Nello sforzo comune di difendere la teoria marxista e il patrimonio politico della Sinistra comunista, proseguiamo il lavoro di assimilazione teorica vitale per il partito

La rivoluzione proletaria è internazionale e internazionale sarà la trasformazione  socialista dell’economia

(Resoconto sommario della riunione generale di Milano del  24-25 gennaio 2015)

(«il comunista»; N° 142;  Febbraio 2016)

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La prima parte del resoconto del tema sviluppato nella Riunione Generale di partito del gennaio 2015, è stata pubblicata nel n. 139 (giungo 2015) di questo giornale. Essa è stata corredata da due articoli pubblicati nell’allora giornale di partito “il programma comunista”, uno del 1968 (La grande bestemmia del socialismo in un solo paese) e l’altro del 1970 (Come ti massacrano Lenin), a dimostrazione della continuità della critica di partito alla teoria buchariniano-staliniana del socialismo in un paese solo. Nella riunione generale, come ricordato a suo tempo, abbiamo documentato la nostra critica anche attraverso gli interventi di Zinoviev, Trotsky e Kamenev all’Esecutivo Allargato dell’I.C. del 1926. Era ed è noto che la teoria del socialismo in un solo paese, per avere una giustificazione teorica, cercava (e cerca tuttora da parte dei gruppi che proseguono l’opera mistificatrice dello stalinismo) un appoggio negli scritti di Lenin. Non trovando testi o articoli  ben documentati e teoricamente ineccepibili di Lenin a sostegno di questa tesi, Bucharin e Stalin fecero leva su un passaggio dello scritto di Lenin dell’agosto 1915, “Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa”, unico scritto di Lenin che Bucharin e Stalin a suo tempo utilizzarono – forzando l’interpretazione di una sola frase! – a sostegno della loro teoria del “socialismo in un solo paese”. Zinoviev, nel suo intervento all’Esecutivo Allargato dell’IC, del dicembre 1926, aveva criticato a fondo proprio l’uso “di un piccolo frammento da un piccolo articolo di Lenin” (l’articolo, per l’appunto, è “Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa”) col quale si voleva contrapporre la teoria del socialismo in un paese solo alla concezione internazionalista del socialismo di Marx ed Engels, e difesa a spada tratta da Lenin, anche nel campo della sua attuazione integrale nell’economia.  

Diamo allora la parola a Zinoviev, a proposito di questo “frammento” dell’articolo di Lenin:

«Nel suddetto saggio, dal titolo “Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa”, Lenin scrive: “L’ineguaglianza dello sviluppo economico e politico è una legge assoluta del capitalismo. Ne risulta che è possibile il trionfo del socialismo dapprima in alcuni paesi o anche in un solo paese capitalistico, preso separatamente. Il proletariato vittorioso di questo paese, espropriati i capitalisti e organizzata nel proprio paese la produzione socialista, si porrebbe contro il resto del mondo capitalistico attirando a sé le classi oppresse degli altri paesi, infiammandole a insorgere contro i capitalisti, intervenendo, in caso di necessità, anche con la forza armata contro le classi sfruttatrici e i loro Stati. La forma politica della società  nella quale il proletariato vince abbattendo la borghesia sarà la repubblica democratica che centralizzerà sempre più la forza del proletariato di una nazione o di più nazioni nella lotta contro gli Stati non ancora passati al socialismo. Impossibile è la soppressione delle classi senza la dittatura della classe oppressa, il proletariato. Impossibile è la libera unione delle nazioni nel socialismo senza una lotta ostinata, più o meno lunga, fra le repubbliche socialiste e gli Stati arretrati”.

«Da questo frammento si estraggono solo le parole: “è possibile il trionfo del socialismo dapprima in alcuni paesi o anche in un solo paese” e se ne trae la conclusione che la teoria di Lenin è la teoria del socialismo in un paese. Esaminiamo il passo citato. E’ del tutto fuori dubbio che le parole “trionfo del socialismo” sono qui intese nel senso della conquista del potere politico da parte del proletariato. Lenin in questo frammento non parla nemmeno della repubblica dei consigli, ma della repubblica democratica. Ma qui si obietta che Lenin dice appunto: “Dopo aver organizzato nel proprio paese la produzione socialista” ecc.! Non è quindi chiaro che egli parla qui non solo della conquista del potere da parte del proletariato, ma espressamente anche della produzione socialista? No, questo non è chiaro affatto. Chiara è un’altra cosa: “Dopo aver espropriato i capitalisti e organizzato nel proprio paese la produzione socialista” significa qui: dopo avere preso il potere dai capitalisti e dopo essere giunti al punto che le fabbriche e le officine lavorano sotto la direzione del proletariato socialista, cioè quando si sono gettate le basi per la organizzazione della produzione socialista. Non appena si è conquistato il potere politico si deve espropriare i capitalisti e cominciare la organizzazione della società socialista, allo stesso tempo ci si deve preparare alla guerra (o alle guerre) contro gli Stati capitalisti e cercare di attirare a sé le classi oppresse degli altri paesi - questo è in realtà il pensiero di Lenin».

Per noi è chiaro che i sostenitori della teoria del socialismo in un solo paese, anche dal punto di vista economico, interpretano in modo forzato le parole di Lenin al fine di fargli sostenere quel che non sostiene e che in nessuno suo scritto, in nessuna sua tesi, come in nessuna tesi della Sinistra comunista da cui noi proveniamo, è sostenuto. Sempre a proposito dello scritto di Lenin citato, riportiamo il seguito dell’intervento di Zinoviev:

«Sarà mai possibile attribuire a Lenin il “pensiero” che egli abbia inteso di espropriare dapprima i capitalisti, poi, per alcuni decenni, di organizzare la produzione socialista, e solo dopo, di scendere in campo con la forza delle armi contro le classi sfruttatrici ed i loro Stati e di attirare a sé le classi oppresse degli altri paesi? Questo sarebbe puro nonsenso, questo sarebbe equivalente alla credenza stupidamente pacifista e filistea che i capitalisti e i loro Stati sarebbero disposti ad aspettare un decennio, fino a che il proletariato che ha preso il potere in un paese, non abbia organizzato e potenziato nel suo paese la produzione socialista e solo dopo passi alla guerra contro la borghesia. Oppure non rimane altro che attribuire a Lenin ancora un altro “pensiero”, che abbia cioè ritenuto possibile “organizzare la produzione socialista” secondo la ricetta di un furbacchione nel corso di alcune settimane o mesi. Non c’è altra alternativa per i nostri avversari. Questa è una “interpretazione” sbagliata del pensiero di Lenin».

E più avanti nel suo intervento Zinoviev pone questa domanda: «C’è da chiedersi perché proprio Lenin stesso neanche una sola volta, né nel 1916, né nel 1917, né dal 1917-1923 ha interpretato il suo articolo del 1915 (“Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa”) così come viene interpretato adesso? C’è da chiedersi come mai il compagno Stalin stesso fino al 1924 (vedi il suo libro “Lenin e il leninismo”) non aveva notato questo articolo e aveva intepretato le opinioni di Lenin, sul carattere internazionale della rivoluzione, nello stesso modo come tutti noi?».

E si potrebbe estendere la domanda fatidica di Zinoviev: come mai nemmeno Amadeo Bordiga ha interpretato quel “piccolo frammento” di quel “piccolo articolo” di Lenin, allo stessa maniera di Stalin del 1926, né a quell’epoca, né tantomeno successivamente; e anche quando lo ha citato nella “Struttura” come mai non ha colto l’occasione per distinguere la questione della trasformazione socialista in economia tra i paesi arretrati (come la Russia dell’epoca) e i paesi avanzati (come i paesi dell’Europa occidentale), nel senso di negarla ai primi e darla per possibile, anzi doverosa, nei secondi?; e come mai, nel redigere i punti del programma del partito nel 1946 valido per tutti i paesi del mondo, si è invece preoccupato di precisare, a proposito “dell’opera di trasformazione economica e sociale”, che tale “integrale attuazione non è concepibile all’interno dei confini di un solo paese”? Sottolineiamo per l’ennesima volta le parole “non è concepibile”, perché Amadeo, che ha sempre utilizzato con grandissma attenzione i termini scelti per esprimere l’autentica concezione marxista su ogni questione, non intendeva lasciare “libertà di interpretazione”.

 

Ribadiamo: la dittatura proletaria instaurata nel paese avanzato in cui la conquista rivoluzionaria del potere è riuscita, tra i suoi compiti ha certamente anche quello di “iniziare immediatamente a distruggere i rapporti borghesi di produzione e di proprietà” (Struttura). Questo concetto viene ribadito poco più avanti, quando si nega che “la conquista del potere politico da parte del partito proletario sia condizionata alla simultaneità in tutti i ‘paesi civili’, come scioccamente dice la formula stalinista, o in un gruppo di essi”, mentre si afferma che “in date condizioni storiche di forza del proletariato è ammissibile la conquista del potere politico in un solo paese” (anche in questo caso senza distinguere se il paese economicamente è arretrato o avanzato; nell’arretrata economicamente Russia, le condizioni storiche di forza del proletariato, tra le quali la presenza attiva e l’influenza determinante del partito bolscevico, erano del tutto favorevoli alla rivoluzione non solo democratico-borghese ma anche socialista). Ed è questo il momento per ribadire che “se la condizione di primo tipo esiste [“che la produzione e la distribuzioone si svolgano generalmente in forma capitalistica e mercantile, ossia che vi sia largo sviluppo industriale, anche di aziende agricole, e mercato nazionale generale”, NdR], ciò vuol dire  che comuncia subito la trasformazione socialista, fatto distruttivo più che costruttivo, e per cui nella avanzata Europa (e America) da molto tempo le forze produttive sono bastevoli, anzi in eccesso”.

In quell’«iniziare immediatamente a distruggere», e in quel «comincia subito la trasformazione socialista», si ribadiscono due compiti vitali del potere proletario: 1) intervenire dispoticamente anche in campo economico cominciando ad organizzare la produzione e la distribuzione in senso socialista, iniziando quindi a distruggere i rapporti di produzione e di proprietà borghesi laddove vi sia largo sviluppo industriale e agricolo [e da questi interventi immediati restano fuori necessariamente tutta la piccola produzione e la piccola distribuzione, che richiederanno molto tempo per essere trasformati in grande produzione e distribuzione, e quindi in produzione e distribuzione socialista], togliendo in questo modo forza alla base economica capitalistica su cui si fonda il potere borghese all’interno del paese in cui la rivoluzione ha vinto; 2) organizzare la difesa armata del potere proletario nel paese in cui è stato conquistato, sostenendo ed incitando il proletariato degli altri paesi alla lotta rivoluzionaria nella prospettiva, che rimane prioritaria, della rivoluzione internazionale anche se questo sostegno internazionalista dovesse essere pagato con un rallentamento negli interventi dispotici sul piano economico e sociale nel paese in cui la rivoluzione ha vinto. Per attirare nel campo della rivoluzione proletaria le classi oppresse degli altri paesi ancora in mano ai poteri borghesi, sarebbe illusorio credere che sia sufficiente l’esempio della trasformazione economica iniziata nel paese in cui vige la dittatura proletaria, quando tutto il mondo borghese si allea contro di essa utilizzando tutta la sua forza economica, sociale, politica, ideologica e militare per far fare alla dittatura proletaria la fine della Comune di Parigi. Separare questi due compiti, uno dall’altro, stabilire che c’è una prima tappa, quella dell’intervento nel tessuto economico, completata la quale si passa alla seconda tappa, quella del sostegno e dell’incitamento alla rivoluzione negli altri paesi [“di scendere in campo con la forza delle armi contro le classi sfruttatrici ed i loro Stati e di attirare a sé le classi oppresse degli altri paesi”, Zinoviev], significherebbe cadere nell’errore ricordato da Zinoviev, e cioè credere che i poteri borghesi del mondo, “i capitalisti e i loro Stati sarebbero disposti ad aspettare un decennio, fino a che il proletariato che ha preso il potere in un paese, non abbia organizzato e potenziato nel suo paese la produzione socialista e solo dopo passi alla guerra contro la borghesia”: questa, secondo Zinoviev e secondo noi, non sarebbe che una “credenza stupidamente pacifista e filistea”.

La posizione marxista corretta è: preso il potere, la dittatura proletaria deve iniziare fin da subito la distruzione dei rapporti borghesi di produzione e di proprietà , ma “allo stesso tempo ci si deve preparare alla guerra (o alle guerre) contro gli Stati capitalisti e cercare di attirare a sé le classi oppresse degli altri paesi- questo è in realtà il pensiero di Lenin”.

Dando l’attenzione dovuta alla lettura del punto 11 del nostro Programnma di partito, si evince che il nodo centrale del potere conquistato, dunque dello Stato proletario, consiste nella difesa del regime proletario sia dagli “attacchi esterni dei governi borghesi” che da quelli interni “delle classi abbattute, dei ceti medi e piccolo borghesi e dei partiti dell’opportunismo, immancabili alleati della controrivoluzione nelle fasi decisive”, ma anche “dai pericoli di degenerazione insiti nei possibili insuccessi e ripiegamenti dell’opera di trasformazione economica e sociale”. Dunque, la prospettiva che il partito si dà non risponde all’illusione che la vittoria della rivoluzione, ammessa in un primo tempo anche in un solo paese, una volta instaurata la dittatura proletaria diretta dal partito, questa sia messa al riparo da ogni possibile insuccesso e, tanto meno, risponde all’illusione che da quel momento in poi non vi siano “possibili ripiegamenti dell’opera di trasformazione economica e sociale”. La dittatura proletaria instaurata nel singolo paese in cui la rivoluzione ha vinto è un atto della guerra di classe non confinato nei limiti “nazionali” tra il proletariato e la borghesia di quel paese: è un atto della guerra di classe internazionale del proletariato di tutti i paesi contro la borghesia di tutti i paesi; esso è un atto della guerra di classe internazionale in una determinata fase della rivoluzione internazionale, atto di guerra che si svolge in quel periodo in un determinato paese, ma che è interesse della stessa rivoluzione proletaria estendere a tutti i paesi del mondo. Se non si ha questa visione, internazionale e internazionalista, si cade inevitabilmente nel pregiudizio nazionale, nell’idea – non importa se espressa chiaramente o no – della rivoluzione proletaria a segmenti divisi gli uni dagli altri nello spazio e nel tempo e, infine, delle “vie nazionali al socialismo”. Come la lotta rivoluzionaria del proletariato di un paese non è, per il suo contenuto di classe, nazionale se non formalmente, così la vittoria rivoluzionaria in quel paese, e la dittatura proletaria instaurata in quel paese non sono vittoria “nazionale” e dittatura “nazionale”, ma vittoria e dittatura internazionali limitate temporaneamente (dati i rapporti di forza internazionali tra proletariato rivoluzionario e borghesie) ad un paese; perciò la trasformazione socialista della società anche dal punto di vista economico non è una trasformazione “nazionale”, tanto meno nel periodo storico caratterizzato dalla fase imperialista del capitalismo. Lo sviluppo ineguale del capitalismo, verità storica che solo il marxismo ha decifrato, non ha impedito la “globalizzazione” dell’economia capitalistica, di un’economia che è fondamentalmente sempre più mondiale, ma il cui sviluppo è punteggiato costantemente da contrasti sempre più acuti dati dalla lotta di concorrenza tra le diverse borghesie imperialiste e tra interessi “nazionali” permanentemente contrapposti; un’economia che risponde a rapporti di produzione e di proprietà borghesi, forme della produzione e della proprietà che impediscono lo sviluppo delle forze produttive facendole entrare in contrasto, appunto, con le forme della produzione capitalistica.

Dirà Trotsky: “Cos’è stata la guerra imperialista? Una rivolta delle forze produttive non solo contro le forme borghesi di proprietà, ma anche contro i confini degli Stati capitalisti”. Il bisogno storico della rivoluzione socialista, lo sbocco storico nella società comunista, derivano dallo stesso sviluppo contraddittorio del capitalismo, ma alla scala mondiale, non nazionale. A causa dello sviluppo ineguale del capitalismo la rivoluzione proletaria internazionale può iniziare in un paese soltanto, anche in un paese economicamente arretrato se le sue condizioni storiche maturano favorevolmente verso lo sbocco rivoluzionario (come avvenne per la Russia nel 1917, e come poteva avvenire per la Cina nel 1927 se lo stalinismo non avesse strangolato l’Internazionale Comunista e, poi, il partito comunista cinese, facendoli diventare organi politici di supporto alla sola rivoluzione nazionale borghese e non a quella internazionale proletaria), ma non può concludersi nei confini di un paese solo, per quanto sviluppato capitalisticamente esso sia.

A proposito dello sviluppo ineguale del capitalismo – a dimostrazione che il lavoro di partito non ha mai dato nulla per scontato –, sviluppo ineguale innestato nello sviluppo ineguale della precedente società  feudale, che a sua volta si è innestato sullo sviluppo ineguale della precedente società ancora [dal che si può dedurre che lo sviluppo ineguale dal punto di vista economico e sociale, quindi anche culturale, è caratteristica in particolare delle società divise in classi], è utile rifarsi all’intervento di Trotsky, perfettamente in linea con Lenin, sempre all’Esecutivo Allargato dell’IC del dicembre 1926, nella serrata polemica contro la teoria del socialismo in un solo paese. Queste le sue parole:

«La legge dello sviluppo ineguale non è una legge dell’imperialismo, è una legge di tutta la storia umana. Lo sviluppo capitalista, nel suo primo periodo, fece risultare al massimo lo scarto fra il livello economico e “culturale” raggiunto dalla varie nazioni. Lo sviluppo imperialista, cioè la nuova fase del capitalismo, non ha aumentato questo scarto, ma, al contrario, ha sensibilmente contribuito al livellamento. Questo livellamento non potrà mai essere neanche per poco completo. La differenza tra le velocità di sviluppo distruggerà ogni volta il livellamento, ed è questo che rende assolutamente impossibile un capitalismo stabilizzato ad un determinato livello. Lenin attribuiva l’ineguaglianza, insomma, a due fattori: I, la velocità; II, il livello di sviluppo economico e “culturale” dei diversi paesi. Per quel che riguarda la velocità, l’imperialismo ha spinto l’ineguaglianza ad un altissimo grado. Ma è proprio nel livello dei diversi paesi capitalisti che la differenza di velocità ha portato delle tendenze al livellamento. Chi non comprende questo, non comprende il nocciolo del problema. Prendete l’Inghilterra e l’India. In alcune zone dell’India, lo sviluppo capitalistico procede più velocemente di quanto non andasse lo sviluppo capitalistico inglese agli inizi. Ma la differenza, la distanza economica tra l’Inghilterra e l’India, è più grande o più piccola di cinquant’anni fa? E’ minore. Prendete il Canada, l’America del Sud e il Sudafrica, da una parte e l’Inghilterra, dall’altra. Lo sviluppo del Canada, dell’America del Sud e del Sudafrica, nell’ultimo periodo, si è realizzato ad una velocità vertiginosa. Mentre per lo sviluppo dell’Inghilterra, c’è stagnazione ed anche declino. Da questo punto di vista, la velocità è la più ineguale di tutta la storia. Ma i livelli di sviluppo di questi paesi sono molto più vicini di trenta o cinquanta anni fa. [Oggi, basta pensare alla Cina per confermare questa tesi, NdR]. Che cosa dobbiamo dedurne? Dei risultati importantissimi. Proprio per il fatto che in alcuni paesi arretrati, la velocità di sviluppo è diventata, nell’ultimo periodo, febbrile e che in alcuni paesi capitalisti, al contrario, lo sviluppo rallenta o addirittura regredisce, proprio questo fatto, esclude completamente la possibilità di realizzazione dell’ipotesi di Kautsky relativa ad un super-imperialismo, organizzato secondo un piano sistematico, tra l’altro perché, per il fatto che i diversi paesi tendono a livellarsi – senza tuttavia raggiungere l’uniformità – essi sviluppano bisogni uguali (riguardo agli sbocchi commerciali, alle materie prime ecc.) e rivalità identiche. E’ proprio per questo che il pericolo di guerra diventa sempre più acuto e le guerre stesse devono assumere dimensioni gigantesche. Ed è proprio questo che determina e rende ancora più profondo il carattree internazionale della rivoluzione proletaria. L’economia mondiale, compagni, non è una formula vuota, ma una realtà che, durante gli ultimi venti o trenta anni, si è gradualmente consolidata, proprio grazie alla velocità accelerata dello sviluppo dei paesi arretrati e di interi continenti. E’ un fatto cardinale ed è proprio per questo che anche il tentativo di considerare la sorte politica ed economica di un paese isolato, svincolandolo dai legami e dalle interdipendenze con l’insieme economico mondiale, è completamente falso. La legge dello sviluppo ineguale confuta completamente la teoria del socialismo in un solo paese».

Lo sviluppo del capitalismo a livello mondiale impone oggettivamente l’aumento dei legami di ogni economia “nazionale” con il mercato “mondiale”, con l’economia mondiale e ciò significa, come ribadisce Trotsky in questo suo intervento, «una dipendenza crescente (reciproca, naturalmente) dal mercato mondiale, dal capitalismo, dalla sua tecnica e dalla sua economia, e una lotta crescente contro la borghesia mondiale».

Una volta preso il potere in un paese, è possibile per il proletariato isolare il paese in cui ha vinto dal resto del mondo?, dagli altri paesi e dalle economie degli altri paesi? E’ possibile che questo potesse avvenire in un paese arretrato come la Russia del 1917? E’ possibile che questo potesse o possa avvenire in un paese avanzato ieri, oggi o domani? Dato l’aumento dei legami di ogni economia nazionale con il mercato mondiale e quindi con l’economia mondiale, legami che non risolvono l’ineguaglianza di sviluppo del capitalismo ma che la ripropongono ad un livello sempre più alto e contraddittorio ( un po’ come le crisi capitalistiche che possono essere superate dal capitalismo alla sola condizione di generare fattori di crisi più potenti dei precedenti) – ed è in virtù anche di questi legami che, volente o no la classe borghese, la classe proletaria assume a livello internazionale la potenzialità di classe rivoluzionaria – dato l’aumento di questi legami, dicevamo, le basi economiche del socialismo si estendono mondialmente e questo pone il proletariato mondiale, una volta ripresa la lotta di classe sul terreno dello scontro rivoluzionario con la classe borghese, al centro di una rivoluzione che non può essere che internazionale. Così risponde Trotsky a quelle domande, con i soliti efficacissimi esempi: «Sarebbe totalmente falso credere che dopo che la classe operaia si è impadronita del potere, essa possa isolare il paese dall’economia mondiale con la stessa facilità con la quale girando un commutatore si toglie corrente elettrica».

Ma l’ineguale sviluppo del capitalismo non può essere inteso genericamente solo tra paesi capitalistici “avanzati” e paesi capitalisticamente “arretrati”. Tra i paesi di questi due grandi “campi” vi sono gradi di diseguaglianza anche molto forti. Vogliamo prendere l’esempio della Grecia e degli Stati Uniti d’America? Sono entrambi paesi capitalisticamente avanzati, ma il grado di sviluppo industriale di ognuno di essi li differenzia moltissimo; perciò saremmo costretti ad un calcolo amministrativo, caratteristico della contabilità borghese, per decidere in che misura, in quanto tempo e con quali risorse sarebbe possibile la trasformazione economica in socialismo in quel tal paese, dove la rivoluzione proletaria è stata vittoriosa, preso a se stante. E quanti altri paesi, certamente non più feudali o appena usciti dal feudalesimo, dovremmo considerare capitalisti avanzati, con un proletariato numeroso (in proporzione ben più numeroso che il proletariato russo all’epoca della rivoluzione del 1917) e con una borghesia nazionale strettamente legata all’economia mondiale, e quindi “maturi per il passaggio al socialismo” dal punto di vista politico, ma, di fatto, economicamente arretrati e con risorse naturali scarse o quasi inesistenti, come appunto la Grecia; dovremmo fare una classifica dei paesi capitalistici usando per ognuno un criterio di merito rispetto alle sue possibilità economiche reali, una volta conquistato il potere politico, di trasformazione economica in socialismo entro i suoi confini? Già ponendosi da questa angolazione è evidente l’attitudine a considerare  la questione del passaggio al socialismo, anche dal punto di vista dell’integrale trasformazione economica, con una visione del tutto nazionalista. Di più, si cadrebbe inevitabilmente, prima o poi, in un atteggiamento di tipo economicista-imperialistico, da grande nazione, considerando cioè i paesi capitalistici più sviluppati e, di fatto, controllanti l’economia mondiale, come quelli che meritano che i comunisti rivoluzionari svolgano la loro lotta, offrendo i loro sforzi e i loro sacrifici perché lì, in quel tal paese, l’obiettivo del socialismo attuato è ritenuto effettivamente realizzabile, al di là della sorte degli altri paesi e dei proletariati degli altri paesi. Se si vuole distruggere la prospettiva della rivoluzione proletaria e l’internazionalismo comunista, questo è sicuramente un modo per farlo.

Una volta che, nel processo rivoluzionario internazionale, il proletariato di un determinato paese, per cominciare, conquisti il potere e che questo paese sia industrialmente avanzato, è possibile credere che l’economia di questo paese sia completamente isolabile dall’esistente economia mondiale, e perciò possa essere trattata al di fuori di ogni legame, ogni relazione, ogni contatto con l’economia mondiale e al riparo da ogni contrasto con i paesi borghesi del resto del mondo? Ma l’economia mondiale, secondo il marxismo, controlla ogni sua parte – come ricorda Trotsky - «anche se una di queste parti è retta dalla dittatura del proletariato, anche se essa costruisce l’economia socialista» [notiamo, di passaggio, che all’epoca c’era l’abitudine di usare da parte dei marxisti un modo di dire come “costruzione del socialismo” per intendere che l’intervento della dittatura proletaria anche sul piano economico era un intervento volto a distruggere tutti i rapporti di produzione, di distribuzione e di proprietà borghesi, non per intendere che il socialismo integrale potesse essere “costruito” in un solo paese].

Certo, nel primo periodo di dittatura proletaria, che segue perlopiù il periodo di guerra mondiale a causa della quale, e a condizioni politiche e sociali favorevoli, è scoppiata la rivoluzione proletaria, il potere proletario subirà un certo isolamento dal resto del mondo per due ragioni essenziali: una, perché la borghesia internazionale cercherà di soffocare il potere proletario appena sorto isolandolo da ogni altro paese, sia economicamente che politicamente e militarmente, assediandolo da ogni parte e scatenando contro di esso con ogni mezzo le forze della controrivoluzione esterne ed interne al paese stesso; la seconda, perché lo stesso potere proletario, per far fronte alle immediate necessità di sopravvivenza economica e sociale del proletariato, prima di tutto, e dei diversi strati sociali esistenti, soprattutto di piccola e media borghesia, è necessariamente costretto ad un certo “isolamento” per attuare i primi interventi dispotici sui diversi piani, politico, economico e sociale, per rimettere in funzione l’apparato produttivo sconquassato dalla guerra e per far funzionare il nuovo apparato statale proletario in tutti i suoi compiti.

A meno di avere una visione simil-anarchica secondo la quale l’atto insurrezionale rivoluzionario è già sufficiente per avviare immediatamente la nuova società, non si può non considerare che il periodo che fu chiamato di “comunismo di guerra” (ad esempio, il periodo in cui la Russia fu “accerchiata” e attaccata militarmente dagli altri paesi capitalisti del mondo, mentre il proletariato russo veniva isolato dal movimento proletario degli altri paesi) può anche durare degli anni poiché esso dipende da fattori che non sono esclusivamente interni al paese, ma sono soprattutto esterni, dunque internazionali. E questi fattori sono costituiti dall’andamento della lotta rivoluzionaria a livello internazionale, dalla compattezza e dalla coerenza marxista del partito internazionale di classe a capo della dittatura proletaria, dalle necessità e dal grado di legame da intrattenere con l’economia degli altri paesi borghesi e, quindi, con l’economia mondiale, dalla capacità dello Stato proletario di resistere alla pressione e rispondere adeguatamente agli attacchi della controrivoluzione internamente ed esternamente, dalle risorse effettive “nazionali” per rimettere in funzione l’apparato produttivo e per sostenere gli interventi dello Stato proletario in economia e sul piano sociale ecc. Insomma, se mai fosse ipotizzabile, ma non lo è, che il paese capitalistico avanzato, in cui la rivoluzione proletaria abbia vinto, si isolasse completamente dall’economia mondiale per “costruire” il socialismo anche economico al suo interno, siamo davvero così ingenui da credere che le classi borghesi degli altri paesi se ne starebbero a guardare, senza reagire violentemente, il potere proletario del paese caduto nelle mani delle forze della rivoluzione internazionale mentre distrugge i rapporti di produzione e di proprietà che reggono l’economia capitalistica mondiale, e quindi anche quella “sua parte” caduta sotto il dominio della dittatura proletaria, col pericolo che quest’ultima, sostenuta dall’organizzazione internazionale del comunismo rivoluzionario, sia d’esempio al proletariato di tutti gli altri paesi e dia una prospettiva concreta, oltre che un sostegno politico e materiale, alla rivoluzione proletaria in ogni altro paese?

La “teoria” della trasformazione socialista in economia in un solo paese economicamente avanzato, contiene pure, anche se non espressa chiaramente, l’idea che la questione della rivoluzione proletaria sia ridotta soltanto alla capacità o meno del proletariato di quel tal paese di vincere la propria borghesia e, una volta che la propria borghesia sia stata vinta, il proletariato vittorioso di quel paese si troverebbe di fronte, come per incanto, la strada completamente aperta alla trasformazione socialista del proprio paese anche in economia; il successo di questa trasformazione dovrebbe dunque dipendere soltanto della capacità del partito rivoluzionario che guida la dittatura proletaria di attuare gli interventi appropriati nel paese dato. Non solo, ma se fosse davvero possibile la trasformazione socialista anche in economia in un paese solo, vorrebbe dire che le stesse classi verrebbero soppresse mentre in tutto il resto del mondo sussisterebbe la società capitalista, dunque la società divisa in classi. Insomma è come se il comunismo fosse un modello di società che si costruisce in un determinato paese, separatamente da tutto il resto del mondo, e costituisse di per sé un modello che il proletariato degli altri paesi non dovrebbe far altro che seguire e attuare ognuno nel proprio paese...

Trotsky, nel suo intervento sopra citato, affronta anche questo aspetto del problema: «L’edificazione del socialismo [all’epoca si parlava di costruzione, di edificazione del socialismo, mentre Lenin e la Sinistra comunista d’Italia preferivano il termine “passaggio al socialismo”, anche perché, ribadiamo, più che “costruire” la dittatura proletaria deve soprattutto “distruggere”, e perché la trasformazione socialista integrale della società non può avvenire che distruggendo tutti i rapporti di produzione, di distribuzione e di proprietà borghesi, NdR] presuppone la soppressione delle classi, la sostituzione della società di classe con un’organizzazione socialista di tutta le produzione e di tutta la distribuzione. Si tratta di vincere gli antagonismi tra città e campagna, e questo, a sua volta richiede una industrializzazione profonda dell’agricoltura stessa. E tutto questo nelle condizioni dell’accerchiamento capitalista che continua. Non si può identificare questa questione con la sola vittoria contro la borghesia interna».

Insomma, con la visione che stiamo criticando, non si esce dal nazionalismo o, se volete, dal localismo ingenerato proprio dall’ideologia borghese che ha tutto l’interesse a chiudere il proletariato, la sua lotta e la sua eventuale vittoria rivoluzionaria nei confini di un territorio limitato sfuggito temporanemante al controllo dell’imperialismo capitalistico mondiale. E, in perfetta concordanza con Zinoviev, a proposito dello scritto di Lenin del 1915 sugli Stati Uniti d’Europa, partendo proprio dalle considerazioni ora ricordate, Trotsky ribadisce: «Per “vittoria del socialismo”, abbiamo a più riprese, inteso altre cose. Così, quando Lenin, parlando dell’Europa occidentale, scriveva, nel 1915, che il proletariato di un paese isolato può prendere il potere, organizzare la produzione socialista e, in seguito, accettare il combattimento contro la borghesia degli altri paesi, cosa intendeva qui per organizzazione della produzione socialista? Ciò che in questi ultimi anni da noi già esiste: le fabbriche e le officine sono state strappate alla borghesia, l’indispensabile per assicurare la produzione statale è stato fatto, così che il popolo può vivere, costruire, difendersi contro gli Stati borghesi. E’ una vittoria del socialismo, è anche l’organizzazione della produzione socialista, la più primitiva. Da qui all’edificazione della società socialista c’è una grande, grandissima distanza, perché, ripetiamolo ancora, la vera edificazione del socialismo significa la soppressione delle classi e, in seguito, la estinzione dello Stato».

Oltre, quindi, all’errore teorico in cui incorrono coloro che sostengono la possibilità di attuare il socialismo anche economico in un solo paese, ma industrializzato, c’è un altro aspetto, non secondario, del problema sollevato da questa tesi, e riguarda le norme tattiche che dalla teoria e dal programma discendono. Le norme tattiche che il partito si è dato, formulate in contemporanea con il lavoro di restaurazione teorica del secondo dopoguerra, dovrebbero perciò completamente cambiare, perché cambierebbero, in forza di questa tesi, gli obiettivi prioritari e quelli “transitori” nel programma immediato della dittatura proletaria non solo nel paese in cui la rivoluzione ha vinto, ma anche nei confronti del movimento proletario e comunista di tutti gli altri paesi. E dovremmo cambiare anche il Programma del Partito comunista internazionale, poichè esso dovrebbe contenere questa tesi e, ovviamente, le conseguenze tattiche e organizzative che da questa tesi deriverebbero. In che rapporto dovrebbe essere la “priorità” della trasformazione socialista dell’economia in quel solo paese rispetto alla guerra di difesa dagli attacchi degli Stati borghesi del resto del mondo e alla lotta rivoluzionaria del proletariato di tutti gli altri paesi? Quale base storica avrebbe l’idea che il capitalismo mondiale, e gli Stati borghesi che ne difendono la continuità di potere, starebbero fermi a guardare, senza intervenire con la potenza economica e militare di cui dispongono, un potere proletario che si dedica alla distruzione dei rapporti di produzione e di proprietà borghesi nel tal paese, perdipiù in un paese capitalista avanzato che proprio perché avanzato ha un peso rilevante nella rete mondiale dei rapporti borghesi? Davvero si può credere che la borghesia vinta nel tal paese non si farebbe aiutare dalle borghesie degli altri paesi capitalisti, con cui ha relazioni economiche e finanziarie strettissime, e dunque interessi comuni da difendere contro un nemico comune – la dittatura proletaria – e che le borghesie degli altri paesi, legate tra di loro da “alleanze”, o da sudditanze, economiche e militari, non mobilitassero, o non sarebbero costrette dagli imperialismi più potenti, a mobilitare le proprie forze armate per abbattere il potere proletario appena instaurato? Davvero si può credere che al proletariato dei paesi capitalistici dominati ancora dalla classe borghese, dunque sottoposto anche al dominio ideologico borghese con tutti i suoi pregiudizi, basterebbe “l’esempio” della vittoria rivoluzionaria in quel tal paese e della trasformazione dell’economia, per incrementare la propria “nazionale” lotta rivoluzionaria?

Nella critica della teoria del socialismo in solo paese, come in ogni questione di teoria e di impostazione programmatica, politica e tattica, il partito non ha mai dato per scontato nulla e semmai qualche compagno, nel passato, nel presente o in futuro, sia incorso o possa incorrere in un atteggiamento così superficiale, sarà sempre compito del partito riportare – come stiamo facendo da anni e continueremo a fare – le questioni che eventualmente sorgono, dal piano delle interpretazioni personali e delle opinioni al piano dei punti programmatici e della teoria, seguendo una caratteristica di partito che nessun di noi intende perdere: lavorare con pazienza all’assimilazione teorica del complesso patrimonio di dottrina e di critica politica che il partito ci ha consegnato, al di fuori di ogni contrapposizione di opinioni e di ogni metodo di democratico confronto. Siamo, d’altra parte, talmente convinti del lavoro teorico fondamentale fatto dal partito, lavoro che è sintetizzato con grandissima chiarezza anche nel Programma del nostro Partito, da non sentire il bisogno di aggiornamenti, di nuove teorie, di verità “nascoste” da riportare alla luce. Siamo, d’altra parte, consapevoli anche del fatto che la situazione generale, essendo ancora nella piena depressione della lotta di classe, fa mancare alla stessa attività di partito quell’ossigeno classista che nutre anche la comprensione teorica e politica, rendendo molto difficile il lavoro di assimilazione da parte di tutti i compagni che costituiscono il partito. Ma non vi sono ricette speciali da adottare per rendere questo lavoro più facile: bisogna studiare il marxismo come teoria scientifica completa, di cui cercare le conferme nella storia delle lotte fra le classi, delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni, seguendo l’impostazione data dai bilanci dinamici dei grandi svolti storici e che la Sinistra comunista d’Italia, in perfetta continuità con l’opera di restaurazione teorica del marxismo sviluppata da Lenin, ha formulato nelle sue tesi, combattendo gli stimoli a sfondo intellettualistico che la pressione ideologica della borghesia e delle forze dell’opportunismo genera costantemente allo scopo di deviare il cammino delle forze proletarie dai loro interessi di classe e di contaminare il partito di classe, fin dalla sua fase embrionale, con falsi obiettivi e false teorie.

(2 - Continua)  

 

 

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