazionale, nella prospettiva di un affratellamento internazionale dei proletari di tutto il mondo per porre fine a un regime politico e una società improntati esclusivamente sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sull’oppressione economica e sociale da parte delle classi dominanti borghesi sulle classi proletarie e contadine povere di tutti i paesi del mondo alla quale si aggiunge l’oppressione nazionale. I proletari d’Europa e d’America possono contare su di una lunga tradizione di lotta classista che ha segnato nel corso della storia del movimento operaio le pagine più gloriose, dimostrando, con la Comune di Parigi del 1871 e con la vittoria bolscevica dell’ottobre 1917 in Russia, che “l’assalto al cielo” non è un’utopia ma un percorso storico obbligato, necessario, sulla via dell’emancipazione del proletariato dalla schiavitù del lavoro salariato e, quindi, da ogni forma di schiavitù e di oppressione, compresa quella nazionale.

Lo sappiamo che ancora oggi i proletari d’Europa e d’America, se ci si ferma alla superficie della situazione generale, sono lontani dall’imboccare con forza e determinazione la strada della ripresa della lotta di classe: sono assenti le organizzazioni economiche classiste di difesa immediata, è assente perciò un’avanguardia proletaria rivoluzionaria radicatasi su di una tradizione di lotta classista, come è assente l’influenza del partito di classe sui reparti d’avanguardia del proletariato. E questa fotografia della situazione attuale delude molti “marxisti della frase”, molti “rivoluzionari della domenica”, molti “militanti” che impegnano le proprie energie a condizione di vedere la rivoluzione vittoriosa durante la loro vita personale, e molti “soggetti politici” che si sono illusi di poter accorciare il tragitto verso la rivoluzione attraverso espedienti di ogni tipo, teorici, politici, organizzativi. Ma il corso materiale dello sviluppo dei contrasti di classe non sarà mai abbreviato grazie all’ideazione di particolari espedienti, né in forza di miracolose apparizioni di capi rivoluzionari geniali o di uomini particolarmente volitivi: “Per accelerare la ripresa di classe non sussitono ricette bell’e pronte. Per fare ascoltare ai proletari la voce di classe non esistono manovre ed espedienti” (26) perché la “effettiva ripresa del movimento rivoluzionario” si basa “sulla reale maturità dei fatti e del corrispondente adeguamento del partito”. Sì, c’entra anche l’adeguamento del partito di classe ai compiti rivoluzionari che gli eventi storici determinano, un partito che si abilita ai propri compiti rivoluzionari solo grazie alla “sua inflessibilità dottrinaria e politica”, base indispensabile per “la difesa e diffusione della teoria del movimento rivoluzionario, la difesa e il rafforzamento della organizzazione interna col proselitismo, la propaganda della teoria e del programma comunista, e la costante attività nelle file del proletariato ovunque questo è spinto dalle necessità e determinazioni economiche alla lotta per i suoi interessi”. E sebbene il settore di penetrazione delle grandi masse sia ancora oggi oggettivamente limitato ad un piccolo angolo dell’attività complessiva del partito, l’indicazione generale è che esso non debba perdere occasione “per entrare in ogni frattura, in ogni spiraglio, sapendo bene che non si avrà la ripresa se non dopo che questo settore si sarà grandemente ampliato e divenuto dominante”. Il partito deve perciò attendere che la situazione generale si presenti già “rivoluzionaria” per intervenire in modo decisivo per la rivoluzione?  Affermare che le possibilità rivoluzionarie sono dovute ad una situazione oggettiva favorevole non significa che il partito debba attendere che il movimento proletario faccia tutto da sé. L’accelerazione del processo di ripresa della lotta di classe deriva, “oltre che dalle cause sociali profonde delle crisi storiche, dall’opera di proselitismo e di propaganda con i ridotti mezzi a disposizione”, perciò il partito, date le condizioni favorevoli all’ascesa del movimento di classe proletario, oltre che prodotto della storia, diventa fattore di storia, come lo fu il partito di Lenin nella preparazione, nella guida e nella difesa della rivoluzione proletaria e comunista di Russia nel 1917.

I proletari coscienti e sensibili alla causa rivoluzionaria – terminavamo lo scritto del 2002 citato – hanno un compito particolare in questa situazione di lungo sonno della lotta di classe: essi hanno il compito di collegarsi al programma e alla teoria del marxismo rivoluzionario. Essi hanno il compito di convogliare le loro energie alla formazione del partito di classe, di quel partito comunista internazionale senza la guida del quale nessun movimento proletario sul terreno dello scontro di classe e sul terreno rivoluzionario ha mai la possibilità di avere successo” (27).

Classe contro classe, e non nazione contro nazione, o Stato contro Stato: questo è il motto dei marxisti rivoluzionari e vale per il proletariato palestinese come per quello israeliano, per il proletariato dei paesi d’Europa come dell’America e di ogni paese del mondo. Se al proletariato palestinese spetta il compito di rendersi indipendente dalla propria borghesia per lottare per i propri interessi di classe, che comprendono la lotta contro l’oppressione nazionale, ma non si esauriscono in essa; se al proletarato israeliano spetta il compito di spezzare i legami con la propria borghesia rivendicando la libertà di autodecisione del popolo palestinese e, quindi, lottando contro la propria borghesia che opprime il popolo palestinese perché riconosca il diritto dei palestinesi ad una propria organizzazione nazionale indipendente; se ai proletari d’Europa e d’America spetta il compito di lottare contro le proprie borghesie imperialiste e la loro politica di oppressione indiretta sui palestinesi attraverso il sostegno dello Stato-colono israeliano, con tutto ciò non si “risolverà” una volta per tutte la questione “nazionale” palestinese per il proletariato palestinese, perché fino a quando la lotta proletaria non si eleverà a lotta politica rivoluzionaria, dunque per la conquista del potere politico da parte del proletariato e, perciò, per la distruzione degli Stati borghesi direttamente coinvolti in questa guerra civile, la questione “nazionale” resterà una questione aperta. Date le condizioni in cui si presentano oggi i rapporti non solo tra Israele e palestinesi, ma tra i diversi Stati della regione ed Israele e tra di loro e le potenze imperialistiche che intervengono ora a favore di una determinata forza o Stato, ora a favore della forza o Stato avversari, la soluzione non solo della “questione nazionale palestinese”, ma di ogni “questione nazionale” esistente in Medio Oriente non può trovarsi che nella dittatura internazionale del proletariato, di un proletariato che dovrà unire le proprie forze al di sopra delle differenze nazionali, e tanto più delle differenze confessionali. Lo schieramento, perciò, non vedrà solo la contrapposizione tra proletari “palestinesi” e borghesi “palestinesi”, i quali si alleeranno in funzione antiproletaria coi borghesi “israeliani” e/o “giordani”, “libanesi”, “egiziani” ecc. Molto più verosimilmente, vedrà i proletari palestinesi, se la lotta di classe si sarà imposta sulla lotta “nazionale”, cercare l’alleanza con i proletari degli altri paesi mediorientali - proletari che, a loro volta, non avranno altra via d’uscita, per la lotta in difesa dei propri interessi e per non farsi fagocitare dalle rispettive borghesie nazionali in una guerra borghese di rapina e di oppressione, che di allearsi con i proletari senzapatria palestinesi contro tutte le borghesie interessate a soffocare la loro lotta e l’unione delle loro forze.

Le potenze imperialiste, in accordo con Israele e con le borghesie dei paesi dell’area, per sventare l’elevazione della lotta proletaria palestinese “nazionale” a lotta “di classe” e la sua fusione con la lotta proletaria degli altri paesi del Medio Oriente, potrebbero, dopo tanti decenni di promessa “indipendenza”, riconoscere e far attuare formalmente uno “Stato palestinese indipendente” in un territorio che coincida vagamente con quello oggi controllato dai borghesi palestinesi in Cisgiordania e a Gaza. Verso questo “riconoscimento” vi è stato già qualche passo: lo Stato svedese si è già positivamente pronunciato ed alcuni parlamenti europei, quello inglese, spagnolo e francese, hanno già approvato formalmente il diritto dei palestinesi a costituirsi in uno Stato indipendente. Se, da un lato, questo “riconoscimento” – dopo le molteplici delibere dell’ONU e le reiterate dichiarazioni dei presidenti delle maggiori potenze mondiali – può continuare ad alimentare l’illusione da parte dei proletari palestinesi che si avvicini il tempo in cui la loro oppressione nazionale terminerà, illusione condivisa già dai curdi, dall’altro, esso ha la funzione di velare un’oppressione nazionale che di fatto non smetterà, ma continuerà sotto altre forme, e non solo da parte di Israele che continuerà ad essere lo Stato-colono di sempre e il paese più avanzato capitalisticamente nella regione – perciò il più adatto a continuare a fare il gendarme dell’area per conto dell’imperialismo mondiale – ma da parte sia di tutti gli altri Stati presso i quali i palestinesi comunque dovranno cercare lavoro per sopravvivere, sia da parte delle diverse e contrastanti forze borghesi che continuano e continueranno a contendersi lembi di territori e di commerci in una parte del mondo che non conoscerà la fine della sua tormentata storia se non attraverso la rivoluzione proletaria vittoriosa e la conseguente instaurazione della dittatura internazionale del proletariato esercitata dal partito comunista mondiale.

I proletari delle metropoli imperialistiche possono fare molto per la lotta dei proletari dei paesi della periferia dell’imperialismo: molto in senso negativo, nella misura in cui solidarizzano, attraverso l’interclassimo, con le rispettive borghesie nelle loro politiche di oppressione dei popoli; o in senso positivo, nella misura in cui rompono con l’interclassismo, prendono nelle proprie mani la lotta in difesa dei propri interessi di classe combattendo contro le forze opportuniste che li tengono avvinti agli interessi borghesi, e lottano contro la propria borghesia nazionale impegnandola in una lotta che non è soltanto “economica” ma che, in quanto lotta di classe, si sposta sul livello politico: contro le spedizioni militari nei diversi paesi del mondo, contro le guerre fatte direttamente per rapinare e sottomettere questo o quel paese o fatte indirettamente in sostegno di borghesie locali compradore e aguzzine dei proletari indigeni, contro la discriminazione nei confronti dei proletari immigrati che fuggono dalla miseria, dalla fame e dalle devastazioni di guerra causate dalle politiche imperialiste nei diversi paesi del mondo, cercando rifugio nei paesi più ricchi.

 

 

 


 

(1) Cfr ad esempio le Lettere di Marx ad Engels del 20 giugno 1866 e del 2 novembre 1867.

(2)   Vedi Lenin, Il proletariato rivoluzionario e il diritto di autodecisione delle nazioni, ottobre 1915, in Opere, vol. 21, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 373-4.

(3)   Ibidem, p. 375.

(4)   Vedi Lenin, Intorno a una caricatura del marxismo e all’”economicismo imperialistico”, 1916, in Opere, vol. 23, Editori Riuniti, Roma 1965, p. 53.

(5)   Vedi Lenin, Il proletariato rivoluzionario e il diritto di autodecisione delle nazioni, cit., p. 374.

(6)   Cfr Lenin, Intorno a una caricatura del marxismo..., cit.,  punto 4. L’esempio della Norvegia, pp. 45-52.

(7)   Ibidem,  punto 4. L’esempio della Norvegia, p. 48.

(8)   Vedi Natura, funzione e tattica del partito rivoluzionario della classe operaia, pubblicato nel nr. 7, maggio-giugno 1947 dell’allora rivista di partito “Prometeo”, ripreso poi, insieme a tutte le altre tesi della Sinistra e ad altri scritti, nel volumetto Per l’organica sistemazione dei principi comunisti, nr. 6 dei testi del partito comunista internazionale, 1973.

(9) Non è certo difficile dimostrare che dalla fine della seconda guerra mondiale la pace nel mondo non è stata mai raggiunta. Recentemente, in seguito alla guerra in Siria, in Ucraina e in Iraq – solo per citare i conflitti più noti e che sono trattati dai grandi media internazionali –, su “la Repubblica” del 18 agosto 2014, si poteva leggere un articolo nel quale l’Institute for Economics and Peace, esaminando 162  paesi del mondo concludeva che, fino a tutto il 2013, soltanto 11 paesi non sono coinvolti direttamente in conflitti di vario genere. Tra i vari parametri adottati da questo Istituto vi sono citati i seguenti: non essere coinvolti in dissidi che implichino la contesa di territori, l’uso di forze armate, la sicurezza interna, il commercio di armi, il grado di militarizzazione. Gli 11 paesi non coinvolti sarebbero: Svizzera, Giappone, Qatar, Mauritius, Uruguay, Cile, Botswana, Costa Rica, Vietnam, Panama e Brasile. E’ una classificazione borghese e, si sa, come quasi tutte le statistiche borghesi, pecca per difetto. Basta infatti considerare il capitale finanziario e i suoi centri di deposito e smistamento per inserirvi a pieno titolo la Svizzera e il Qatar, o considerare la crescita degli investimenti negli armamenti per inserirvi Vietnam, Brasile, Cile, Uruguay e naturalmente Giappone. Forse rimarrebbero fuori da questa classifica Mauritius, Botswana, Costa Rica e Panama, ma non scommetteremmo su Costa Rica e Panama…

(10) Cfr Palestina vincerà?, “il comunista” nr. 16/1989.

(11) Cfr Il terreno della lotta proletaria contro l’oppressione salariale è anche il terreno della lotta contro ogni oppressione nazionale, è il terreno della lotta di ogni proletariato contro la propria borghesia, e di tutti i proletariati del mondo contro tutte le classi borghesi. Ai proletari israeliani, ai proletari palestinesi, ai proletari d’Europa e d’America!, “il comunista”, nr. 79, aprile 2002.

(12) Ibidem.

(13) Ibidem.

(14) Marx-Engels, Manifesto del partito comunista, Giulio Einaudi, Torino 1962, p. 115.

(15) K. Marx, Critica al programma di Gotha, Editori Riuniti, Roma 1976, pp. 35-6.

(16) Lenin, Stato e rivoluzione, in Opere, vol. 25, Editori Riuniti, Roma 1967, pp. 366-7.

(17) F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Ed. Fasani, 1945, p. 196-7.

(18) Lenin, Stato e rivoluzione, cit., p. 367.

(19) F. Engels, L’origine della famiglia..., cit., p. 198.

(20) Marx-Engels, Manifesto..., cit., p. 113.

(21) Vedi l’articolo Il terreno della lotta proletaria contro l’oppressione salariale è anche il terreno della lotta contro ogni oppressione nazionale, è il terreno della lotta di ogni proletariato contro la propria borghesia, e di tutti i proletariati del mondo contro tutte le classi borghesi. Ai proletari israeliani, ai proletari palestinesi, ai proletari d’Europa e d’America!, cit.

(22) Cfr Palestina vincerà?, cit.

(23) Ibidem. Diciamo che la Palestina è una nazione “fottuta” nello stesso senso in cui Engels, in una lettera a Marx del 23.5.1851, si esprimeva a proposito della Polonia: “Quanto più rifletto alla storia, tanto più mi diventa chiaro che i polacchi sono una nation foutue, che si può adoperare come strumento solo fino a quando la Russia stessa non sia trascinata in una rivoluzione agraria. Da quel momento in poi la Polonia non ha alcuna raison d’être”. Non quindi per dire che la Palestina, che il movimento nazionale palestinese sarebbe stato – a suo tempo – irrilevante dal punto di vista del corso storico generale; ma, al contrario, per dire che proprio la straordinaria importanza dell’area in questione per le grandi potenze imperialistiche ha provocato la neutralizzazione e la castrazione del nazionalismo palestinese tra il 1948 e il 1967 ad opera della Santa Alleanza del capitale mondiale.

(24) Cfr. Marx-Engels, Manifesto del partito comunista, cit.,p. 106.

(25) Vedi l’articolo Il terreno della lotta proletaria contro l’oppressione salariale è anche il terreno della lotta contro ogni oppressione nazionale, è il terreno della lotta di ogni proletariato contro la propria borghesia, e di tutti i proletariati del mondo contro tutte le classi borghesi. Ai proletari israeliani, ai proletari palestinesi, ai proletari d’Europa e d’America!, cit.

(26) Per questa citazione e le altre fino alla fine del capoverso, cfr. Tesi caratteristiche del partito, dicembre 1951, raccolte nel testo “In difesa della continuità del programma comunista”, ed. il programma comunista, Firenze, giugno 1970, pp. 162-3.

(27) Vedi l’articolo Il terreno della lotta proletaria contro l’oppressione salariale è anche il terreno della lotta... , cit.

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

Top

Ritorne indice