Il mito dell'Europa unita e la palude del mercato mondiale

(«il comunista»; N° 145;  Settembre 2016)

 Ritorne indice

 

 

Nel 1979, quando i partiti stalinizzati, che avevano l’impudenza di chiamarsi ancora “comunisti”, sventolavano il mito dell’Europa dei popoli, e dell’Europa dei lavoratori contro il mito dell’Europa Unita (ma in realtà Europa del capitale) sventolato dai capitalisti e dalle vecchie potenze imperialiste, nell’allora giornale di partito mettevamo in evidenza la evidente contraddizione della posizione degli opportunisti (1). Essi, guidati dalla visione democratica piccoloborghese, contrapponevano al capitalismo reale – e alle sue conseguenze orribili – un capitalismo immaginario, suscettibile di realizzare il “bene di tutti” a patto che l’interesse “generale” avesse al proprio servizio una buona costituzione democratica e delle leggi della produzione e dell’accumulazione capitalistica e delle leggi del lavoro salariato e del mercato indirizzate appunto al “bene comune” e non esclusivamente al “bene dei capitalisti” e “dei ricchi”. Posizione, quest’ultima, condivisa pienamente dalla Chiesa di Roma di allora con papa Wojtyla e di oggi con papa Francesco.

La visione opportunista, anche se le situazioni generali cambiano e se cambiano le “controparti” con le quali le “parti sociali” vanno a “negoziare”, poggia sempre sulle stesse basi: nega che il capitalismo in quanto tale sia la causa originale dello sfruttamento delle classi lavoratrici e di ogni tipo di oppressione esistente al mondo; crede che il capitalismo sia riformabile, che sia possibile, adottando leggi particolari, mitigarne gli eccessi e gli abusi, renderlo non più orribile ma accettabile. E, naturalmente, secondo questa visione, la modificazione, se non la trasformazione, possono avvenire per via democratica, pacifica, con l’apporto “di tutti”, attraverso il sistema elettorale e parlamentare.

Sappiamo – perché anche quest’anno ci hanno riempito le orecchie dei salmi in onore di Altiero Spinelli e del gruppo di “visionari” di Ventotene – che l’idea dell’Europa Unita non è farina del sacco della nomenclatura dei partiti stalinisti, ma appunto di quel gruppo di intellettuali che lanciavano dal confino il mito in chiave antifascista dell’Europa dei popoli, di un’Europa che avrebbe seppellito definitivamente l’orrore della guerra aprendo finalmente un’era di pace, di benessere, di stabilità, insomma di capitalismo dal volto umano facendo della “culla del capitalismo mondiale” la culla di una “nuova civiltà”. A settant’anni di distanza l’orrore della guerra, invece di scomparire, si è intensificato e ampliato a tutto il mondo; il capitalismo immaginario continua però ad essere sostenuto non solo dai borghesi – che hanno tutto l’interesse ad utilizzare i propri miti per continuare ad ingannare e opprimere le popolazioni e i proletariati di ogni paese – ma anche dagli eredi dello stalinismo e della socialdemocrazia di ieri, variamente trasformatisi in “radicali”, “conservatori”, “riformisti” e nelle mille colorazioni dell’osceno orizzonte politicantesco in cui trovano convenienza a posizionarsi le diverse forme dell’opportunismo.

 

IL MITO DELL’EUROPA UNITA NASCE NEL PERIODO DI TREGUA TRA UNA GUERRA IMPERIALISTA E L’ALTRA

Top

 

Toccò alle stesse vecchie potenze europee, sotto lo staffile della strapotenza americana, trasferire quel mito in un limbo e annunciare che il cammino per la realizzazione di un’Europa unita sarebbe stato tutt’altro che facile, molto più accidentato di quanto sperato... La cosiddetta “guerra fredda” fra i due colossi imperialisti armati fino ai denti – Stati Uniti d’America e Unione Sovietica – e che si sono spartiti il mondo uscito dal secondo macello imperialistico in zone di influenza stava a dimostrare che l’imperialismo (fase suprema dello sviluppo capitalistico) non è una politica del capitalismo fra le tante, ma è l’unica politica del capitalismo nella sua fase storica più sviluppata. Politica alla quale non sfugge nessun paese capitalista, né il paese che è sufficientemente sviluppato economicamente da poter strappare per sé delle condizioni di vantaggio nei rapporti internazionali con gli altri paesi, né il paese che deve subire inevitabilmente, a causa della sua arretratezza economica e del suo peso storico nelle relazioni interstatali, il diktat dei paesi più forti, economicamente e militarmente. Naturalmente noi, come ogni marxista coerente, per imperialismo intendiamo una fase storica, uno stadio dell’economia capitalistica al suo sviluppo massimo – ed è l’ultimo stadio, come afferma Lenin, dello sviluppo dell’economia capitalistica – in cui dominano i monopoli (cioè la concentrazione in poche mani di interi settori di produzione e di distribuzione) e il capitale finanziario, e non una certa  “politica” (come sosteneva Kautsky) del capitale finanziario, come fosse una politica staccata dall’economia. Se ne deduce, quindi, che  se lo sviluppo dell’economia capitalistica tende alla concentrazione, al monopolio, al trust, e quindi al dominio del capitale finanziario sul capitale industriale e commerciale, nella società in cui la concorrenza capitalistica si fa sempre più spietata perché i mezzi a disposizione dei grandi monopoli e dei grandi trust sono enormemente maggiori dei singoli capitali privati e, spessissimo, degli stessi Stati nazionali, la politica di difesa degli interessi dei grandi monopoli e dei grandi trust non può che essere aggressiva, violenta, reazionaria. L’obiettivo di ogni imperialismo è quello di conquistare, e difendere una volta conquistati, territori economici (annettendoli direttamente o dominandoli attraverso l’oppressione finanziaria e militare)  e, dato che in più di un secolo il capitalismo si è diffuso in tutto il globo terracqueo – naturalmente con tutte le sue contraddizioni –, non c’è luogo al mondo che sia ancora vergine e inesplorato. La lotta di concorrenza tra i diversi poli imperialistici non può, dunque, che intensificarsi, acutizzarsi, spingendo ogni imperialismo a strappare agli altri una parte dei territori che controllano: le guerre commerciali, le guerre monetarie, le guerre finanziarie si tramutano prima o poi in scontri armati, in guerre guerreggiate. E Lenin sottolinea una verità confermata sistematicamente dall’evoluzione stessa dei rapporti fra gli Stati borghesi moderni: la pace imperialistica non è che una tregua tra le guerre che gli imperialismi, più o meno uniti in alleanze contrapposte, si fanno tra di loro. La violenza reazionaria, la guerra di rapina, l’oppressione sistematica, diventano così la politica imperialistica di ogni Stato, ed ogni periodo storico in cui si definisce un determinato “ordine mondiale” – ossia la spartizione in zone di influenza tra le maggiori potenze imperialistiche – solitamente dopo una guerra dalla quale escono dei “vincitori” e dei “vinti”, apre un  nuovo ciclo in cui ogni imperialismo, in lotta di concorrenza costante nei confronti di tutti gli altri, si prepara alla “riconquista” dei mercati persi nella guerra o al rafforzamento dei mercati conquistati con la guerra e, perciò al “successivo” scontro militare, alla successiva guerra. Non è un caso che negli anni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale, con la guerra di Corea, scatenata dal contrasto fra Stati Uniti e Russia per il controllo dell’area asiatica “liberata” dal dominio giapponese, si profilasse in modo concreto la possibilità di una terza guerra mondiale in cui, oltretutto, sarebbero state coinvolte nuovamente le vecchie potenze europee, e in particolare la Francia, potenza coloniale dominante nella penisola indocinese ma che, sotto la pressione dei movimenti nazionalisti sostenuti da Russia e Cina, in Viet Nam, in Laos, in Cambogia, dovette mollare la presa passando il comando delle operazioni militari agli Stati Uniti che, a loro volta, non ebbero però maggior fortuna visto che persero la guerra in Viet Nam e, quindi, il controllo militare diretto su quell’area, sulla quale in ogni caso mantennero la pressione imperialistica attraverso il controllo dell’economia del Giappone e della Corea del Sud nelle loro “ricostruzioni” dopo le distruzioni di guerra.

La politica imperialistica che ogni paese capitalista avanzato adotta in difesa degli interessi specifici del “proprio” originario capitalismo nazionale, in un mercato e in una lotta di concorrenza che sono sempre più mondiali, è una politica obbligatoriamente internazionale, una politica con la quale ogni capitalismo nazionale esprime la forza della propria potenza economica, finanziaria e militare, e con la quale ogni capitalismo nazionale “si confronta” – dunque si scontra – con tutti gli altri capitalismi nazionali.

 

NELLA GUERRA E NELLA PACE IMPERIALISTE SI MODIFICANO I RAPPORTI DI FORZA IMPERIALISTICI   

Top

    

E’ ormai chiaro a tutti, e a noi è stato chiaro da sempre, che le stesse vecchie potenze europee, sebbene “vincitrici” nella seconda guerra mondiale – come la Francia e la Gran Bretagna – avevano perso la loro forza competitiva nei confronti degli Stati Uniti, sia perché avevano perso i loro imperi coloniali e sia perché la gigantesca crescita capitalistica degli Stati Uniti (dimostrata ampiamente nel corso della guerra mondiale) le aveva superate di gran lunga. Alle vecchie potenze europee, i cui paesi rappresentavano comunque un mercato vitale anche per gli Stati Uniti, non rimaneva che la strada di un’alleanza che dal suo status militare durante la guerra mondiale si doveva trasformare in un’alleanza imperialistica da tempo di pace, quindi militare ed economica. I passi da fare, a livello militare, non potevano che essere dettati dall’interesse delle vecchie potenze europee a costruire un baluardo “anti-sovietico” che si sviluppò in varie tappe nel corso del secondo dopoguerra: nel 1948 si costituì l’Unione Europea Occidentale; seguì la costituzione nel 1949 del Patto Atlantico guidato dalla superpotenza USA e quindi della Nato, contro la quale nel 1955 si costituisce il Patto di Varsavia da parte dell’Urss e dei suoi satelliti dell’Europa dell’Est.

I passi successivi non potevano che essere di carattere strettamente economico come furono nel 1952 la CECA, poi nel 1958 la CEE che istituì il Mercato Comune Europeo agevolando tariffe, negoziazioni finanziarie e circolazione delle merci, per arrivare, nel 1993, all’Unione Europea che dal 1999 istituisce la moneta unica, l’euro. Naturalmente tutti questi passaggi hanno avuto il via grazie all’iniziativa di alcune potenze più interessate a non farsi condizionare completamente dagli Stati Uniti, fra cui svettano Francia e Germania alle quali si unisce poi la Gran Bretagna, seguite da Italia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo e successivamente, nel corso degli anni, da molti altri paesi dell’Europa occidentale fino al 1995, e da una buona parte dei paesi dell’Europa dell’Est a partire dal 2004, in seguito all’implosione dell’Urss e del suo “impero” (2).

Nei decenni che trascorrono dalla fine del secondo macello imperialistico mondiale, decenni che attraversano la “ricostruzione” di gran parte dei paesi “vinti” (Germania, in particolare, e Italia) e anche dei paesi “vincitori” (Francia e Russia, soprattutto), il capitalismo conosce un periodo di grande vitalità. Si dimostra così che solo il capitalismo e i poteri borghesi più attrezzati e militarmente più forti poterono godere dei vantaggi portati dalla gravissima crisi di sovraproduzione capitalistica che sfociò nelle colossali distruzioni della guerra mondiale, approfittando dell’assenza della lotta rivoluzionaria delle classi proletarie che non ebbero alcuna possibilità (grazie soprattutto all’opera dello stalinismo) di sferrare l’attacco ai poteri capitalistici entrati in difficoltà in seguito appunto a quella crisi e a quella guerra. L’enorme bagno di sangue che è stata la seconda guerra mondiale - i morti tra militari e civili sono stati calcolati, in totale, approssimativamente oltre 71 milioni, di cui circa 50 milioni nei paesi europei, e in particolare oltre 35 milioni solo  tra Russia, Germania e Polonia (3) - si sposa con le mastodontiche distruzioni di edifici civili, fabbriche, macchinari e materiali di ogni tipo militari e civili: per il sistema capitalistico  tutto questo non è stato altro che l’occasione per rimettere in moto a tutto vapore la produzione, la “ricostruzione”, rafforzando lo sfruttamento delle grandi masse salariate di ogni paese, investendo e reinvestendo enormi capitali a caccia di profitti che la guerra non era riuscita a “soddisfare” pienamente. 

Dal 1945, fine guerra mondiale, al 1975, prima grande crisi capitalistica mondiale, passano trent’anni in cui il sistema capitalistico, “ringiovanito” dalle distruzione di guerra si espande, dando l’occasione alle vecchie potenze imperialistiche europee occidentali di combattere l’inesorabile declino, rispetto ai propri trascorsi storici, da posizioni economiche, militari e politiche nuovamente dominanti a livello internazionale. In tutto il periodo, sotto il condominio imperialistico russo-americano sul mondo, rifioriscono le economie capitalistiche di Germania e Giappone - vinte nella guerra - che tornano a dare filo da torcere (in senso economico e politico) non solo alle superpotenze vincitrici della guerra, USA e URSS, ma anche alle potenze imperialistiche storiche, Gran Bretagna e Francia. Nel giro di qualche decennio il Giappone diventa la seconda economia mondiale dopo gli USA, la Germania diventa la terza potenza economica mondiale e diventa la prima potenza europea nell’esportazione. Smentendo le teorie della lenta e inesorabile “decadenza” del capitalismo, ma, al contempo, confermando ineccepibilmente la teoria dello sviluppo ineguale del capitalismo, e mentre gli imperialismi dominanti nel mondo non riescono più a controllare ferreamente, e militarmente, il pianeta, si affacciano sul mercato mondiale economie capitalistiche più giovani, più aggressive ed affamate: dall’Estremo Oriente, Cina, India, Corea del Sud, Indonesia; dall’America Latina, Brasile, Messico e Argentina; dal Medio Oriente, Turchia, Arabia Saudita e Iran; dall’Africa, il Sudafrica. Al dilà delle oscillazioni a livello economico-finanziario di questi paesi, e del fatto che il loro peso economico sia determinato in particolare dalle materie prime energetiche ancora indispensabili alla produzione capitalistica (come il petrolio e il gas naturale, da cui dipendono direttamente le economie di Arabia Saudita, Messico, Iran e della stessa Russia), resta il fatto che il capitalismo a livello mondiale non ha interrotto il suo sviluppo, seguendo una tendenza gradualmente decadente come immaginavano certi marxisti della domenica, ma si è ulteriormente sviluppato seguendo una tendenza storicamente determinata – prevista scientificamente da Marx e confermata da Lenin – alla centralizzazione e alla concentrazione in un mercato mondiale sempre estremamente contraddittorio, ma non per questo privo del bisogno vitale di allargare il bacino della produzione capitalistica ad altri paesi oltre a quelli di più vecchio capitalismo. Il capitalismo ha bisogno son solo di produrre ma anche di vendere; e di fronte a mercati che tendono a saturarsi ha bisogno di aprire “nuovi mercati”, rendendoli capaci di assorbire una parte delle merci prodotte e quindi di partecipare alla valorizzazione del capitale. Perciò, mentre si sviluppano nuovi mercati, e nuovi paesi diventano componenti sempre più importanti di un mercato che è sempre più globalizzato, si sviluppano nel contempo nuovi interessi “nazionali”, nuovi contrasti, nuove “alleanze”; e mentre il mercato delle merci e dei capitali si allarga, si acuisce la concorrenza tra i vari poli capitalistici, si formano nuovi  schieramenti e si assiste ad un crescendo di contrasti economici, finanziari, politici e militari in ogni parte del mondo. La concorrenza capitalistica è sempre una lotta tra contendenti che intendono conquistare sbocchi sempre più numerosi alle proprie merci e ai propri capitali. Come sottolineavano Marx ed Engels fin dal 1848, nel Manifesto del partito comunista, la borghesia è sempre in lotta, contro le parti della stessa borghesia i cui interessi vengono a contrasto con il progresso dell’industria, e sempre contro la borghesia di tutti i paesi stranieri (4). Riferirsi al progresso dell’industria, allora come oggi, significa riferirsi a quella che i borghesi stessi sono costretti a chiamare economia reale, l’economia produttiva in cui dallo sfruttamento del lavoro salariato provengono i profitti capitalistici e grazie alla quale i capitalisti possono realizzare la valorizzazione del capitale che è la missione della loro vita.

 

IMPERIALISMO COME PUTREFAZIONE DEL CAPITALISMO

Top

 

Non va d’altra parte sottoaciuto quel che Lenin, nel suo scritto sull’Imperialismo, analizzando per l’appunto tutti gli aspetti del moderno imperialismo capitalista, mette ad un certo punto in evidenza, e cioè il parassitismo, come putrefazione del capitalismo (5). Parte dall’affermazione che la base economica più profonda dell’imperialismo è il monopolio capitalistico che, “come ogni altro, genera la tendenza alla stasi e alla putrefazione. Nella misura in cui si introducono, sia pure transitoriamente, i prezzi di monopolio, vengono paralizzati, fino ad un certo punto, i moventi del progresso tecnico e quindi di ogni altro progresso, di ogni altro movimento in avanti, e sorge immediatamente la possibilità economica di fermare artificiosamente il progresso tecnico”. E’ noto, infatti, che, nella permanente lotta di concorrenza capitalistica, i grandi trust, grazie alla loro potenza finanziaria, acquistano invenzioni e brevetti che rivoluzionerebbero tecnicamente processi produttivi esistenti, per ibernarli in qualche cassaforte ed  impedirne così  l’applicazione immediata e su grande scala. Questo comportamento agisce in parallelo a quello secondo il quale ogni capitalista, e a maggior ragione ogni trust capitalistico, cerca di sfruttare al massimo possibile i processi produttivi già in funzione per i quali ha investito dei capitali in macchinari, edifici ecc. oltre ad una determinata forza lavoro salariata, e dai quali investimenti cerca, al di là delle quote di ammortamento, di ricavare il massimo profitto possibile. Certamente, afferma subito dopo Lenin, “in regime capitalistico nessun monopolio potrà completamente e per lungo tempo escludere la concorrenza del mercato mondiale (questo costituisce tra l’altro una delle ragioni della stupidità della teoria dell’ultraimperialismo). Certo la possibilità di abbassare, mediante nuovi miglioramenti tecnici, i costi di produzione ed elevare i profitti, milita a favore delle innovazioni. Ma la tendenza alla stagnazione e alla putrefazione, che è propria del monopolio, continua dal canto suo ad agire, e in singoli rami industriali e in singoli paesi s’impone per determinati periodi di tempo”. E dato che l’imperialismo “è l’immensa accumulazione in pochi paesi di capitale liquido”, si assiste all’inevitabile aumento “della classe o meglio del ceto dei rentiers, cioè di persone che vivono del ‘taglio delle cedole’, non partecipano ad alcuna impresa ed hanno per professione l’ozio. L’esportazione di capitale, uno degli essenziali fondamenti economici dell’imperialismo, intensifica questo completo distacco del ceto dei rentiers dalla produzione e dà un’impronta di parassitismo a tutto il paese, che vive dello sfruttamento del lavoro di pochi paesi e colonie oltre oceano”.

Questo scritto è del 1916 e parlando di paesi nei quali la fase imperialista del capitalismo si era rivelata appieno, non ci si poteva riferire che alle vecchie potenze europee, la Gran Bretagna, la Germania, la Francia e alla nuova ed aggressiva potenza d’oltre oceano, gli Stati Uniti d’America. I loro dati economici erano più che sufficienti a Lenin per giungere alla conclusione: “Nel paese più ‘commerciale’ del mondo [la Gran Bretagna, NdR] i profitti dei rentiers superano di cinque volte quelli del commercio estero! In ciò sta l’essenza dell’imperialismo e del parassitismo imperialista. (...) Il mondo si divide in un piccolo gruppo di Stati usurai e in una immensa massa di Stati debitori”. Lo sviluppo del capitalismo, nel secolo che ci divide dal 1916, non ha fatto altro che accrescere questa tendenza dell’imperialismo: gli Stati usurai – gli Stati creditori – di allora (Inghilterra, Francia, Olanda, Germania, Belgio, Svizzera, ai quali nel tempo si sono aggiunti gli Stati Uniti), che “investivano”, prestavano, enormi quantità di capitali alla grande massa di Stati debitori erano anche gli Stati più capitalisticamente avanzati del mondo, e lo sono ancora oggi, insieme alla Russia, sebbene, dal punto di vista della produzione industriale mondiale, il loro contributo sia singolarmente diminuito, mentre è cresciuta la quota di produzione industriale dei paesi di più giovane capitalismo e che, un tempo, erano colonie delle vecchie potenze europee; ci riferiamo a Cina, Corea del Sud, India, Indonesia, Taiwan, a cui si sono aggiunti stabilmente nell’ultimo quindicennio Brasile, Messico, Australia, Turchia, Polonia. Dal punto di vista capitalistico questi paesi rappresentano territori economici sviluppati industrialmente, e quindi anche finanziariamente, costituendo dei nuovi mercati in grado di competere sia a livello produttivo che a livello di import-export con i paesi di più vecchio capitalismo. Ma il loro sviluppo industriale, combinato con una popolazione molto numerosa e con lo sfruttamento di una enorme forza lavoro a salari molto più bassi di quelli dei proletariati dei paesi industrializzati più vecchi, fanno si che tendenzialmente questi paesi diventino le “fabbriche” del mondo. Si accentua in questo modo la tendenza dei vecchi paesi capitalisti d’Europa e d’America al parassitismo economico, a rafforzare la caratteristica da capitalisti rentiers rispetto a quella da capitalisti industriali, dunque la prevalenza del capitale finanziario sul capitale industriale e commerciale. Quel che un tempo, secondo l’economista social-liberale inglese Hobson, citato da Lenin, accadeva nella prospettiva della spartizione della Cina, è accaduto successivamente coinvolgendo sempre più colonie e paesi sudditi rispetto ai paesi imperialisti. Sosteneva Hobson che la più grande parte dell’Europa occidentale poteva assumere l’aspetto e il carattere ora posseduti “soltanto da alcuni luoghi, cioè l’Inghilterra meridionale, la Riviera e le località dell’Italia e della Svizzera visitate dai turisti e abitate da gente ricca. Si avrebbe un piccolo gruppo di ricchi aristocratici, traenti le loro rendite e i loro dividendi dal lontano Oriente; accanto, un gruppo alquanto più numeroso di impiegati e di commercianti e un ancora maggiore di domestici, lavoratori dei trasporti e operai occupati nel processo finale della lavorazione dei prodotti più avariabili. Allora scomparirebbero i più importanti rami di industria, e gli alimenti e i prodotti base affluirebbero come tributo dall’Asia o dall’Africa... Ecco quale possibilità sarebbe offerta da una più vasta lega delle potenze occidentali, da una federazione europea delle grandi potenze. Essa non solo non spingerebbe innanzi l’opera della viviltà mondiale, ma potrebbe presentare il gravissimo pericolo di un parassitismo occidentale, quello di permettere l’esistenza di un gruppo di nazioni industriali più progredite, le cui classi elevate riceverebbero dall’Asia e dall’Africa enormi tributi e, mediante questi, si procurerebbero gradi masse di impiegati e di servitori addomesticati che non sarebbero occupati nella produzione in grande di derrate agricole o di articoli industriali, ma nel servizio personale o in lavori industriali di secondo ordine sotto il controllo della nuova aristocrazia finanziaria”.

Partendo da questa realtà, all’epoca ancora limitata a determinati luoghi e non ad interi paesi, Hobson metteva in evidenza in quale prospettiva si sarebbe mosso lo sviluppo dell’imperialismo, immaginando “quale immensa estensione acquisterebbe tale sistema, quando la Cina fosse assoggettata al controllo economico di consimili gruppi di finanzieri, di ‘investitori di capitale’ e dei loro impiegati politici, industriali e commerciali, intenti a pompare profitti dal più grande serbatoio potenziale che mai il mondo abbia conosciuto, per consumarli in Europa. (...) Le tendenze che dominano attualmente l’imperialismo dell’Europa occidentale agiscono nel senso anzidetto, e se non incontrano una forza opposta che le avvii verso altra direzione, esse lavorano appunto perché il processo abbia lo sbocco suaccennato”. In effetti, come evidenziato ormai da tempo dagli stessi economisti borghesi, nella maggior parte dei paesi industrializzati, dunque in Germania come nel Regno Unito, negli Stati Uniti come in Francia e in Italia, il settore economico prevalente è quello dei servizi, non quello dell’industria; e nei servizi si comprendono il turismo, il commercio, le banche, le assicurazioni, i servizi finanziari, i media, l’intrattenimento. In  Germania, ad esempio, il settore dei servizi contribuisce al PIL per il 72%; negli Stati Uniti per il 73,3%.

 

ALCUNI DATI SUL PESO DELLE DIVERSE POTENZE ECONOMICHE MONDIALI

Top

 

Dando un’occhiata ad alcuni dati (qui non entreremo in un esame troppo dettagliato di tutti i dati economici dei diversi paesi) relativi alla produzione manifatturiera mondiale – che rappresenta il cuore dell’economia reale di ogni paese – si evidenzia bene il corso di sviluppo sia dei paesi industrializzati di vecchia data che dei paesi di nuova industrializzazione.

La produzione manifatturiera complessiva dei paesi dell’Unione Europea a 15, degli Stati Uniti e del Giappone, nel 2011-2012 è stata pari al 45,5% del totale mondo, mentre all’inizio del decennio 2001-2002 la quota era del 65% e all’inizio del decennio precedente, 1990-1991 sfiorava i tre quarti, era del 73,3%. In vent’anni, il gruppo dei vecchi paesi industrializzati ha perso più di un terzo del suo peso nelle attività di trasformazione manifatturiera. Nello stesso periodo, pur con differenze enormi tra paese e paese, l’insieme composto da BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) e il gruppo dei nuovi paesi europei (Nuovi UE) hanno quasi quadruplicato la loro quota, passando dall’8,7% al 32,3% (6).

Il sommovimento provocato dallo sviluppo accelerato dei paesi cosiddetti emergenti, nella graduatoria dei 20 principali produttori mondiali, ha prodotto l’inserimento di diversi nuovi paesi, in particolare dell’Asia.

Ecco le differenti classifiche, per i primi 20 paesi in quota % sulla produzione manifatturiera mondiale, dati in dollari correnti (7):

 

1991-1992 2001-2002
  Stati Uniti 21,8   Stati Uniti 24,7
  Giappone 19,4   Giappone 13,4
  Germania 9,2   Cina 9,7
  Italia 5,5   Germania 6,9
  Francia  5,0   Italia 4,4
  Cina 4,1   Francia 4,1
  UK 3,9   UK 3,5
  Spagna 2,4   Corea del Sud 3,1
  Corea del  Sud 2,4   Messico 2,3
  Brasile 2,1   Canada 2,3
  Canada 1,9   Spagna 2,2
  Messico 1,6   India 1,9
  Taiwan 1,5   Brasile 1,7
  Paesi Bassi 1,3   Taiwan 1,6
  India 1,2   Paesi Bassi 1,2
  Turchia 1,2   Indonesia 0,9
  Australia 1,0   Australia 0,8
  Indonesia 0,8   Russia 0,8
  Polonia 0,3   Turchia 0,7
  Russia 0,2   Polonia 0,6

 

2011-2012
  Cina  21,4
  Stati Uniti 15,4
  Giappone 9,6
  Germania 6,1
  Corea del Sud 4,1
  India 3,3
  Italia 3,1
  Brasile 2,9
  Francia 2,9
  Russia 2,3
  UK 2,0
  Messico 1,7
  Canada 1,7
  Spagna 1,6
  Indonesia 1,6
  Taiwan 1,5
  Paesi Bassi 1,1
  Australia 1,0
  Turchia 1,0
  Polonia 0,9

 

Un altro dato interessante è il tasso in % di crescita medio annuo della produzione, col quale si evidenzia un tasso di crescita eccezionale per alcuni paesi nella loro media del ventennio preso in considerazione:

 

1990-2012 2000-2012
  Cina 12,4   Cina 11,7
  Corea Sud 7,7   Corea Sud 7,2
  India 7,5   India 8,6
  Polonia 7,0   Polonia 7,1
  Indonesia 5,7   Indonesia 3,9
  Taiwan 5,1   Taiwan 4,0
  Turchia 4,0   Turchia 5,0
  Messico 2,7   Messico 1,4
  Stati Uniti 2,4   Stati Uniti 0,8
  Brasile 2,2   Brasile 2,8
  Germania 1,7   Germania 1,8
  Russia -   Russia 3,8

                                                    

Mentre altri paesi rilevanti come il Giappone, l’Italia, la Francia, la Spagna, il Canada, registrano nel ventennio un dato di crescita negativo, soprattutto nel decennio 2000-2012 in cui si è generata la forte crisi generale in particolare nel mondo occidentale:

 

1990-2012 2000-2012
  Italia -0,7    Italia -2,5
  Giappone -0,4    Giappone -0,7
  Francia -0,1    Francia -1,1
  Spagna -0,1    Spagna -2,1

 

Se però il dato manifatturiero lo si considera dal punto di vista della produzione pro-capite, dove prende peso il dato della popolazione attiva rispetto alla produzione totale per paese, il quadro cambia di molto,determinando di fatto un livello di industrializzazione molto disomogeneo, come è naturale nello sviluppo ineguale del capitalismo. Il dato qui esposto si riferisce al 2012, in dollari correnti:

 

2012
  Germania 30
  Giappone 26
  G10* 25
  Corea del Sud 24
  Italia 23
  Francia 22
  Stati Uniti 18
  Regno Unito 14
  Nuovi UE* 11
  Russia 5
  Brasile 4
  Cina 3
  India 1

 

*G10: Belgio, Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Paesi Bassi, Regno Unito, Stati Uniti, Svezia, Svizzera. I Nuovi UE sono: Bulgaria, Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia e Ungheria. Fonte: elaborazione CSC su dati Global Insight (archivio che include 75 paesi il cui Pil corrisponde al 97% di quello mondiale).

 

Dunque, i paesi avanzati di vecchia industrializzazione restano i paesi con performances ancora determinanti rispetto alla produzione manifatturiera nella quale non è certo marginale la produzione e la commercializzazione degli armamenti. In questo settore la parte del leone la fanno sempre gli Stati Uniti (col 30% del mercato nelle esportazioni mondiali di armi da fuoco) seguiti dalla Russia (che ha il 26%) e ad una certa distanza da Germania (8%), Francia (7%),  Cina (4%), Regno Unito (4%), e col 2% ciascuno da Italia, Israele, Svezia e Ucraina. Questi dieci paesi insieme, nel 2012, rappresentavano il 65% del mercato mondiale delle armi da fuoco e dei sistemi di difesa. Naturalmente oltre ad essere i principali produttori di armi sono anche i principali esportatori di armi. Nel 2014 il primo paese europeo che entra nella classifica dei primi 15 maggiori esportatori di armi al mondo è la Francia (con 1.200 mln dollari Usa) ed è il quarto esportatore di armi dopo gli Stati Uniti (10.194 mln doll.), la Russia (5.971 mln doll.) e la Cina (1.978 mln doll.), seguita dalla Germania (1.110 mln doll.) e dal Regno Unito (1.083 mln doll.). In settimana posizione, poco distante dalla Gran Bretagna, troviamo Israele (1.074 mln doll.), e poi Spagna (824 mln doll.), Italia (786 mln doll.), Ucraina (664 mln doll.), Paesi Bassi (561 mln doll.), Svezia (394 mln doll.), Svizzera (350 mln doll.), Turchia (274 mln doll.) e Canada (234 mln doll.) (8). Insomma, è ben vero che gli USA rappresentano da soli il valore delle esportazioni degli altri 4 paesi che li seguono nella classifica messi insieme, ma è altrettanto vero che tra i 15 maggiori produttori ed esportatori di armi al mondo vi sono 9 paesi europei, in grado quindi di armarsi rapidamente, contando su teconologie avanzate e sofisticate e su una capacità di produzione molto alta che, in caso di guerra, sono caratteristiche decisive.

Ma per la Francia vale la pena di segnalare un’altra “performance”: nel 2015 il controvalore delle esportazioni di armamenti e sistemi di difesa ha superato quello dei prodotti agroalimentari (9): insomma... non carne, ma cannoni. Il grande attivismo dell’imperialismo francese sta scalzando, in questo ramo delle esportazioni, la Russia dalla seconda posizione, attestandosi dietro gli Stati Uniti e allungando la distanza con la Germania. I mercati che si sono “aperti” alla Francia in questo frangente sono Egitto, Qatar, India, Polonia, Messico e la stessa Cina, lasciando al palo il più debole imperialismo italiano (l’italiana Finmeccanica è stata sconfitta dai francesi in Polonia), senza dimenticare la Libia dove la concorrenza a colpi bassi tra Francia e Italia si rinnoverà.

Un altro dato rilevante che conferma la potenza economica dei paesi imperialisti più importanti è dato dal commercio internazionale. Per quanto concerne le esportazioni e le importazioni, la UE-28 (considerato come un unico mercato coi suoi 28 membri, quindi con il Regno Unito non ancora uscito), la Cina e gli Stati Uniti sono i tre maggiori attori globali dal 2004, anno in cui la Cina ha superato il Giappone; in quote di mercato la UE-28 rappresenta il 15% del totale mondiale di esportazioni e il 14,8% del totale mondiale di importazioni; mentre la Cina rappresenta il 15,5% del totale mondiale di esportazioni e il 12,9% del totale mondiale di importazioni, e gli Stati Uniti il 12,2% del totale mondiale di esportazioni e il 15,9% del totale di importazioni. Ma se scorporiamo la UE nei singoli stati, emergono differenze notevoli tra di loro. La Germania da sola, nel 2011 registrava 1.115.615 mln € di importazioni e 1.311.289 mln € di esportazioni con un saldo attivo di 195.674 mln di €; e questo andamento è continuato anche negli anni successivi, tanto da sollevare rimostranze da parte di molti paesi della UE circa un mancato contenimento delle esportazioni da parte tedesca; infatti il saldo attivo tedesco del 2014 è stato di 216 mld € e nel 2015 è stato di 247 mld € (10). Quasi tutti gli altri paesi europei (salvo Belgio e Paesi Bassi) hanno segnato in questi anni un andamento sempre deficitario tra import ed export, cosa che è successa anche agli Stati Uniti [dati del 2011: 2.265.421 mln $Usa di importazioni contro 1.480.646 mln $Usa di esportazioni (11)], ma non alla Cina che, nonostante la crisi economica pluriennale a livello mondiale, non solo ha continuato a crescere nella produzione, sebbene con punti percentuali non più a due cifre, ma si è attestata come primo paese esportatore al mondo. I nuovi attori del moderno imperialismo non hanno alternative: per ulteriormente sviluppare il loro dominio sul proprio mercato interno e sul mercato mondiale – da cui nessun paese ormai può estraniarsi – non possono che bruciare le tappe per raggiungere, e superare possibilmente, i dominatori più vecchi la cui potenza economica, finanziaria, militare e politica può essere intaccata solo da una sostanziale modificazione dei rapporti di forza; e questi rapporti di forza non si modificano mai pacificamente. La guerra di concorrenza, la guerra economica anticipa sempre la guerra guerreggiata. 

Di fronte all’aggressione da parte dei nuovi attori del moderno imperialismo (Cina innazitutto) che stanno penetrando con sempre maggior successo i mercati più importanti – l’Europa e gli Stati Uniti – i vecchi attori non se ne stanno tranquilli ed usano ovviamente la propria forza economica e finanziaria per “difendere” i territori in cui sono presenti e già dominano per non perdere quote di mercato. E’ così che la Germania, rispetto a tutti gli altri competitors europei, usa la propria forza economica per penetrare negli altri mercati oltre a quello più diretto costituito appunto dai paesi europei stessi. Nel 2015 gli Stati Uniti sono diventati il primo mercato negli scambi internazionali della Germania: essi rappresentano 173,2 mld di euro, davanti alla Francia che ne rappresenta 170,1. Anche per l’export tedesco gli Stati Uniti sono roa il primo mercato, con 113,9 mld di euro, scalzando la Francia (103 mld) per la prima volta dal 1961. La Cina è il paese da cui la Germania importa di più (91,5 mld di euro). Certo questi sono dati di un anno particolarmente vantaggioso per la Germania, e non è detto che rappresenti un deciso cambio di tendenza, ma è significativo il fatto che la Germania si imponga per l’ennesima volta come la potenza economica in assoluto più importante dell’Europa e come potenza economica mondiale tesa a dar filo da torcere agli attuali più forti al mondo, Stati Uniti, Cina e Giappone che, non va dimenticato, rappresenta sempre la terza economia mondiale. Il fatto è che in Europa, soprattuto in seguito alla prolungata crisi economica e finanziaria scoppiata nel 2008, solo la Germania non ne esce con le ossa rotte e grazie a questa sua forza essa condiziona in modo pesante le decisioni prese a Bruxelles dalla UE, decisioni che proteggono innanzitutto gli interessi tedeschi e quelli dei paesi tedesco-dipendenti, soprattutto ora che il Regno Unito ha deciso di staccarsi dalla UE. Contro gli interessi tedeschi inevitabilmente andranno a cozzare gli interessi francesi e in parte anche quelli italiani (che richiedono per l’ennesima volta una “flessibilità” più ampia nei conti pubblici), all’interno dell’Europa ma anche al suo esterno.

Il quadro generale dei pesi dei diversi paesi, dai vecchi imperialisti ai nuovi imperialisti, è molto cambiato rispetto agli anni in cui Lenin svelava le caratteristiche dell’imperialismo, ma quel che non è cambiato è il fondamento dell’imperialismo, e cioè il capitalismo, il modo di produzione capitalistico con le sue leggi oggettive di sviluppo e di crisi. Il capitalismo, più si sviluppa dal punto di vista economico e finanziario, e più accumula fattori di crisi che si diramano nei fatti economici, nei fatti politici e nei fatti sociali; sviluppo che non può prescindere da una caratteristica che complica le relazioni internazionali fra i vari paesi: l’origine nazionale, il fatto di doversi organizzare e difendere attraverso una struttura politica statale e nazionale. Lo sviluppo stesso del capitalismo porta a superare le frontiere nazionali, col commercio, con i trasporti, con le comunicazioni, ma la contraddizione di una società fondata sulla proprietà privata e sull’appropriazione privata della ricchezza prodotta interferisce con la tendenza a superare le frontiere, e va a sommarsi all’altra contraddizione fondamentale della società capitalistica: quella di produrre per il capitale e non per l’uomo. La società borghese è in realtà costruita su una serie interminabile di frontiere che dalla proprietà privata individuale si espandono alla famiglia, alle aziende, ai prodotti, al territorio, alla nazione. Ed ogni rapporto sociale viene mediato dal denaro, ogni attività umana diventa un fatto di mercato, e tutto prima o poi diventa capitale, in una spirale senza fine immersa in contraddizioni sempre più acute. I rapporti umani vengono stravolti e incasellati nei rapporti di produzione capitalistici che a loro volta si traducono in rapporti di forza tra capitalismi nazionali, tra centri monopolistici, tra poli imperialisti.

L’interrelazione che il capitale finanziario genera e alimenta tra i vari paesi è essa stessa l’espressione di rapporti di forza di un capitalismo che si muove ormai da un secolo seguendo gli interessi dei monopoli, dei trust, dei poli imperialisti dai quali non ci si può aspettare che oppressione, sfruttamento sempre più brutale, guerre e devastazioni. Nelle scintillanti metropoli imperialiste i vecchi capitalisti godono i frutti dello sfruttamento dei proletari non solo dei priopri paesi ma soprattutto delle ex colonie, mentre i nuovi capitalisti in quelle ex colonie si danno da fare per trarre dal lavoro dei propri proletari il massimo di plusvalore possibile. Nei grattacieli e nei palazzi di vetro delle grandi metropoli, lontano dalla miseria e dalla fame di miliardi di uomini, vecchi e nuovi capitalisti “discutono” sui reciproci interessi, tessono alleanze e colpi a tradimento, negoziano non la loro vita, ma la vita di miliardi di esseri umani che subiscono il “destino” che loro riservano le potenze imperialiste: una vita di stenti, mancanza d’acqua e di cibo, mancanza di prospettive, disoccupazione, devastazioni provocate dalle guerre di rapina somministrate da più di centocinquant’anni a popoli interi. La vecchia Europa borghese, imputridita nella fase imperialista, svela al mondo il suo cuore nero: spaventata da qualche milione di profughi e di migranti che fuggono dai paesi che essa stessa ha dominato, umiliato, straziato e devastato con le sue guerre, alza muri, si arroca come una fortezza assediata, e si corazza ancor più. Ma è una fortezza che mostra le crepe dovute ai contrasti che sotto sotto lavorano e che la rendono una fortezza dalle fondamenta d’argilla.

 

SOLO IL PROLETARIATO COSTITUITOSI IN CLASSE RIVOLUZIONARIA PUÒ VINCERE DEFINITIVAMENTE L’IMPERIALISMO CAPITALISTA

 Top

 

Perfettamente d’accordo con le osservazioni dell’economista borghese Hobson sulle tendenze oggettive dello sviluppo dell’imperialismo, Lenin, sempre nel suo Imperialismo, sottolinea che “Se le potenze dell’imperialismo non incontrassero resistenza, esse giungerebbero direttamente a quel risultato” (cioè nei luoghi e nei paesi dove scomparirebbe l’industria per lasciar posto al divertimento, allo svago e allo sport della gente ricca), e non manca di ribadire il significato, nel suo vero valore, degli Stati uniti d’Europa, ossia di un’alleanza tra potenze imperialiste che si fonda sulle basi oggettive dell’imperialismo, dunque sul predominio del capitale finanziario e dei monopoli sull’economia di ogni paese e che “sviluppano dappertutto la tendenza al dominio non già alla libertà: Da tali tendenze risulta una intensa reazione, in tutti i campi, in qualsiasi regime politico, come pure uno straordinario acuirsi di tutti i contrasti anche in questo campo. Specialmente si acuisce l’oppressione delle nazionalità e la tendenza alle annessioni, cioè alla soppressione della indipendenza nazionale” (12).

Assistiamo forse, da parte delle potenze imperialistiche, a tendenze completamente diverse da quelle descritte nello scritto di Lenin? Esse hanno incontrato nel secolo che è trascorso da allora una forza opposta (Hobson) che le avviasse in altra direzione? Le tendenze di fondo non sono cambiate, né il loro sviluppo è stato interrotto a causa dell’intervento di forze opposte. Le potenze imperialiste del Novecento possono, certo, modificarsi nei loro rapporti di forza; alcune, come le vecchie potenze europee, perdono la strapotenza di un tempo mentre altre, come gli Stati Uniti d’America, le superano nel predominio sul mercato mondiale, ed altre ancora, già affacciatesi sul mercato mondiale nel Novecento come il Giappone, restano fortemente inserite nel gruppo delle potenze economicamente dominanti sul mondo, mentre all’orizzonte si sono affacciate e stanno avanzando altre potenze come la Cina e l’India acutizzando inevitabilmente con la loro aggressività capitalistica i contrasti interimperialistici già ben presenti. Il capitalismo mondiale si è effettivamente sviluppato nell’arco di un secolo, ma lo sviluppo capitalistico non è né graduale, né infinito, bensì è caratterizzato da una serie inevitabile di crisi di sovraproduzione che trasformano il mercato mondiale periodicamente in un enorme teatro di guerra; inesorabilmente condizionata dai rapporti di forza tra le potenze imperialiste, rapporti di potenza che si modificano in modo difforme a seconda dei diversi gradi di sviluppo capitalistico delle singole potenze, la realtà capitalistica – nonostante le crisi, lo sviluppo ineguale nei diversi paesi, i rapporti di potenza che si modificano periodicamente, le guerre – in assenza di una forza storica del tutto opposta, non può che rigenerarsi continuamente nel tempo in una spirale senza fine di violenza, di oppressione, di guerra, di distruzioni e di ricostruzioni.

L’unica forza opposta all’imperialismo, e dunque al capitalismo, in grado di interrompere il suo corso storico è rappresentata dalla classe proletaria rivoluzionaria mondiale e dalla sua rivoluzione che ha l’obiettivo non di conciliare gli interessi fondamentali dell’imperialismo e le esigenze nazionali di ogni Stato capitalista, ma innanzitutto di distruggere il dominio politico della borghesia capitalistica e spezzare i suoi Stati, instaurando, contro la dittatura dell’imperialismo, la dittatura di classe del proletariato sotto la guida ferrea del partito di classe rivoluzionario, allo scopo di volgere le enormi forze di produzione del mondo alla soddisfazione dei bisogni di vita della specie umana e non dei bisogni di sopravvivenza del capitale e del mercato.

In Europa è nato il capitalismo e dall’Europa si è diffuso nel mondo. In Europa si è formata la classe borghese che è la classe sociale che rappresenta il modo di produzione capitalistico, in sintesi il capitale. Ma la formazione della classe borghese non poteva avvenire se non, in contemporanea, con la formazione della classe dei lavoratori salariati dal cui lavoro salariato i borghesi traggono i loro profitti attraverso il classico sfruttamento della forza lavoro, espropriata e “liberata” dai vincoli della gleba e dell’ordinamento feudale, ma resa completamente schiava del lavoro salariato. Il grande progresso storico, rispetto a tutte le società precedenti, che va sotto il nome di capitalismo, porta con sé non solo le contraddizioni economiche e sociali sempre più acute, ma anche il parassitismo e la putrefazione più profondi che la società umana abbia conosciuto nella sua storia millenaria. E porta con sé, inconsapevolmente, quella forza opposta che sola può dare alla società una direzione completamente diversa da quella della borghesia e, quindi, del capitalismo: la forza lavoro salariata, la massa sempre più numerosa dei proletari, dei senza-riserve, che saranno, come afferma il Manifesto del 1848, i becchini della società borghese. Inghilterra, Francia, Germania, Italia, dove il capitalismo si è sviluppato in modo ineguale, come sostiene il marxismo, hanno conosciuto nelle diverse fasi storiche lo sviluppo del proletariato non solo numericamente ma soprattutto socialmente, con l’associazionismo economico in difesa delle loro condizioni di vita e di lavoro, e quindi anche politicamente con la formazione dei partiti politici operai. In Europa si forma e si sviluppa il movimento operaio, si svolgono le lotte economiche che nello scontro di classe con i padroni e i poteri borghesi si evolvono in  lotte di classe fino alla lotta rivoluzionaria.

L’Europa, da culla del capitalismo e del suo sviluppo mondiale diventa la culla del movimento proletario e del movimento socialista, attraverso le lotte del 1848, la costituzione della Prima Internazionale, e con la Comune di Parigi del 1871 si dimostra nei fatti quanto sostenuto del Manifesto di Marx-Engels: la borghesia di un paese lotta contro ogni altra borghesia in una guerra di concorrenza che non smetterà mai e che per teatro non potrà avere che il mondo intero, ma, di fronte al pericolo di perdere la guerra di classe contro il proletariato, le borghesie dei paesi che si fanno la guerra la sospendono e si alleano contro il proletariato. Confermano in questo modo che l’unica vera forza sociale in grado di opporsi al capitalismo, di contrastare e di cancellare gli interessi delle borghesie, di quelle più potenti come di quelle più deboli, è rappresentata dalla classe del proletariato che nulla ha da perdere in questa società, ma ha un mondo da guadagnare. Lo scoppio della prima guerra mondiale, chiara affermazione delle contraddizioni insanabili dell’imperialismo capitalista, e la vittoriosa rivoluzione bolscevica in Russia, dimostrano a loro volta che le tendenze dell’imperialismo – come sottolineato da Lenin nel suo Imperialismo – sono esattamente quelle descritte e che gli stessi economisti borghesi hanno confessato: aumenta il dominio delle potenze imperialistiche sulle nazioni più deboli, aumenta l’oppressione delle nazionalità e la colonizzazione del mondo attraverso il capitale finanziario e l’oppressione militare, aumentano i fattori che rigenereranno successivamente crisi ancora più profonde dell’economia e della società. Vi è dimostrato, inoltre, che, se la guerra imperialista è inevitabile a causa delle stesse leggi di sviluppo del capitalismo, la forza sociale in grado di interromperla (guerra civile contro guerra imperialista, Lenin), e di volgere la direzione della guerra sociale nella prospettiva della fine di ogni oppressione e di ogni guerra tra gli Stati e tra i popoli, è appunto la classe del proletariato, ma alla condizione di aver maturato nelle proprie file l’esperienza di classe che si raggiunge solo attraverso l’organizzazione della propria lotta intorno esclusivamente agli interessi di classe, sia sul terreno immediato che su quello politico più generale, e in forza dell’influenza determinante del partito politico rivoluzionario che dalla storia delle lotte di classe, delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni, ha tratto tutte le lezioni. Come Lenin e il partito bolscevico trassero le lezioni storiche da tutto il corso del movimento proletario di classe in Europa, e in special modo dalla Comune di Parigi del 1871, così il movimento comunista rappresentato dalla corrente della Sinistra comunista d’Italia, pur ridotto ai minimi termini, ha tratto le dure lezioni dalla vittoria della controrivoluzione staliniana tenendo ferma la rotta segnata dal marxismo, unica possibilità perché alla ripresa della lotta di classe del proletariato sia presente e si possa sviluppare il partito di classe.   

Per la borghesia, dunque, che dalla propria storia e dalla storia delle lotte proletarie e delle rivoluzioni sa trarre anch’essa delle lezioni per il proprio dominio, è vitale che il proletariato – dei paesi imperialisti come dei paesi dominati – sia influenzato a tal punto che l’obbligo di lavorare sotto il regime salariale e di essere sfruttati nel modo più intenso e brutale diventi per lui un “fatto naturale” e addirittura un “diritto da difendere”; per la borghesia è vitale che il proletariato, oltre a sottomettersi (con le buone e con le cattive) alle esigenze del capitale in generale e di ciascuna azienda che ha lo scopo di “valorizzarlo”, sia disposto a vivere e a morire per il capitale. E a questo proposito, una lezione storica che la borghesia inglese per prima ha tratto dalle lotte operaie, e in virtù degli enormi profitti ricavati non solo dall’industrializzazione del proprio paese, ma anche dallo sfruttamento del suo immenso impero coloniale, diffondendola poi, insieme al capitalismo, in tutti i paesi del mondo, riguarda la politica sociale da adottare nei confronti del proletariato. Divide et impera, recita una vecchia locuzione latina, ed è tanto usata da prendere l’aspetto della banalità. Ma resta il fatto che dividendo la forza avversaria, mettendo una contro le altre le diverse componenti della forza avversaria e, in pratica, disorganizzandole, la forza che riesce ad avere questo effetto sulle altre forze ha la possibilità di dominare, di controllare la situazione, di ricavarne il massimo vantaggio. Costituire, da parte della borghesia inglese, nei primi quarantanni dell’Ottocento, uno strato di operai privilegiati, pagati meglio della massa, istruiti e più collegati all’organizzazione della produzione, creare insomma una aristocrazia operaia come ci ricorda Engels, significò adottare nei confronti del proletariato il sistema della concorrenza tra operai grazie al quale intaccare e indebolire la loro unione nella lotta e nella resistenza durante e dopo la lotta. Nasce così l’opportunismo operaio, la politica di una fittizia unione sindacale, ma di una reale divisione tra categorie operaie; una politica che non si limita ad indicare obiettivi più o meno raggiungibili, ma che si fonda su fatti materiali ben precisi (salari più alti contro salari più bassi, corsi di specializzazione, percorsi di carriera ecc.) e che grazie a questi fatti materiali aveva ed ha la forza di influenzare le grandi masse in senso pro-borghese. Una politica che nel suo evolversi non poteva che diffondersi in tutti i paesi capitalisti sviluppati e sfociare nella più schietta collaborazione fra le classi, raggiungendo la sottomissione del proletariato alle esigenze e ai voleri dei poteri borghesi per via indiretta ma non per questo meno efficace. L’Europa, dunque, è stata anche la culla dell’opportunismo operaio, e della collaborazione fra le classi che con il fascismo ha raggiunto il metodo più deciso e sofisticato.

L’opportunismo operaio è talmente vitale per la borghesia di ogni paese che essa è sempre interessata a finanziare e sostenere tutte le forme di organizzazione pratica e di influenzamento ideologico – laico e religioso – che dimostrino di inquadrare gli strati proletari più alti a favore dell’ordine borghese, sia democratico che apertamente dittatoriale a seconda del periodo storico, e di indirizzare le grandi masse proletarie ad accettare “quel che passa il convento”, il presente, il poco che “si riesce ad ottenere” o che i padroni – capitalisti o Stato – sono disposti a concedere. Potere dichiaratamente borghese ed opportunismo operaio sono due facce della stessa medaglia, collaborano allo stesso obiettivo: mantenere il proletariato sottomesso alle leggi del capitale che ruotano tutte intorno ad un perno principale, lo sfruttamento del lavoro salariato attraverso il quale il capitale si valorizza, produce i suoi profitti.

E tale collaborazione diventa ancora più importante per il potere borghese nella misura in cui le crisi economiche mettono in difficoltà la produzione di profitto capitalistico e nella misura in cui la guerra di concorrenza tra le varie borghesie nazionali richiede che il proletariato si faccia sfruttare in modo più intenso e pesante senza ribellarsi, senza opporre troppa resistenza e, soprattutto, senza organizzarsi in modo indipendente a difesa esclusiva dei suoi interessi di classe. Contribuire al buon andamento economico delle aziende e del paese diventa così il leit motiv di ogni sindacato tricolore, di ogni partito “operaio”, di ogni forza sociale, che intonano un unico ritornello: crescita economica e difesa degli interessi nazionali, per i quali obiettivi “ognuno faccia la sua parte”!, garantendo in questo modo il totale asservimento della classe proletaria alla propria borghesia nazionale.

 


 

(1)   Vedi La rivoluzione mondiale non passa per “l’Europa dei lavoratori”, “il programma comunista, n. 8/1979.

(2)   Vedi: https://europa.eu/european-union/about-eu/countries_it , e: https://it.wikipedia.org /wiki/ Unione_ europea

(3)   Vedi: http://it.wikipedia.org/wiki/Conteggio _ delle _ vittime _ della _ seconda _ guerra _  mondiale

(4)   Cfr. K.Marx-F.Engels, Manifesto del partito comunista,  Giulio Einaudi Editore, Torino 1962, p. 113.

(5)   Vedi: tutte le citazioni da Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, Opere, vol. 22, Ed. Riuniti. Roma 1966, cap. VIII Parassitismo e putrefazione del capitalismo, pp.276-284.

(6)   Vedi Scenari industriali, Centro Studi Confindustria, n. 4, giugno 2013. Nel 1995 la UE diventa di 15 membri e comprende: Francia, Germania, Italia, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Regno Unito, Danimarca, Irlanda, Grecia, Portogallo, Spagna, Austria, Svezia e Finlandia. tc "(6) Vedi Scenari industriali, Centro Studi Confindustria, n. 4, giugno 2013. Nel 1995 la UE diventa di 15 membri e comprende\: Francia, Germania, Italia, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Regno Unito, Danimarca, Irlanda, Grecia, Portogallo, Spagna, Austria, Svezia e Finlandia. "

Per “Nuovi UE” il Centro Studi Confindustria intende: Bulgaria, Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia e Ungheria. I dati esposti sono ripresi dalla stesa documentazione qui citata.tc "Per “Nuovi UE” il Centro Studi Confindustria intende\: Bulgaria, Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia e Ungheria. I dati esposti sono ripresi dalla stesa documentazione qui citata."

(7)   Vedi Scenari industriali, centro Studi Confindustria, cit.tc "(7) Vedi Scenari industriali, centro Studi Confindustria, cit."

(8)   Fonte Stockholm International Peace Research Institute, Sipri.org  (Army industry, from Wikipedia).tc "(8) Fonte Stockholm International Peace Research Institute, Sipri.org  (Army industry, from Wikipedia)."

(9)   Vedi P. Romano, Così la Francia scala la classifica degli esportatori mondiali di armamenti, “il foglio”, 7.6.2015. tc "(9) Vedi P. Romano, Così la Francia scala la classifica degli esportatori mondiali di armamenti, “il foglio”, 7.6.2015. "

(10) Dati diffusi dall’Ente Nazionale di Statistica Tedesco (DESTATIS), elaborati dall’Ambasciata d’Italia. Vedi: http:// www. infomercatiesteri.it/ bilancia_commerciale.php?id_paesi=69.tc "(10) Dati diffusi dall’Ente Nazionale di Statistica Tedesco (DESTATIS), elaborati dall’Ambasciata d’Italia. Vedi\: http\://www.infomercatiesteri.it/bilancia_commerciale.php?id_paesi=69."

(11) Calendario Atlante De Agostini, 2013, anno 109°.tc "(11) Calendario Atlante De Agostini, 2013, anno 109°."

(12) Cfr. Lenin, L’imperialismo, cit., cap. IX Critica dell’imperialismo, p. 296.tc "(12) Cfr. Lenin, L’imperialismo, cit., cap. IX Critica dell’imperialismo, p. 296."

 

 

Partito comunista internazionale

www.pcint.org

 

Top

Ritorne indice