La Grecia ha dimostrato una volta di più che è impossibile lottare contro gli attacchi capitalisti attraverso la via elettorale e riformista

(«il comunista»; N° 140-141;  Novembre 2015)

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Alla fine di un’ennesima sessione-maratona «storica» di negoziati a Bruxelles fra il governo greco e i suoi creditori, è stato trovato un accordo «definitivo» per «risolvere» la crisi greca: il primo ministro greco Tsipras e la sua équipe alla fine hanno accettato, come condizione di nuovi crediti allo Stato greco virtualmente in fallimento, un piano di misure d’austerità sensibilmente più duro di quello che avevano rifiutato una settimana prima e contro il quale avevano organizzato un cosiddetto referendum! Il solo punto per il quale il governo greco ha ottenuto qualcosa di concreto, è quello della riduzione delle spese militari: i creditori hanno accettato di ridurle rispetto a quanto richiesto in precedenza...

 

Tradimento di Tsipras?

 

In molti, compresi i gruppi cosiddetti di «estrema sinistra», che affermavano di non avere alcuna illusione su Syriza e sul suo governo, gridano al tradimento di Tsipras. Ma non possono sentirsi traditi coloro che prendono per oro colato i discorsi demagogici di questo partito e del suo capo.

Syriza, che si qualifica come partito della «sinistra radicale», non è in realtà diverso da un qualsiasi partito riformista classico: non intende abbattere il capitalismo, ma migliorarlo, riformarlo; il suo sogno è quello di tutti i riformisti, il sogno di un capitalismo dal volto umano, quello che vogliono tutti i collaborazionisti, il sogno della collaborazione fraterna fra tutti i cittadini o, almeno, la loro stragrande maggioranza. Ma c’è il sogno e c’è la realtà. E nella realtà, non si può cambiare il capitalismo – essendo possibili soltanto alcune riforme di dettaglio, e comunque alla condizione che non costino troppo -, o lo si combatte o ci si sottomette!

Non avendo avuto mai l’intenzione di combattere il capitalismo, Syriza non poteva che sottometterglisi e sottomettere i lavoratori che in questo partito avevano fiducia. Salito al potere pretendendo di poter mettere fine all’austerità e alla crisi economica che colpisce i proletari e certi strati piccoloborghesi, Syriza incarnava l’illusione che un semplice cambio di governo, ottenuto tranquillamente e pacificamente attraverso la democratica via elettorale, avrebbe potuto portare un miglioramento significativo alle condizioni delle masse. La costituzione del suo governo sulla base di un’alleanza con un partito di estrema destra, militarista e filoreligioso (Anel) avrebbe dovuto bastare a dissipare gli eventuali dubbi sulla natura «radicale» di Syriza. Ciò nonostante, per lunghi mesi, il governo ha continuato a recitare la commedia della difesa dei lavoratori di fronte ai creditori del paese, pretendendo di convincerli a rinunciare ad una parte delle loro richieste e di accordare nuovi aiuti finanziari; e, mentre la situazione dei proletari e delle masse lavoratrici non faceva che peggiorare, Syriza ha ottenuto una vera tregua sociale, in parte a causa delle batoste continue subite dai proletari negli ultimi anni, e in parte a causa delle speranze che molti nutrivano verso Syriza.

In realtà, i negoziatori greci difendevano in primo luogo gli interessi del capitalismo nazionale e non quelli dei proletari o della popolazione; lo testimonia il fatto che essi hanno finalmente accettato più facilmente le misure antisociali e antiproletarie che quelle che ledevano gli interessi capitalistici particolari (hanno infatti difeso con le unghie e con i denti lo statuto privilegiato degli armatori rispetto alle imposte, le spese militari o il mantenimento di un’Iva bassa sulle attività turistiche); le misure di austerità imposte per rimborsare i creditori hanno avuto conseguenze terribili per l’economia in generale, trascinando con sé la scomparsa di migliaia di imprese: una politica di «rilancio economico» e non di austerità è quindi la richiesta di numerosi capitalisti.

Ma i negoziati e gli accordi fra borghesi e fra Stati borghesi – anche quando questi Stati sono dei «partners» nel seno di una «unione»! – non si fondano che sui rapporti di forza. Il gracile capitalismo greco  non aveva certo la forza di resistere a lungo alle esigenze dei grandi capitalismi europei, soprattutto con lo Stato sull’orlo del fallimento. Posto alla fine di giugno, da parte dei creditori, davanti ad un quasi ultimatum nell’accettare il loro piano, il governo Tsipras replicava organizzando un referendum rispetto a questo piano, appellandosi a votare “no”. Questa decisione è stata salutata con entusiasmo da tutta la sinistra e l’estrema sinistra europea [ma anche da parte di partiti come la Lega e il Movimento 5 stelle, in Italia, che di sinistra proprio non si professano], perché vi vedevano la possibilità che un «popolo» rifiutasse democraticamente l’Europa dell’austerità e della finanza ecc. e vi vedevano una sorta di «gogna dell’euro». Ma Tsipras precisava chiaramente che questo referendum era stato organizzato non per rompere con i creditori, ma per continuare i negoziati con loro, solo da una posizione rafforzata dal suffragio universale. Nella campagna per il sì al referendum si sono ritrovati i partiti borghesi tradizionali (i socialisti del Pasok e la destra di Nuova Democrazia) o non tradizionali (i centristi del To Potami), le organizzazioni padronali ma anche le direzioni sindacali del settore privato, i grandi media ecc., appoggiati dai governi europei. I partigiani del «no» raggruppavano, oltre a Syriza, i neo-fascisti di Alba Dorata e le piccole formazioni di estrema sinistra, compresa una parte degli anarchici. Il Partito Comunista Greco (il KKE) rifiutava di partecipare alla campagna per il «no», affermando – con ragione – che le proposte del governo non erano diverse da quelle dei creditori; chiedeva il voto nullo (l’essenziale, naturalmente, è comunque andare a votare!), mezzo attraverso il quale esprimere un «doppio no» a queste due proposte e, nello stesso tempo, difendere la sua prospettiva nazionalista di uscire dall’UE.

Il seguito è noto: i partigiani del «no» hanno ottenuto una vittoria di grande risonanza (dei votanti quasi il 60% per il «no», il 6% di schede nulle o bianche, mentre il «sì» non ha raccolto che il 36%; gli astenuti, in ribasso, erano circa il 38%). La grande piazza Syntagma di Atene ha visto scene di esultanza di elettori convinti di aver inflitto un colpo severo ai partigiani dell’austerità e ai vecchi partiti che si sono succeduti al governo durante questi ultimi anni. Anche le formazioni della sinistra radicale europea hanno celebrato questa vittoria elettorale; diamo qui, come solo esempio, le dichiarazioni dell’italiana Rifondazione Comunista, ma potremmo citare quelle identiche del Front de Gauche francese, dello spagnolo Podemos ecc.: «La vittoria del No in Grecia rappresenta la vittoria della democrazia e della dignità del popolo greco contro il terrorismo finanziario della troika. Si tratta di un risultato storico per la Grecia e i popoli europei» (1).

Qualche ora dopo questa vittoria storica della democrazia, il primo ministro Tsipras, dopo aver escluso il suo ministro delle Finanza, dal tono troppo rivendicativo, riuniva tutti i partiti parlamentari, di destra come di sinistra, eccetto Alba Dorata; tutti, salvo il KKE, gli accordavano il proprio sostegno totale per negoziare con i creditori il mantenimento della Grecia nella zona euro... sulla base del piano proposto da costoro! Sconfitto su tutta la linea nelle urne, il «sì» trionfava così nei fatti! Sarebbe difficile immaginare una dimostrazione più lampante dell’inanità delle illusioni elettorali e del ruolo di disorientamento del circo elettorale...

Raccogliendo il consenso dei vecchi partiti borghesi tradizionali, Syriza diventava il rappresentante di una vera unione nazionale, il difensore degli interessi di tutta la borghesia greca di fronte agli Europei.

 Non essendo sufficienti le dichiarazioni di intenti, i negoziatori greci presentarono a Bruxelles un piano preciso e dettagliato, redatto sotto la guida degli alti funzionari francesi, che accettava tutti i punti denunciati una settimana prima come ultimatisti. Ma, quando cominciarono le sedute dei negoziati, questo piano fu rigettato dai rappresentanti tedeschi, che ne presentarono un altro, basato sull’espulsione – per 5 anni – della Grecia dalla zona euro, perché, secondo loro, era venuta a mancare la «fiducia» nel governo greco: per i capitalisti la fiducia si basa sulla sottomissione.

Ci vollero interminabili incontri perché i dirigenti tedeschi abbandonassero la loro posizione e accettassero il mantenimento della Grecia nella zona monetaria europea, imponendole però, come contropartita, misure drastiche e umilianti per i dirigenti greci che avevano osato tener loro testa.

Da bravi servi riformisti, i rappresentanti greci accettarono alla fine tutto quel che si chiedeva loro; questa non era una capitolazione, perché il governo Tsipras aveva già capitolato prima ancora dell’inizio dei negoziati, quando, elettoralmente vittorioso, era stato messo in riga da parte di tutti i partiti, in particolare da quelli che avevano  chiesto di votare «sì»; non solo aveva capitolato nei confronti della difesa degli interessi proletari e delle masse povere, che non è mai stato il vero obiettivo di Syriza, ma anche rispetto al rifiuto di accettare tutte le richieste dei creditori e aveva rinunciato ad ottenere un alleggerimento del fardello del debito.

Noi abbiamo scritto che «Il governo Syriza-Anel non ha alternative: dovrà sottomettersi alle pressioni degli Stati borghesi più potenti se non vuole essere estromesso dalla zona euro, o sostituito da un governo più ragionevole. (...) Syriza si trova nella scomoda situazione di dover scegliere fra scontrarsi apertamente con gli interessi dei proletari e delle masse lavoratrici o con quelli del capitalismo; e come tutti i partiti riformisti, che sono indissolubilmente legati alla difesa del modo di produzione capitalistico, non potrà far altro che scontrarsi con i lavoratori, approfittando della fiducia che in esso ripongono questi ultimi. Questo è il ruolo assegnatogli dalla borghesia, greca e internazionale, che tollererà il suo governo solo fino a quando sarà in grado di svolgerlo» (2).

Non si è dovuto attendere molto la dimostrazione di questa nostra facile previsione. Sembrava, ad un certo punto, che durante gli ultimi negoziati, alcuni Stati e certe «istituzioni» avessero minacciato di pretendere la formazione di un nuovo governo, magari di un «governo tecnico», se i dirigenti greci non avessero accettato le condizioni richieste dai creditori. Ma altri hanno fatto valere probabilmente l’opinione che Tsipras e suoi partigiani, rafforzati dalla loro «vittoria» elettorale, fossero i più adatti a far trangugiare l’amara pillola alle masse proletarie: è precisamente a questo che serve la democrazia.

 

CONTRADDIZIONI interimperialiste

 

I negoziati di Bruxelles sono stati particolarmente fluttuanti, vedendo contrapporsi i diversi gruppi di paesi a proposito della sorte da riservare alla Grecia: da un lato, la Germania con i suoi alleati dei paesi del Nord che preconizzava l’uscita della Grecia dalla zona euro, dall’altro lato la Francia, sostenuta da Cipro e Italia, che si opponeva alla soluzione proposta dalla Germania. Alcuni hanno voluto vedervi la contrapposizione di due concezioni dell’Europa: da un lato i partigiani dell’ortodossia finanziaria e del rispetto dei trattati, dall’altro lato i partigiani della solidarietà tra i popoli.

La realtà è ben diversa; «difendendo la Grecia» contro i rappresentanti tedeschi, Parigi non difendeva affatto il «popolo» greco e ancora meno i proletari greci: il progetto presentato dal governo greco e redatto in collaborazione con i responsabili francesi riprendeva tutte le misure antioperaie e antisociali richieste dai creditori europei. Nel corso dei negoziati, il ministro francese delle Finanze utilizzò l’argomento che se la Grecia avesse lasciato la zona euro, non avrebbe potuto rimborsare il debito; ma la cosa più inquietante per Parigi e Roma era che un’uscita dall’euro avrebbe rischiato di provocare dei sommovimenti economici nella zona, colpendo in modo serio le magre speranze di rilancio della crescita in Francia e in Italia. La pretesa «difesa della Grecia» non è altro che la difesa degli interessi capitalisti nazionali francesi e italiani!

La posizione dei dirigenti tedeschi era differente perché la buona salute della loro economia avrebbe loro permesso di assorbire senza troppi problemi lo shoc di un «Grexit» (uscita della Grecia dall’euro); quel che li preoccupava di più, al di là della prospettiva poco allegra di accordare a fondo perduto dei crediti supplementari alla Grecia, era di creare un precedente che un domani avrebbe potuto essere invocato dai governi di altri paesi molto più grandi, ad esempio la Spagna; da qui la loro volontà, se la Grexit non avesse avuto luogo, di infliggere condizioni punitive alla Grecia affinché ciò servisse da avvertimento per i paesi che sarebbero stati tentati di imitarla...

Infine, gli Stati Uniti fecero pressione sulla Germania perché la Grecia non fosse cacciata dalla zona euro e perché il suo debito fosse ridotto (3). Ciò corrisponde alla loro posizione tradizionale che consiste nello spingere gli Europei ad abbandonare la politica dell’austerità e ad adottare misure di rilancio economico, al fine di giocare il ruolo di locomotiva di una crescita mondiale che sta rallentando; ma in questo caso preciso, la loro posizione si spiega principalmente con la preoccupazione di evitare che un membro della NATO che occupa una posizione strategica-chiave (la Grecia, per l’appunto) precipiti in un marasma economico che indebolirebbe le sue capacità militari. Tuttavia gli Stati Uniti non volevano immischiarsi direttamente nei negoziati, come avrebbe voluto Tsipras, il preteso rappresentante della «sinistra radicale», che sperava di trovare un solido appoggio nell’imperialismo americano...

Nessuno di questi Stati intendeva preoccuparsi della situazione dei proletari e delle masse greche perché ognuno di loro ha il compito di difendere il modo di produzione capitalista sia contro i propri proletari che contro quelli dei paesi da essi dominati!

 

TUTTI GLI STATI BORGHESI E TUTTE LE CLASSI POSSIDENTI sono i nemici dei proletari

 

I proletari greci hanno ricevuto una dura lezione i cui insegnamenti, conformi al marxismo, sono validi per i proletari del mondo intero: è impossibile difendersi dagli attacchi capitalisti, portati dai capitalisti del proprio paese o dai capitalisti stranieri, facendo affidamento sui meccanismi della democrazia parlamentare. La scheda di voto non è che carta straccia che non può in alcun modo prevalere sugli interessi borghesi e risolvere le contraddizioni sociali. Un preteso «voto di classe», come quello per il «no», salutato dall’estrema sinistra europea, non è che una triste illusione: la lotta di classe non si svolgerà nel recinto dei parlamenti, ma nelle fabbriche, nelle aziende e nelle strade. Non si possono addolcire le esigenze capitaliste cercando di commuovere i borghesi descrivendo loro le sofferenze dei popoli, come sembra facessero – suscitando soltanto delle alzate di spalle – i negoziatori greci a Bruxelles (che erano d’accordo nel far soffrire i proletari... ma non troppo!).

I proletari non devono attendersi pietà o commiserazione dai capitalisti e dai loro valletti, ma solo bastonate; questi colpi possono essere, senza dubbio, più o meno brutali, ma questa è solo una differenza di intensità dovuta a metodi diversi: il metodo riformista è più dolce per evitare nella misura del possibile che scoppino scontri sociali. Ma quando gli interessi borghesi sono troppo urgenti il metodo riformista imbocca velocemente la via autoritaria, dei diktat e, di fronte alla minaccia degli scontri, la via della violenza e della repressione: Tsipras non è che l’ennesimo esempio.

Il «piano di salvataggio» concluso a Bruxelles, con tutti i sacrifici imposti ai proletari e alle masse lavoratrici (aumento dell’età pensionabile fino a 67 anni, riduzione delle pensioni ai dipendenti dello Stato, nuovi tagli agli ammortizzatori sociali, aumento dei prezzi e delle tasse ecc.), ma anche a certi strati della piccola e media borghesia, con la restrizione della sovranità imposta allo Stato greco (grande scandalo dei nazionalisti di «estrema sinistra»), non risolverà i problemi del capitalismo greco; secondo numerosi economisti, i problemi, al contrario, si aggraveranno, accentuando la depressione economica che  il capitalismo greco conosce già da molti anni. E, in ogni caso, l’avviso del FMI, che dopo aver usato tutto il proprio peso per farlo accettare dal governo di Atene, stimava in un rapporto pubblicato il 14 luglio scorso, ma conosciuto prima dai responsabili europei durante i negoziati, che questo piano era non sviluppabile se gli Stati europei non avessero accettato di ridurre o di sopprimere il debito della Grecia – ossia quel che gli Europei si sono ostinatamente rifiutati di fare! Nuove crisi in Grecia sono dunque inevitabili e si porteranno appresso pesanti carichi di misure antioperaie...

La crisi greca non è che la manifestazione estrema della crisi generale del capitalismo in Europa e nel mondo; è per questo che l’alternativa, del tutto borghese, di un’uscita dalla zona euro e/o dall’Unione Europea, non può essere una soluzione per i proletari. Quel che è possibile per un potente Stato imperialista come la Gran Bretagna – fondare la propria prosperità su una moneta indipendente e decidere di lasciare la UE – non è possibile per il debole capitalismo greco. Le leggi impietose del mercato capitalista nel quale, in tempi di crisi, rimangono a galla solo i più forti, si applicherebbero alla Grecia con ancora  più violenza se essa lasciasse l’alleanza capitalistica che si chiama Unione Europea. Il capitalismo greco, privato o di Stato, dovrà estorcere ancora più ferocemente il plusvalore ai suoi proletari in nome della difesa della patria, in realtà per resistere ai suoi concorrenti sul mercato mondiale.

Non esistono soluzioni borghesi contro il peggioramento delle condizioni di vita dei proletari che, in maniera più o meno pronunciata, si verifica in tutti i paesi. I partigiani della collaborazione fra le classi, che appartengono alla cosiddetta «sinistra radicale» o ai «riformisti» tradizionali, non possono che contribuire a questo peggioramento perché la collaborazione fra le classi significa sottomissione del proletariato alla classe dominante: non è un caso se Pablo Iglesias, leader di Podemos spagnolo, ha approvato la condotta di Tsipras...

 

PER LA RIPRESA DELLA LOTTA DI CLASSE!

PER LA FORMAZIONE DEL PARTITO DI CLASSE internazionale!

 

Per i proletari non vi è altra soluzione che rompere con la collaborazione di classe e con tutti i partiti e i sindacati che la sostengono, per imboccare la via della lotta di classe anticapitalista. Non è possibile affrontare e vincere i capitalisti e il loro Stato se non attraverso la lotta aperta, adottando metodi, mezzi e obiettivi classisti:

difesa intransigente dei soli interessi proletari, organizzazione indipendente di classe, tanto sul piano della lotta di difesa immediata quanto sul piano della lotta anticapitalista più generale, costituzione del partito politico di classe, internazionalista e internazionale, collegato con i proletari di tutti i paesi, per dirigere la lotta fino alla vittoria rivoluzionaria.

Questa via non è facile, ma è la sola realistica, come una volta ancora hanno dimostrato i fatti: la via riformista ed elettoralistica, collaborazionista e nazionalista, non è che un’utopia mortale utile esclusivamente alla borghesia.

 

18 luglio 2015

 


 

(1) http://www.rifondazione.it/primapagina/?p=18794

(2) Presa di posizione del 27/4/2015, in www.pcint.org

(3) Il ministro delle Finanze tedesco ha risposto facendo riferimento alla situazione del Portorico: questo piccolo Stato, che ha lo statuto di «Stato associato» agli Stati Uniti è, anch’esso, virtualmente in fallimento, ma Washington rifiuta di soccorrerlo. 

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

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