Solo la loro unione di classe darà una prospettiva di vita ai proletari migranti e ai proletari autoctoni

(«il comunista»; N° 139;  Giugno 2015)

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"Meglio morire in mare che stare in Libia. In mare si muore una volta sola, se stai in Libia è come se morissi tutti i giorni"; è la testimonianza di un ragazzo della Guinea Bissau, di 16 anni, proveniente dalla Libia con uno dei tanti barconi che traversano il tratto di mare fino alle coste della            Sicilia e della Calabria, raccolta dai giornalisti de Il fatto quotidiano in un reportage da Reggio Calabria (1), con la quale è sintetizzato il dramma vissuto, e che continuano a vivere, centinaia di migliaia di africani, mediorientali, asiatici che fuggono dalle guerre, dalle repressioni, dalla disoccupazione, dalla fame, dalla miseria per approdare in paesi nei quali tentare di sopravvivere. La situazione da cui fuggono è talmente insopportabile che li spinge a rischiare la vita nei viaggi della disperazione che attraversano paesi e deserti, nella ricerca dei trafficanti di uomini che organizzano le traversate dei confini e del mare, nelle situazioni di schiavitù, di sfruttamento bestiale e di torture alle quali vengono sottoposti non solo dai numerosissimi clan di criminali che li sequestrano in attesa di imbarcarli o di farli sconfinare via terra, ma anche dai poliziotti e dai funzionari dei governi dei paesi che attraversano, come è documentato per quanto riguarda in particolare la Libia; ma la stessa cosa succede in Siria, in Libano, in Serbia, in Egitto, in Niger, in Gambia, in Eritrea, in Iraq, in Afghanistan e in decine di altri paesi sconvolti dalle guerre e dalle crisi economiche. Secondo le statistiche borghesi che, come sappiamo, tendono a non essere mai reali, e su questo argomento danno sicuramente  numeri più bassi della realtà, i migranti forzati nel mondo, attualmente, sarebbero più di 60 milioni, una "popolazione" che eguaglia quella italiana. Secondo un rapporto dell'Onu (2) i migranti che sono morti tentando di raggiungere l'Europa dal 2000 in poi, soprattutto attraversando il Mediterraneo, sarebbero più di 22.000, ossia più di 1500 in media all'anno; e solo nel 2014 più del 75% dei migranti morti nel mondo hanno perso la vita nel Mediterraneo. Per quanto riguarda gli arrivi sulle coste italiane, in particolare nei primi 4 mesi di quest'anno, e secondo le limitate identificazioni attuate, i migranti di nazionalità siriana sono i  più numerosi (8.865 su un totale di 36.390), seguiti da eritrei, somali e afghani (3), ossia dai paesi da anni sconvolti dalle guerre.

Essi fuggono dai loro paesi abbandonando le loro famiglie, quasi sempre non conoscendo la lingua o le lingue dei paesi che attraversano e in cui vorrebbero andare e fermarsi, portandosi appresso tutto il denaro che riescono a mettere insieme coi miseri risparmi di famiglia e col proprio lavoro, ma con la determinazione di chi tenta ogni strada pur di sopravvivere in modo meno terribile di quello da cui scappano. Aldilà delle nazionalità, del genere, dell'età e delle idee politiche e religiose che possono avere, queste decine di milioni di esseri umani sono accomunate dalla stessa condizione materiale: un presente certamente senza speranza, un presente da abbandonare in tutti i modi anche se per un incerto futuro!

E' questa determinazione a sopravvivere da esseri umani che spaventa tutte le borghesie del mondo e in particolare le borghesie dei paesi capitalistici più ricchi sui quali queste masse di disperati premono con forza. Non ci sono regolamentazioni dei "flussi migratori" che tengano: questi "flussi" non diminuiscono; non ci sono ordinanze amministrative o controlli di polizia ai confini che riescano a contenere queste masse nei limiti che ogni borghesia nazionale vorrebbe; non ci sono pattugliamenti militari in terra o in mare capaci di scoraggiare coloro che rischiano qualsiasi cosa pur di scappare dalle situazioni insopportabili che stanno vivendo. Si possono anche alzare muri di 4 metri ai propri confini, come sembrano intenzionati a fare i governanti in Ungheria per impedire i flussi dalla Serbia: i migranti prima o poi troveranno altre strade. E' in ogni caso tipico delle classi borghesi dominanti affrontare i problemi sociali derivanti dalle contraddizioni che solo la loro società genera e acuisce, con misure di sicurezza e di repressione quando le misure caritatevoli, solitamente affidate alle chiese e alle organizzazioni del volontariato, non sono più sufficienti a mantenere i fenomeni di vagabondaggio e di clandestinità nei limiti in cui non diano fastidio al normale flusso degli affari; salvo utilizzare la tremenda spinta di queste masse a fuggire dai loro paesi per speculare a man salva sui loro bisogni elementari e trasformarle in merce deperibile. Le soluzioni borghesi sono sempre improntate alla convenienza economica e politica e, quando serve per alimentare la propaganda dei diritti umani di cui le borghesie occidentali alzano di tanto in tanto la bandiera, vestono quella convenienza con atti di carità coi quali ipocritamente nascondere il disgusto per le masse precipitate nella povertà, nella miseria, nella disperazione.

Le stragi di migranti nel Mediterraneo, di cui ormai si parla come di un fenomeno quotidiano, non sono provocate esclusivamente dagli scafisti e dai trafficanti di uomini; questi veri e propri aguzzini non sono che uno degli anelli della lunga catena dello sfruttamento capitalistico controllata dai centri del grande capitale che hanno la sede nelle ricche, moderne, luccicanti metropoli del capitalismo internazionale. Gli scafisti e i trafficanti di uomini, come gli spacciatori e i trafficanti di droga e di armi - spesso fanno parte delle stesse organizzazioni - sono né più né meno che agenti del capitale, possiedono conti correnti nelle banche più importanti del mondo (quelle dei cosiddetti "paradisi fiscali") e note a tutti i governi, agiscono secondo la regola principale del capitalismo: gli affari prima di tutto, meglio se legali (coperti dalle leggi), sennò illegali (non coperti dalle leggi vigenti ma dalla corruzione dei politici, degli amministratori pubblici, delle forze militari e di tutti coloro che al momento dato hanno convenienze personali a velocizzare o a rallentare le operazioni). L'affare, secondo il sistema capitalistico, è tale se comporta guadagno in denaro il più velocemente possibile; diventa un affare legale se il denaro proveniente dall'illegalità è ripulito; per ripulirlo - è risaputo che il denaro non ha colore e non ha odore - basta che transiti da qualche banca e sia investito in operazioni finanziarie, industriali o commerciali in regola con le leggi vigenti. 'Ndrangheta, Camorra, Cosa Nostra, mafie russe, cinesi, giapponesi o americane, insegnano.

Il sistema economico che si basa sullo sfruttamento dell'uomo sull'uomo - il capitale e il lavoro salariato sono i due pilastri dell'economia capitalistica - attraversa  periodi di prosperità economica e di crisi più o meno accentuate, ma contiene sempre i "fenomeni sociali" chiamati disoccupazione, miseria, fame, disperazione, violenze individuali; con le crisi questi fenomeni sono destinati ad aumentare in progressione geometrica, ma non spariscono mai, nemmeno quando la crisi si ferma e viene in qualche misura superata (ma, come afferma il Manifesto del partito comunista di Marx-Engels,  il capitalismo la supera soltanto creando le condizioni di crisi più generali e più violente). Il capitalismo è un sistema economico che non sarà mai in grado di eliminare le cause della disoccupazione, della miseria, della fame, della disperazione sociale, delle violenze individuali e della violenza generalizzata e incontenibile della guerra, perché le cause di questi fenomeni si trovano nel sistema capitalistico stesso. "Nelle crisi scoppia una epidemia sociale che in tutte le epoche anteriori al capitalismo sarebbe apparsa un assurdo: l'epidemia della sovraproduzione" (4). I mercati, ad un certo punto, non riescono più ad assorbire tutte le merci prodotte per la loro trasformazione in denaro e, quindi, in capitale; di conseguenza, non riescono più ad assorbire la massa di lavoratori salariati impiegata in precedenza. "La società si trova all'improvviso ricondotta ad uno stato di momentanea barbarie; sembra che una carestia, una guerra generale di sterminio le abbiano tagliato tutti i mezzi di sussistenza". La società borghese straripa di civiltà  industriale, di  prodotti di ogni genere compresi i mezzi di sussistenza; ma per una parte sempre più grande dell'umanità tutta questa civiltà, tutti questi prodotti, tutti questi mezzi di sussistenza sono irraggiungibili. Assieme alle merci anche i lavoratori salariati finiscono nel buco nero della sovraproduzione; il capitale non riesce più a valorizzarsi attraverso il suo iperfolle ciclo di accumulazione; la produzione industriale si ferma, il commercio sembra distrutto, i capitalisti non sanno più dove e come investire i propri capitali: è lo stesso sistema economico capitalistico che chiede di distruggere masse sempre più grandi di merci, di capitali e di lavoratori salariati che non trovano più i loro sbocchi nel mercato - dunque, distruzione di forze produttive - per potersi rimettere in moto e ricominciare a produrre e riprodurre capitale!

La civiltà capitalistica porta inevitabilmente alla crisi di sovraproduzione, alla crisi generale e sempre più violenta; per uscirne non ha altra via che distruggere una massa sempre più imponente di forze produttive, per poter ricominciare i cicli di produzione e di riproduzione del capitale che porteranno prima o poi di nuovo a crisi di sovraproduzione, più generali e più violente ancora, seguendo un andamento a spirale che provoca la progressiva "diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stesse".

Le masse di migranti che premono ai confini dei paesi più civili, più ricchi, di fatto dominanti il mercato mondiale, non sono che quegli strati di proletari e di proletarizzati che si ribellano alle condizioni di barbarie in cui li hanno precipitati le crisi economiche e le guerre capitalistiche che hanno distrutto il tessuto economico dei loro paesi; fuggono da quei terremoti sociali, da condizioni di bestiale schiavitù e da morte certa dovuta alla fame o alla repressione borghese, indirizzandosi verso i paesi che hanno sempre propagandato le virtù della civiltà industriale, la sacralità dei diritti umani, il valore della democrazia, la dignità del lavoro. In questi paesi del civilissimo Occidente, quando arrivano vivi, se trovano "solidarietà" ed "accoglienza" in quanto esseri umani lo devono non certo alle istituzioni, ma alla gente comune mossa da sentimenti di pietà; in genere trovano diritti negati, disprezzo razzista, democrazia impotente, lavoro nero e sottopagato, tuguri in cui dormire, condizioni di semischiavitù se non di schiavitù totale. I cosiddetti "centri di accoglienza" che dovrebbero ospitare i profughi che fuggono dalle guerre, i rifugiati politici e i migranti "economici", sono in realtà dei centri di detenzione, dei campi di concentramento con tanto di guardie, di cancellate e di filo spinato per impedire loro di dileguarsi. Certo, una parte di loro, la più "fortunata", riesce a trovare dopo mille peripezie e tentativi andati a vuoto, una sistemazione legalizzata, ma sono costantemente esposti a cadere nella condizione di proletari di serie B e di serie C, e sempre col rischio di riprecipitare nella condizione di clandestinità e, perciò, di maggiore ricattabilità da parte sia dei capitalisti che danno loro un lavoro legale, sia dei capitalisti che li inseriscono nei traffici illegali e criminali. Scappano da situazioni tremende ma molto spesso finiscono comunque nei gironi della disperazione, soprattutto le donne e i bambini.

Ai borghesi occidentali, che si vantano  della propria supposta superiorità, fa in verità  molto comodo poter mostrare ai proletari indigeni le condizioni disperate in cui vivono i proletari migranti, perché sono condizioni in cui gli stessi proletari indigeni possono precipitare da un momento all'altro e questo timore molto materiale e presente contribuisce a sottomettere i proletari indigeni a condizioni di lavoro e di vita peggiorate rispetto al passato: d'altra parte, la classe degli operai, afferma il Manifesto di Marx-Engels, vive solo fintantoché trova lavoro, e trova lavoro solo fintantoché il suo lavoro aumenta il capitale: era una realtà già nel 1848, lo è ancor più oggi!

 

LO SFRUTTAMENTO CAPITALISTICO NON È RIFORMABILE: VA SPEZZATO ED ELIMINATO

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Il capitalismo, inglese ed europeo prima, e nordamericano poi, nel suo sviluppo forsennato e inarrestabile, da oltre due secoli ha economicamente e politicamente conquistato il mondo.  A metà dell'Ottocento aveva rivelato tutti i suoi caratteri essenziali, sia quelli rivoluzionari, sia quelli conservatori sia quelli reazionari. Con sé, oltre a portare un formidabile movimento rivoluzionario, tanto dal punto di vista tecnico produttivo e del modo di produzione, quanto dal punto di vista sociale e politico rispetto a tutte le società precedenti,  ha creato le condizioni del suo progressivo sviluppo, ma ha creato, nello stesso tempo, anche le condizioni delle sue inevitabili crisi e del suo crollo. "Le armi che sono servite alla borghesia per atterrare il feudalesimo si rivolgono contro la borghesia stessa. Ma la borghesia non ha soltanto fabbricato le armi che le porteranno la morte; ha anche generato gli uomini che impugneranno quelle armi: gli operai moderni, i proletari"! (ancora il Manifesto di Marx-Engels). Oggi, fermando lo sguardo sulla situazione generale del proletariato e del suo movimento politico e sindacale, non viene certo da pensare che gli operai moderni siano pronti ad impugnare le armi politiche e materiali che porteranno la morte alla classe dominante borgehse e alla sua società. Ma lo sguardo che lancia il marxismo sullo sviluppo storico delle società umane non si ferma alla fotografia istantanea della società; vede lo sviluppo nel suo divenire storico, con le sue avanzate e i suoi rinculi, in una dinamica continua delle contraddizioni sociali sempre più acute e complesse fino alla rottura storica di tutti gli equilibri sociali che la società divisa in classi è riuscita a mantenere nel tempo, aprendo un periodo che noi chiamiamo rivoluzionario se vi sono un movimento proletario generale di lotta classista e un partito politico di classe influente sul proletariato. Questo periodo, che è di profonda crisi sia sociale che politica della società borghese, si presenta quando la serie fondamentale di fattori di crisi della società sono giunti a maturazione: non solo i fattori di crisi economica, dunque, ma anche i fattori di crisi sociale, politica e ideologica. Il compito del partito di classe, sia pure allo stadio embrionale come oggi, è di mantenere ben affilate le armi della critica sapendo che arriverà il momento di passare alla critica delle armi.

Tutte le società che si sono succedute nella storia si sono sviluppate con la forza e la violenza; più si sviluppavano, più potenziavano la forza e la violenza necessarie per espandersi in territori più vasti e per resistere alle contraddizioni che esse stesse creavano. Ogni società divisa in classi è una società che si impone e resiste nel tempo soltanto con la violenza; nessuna società si è tolta di mezzo  per far posto alla nuova società "suicidandosi", né quella schiavista, né quella dispotica-asiatica, né quella feudale. Tanto meno lo farà la società capitalistica che, tra tutte le società divise in classi, è la più sviluppata industrialmente, ma è anche la più violenta.

Non si contano infatti le guerre che costellano tutta la storia dello sviluppo del capitalismo. Vi sono state guerre rivoluzionarie, con le quali i vecchi modi di produzione, feudale e antecedenti, venivano spazzati via di fronte allo sviluppo delle forze produttive che premevano con forza sui rapporti sociali troppo localistici, personali e tecnicamente superati, e sulle forme sociali e di proprietà, con le corrispondenti rappresentanze politiche, che materialmente e con altrettanta violenza cercavano di impedire il cambiamento sociale. Ma il capitalismo - come d'altra parte anche i modi di produzione precedenti - si è sviluppato in modo ineguale, e non poteva che svilupparsi in questa maniera, creando in determinati paesi per le loro specifiche e favorevoli condizioni naturali e di organizzazione sociale, i presupposti per uno sviluppo produttivo, e quindi sociale, più avanzato che in altri.

Cominciò a svilupparsi in Inghilterra, successivamente in Francia e, con le guerre napoleoniche, si diffuse soprattutto nell'Europa occidentale e, attraverso le migrazioni europee, nell'America del Nord, mentre ad oriente si spingeva nella Russia zarista. Il resto del mondo, le Indie, la Cina, l'America del Sud, l'Africa, non furono che terre di conquista ricche com'erano di risorse naturali e minerarie sempre più importanti per lo sviluppo industriale capitalistico, e zone strategicamente rilevanti per i commerci in una lotta di concorrenza che ormai si estendeva a tutti i continenti. Lotta di concorrenza che spingeva le potenze capitalistiche più importanti ad impossessarsi di territori sempre più vasti, o comunque di controllarli commercialmente e militarmente, diffondendo in essi soprattutto le leggi economiche e sociali del capitalismo, ma mantenendo quei territori e quei paesi, il più possibile, dipendenti economicamente e politicamente dalle metropoli colonialiste. Ciò significava che quei territori e quei paesi, perse le strutture economiche e sociali pre-capitalistiche sulle quali avevano resistito nel tempo e che venivano in gran parte distrutte dall'intervento esterno delle potenze capitalistiche, non potevano contare sulle nuove strutture economiche e sociali capitalistiche se non in minima parte presenti nei loro territori. Il nuovo modo di produzione capitalistico aveva sì distrutto i vecchi modi di produzione locali e i vecchi equilibri sociali, ma non li aveva sostituiti, come invece avvenne in Europa o in America, con una struttura capitalistica industrialmente avanzata. Lo sviluppo del capitalismo mostrava da un lato il suo andamento inevitabilmente ineguale da paese a paese e nei diversi continenti, ma tale ineguaglianza in parte è dovuta allo stesso potere della classe borghese dominante che, forte dei suoi mezzi economici politici e militari concentrati nei paesi più progrediti, ha interesse a mantenere una parte del mondo nelle condizioni di arretratezza per sfruttarne al massimo le risorse, sia naturali che umane, per ricavarne il massimo di profitto.

Quei paesi, che costituivano, e in parte costituiscono ancora, la grande periferia dei paesi capitalistici sviluppati, immessi nel vortice dei commerci e della lotta di concorrenza fra le potenze capitalistiche, soffrivano inevitabilmente e doppiamente dello sviluppo capitalistico dei paesi dominanti e della mancanza di sviluppo capitalistico nei propri territori. Le guerre anticoloniali che punteggiarono, soprattutto in America Latina, in Asia e Africa il secolo XX, sono state guerre con le quali le giovani borghesie nazionali tentavano di emanciparsi sia dalle loro vecchie classi dominanti  e dai vecchi modi di produzione, sia dall'oppressione coloniale delle potenze capitalistiche mondiali che le dominavano. Alcuni paesi di quei continenti sono riusciti a modernizzarsi più di altri, a diventare "civili", ossia a costruire le basi economiche capitalistiche e, quindi, a porsi sul mercato in posizione di concorrenza con le vecchie potenze coloniali in modo anche molto aggressivo (Cina, Brasile, India, Sudafrica ecc.), dunque a sviluppare internamente le caratteristiche tipiche del modo di produzione capitalistico - lavoro salariato e produzione industriale, innanzitutto, capitali da investire non solo nell'industria e nel commercaio ma anche in Borsa, ecc. -, seguendo di fatto quel che affermavano Marx ed Engels nel Manifesto del 1848: nella stessa proporzione in cui si sviluppa la borghesia, cioè il capitale, si sviluppa il proletariato, la classe degli operai moderni. E nella stessa proporzione in cui si sviluppa l'economia capitalistica, si sviluppano i commerci e le relazioni internazionali nel mercato mondiale e si sviluppano i fattori di crisi che non sono mai soltanto economici e sono sempre meno ristretti nei confini del paese tale o tal altro, ma sono sempre più fattori internazionali.

L'internazionalizzazione del capitalismo ha internazionalizzato le condizioni basilari dei rapporti di produzione: capitale e lavoro salariato sono i due pilastri del capitalismo e le leggi di questi rapporti vigono in tutto il mondo, per quanto arretrato sia il tale o tal altro paese. La classe degli operai moderni, la classe dei proletari, dei senza-riserve, dei senza-patria, è la più numerosa e vasta classe sociale esistente; essa vive e sopravvive nelle condizioni di schiavitù in cui la costringono i rapporti di produzione e sociali capitalistici: sono questi rapporti di produzione e sociali che devono saltare, che devono essere spezzati per liberare dalla schiavitù salariale la stragrande maggioranza della popolazione umana  mondiale. Ma, perché questi rapporti borghesi di produzione e di proprietà siano finalmente spezzati e sostituiti da rapporti di produzione e sociali rispondenti non alle esigenze del profitto capitalistico e della valorizzazione del capitale, ma alle esigenze di vita della specie umana, in una nuova organizzazione sociale, razionale ed armonica - possibile proprio grazie allo sviluppo tecnico-industriale dell'economia ma impossibile nella misura in cui tale sviluppo tecnico-industriale resta sotto il dominio dei rapporti economici e sociali capitalistici -capace di superare ogni divisione della società in classi, ogni forma di oppressione e di dominio di classe.

La storia ha dimostrato, e la storia delle rivoluzioni borghesi ancor di più, che solo la violenza di classe è in grado di rivoluzionare da cima a fondo la società. La violenza con cui la borghesia di ogni paese difende i suoi interessi di parte, sia nei confronti delle borghesie straniere sia nei confronti dei movimenti proletari che intralcino i loro affari o mettano a repentaglio la stabilità del loro dominio, è la dimostrazione più chiara del fatto che il proletariato può difendere i suoi interessi di classe sia sul terreno immediato che sul terreno più generale e politico, soltanto adottando i mezzi e i metodi della lotta di classe, dunque mezzi e metodi che rispondono esclusivamente agli interessi di classe del proletariato, contrapposti e antagonisti agli interessi di classe della borghesia; mezzi e metodi che non possono negare per principio l'uso della forzxa e della violenza, poiché è contro la forza e la violenza dell'oppressione borghese che si tratta di combattere.

Le misure che le borghesie europee hanno preso e stanno prendendo in questi anni per "difendersi" dall'invasione dei migranti dall'Africa e dall'Asia, d'altra parte prevista  negli anni delle crisi economiche e delle guerre devastanti che in quei paesi hanno provocato l'esodo di centinaia di migliaia di uomini donne e bambini verso i paesi più ricchi e in cui (apparentemente) regna la pace, dimostrano che esse - come non sono in grado di assicurare lavoro e salario a tutti proletari - non sono tanto meno in grado di assorbire nei propri paesi la massa sempre in aumento di migranti che premono ai loro confini. Prima ancora delle motivazioni razziste, con le quali reagisce soprattutto la piccola borghesia inacidita dalle conseguenze della crisi economica che le hanno tolto una parte di profitto parassitario su cui vive facendola precipitare nella proletarizzazione, vi sono  motivazioni economiche e sociali. La borghesia dominante è costretta, di fatto, a distrarre risorse finanziarie dagli affari previsti nei settori finanziari, commerciali e industriali più lucrosi, per passarle al settore della "protezione civile" e della gestione molto complicata e incerta di masse clandestine e sfuggenti che possono produrre  profitti a condizione di essere sfruttate regolarmente, indirizzandone i flussi in modo controllato; diversamente, i profitti sono soltanto appannaggio delle organizzazioni criminali che speculano sul traffico dei migranti sul quale traffico si sono consolidati nel tempo sistemi di tangenti e di corruzione che attengono soprattutto al personale politico e amministrativo addetto ai CIE, centri ufficiali di identificazione ed espulsione (5).

Da quando il fenomeno dell'immigrazione di massa è diventato costante e incontrollato, i governanti dei paesi più esposti al primo ingresso da parte dei migranti (Italia, Grecia, Spagna) si sono ripetutamente rivolti all'Unione Europea, ossia a quello che appare come il centro decisionale in merito alle politiche non solo economiche ma anche sociali, con l'intento di vedere attenuati gli effetti dirompenti della pressione che le masse di migranti esarcitano oggettivamente su questi paesi. Di fatto, il centro decisionale non è uno Stato centrale, ma un coacervo di istituti che riassumono le decisioni dei paesi più forti, Germania in testa. Così, in merito al più recente tema della "distribuzione di quote di migranti" richiedenti asilo, dovuto all'emergenza creatasi negli ultimi anni, sia per la quantità di migranti giunti sulle coste soprattutto italiane, sia per la fortissima pressione da loro esercitata per raggiungere altri paesi dell'Europa, in particolare i paesi del nord Europa, la Germania e la Gran Bretagna (6), sia per il numero enorme di morti nelle traversate del Mediterraneo (è del 18 aprile scorso l'episodio finora più tragico, sembra con 900 vittime al largo di Lampedusa, in conseguenza del quale si tenne a Bruxelles un vertice straordinario dell'UE), in diverse riunioni "di vertice" i capoccioni europei dovevano decidere le forme di intervento, cosiddetto di "solidarietà" tra Stati, per diminuire la pressione dell'immigrazione di massa in particolare sull'Italia. Il nulla di fatto era, per noi, ovvio, perché nessun paese intende sobbarcarsi volontariamente il peso economico e sociale di proletari non richiesti, oltretutto incontrollabili, a meno di non essere sovvenzionato lautamente per questo servizio "comunitario"... Se già i propri disoccupati indigeni costituiscono per la borghesia di ogni paese un peso, perché li deve in qualche modo sfamare senza poterli sfruttare adeguatamente, tanto più costituiscono un peso i rifugiati politici, i profughi dai paesi in guerra, i migranti economici; perciò, al di là delle leggi e degli articoli contenuti in tutte le costituzioni democratiche, ogni borghesia nazionale tende e tenderà sempre a scaricare sulle borghesie degli altri paesi i costi sociali che queste situazioni comportano, mentre utilizza senza pudore tutti gli argomenti ideologici e politici che corrispondono alla difesa dei propri confini, dell'integrità della propria cultura e dei propri valori nazionali, a difesa della distribuzione delle risorse nazionali prima di tutto ai nativi e agli "aventi diritto" (la Lega in Italia sbandiera il motto: "prima di tutto gli italiani!") e via di questo passo.

L'immigrato, tanto più se forzatamente clandestino, diventa il bersaglio  più facile al quale addossare i peggiori crimini e le peggiori intenzioni; da clandestino non soltanto è un senza-riserve e un senza-patria, è soprattutto un senza-diritti: non ha diritto di migrare, di cercare un lavoro, di sopravivere: può essere depredato, questo sì, dei pochi averi che possiede nel suo viaggio della disperazione-speranza e può finire nei campi di raccolta (in realtà di concentramento), come in Libia, torturato e sfruttato fino alla morte; è "libero di morire", questo sì, congelato nei sottofondi di un camion o di un aereo o affogando in mare, calpestato nelle stive di barconi stracolmi di esseri umani stipati come bestie portate al macello o colpito dalle fucilate dei poliziotti di un qualsiasi confine. L'importante, per i borghesi, che tutto questo si svolga lontano dai loro confini perché questo vuol dire che "il problema" è di un altro paese e il fastidfio di doverlo affrontare e risolvere non li riguarda. Ma la situazione economica e sociale creata dalla stessa borghesia capitalistica si rivolta contro di lei, le rovescia addosso le conseguenze delle contraddizioni della sua società; il controllo sociale, dopo quello economico, le sfugge di mano e i mezzi che usa per riprendere il controllo e mantenere il proprio dominio di classe sono mezzi destinati ad aumentare la criticità delle situazioni, ad acuire le contraddizioni sociali, ad approfondire e generalizzare le crisi, fino a quando le guerre di rapina e di conquista scatenate nei paesi periferici dell'imperialismo non si presentano come una "soluzione" delle crisi economiche e sociali, e fino a quando quelle guerre non scoppiano tra le stesse potenze imperialistiche.

La classe borghese, nell'epoca imperialista, non ha altri sbocchi per superare le proprie crisi se non la guerra che da locale diventa mondiale. Le atrocità dei conflitti locali, da cui fuggono milioni di persone, sono destinate a diventare atrocità all'ennesima potenza nella guerra più generale. Una terza guerra mondiale, se non sarà fermata prima dalla rivoluzione proletaria, sarà molto più devastante della seconda, come questa lo è stata rispetto alla prima, perché le atrocità e le devastazioni sono direttamente proporzionali alla profondità e alla vastità delle crisi capitalistiche. 

 

I PROLETARI CONQUISTANO IL PROPRIO FUTURO SOLTANTO CON LA LOTTA DI CLASSE, UNENDO LE FORZE AL DI SOPRA DELLE NAZIONALITÀ E DELLA CLANDESTINITÀ

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Timidi tentativi di unire le forze proletarie al di sopra delle nazionalità si sono verificati in questi anni. Alle volte, nelle manifestazioni del primo maggio si sono visti proletari immigrati manifestare insieme ai proletari indigeni. Tentativi intrisi ancora di illusioni democratiche sul valore delle leggi borghesie e del cosiddetto "dialogo tra le parti sociali". Ma la vera solidarietà di classe la si può attuare soltanto sul terreno della lotta contro la concorrenza fra proletari. Non è soltanto una questione di "diritti" da pretendere dallo Stato borghese che molto spesso non applica le sue stesse leggi se queste leggi vanno a favore dei proletari. Il caso dell'accoglienza dei rifugiati politici è emblematico: sempre più spesso, i rifugiati politici che fuggono dai paesi d'origine a causa delle guerre e della repressione e che dovrebbero venire accolti senza tante difficoltà nei paesi superdemocratici d'Europa, hanno difficoltà proprio ad essere riconosciuti come tali e a trovare una sistemazione adeguata sia di lavoro che di vita. Non parliamo poi dei profughi, che sono la maggioranza dei migranti forzati, sia per motivi economici che sociali ai quali si sono aggiunti, negli ultimi anni, i motivi di ordine religioso.

Le borghesie italiana, francese, tedesca, inglese, insomma europea, in realtà non hanno alcuna intenzione di rispettare i propri principi etici e le proprie dichiarazioni: i diritti dell'uomo vengono "riconosciuti" nelle forme che non mettano in disequilibrio gli interessi borghesi e i loro affari, quindi raramente. In un certo senso, l'afflusso costante di migranti nei paesi europei - senza permesso di soggiorno! - viene considerato un attacco alla loro stabilità economica e politica, e perciò i migranti vengono trattati come nemici potenziali, quando non nemici veri e propri.

Ma i proletari hanno una caratteristica materiale e oggettiva che li pone sempre nelle condizioni di essere potenzialmente, e di diventare realmente, nemici della borghesia. Il migrante, il clandestino, non fa che evidenziare drammaticamente la caratteristica fondamentale di tutti i proletari del mondo: essere un senza riserve, in una società regolata dalla proprietà privata, è essere tendenzialmente estraneo a questa società, perciò essere senza-patria. Ne fa parte, in verità, solo alla condizione di essere e rimanere un lavoratore salariato: finchè il lavoro dei proletari aumenta il capitale, gli operai moderni, i proletari, trovano lavoro e sopravvivono secondo le regole della società capitalistica. Ma quando il capitale, in crisi di sovraproduzione, non dà più lavoro a tutti i proletari come in precedenza, masse di proletari per sopravvivere migrano dove sperano di trovare lavoro, ossia dove sperano di trovare capitalisti che li sfruttino dando loro un salario col quale sopravvivere; migrano da una fabbrica ad un'altra, da un campo all'altro, da una regione ad un'altra, da un  paese ad un altro. Come il capitale non si ferma dove viene prodotto nel primo ciclo produttivo, ma circola da un mercato all'altro, e per il mondo intero, così il proletario non si può fermare, perché è costretto ad inseguire il lavoro dove c'è, ad inseguire il capitale che può dare lavoro a chi lo cerca, a cercare il lavoro anche se non c'è. Il lavoro, nella società capitalistica, per i proletari non è una conquista, non è dignità, non è indipendenza, non è emancipazione sociale; il salario dato a fronte del lavoro operaio è la  forma moderna di schiavitù, perché senza salario non si vive, senza lavoro non si ha salario, e il lavoro in questa società lo può dare soltanto il capitalista, privato o pubblico che sia, e lo dà solo alla condizione che il capitale investito aumenti di valore.

E' un cerchio infernale che viene spezzato da due situazioni opposte: dalla crisi economica del capitalismo, che può avere conseguenze nazionali oppure internazionali, a causa della quale il capitale non si valorizza più come prima, i proletari vengono espulsi dalla produzione e dal lavoro precipitando nelle condizioni di fame e miseria che oggi milioni di proletari conoscono direttamente; oppure dal movimento rivoluzionario del proletariato, col quale la classe degli operai moderni, dei lavoratori salariati, dei proletari non combatte più solo per un aumento di salario, o per non cadere in condizioni di esistenza peggiorate, o per farsi riconoscere il diritto ad esistere, ad organizzarsi, a difendersi, ma combatte per capovolgere completamente la situazione, per spezzare quel famoso cerchio infernale costituito dalla schiavitù salariale, per spezzare la dittatura del capitale e, perciò, per spezzare la sovrastruttura politica che la borghesia ha eretto a difesa del suo modo di produzione e del suo sistema di dominio sociale.

La vera emancipazione del proletariato sarà nella fine della condizione di essere una classe di questa società. Ma per non essere più classe in questa società, per non essere più la classe sfruttata dal capitale, e quindi classe per il capitale, il proletariato deve elevarsi a classe dominante, prendere il potere politico, instaurare la propria dittatura per spezzare la dittatura della classe borghese ed avviare attraverso la sua dittatura la trasformazione della società intera, internazionalmente.

La conquista del potere politico, quindi la rivoluzione proletaria, è effettivamente l'unico grande obiettivo che la classe dei lavoratori salariati possono e devono darsi? Non è possibile invece, con la collaborazione tra proletariato e borghesia, come detterebbero le regole della democrazia moderna e le aspirazioni di tutti i riformisti e di tutti gli opportunisti, ottenere gradualmente un miglioramento generale delle condizioni di vita di tutta la popolazione umana del mondo, a cominciare dai paesi che per primi hanno raggiunto la civiltà industriale e la civiltà politica della democrazia?

Sono proprio i paesi che per primi hanno raggiunto la civiltà industriale e la civiltà della democrazia moderna, quindi i paesi che per primi hanno sviluppato il capitalismo, ad essere i campioni dell'oppressione capitalistica: oppressione salariale combinata all'oppressione dei popoli dei paesi meno avanzati. Sono proprio questi paesi ad essere stati e ad essere i principali portatori delle contraddizioni dello sviluppo capitalistico e, perciò, dei fattori di crisi che portano alla guerra generalizzata e alle sue atrocità. Le classi borghesi di questi paesi hanno insegnato alle classi borghesi di tutto il mondo i metodi di dominio e di oppressione coi quali ogni borghesia, perfino ogni frazione borghese, può imporre i propri interessi privati su popolazioni e borghesie più deboli.

Le atrocità delle guerre di conquista coloniale la cui paternità va alle borghesie inglese, francese, belga, olandese e poi spagnola, portoghese, tedesca, italiana, giapponese, sono poi susseguite dopo la seconda guerra imperialista mondiale con l'intervento della borghesia americana che ha imparato molto bene le lezioni di cinismo e di atrocità delle borghesie europee che l'hanno preceduta nelle diverse aree del mondo, superandole sia durante la guerra con le atomiche su Hiroshima e Nagasaki, sia dopo con la guerra, nel Vietnam e più recentemente in Iraq; in seguito anche la borghesia russa, con le sue guerre in Afghanistan, in Cecenia e nei paesi del Caucaso, ha dato notevoli esempi di cinismo e di atroce repressione. Da questo punto di vista, in verità, nessuna borghesia nazionale, che si sia trovata nelle condizioni di difendere armi alla mano i propri interessi specifici, contro frazioni borghesi rivali o contro borghesie straniere che tentavano di accaparrarsi territori economici in loro possesso, si è risparmiata: basti pensare alle borghesie serbe e croate nella guerra di separazione e di spartizione della ex Jugoslavia, alla borghesia israeliana nella sua guerra permanente contro i palestinesi, alla borghesia siriana e alle diverse frazioni borghesi che si contendono i territori della Siria, dell'Iraq, del Kurdistan, per non parlare della Somalia, dell'Eritrea, dell'Uganda, della Nigeria, del Ciad, del Ruanda, del Darfur nel Sudan, dove si sono susseguiti massacri su massacri. La borghesia, in ogni parte del mondo, difende e impone i suoi interessi con ogni mezzo violento a sua disposizione; e se a disposizione ha il fanatismo religioso e la repressione terroristica contro tutti coloro che si oppongono ai suoi interessi, li usa a piene mani, come dimostra in questo ultimo anno anche il Califfato irakeno-siriano, che sta approfittando delle difficoltà e dei terremoti sociali ed economici apertisi in tutta la zona mediorientale e nordafrica per insediarsi come nuovo potere locale.

In tutti questi anni, e in tutti questi episodi il proletariato è stato vittima non solo della straripante oppressione economica, politica e militare delle rispettive borghesie nazionali e delle borghesie imperialiste che, di fatto, tirano i fili degli interessi mondiali dell'economia capitalistica, ma anche delle propria drammatica impotenza di classe.

 Fermandosi a guardare la situazione per come si presenta, non ci sarebbe speranza per il proletariato di nessun paese: troppo debole, troppo schiacciato sotto il peso dell'oppressione economica e politica delle classi borghesi. Perciò, come affermano ormai gli opportunisti di ogni colore, la via d'uscita starebbe nel chiudersi nei confini del proprio paese, lottare per quella democrazia che la borghesia stessa ha abbandonato per rincorrere i suoi interessi di parte,  trovare un accordo con i poteri capitalistici che si prestano a relazioni industriali e sociali più "equilibrate" e appellarsi ai valori della pace, del diritto, degli accordi stipulato tra paesi, perchè ciò che deve stare a cuore di tutti - capitalisti e proletari - sarebbe "il bene del paese", gli "interessi generali del paese", naturalmente del "proprio" paese contro gli interessi degli altri paesi!

Per il "bene del paese", per gli "interessi generali del paese", le borghesie imperialiste hanno condotto i propri proletariati, e coinvolto il proletariato di tutti i paesi, in due guerre mondiali e in una serie interminabile di guerre locali e nessuna di queste "soluzioni" alle crisi che le hanno scatenate sono state risolutive: tutt'altro! Le conseguenze delle crisi che si sono ciclicamente succedute dalla seconda guerra mondiale in poi, dopo alcuni decenni di espansione economica dei grandi paesi imperialisti e di sviluppo economico di alcuni tra i paesi precedentemente immersi nell'arretratezza economica e industriale, hanno in realtà ricondotto l'economia generale nelle condizioni di disordine e di squilibrio che stanno facendo maturare i fattori di una crisi mondiale molto più profonda di quella dalla quale le economie avanzate stanno a fatica uscendo, e molto più profonda di quella che precedette la seconda guerra imperialista mondiale.

La situazione economicamente e politicamente devastata dei paesi del Medio Oriente e dell'Africa, da cui stanno soprattutto arrivando in Europa le masse di migranti forzati, è la dimostrazione dell'incapacità della borghesia di risolvere i problemi che il suo modo di produzione nello svilupparsi crea. Le masse di migranti che raggiungono in un modo o nell'altro le coste e le città europee stanno ad indicare che la rivolta delle forze produttive, contro le forme economiche e politiche dei rapporti sociali capitalistici, è in cammino. Siamo ancora lontani dall'unione di classe dei proletari di uno stesso paese, e ancora più lontani dall'unione di classe dei proletari di tutti i paesi. Ma la direzione che oggettivamente stanno prendendo le forze di produzione è quella della lotta contro le conseguenze del capitalismo, contro le conseguenze di un modo di produzione e di una società caratterizzati da una disumanità irrisolvibile all'interno dei rapporti di produzione e di proprietà borghesi.

I proletari indigeni, i proletari d'Europa e d'America, devono imparare, dai loro fratelli di classe migranti dai paesi arretrati, la determinazione nella lotta di sopravvivenza, il coraggio di affrontare qualsiasi difficoltà, qualsiasi pericolo, qualsiasi rischio pur di raggiungere uno scopo vitale. Per i migranti oggi lo scopo vitale è di fuggire da situazioni intollerabili e di morte certa per fame o per azioni repressive dei poteri borghesi, e di raggiungere una terra in cui sopravvivere con minore incertezza. Per i proletari autoctoni dei paesi industrializzati lo scopo vitale, oggi, è quello di sottrarsi all'abbraccio soffocante del collaborazionismo interclassista e tornare alle magnifiche tradizioni della lotta di classe che li ha visti protagonisti dei grandi movimenti rivoluzionari del passato. La tradizione classista e rivoluzionaria del passato movimento proletario europeo, unita alla forza e alla determinazione dei giovani proletariati dei paesi della periferia dell'imperialismo, può diventare la combinazione positiva della rinascita del movimento proletario internazionale. E allora, il grido lanciato dal Manifesto del 1848: Proletari di tutti i paesi, unitevi!, diventerà una terribile realtà per tutte le borgehsie del mondo. Lo spettro della lotta di classe, della lotta rivoluzionaria del proletariato, del comunismo, non si aggirerà più soltanto in Europa, ma in tutto il mondo!

Tornare alla lotta in difesa esclusiva degli interessi immediati proletari, significa tornare ad utilizzare mezzi e metodi di lotta che vanno contro gli interessi esclusivi dei capitalisti; significa tornare a sentirsi parte di una classe che rappresenta una forza sociale capace di osare, di sfidare il potere borghese che si mostra "invincibile" nella misura in cui il proletariato si mostra debole, disorganizzato, ridotto a singole individualità, illuso di poter fregare i capitalisti sul loro terreno economico-finanziario e sul loro terreno politico della democrazi parlamentare.

Tornare alla lotta di classe significa accettare la realtà materiale di questa società, senza illusioni e senza miti: la realtà dell'antagonismo di classe che oppone la borghesia al proletariato. Questo antagonismo non  è un teorema da dimostrare, né una forma temporanea, e superabile, delle relazioni tra capitalisti e proletari: esso ha le radici nel modo di produzione capitalistico stesso, e il capitalista lo dimostra ogni minuto della sua vita quotidiana col fatto che se non costringesse i proletari al lavoro salariato, non otterrebbe nessun profitto; in realtà, sarebbe lo stesso modo di produzione capitalistico ad eliminare il borghese che non fa il suo mestiere di sfruttatore della forza lavoro salariata.  Lo sviluppo del capitalismo ha dimostrato che il suo sistema economico può fare a meno del singolo capitalista; le società per azioni, i trust, gli stessi Stati centrali con le loro aziende pubbliche, dimostrano che è il modo di produzione che detta le regole alla borghesia e non il contrario. Per cambiare la caratteristica di fondo del modo di produzione capitalistico, ossia il sistema per cui il capitale sfrutta il lavoro salariato allo scopo di aumentare il capitale stesso (si tratta in pratica di produzione e riproduzione di capitale), non c'è accordo possibile tra capitalisti e proletari, non ci sono vie di mezzo da cercare, non ci sono compromessi utili ad equilibrare gli interessi del capitale con gli interessi delle forze lavoro salariate in modo che vi sia una ripartizione "equa" della ricchezza sociale. Come minimo, dovrebbe scomparire la proprietà privata e soprattutto l'appropriazione privata dell'intera produzione sociale; dunque, dovrebbe scomparire la classe borghese che rappresenta esattamente la classe che si appropria, contro la società, dell'intera produzione sociale, cioè dell'intera ricchezza prodotta socialmente.

Come le società divise in classi che precedettero la società borghese, anche questa società ha un termine, un tempo storico in cui, raggiunto il suo massimo sviluppo, non hanno più nulla da dare alla società umana. La resistenza delle classi al potere al proprio declino storico è un fatto materiale, fisico ed economico: le vecchie classi dominanti resistono al potere e continuano nella loro opera di oppressione e repressione finché non vengono scalzate dal movimento delle forze produttive che fa saltare tutti i punti di forza dei vecchi poteri e instaura il nuovo potere. Basta ricordare la rivoluzione borghese e i suoi mille tentativi di imporsi sulle vecchie classi aristocratiche, fino a quella francese, in particolare, che rappresentò per l'Europa e l'America la fine storica della società feudale e delle società primitive. Ma, da proletari, ricordiamo la Comune di Parigi del 1871, primo esempio storico di dittatura proletaria sebbene imperfetta, e la rivoluzione d'Ottobre 1917 in Russia, esempio storico di dittatura proletaria portata fino in fondo sebbene in un paese capitalisticamente arretrato. Rivoluzioni proletarie che sono state vinte? Sì, e le cause sono ben note al marxismo che le ha esaminate a fondo a partire da Marx ed Engels, per continuare con  Lenin e il partito bolscevico al suo massimo apice teorico e pratico, e con la Sinistra comunista d'Italia che in Bordiga ebbe il suo miglior rappresentante. La storia delle lotte di classe e delle rivoluzioni non è mai stata, e non sarà mai, un processo di graduale evoluzione. Il mito gradualista serve alla classe dominante borghese per deviare le ambizioni e le prospettive del proletariato sul terreno dell'impotenza sociale. Negando le sue stesse origini storiche rivoluzionarie, la classe borghese nasconde ai proletari, ma anche a se stessa, la realtà irrisolvibile dell'antagonismo sociale. Aggrappata com'è ai vantaggi che le derivano dal suo dominio sulla società, decuplicherà le sue forze di resistenza pur di non perdere il potere. Lo ha già dimostrato nella storia passata, non cambierà in futuro. Perciò il movimento rivoluzionario del proletariato non potrà e non dovrà avere titubanze, esitazioni, nell'utilizzare i mezzi violenti e terroristici che la borghesia usa normalmente contro di esso, nelle guerre in modo esplicito e senza alcuno scrupolo, in tempo di pace in modo implicito, mimetizzando il suo cinismo sociale e il suo disprezzo per la razza dei proletari sotto gli appelli alla collaborazione tra le classi, al bene superiore del paese, ai valori di una pace che, nella realtà di sempre, è semplicemente una tregua tra le guerre!

La rivoluzione non è soltanto la cosa più autoritaria che ci sia, come diceva Engels nella polemica con gli anarchici, è la lotta di classe elevata al suo primo e vitale obiettivo storico: scalzare la classe borghese dominante dal potere politico, abbatterla e spezzarne lo Stato, per instaurare il nuovo potere, questa volta proletario, la sua dittatura di classe grazie alla quale, se esercitata dal suo unico partito di classe rivoluzionario, avviare contemporaneamente la lotta rivoluzionaria contro tutti gli altri Stati borghesi esistenti  - e il bolscevismo all'epoca di Lenin ha insegnato molto anche su questo terreno - e avviare la trasformazione economica all'interno del paese e del territorio controllato dalle armate proletarie, in modo da togliere il più possibile, da subito, ossigeno economico, sociale ed ideologico alle classi borghesi ancora attive. In questa vera e propria guerra di classe prolungata per tutto il periodo in cui il movimento rivoluzionario del proletariato agisce su tutti i teatri mondiali, la posta in gioco non è la vittoria rivoluzionaria in questo o quel paese, non è la vittoria del "socialismo in un solo paese", ma è la vittoria della rivoluzione proletaria a livello internazionale perché la società capitalistica è internazionale e solo internazionalmente può essere vinta, trasformata e superata.

Come dicevamo sopra, non esiste una società che, giunta al suo declino totale, si "suicidi" per lasciare il posto ad una nuova organizzazione sociale per la quale è già presente la classe che la rappresenta. La società capitalistica dovrà essere abbattuta, con tutti i suoi rapporti di produzione e di proprietà: lo sviluppo tecnico e scientifico della produzione e della distribuzione sarà utilizzato dalla nuova organizzazione sociale non più per aumentare di valore il capitale, non più per produrre merci, sfruttare il lavoro salariato, consegnare al denaro la funzione di unica relazione tra gli uomini, ma per soddisfare in modo razionale ed armonico le esigenze della vita sociale degli esseri umani, della specie. Il comunismo è quella nuova società non più basata sullo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, non più basata sulla divisione in classi antagoniste.

Un passaggio storico, per raggiungere la nuova società comunista, che non può comprendere se non il mondo intero, è obbligatorio: la rivoluzione, la cui attuazione è compito della classe proletaria. I proletari non "scelgono" di fare o non fare la rivoluzione. E' la loro stessa esistenza in quanto proletari, in quanto lavoratori salariati, a porli storicamente nella posizione di essere l'unica classe rivoluzionaria di questa società. Alcuni brani del Manifesto di Marx-Engels, chiariscono il concetto:

"La condizione più importante per l'esistenza e per il dominio della classe borghese è l'accumularsi della ricchezza nelle mani di privati [appropriazione privata della produzione sociale, NdR], la formazione e la moltiplicazione del capitale [produzione e riproduzione del capitale, NdR]; condizione del capitale è il lavoro salariato [dal tempo di lavoro non pagato, nel salario operaio, il capitalista intasca il suo profitto, NdR]. Il lavoro salariato poggia esclusivamente sulla concorrenza degli operai tra di loro [la lotta contro la concorrenza degli operai tra di loro è l'unica strada per l'unione di classe dei proletari, per la solidarietà di classe e per condurre la lotta contro la borghesia con successo, NdR]. Il progresso dell'industria, del quale la borghesia è veicolo involontario e passivo, fa subentrare all'isolamento degli operai risultante dalla concorrenza, la loro unione rivoluzionaria, risultante dall'associazione [per superare la concorrenza tra di loro, gli operai devono associarsi ponendosi obiettivi rivoluzionari, NdR]. Con lo sviluppo della grande industria, dunque, vien tolto di sotto ai piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti [lo sviluppo dell'economia  capitalistica nelle forme borghesi intralcia lo sviluppo delle forze produttive, NdR]. Essa produce anzitutto i suoi seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono del pari inevitabili".

Certo, queste affermazioni non vanno intese come se la rivoluzione proletaria avesse dovuto vincere già nel 1848 o negli anni immediatamente successivi. Vanno intese nel senso storico profondo che contengono. La società borghese, per quanto sviluppi la grande industria, e quindi il capitalismo, e per quanto progredisca nello sfruttamento del lavoro salariato a livello internazionale, non riuscirà mai ad eliminare la sua contraddizione principale, e più mortale: i rapporti borghesi di produzione e di proprietà impediscono, ad un certo livello di sviluppo del capitalismo, l'ulteriore sviluppo delle forze produttive che si ribellano contro le forme sociali e politiche in cui sono costrette e, ad un certo grado di maturazione dei fattori economici, sociali e politici, le fa saltare. Il proletariato,che non ha nulla da difendere nella società in cui la sua esistenza è dovuta esclusivamente allo sfruttamento della sua forza lavoro da parte del capitale - e quindi da parte della classe borghese che lo rappresenta - è la classe che ha tutto da guadagnare dal completo rivoluzionamento della società attuale. Non solo esso rappresenta i seppellitori della borghesia e della sua società, ma rappresenta, nello stesso tempo, lo storico superamento di ogni divisione in classi della società e, quindi, anche la propria scomparsa come classe. Ecco perché la sua rivoluzione, la sua dittatura di classe, la sua vittoria nella lotta di classe a livello mondiale, aprendo in questo modo la strada alla trasformazione completa dell'economia, e quindi della società, in una economia di specie,  eliminano la permanenza nella storia di ogni divisione sociale in classi contrapposte.

A questa grande prospettiva storica sono chiamati i proletari di tutto il mondo, migranti economici o richiedenti asilo, proletari occupati o disoccupati, senza distinzioni di nazionalità, di età, di sesso. Una prospettiva storica per la quale si batte da sempre il partito comunista, da Marx in poi.

 


 

(1) Cfr. Il fatto quotidiano, 3/6/2015, pp. 16-17.

(2) Cfr. Le Monde, 20/4/2015.

(3) Ibidem.

(4) Cfr. Marx-Engels, Manifesto del partito comunista, Giulio Einaudi Editore, Torino 1962; il brano citato e i successivi sono ripresi dalle pp. 107-108, cap.  Borghesi e proletari.

(5) Si è potuto leggere su tutti i media che in Italia, di recente, è stata scoperta dalle indagini della magistratura una fitta rete di corruzione che ha investito cooperative "di sinistra", come la Cooperativa 29 giugno, e varie organizzazioni "di destra", indagini che hanno dato vita allo scandalo nominato Mafia Capitale dato che si è incentrato nelle stanze del potere locale di Roma con solidi legami col potere statale centrale. A dimostrazione che le stanze in cui si decide dove investire molto denaro pubblico (sanità, grandi opere, forniture alimentari ecc.) sono le stanze dove maggiormente si concentra la corruzione e la distrazione dei capitali.

(6) I recentissimi episodi rilevati dai servizi televisivi a Calais, durante lo sciopero dei traghetti per la Gran Bretagna, circa i tentativi da parte di decine di migranti di nascondersi nei camion fermi in attesa della fine dello sciopero e della riapertura del transito, hanno rimesso in luce come i tentativi dei migranti di raggiungere le località che si sono prefissati non si fermano mai a costo di finire nelle mani della polizia e col rischio di essere "rimpatriati".

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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